Stato
Organizzazione di una comunità, in grado di prendere delle decisioni, in ultima istanza sovrane e insindacabili, in nome della comunità, sia nei confronti dei membri o dei gruppi interni ad essa, sia nei confronti di altre comunità. Tali decisioni si presentano come razionali, ossia come le migliori possibili per la conservazione della comunità, e come legittime, ossia come fondate su una almeno presumibile adesione dei consociati. Ciò presuppone un certo dualismo tra chi prende le decisioni e chi è oggetto di queste decisioni e, nel medesimo tempo, l’esigenza di colmare questo dualismo: infatti se il dualismo si manifesta in forme rilevanti, lo S. virtualmente non esiste più, entra in crisi, è soggetto a rivoluzioni. Tutti questi elementi sono variamente presenti nelle dottrine dello S., alcune delle quali si pongono dal punto di vista di chi prende le decisioni politiche, e descrivono la struttura dello S., altre invece si pongono dal punto di vista di chi subisce queste decisioni, e si preoccupano piuttosto di cogliere a quali condizioni esse sono legittime e quali sono i limiti dell’azione dello S., talvolta con un accento polemico secondo il quale lo S. è visto come un istituto di cui si riconosce la necessità, ma non l’intrinseca bontà. Naturalmente questa distinzione astratta deve tenere conto del fatto che i due diversi atteggiamenti sono anche riferibili a particolari forme storiche di S., considerate in termini positivi o in termini negativi. Presupposto comune, poi, di ogni dottrina dello S. è un modello implicito di S. ‘ideale’, in base al quale possono essere compresi e valutati gli S. storicamente esistenti. Nell’intenzione del pensatore politico tale modello può configurarsi come un’idea normativa della realtà, come costruzione di una ragione che si vuole pura, o come un’idea della realtà, che cioè rifletta le tendenze del corso storico in determinati tempi e luoghi. Di fatto entrambe le tendenze, sia quella normativa sia quella storica, sono in varia misura presenti nelle diverse teorie.
Nel pensiero greco il problema dello S. si presenta innanzitutto come problema dell’attuazione della giustizia contro la violenza, e dello S. si comincia a parlare come del luogo stesso dell’attuazione della giustizia (➔). Già Esiodo contrappone la giustizia alla violenza, considerando la giustizia espressione di un ordine universale giusto, mentre Tirteo esalta il coraggio militare, ma non con accenti eroico-individualistici, bensì politici, in quanto manifestazione di dedizione alla città, che la città apprezza e premia. Questa compenetrazione di virtù e vita cittadina, oggi diremmo di morale e politica, si ritrova in Solone, nei pitagorici, in Eraclito, in Democrito (in Democrito però troviamo anche qualche nota cosmopolitica e qualche accenno al contrasto tra natura e legge positiva). La vita politica è e deve essere attuazione di giustizia, ossia armonia di disuguaglianze. La stessa legislazione soloniana è una legislazione censitaria, ma è tale – asserisce Solone – da offrire a ciascun gruppo sociale quanto gli compete. Il turbamento di questa armonia conduce all’anarchia, alla tirannide, alla rovina della città. (La polemica contro la tirannide è, si può dire, una costante della letteratura politica greca, ed è d’ispirazione aristocratica, perché storicamente le tirannidi greche ebbero nella più gran parte dei casi un ruolo ‘democratico’, nel senso che favorirono la prevalenza della borghesia commerciale a svantaggio dell’oligarchia terriera e la partecipazione alla vita politica di più larghi strati sociali). Il tema dello S. come naturale orizzonte della vita dell’individuo è al centro del discorso di Pericle, nel secondo libro della Guerra del Peloponneso di Tucidide (II, 41), in onore dei soldati caduti. L’intrinsecità del cittadino allo S., che non esclude il rispetto della sua sfera privata, significa partecipazione del cittadino all’esercizio del potere e significa anche fruizione di una cultura: «Dirò insomma che la nostra Città è, nel suo complesso, la scuola dell’Ellade, e che ciascuno singolarmente, per quanto a me sembra, sviluppa presso di noi una personalità autonoma, che accoglie con elegante versatilità le più svariate forme di vita». E il Pericle tucidideo aggiunge che a questo rigoglio culturale fa riscontro la potenza della città. Anche in Protagora troviamo un’esaltazione della democrazia ateniese, che è stata ravvicinata a quella pericleo-tucididea: tutti partecipano della giustizia e degli altri aspetti della virtù politica (e, in ogni caso, la virtù politica è, per Protagora, insegnabile) e perciò tutti devono deliberare nelle assemblee. Ma con la sofistica si ha anche un atteggiamento critico nei confronti degli ordinamenti politici, in quanto si pretendono in ogni caso portatori di valori positivi. Lo stesso Protagora è notoriamente relativista: il Socrate del Teeteto gli attribuisce motivi di esplicito relativismo etico-politico (è giusto e bello, per una città, ciò che appare tale e finché appare tale). Antifonte distingue nettamente tra natura e giustizia, tra leggi naturali e leggi positive, svalutando le leggi positive e affermando anche la naturale eguaglianza degli uomini. E anche per Ippia la legge commette ingiustizie. Analogamente altri sofisti mettono in discussione i valori costituiti, scorgendo al di sotto di essi l’utile e il dominio. Si rompe così l’equilibrio tra esigenze del singolo e istituzioni politiche. Sulla necessità di tale equilibrio insiste invece il Socrate platonico, il quale critica vivamente la democrazia ateniese, ma, in termini teorici, contrappone al relativismo sofistico e alla democrazia un regime fondato su valori stabili e sulla virtù-scienza, ossia non sulla virtù politica bensì su quella virtù che si fonda sulla conoscenza del bene. In sostanza Socrate esalta le leggi in quanto educatrici e portatrici di una tradizione e afferma la necessità di prestar loro obbedienza sia per la reverenza che meritano, sia perché il cittadino che le ha accettate non può venir meno all’impegno di rispettarle. Il suo è un atteggiamento moderato e, rispetto alla democrazia, critico in senso conservatore. Il motivo dello S. come istituzione etica ed educativa, ossia come organismo sociale che ha il fine di rendere migliore il cittadino, è riaffermato con estrema nettezza da Platone. L’uomo politico è soprattutto un educatore e l’ottimo degli S., lo S. aristocratico, cioè governato dai migliori, è retto dai filosofi, ossia da quei cittadini che, a cura dello stesso S., hanno avuto una particolare educazione, tale da farli giungere al possesso della vera scienza, alla conoscenza delle essenze delle cose. Governare non significa per Platone perseguire scopi politici simili a quelli perseguiti dagli S. del suo tempo. Egli è in posizione polemica nei confronti della politica a lui contemporanea, e considera sia l’amore per il potere, sia l’amore per la ricchezza, e insomma ciò che in generale può dirsi immediatamente utile, come qualcosa di inferiore. Il filosofo preferirebbe non governare e governerà a turno con gli altri filosofi; e lo S. «in cui chi deve governare non ne ha il minimo desiderio, è per forza amministrato benissimo, senza la più piccola discordia, ma quello in cui i governi sono di tipo opposto, è amministrato in modo opposto» (Repubblica, 520 d). Ora questo S. bene amministrato non persegue la felicità dei singoli, ma quella dell’insieme dei cittadini; lo S. è cioè visto come un tutto, fuori del quale il singolo non ha significato. E il filosofo-governante ha il diritto di dire il falso nell’interesse dello Stato. L’ottimo S., rigorosamente unitario, comprende tre classi, quella dei governanti-filosofi, quella dei guerrieri, quella dei produttori. Gli appartenenti alle prime due classi, ossia a quelle superiori, non hanno alcun bene o possesso personale, e hanno donne, figli, alloggi, pasti comuni. Non solo l’educazione, ma anche la generazione è regolata dallo Stato. Ora questa ottima forma di S. (aristocrazia) può degenerare, e ciò è dovuto a una causa biologica, a un errore nel prestabilire la generazione. Mentre la forma ottima è armonica, nel senso di essere fondata sulla giustizia, e quindi sulla ragione e sulla virtù (lo S. è un grande individuo e ripropone le virtù e la psicologia dell’individuo), le forme degenerate – causate dunque dalla nascita, fra i governanti, di individui non virtuosi – si fondano sull’interesse, sull’egoismo, sul desiderio di ricchezze di alcuni o di tutti. Esse sono la timocrazia, l’oligarchia, la democrazia, la tirannide. Quest’ultima è la forma peggiore ed è dovuta al fatto che a un certo punto un cittadino si mette a capo del popolo per favorirne le pretese. Il motivo della necessaria unità del singolo e dello S. e dell’inconcepibilità di interessi che non siano regolati dallo S. rimane costante nel pensiero politico di Platone. Nella sua fase più tarda, quando il filosofo non è governante ma legislatore (Platone affronta il problema dei limiti della legge in quanto norma fissa e quindi non in grado di prevedere ciò che è giusto per tutti; il suo modello ideale di S. è fondato sulla semplice giurisprudenza e non sulle leggi; il ricorso alle leggi è una concessione alle necessità di fatto, qualcosa di inferiore rispetto al modello ideale), in questa fase più tarda, dunque, il motivo statalista in certo senso si rafforza. Platone delinea uno S. teocratico, fondato su una teologia astrale, molto oppressivo nei confronti dei cittadini specialmente in fatto di religione. A un Consiglio di sapienti, forniti di conoscenze teologiche che poi costituiscono i principi informatori di tutta la vita dello S., spetta il compito di una superiore generale sorveglianza, naturalmente ispirata a quei principi. Il rigido unitarismo platonico è criticato da Aristotele, che in generale osserva che lo S. platonico fa pensare a un accordo musicale ridotto a un solo tono e mette in evidenza alcune difficoltà di ordine psicologico e sociologico circa la comunanza dei beni e delle donne, voluta da Platone per le classi superiori. Ma, nonostante il generale atteggiamento non rigoristico e l’ammissione di una sfera di liceità dell’individuo, anche per Aristotele lo S. è il luogo naturale della vita etica del cittadino, e in sostanza politica ed etica per lui coincidono. Lo S. è pluralità (di singoli, di famiglie), che però deve, mediante l’educazione, realizzare l’unità. Il vero S., quello che realizza il fine che gli è proprio, è lo S. dove si vive «in modo felice e bello. E proprio in grazia delle opere belle e non della vita associata si deve ammettere l’esistenza della comunità politica» (Politica, 1281 a 2-5). L’uomo è per natura un essere socievole, e chi vive fuori della comunità statale senza sentire il bisogno di entrarvi è o bestia o dio. La comunità statale favorisce la virtù dei cittadini, tutte le virtù dei cittadini, e quindi, a rigore, il suo fine supremo non è politico, perché la più alta felicità è di ordine intellettuale e contemplativo. E d’altra parte la virtù del saggio, pur essendo fine a sé stessa, informa di sé l’azione politica. Lo S. dove tutto questo accade più naturalmente è lo S. dove regna la giustizia, lo S. dove a ciascuno viene dato in corrispondenza del suo valore, di ciò che ragionevolmente gli spetta. Quando questa armonia viene turbata, quando per es. il popolo pretende di contare più di quel che non conti o i ricchi pretendono di avere la prevalenza nello S., si hanno le rivoluzioni e i mutamenti di costituzione. Quanto alle forme di S., esse sono buone o cattive a seconda che il governo sia esercitato a vantaggio della comunità o a vantaggio di chi governa. Avremo così tre forme rette, monarchia, aristocrazia, politìa (ossia costituzione per eccellenza), e tre forme degenerate, tirannide, oligarchia, democrazia. Ognuna delle tre forme positive è praticabile in relazione alle condizioni storico-sociali, ma è indubbio che per Aristotele la forma migliore in senso assoluto (e astratto) è la politìa, ossia una democrazia in cui la massa regge lo S. nell’interesse comune. E in questa ottima forma di S. è presente anche l’elemento aristocratico, cioè il giusto posto assegnato al merito e alla fortuna. Le condizioni sociali dove la politìa si attua meglio sono quelle dove prevale la classe media, la classe dei non troppo ricchi né troppo poveri. Sono le fortune mediane quelle che facilitano la pratica della virtù. Si è accennato a quella rottura dell’equilibrio tra le esigenze del singolo e le istituzioni politiche che si ha con la sofistica e in particolare con alcuni sofisti e alla contrapposizione di natura e legge positiva. Eguale rottura, eguale insoddisfazione del singolo nei confronti della Città si ha nella polemica cinica contro la civiltà, nei cirenaici, negli epicurei. In Epicuro l’idea della convenzione conserva quella nota relativistica che aveva nei sofisti, ma perde il significato polemico, ed è anzi vista positivamente. La giustizia è relativa, i suoi contenuti mutano a seconda dei luoghi, ma essa è in ogni caso un fattore essenziale di tranquillità. E in questo rendere pacifica la vita in comune degli uomini sta, come sarà riaffermato in maniera ancora più esplicita da Lucrezio, il significato dei patti sociali. C’è poi in Epicuro una svalutazione della vita politica: il saggio non vi parteciperà o vi parteciperà soltanto in circostanze eccezionali. Anche lo stoicismo si pone dal punto di vista dell’individuo, ma questo individuo vive in un mondo dove regna la necessità, dove è possibile scorgere al di là delle apparenze una natura razionale. L’atteggiamento verso gli ordinamenti e la vita politica è dunque positivo: il saggio stoico vi partecipa e cerca di rendere gli ordinamenti il più possibile razionali. Ciò implica una certa varietà di concrete attitudini politiche a seconda che le istituzioni in vigore si considerino più o meno conformi alla razionalità che sta al fondo delle cose. E le istituzioni migliori sono quelle in cui governano i saggi, ossia quanti sono più coscienti dell’universale razionalità e agiscono in conseguenza, mentre inadatti al governo sono i non saggi, gli stolti. Ne deriva una concezione dello S. che potrebbe chiamarsi di dispotismo illuminato e che si manifestò anche in effettive politiche stoicamente ispirate, come quella di alcuni sovrani ellenistici. Dal punto di vista territoriale lo S. stoico va oltre la città, correlativamente a una generale impostazione cosmopolitica: esso comprende comunità più vaste, come appunto quelle ellenistiche o quella romana. Stoico è il pensiero politico di Cicerone, che presenta come razionale la costituzione romana (costituzione mista), così come si è venuta storicamente formando. La saggezza politica ciceroniana è una saggezza conservatrice (particolarmente viva la nota contro le pretese e le intemperanze della plebe) e paternalistica. La distinzione di natura e civiltà, di diritto naturale e diritto positivo si viene così configurando in termini complementari: le leggi positive e le istituzioni non sono tutte razionali, ma sono razionalizzabili, sono qualcosa di misto che si può riformare senza distruggere, perché contiene pur sempre dei germi naturali-razionali suscettibili di svilupparsi. In questo senso moderato la dottrina stoica è legalistica, perché considera il diritto non come necessariamente giusto, ma come condizione necessaria di giustizia. I giuristi romani partecipano di questa concezione.
Con il cristianesimo s’introduce nei confronti dello S., storicamente rappresentato dall’Impero romano, una riserva di carattere religioso. Il cristiano infatti pretende di possedere dei criteri di giudizio sicuri in base ai quali valutare la legittimità morale degli atti che lo S. viene compiendo. E la prima posizione che da ciò deriva, suggerita anche dal trovarsi il cristiano all’interno dell’Impero, è una posizione di difesa, una rivendicazione di libertà religiosa: lealismo e anzi devozione verso l’autorità in vigore, purché questa non pretenda dal cristiano atti che ripugnino alla sua coscienza (esempio tipico: atti di culto pagani). La sfera religiosa però, che il cristiano vuole intangibile, è considerata qualitativamente superiore a quella politica, e può perciò voler estendere il suo controllo, non contentarsi della difensiva. È così possibile un rifiuto totale dell’ordine in vigore, come quello, di origine giudaica, dell’Apocalisse; possono essere considerate illegittime le disuguaglianze sociali, interpretando l’egualitarismo cristiano in senso economico e non soltanto spirituale, può teorizzarsi (e praticarsi) la commistione e confusione di religione e politica, può esigersi la subordinazione del potere politico alla religione e alla Chiesa. La posizione lealistica nei confronti dello S., ossia dell’Impero romano, viene formulata in termini praticamente definitivi da Paolo nel tredicesimo capitolo della Lettera ai Romani, dove si legge che «non c’è autorità che non venga da Dio» e che «perciò chi si oppone all’autorità resiste all’ordine stabilito da Dio». Questo concetto è costante nella letteratura politica cristiana: il cristianesimo, come le altre religioni orientali, dà una fondazione trascendente dell’autorità, mentre gli è estraneo il concetto dell’autorità come delegazione del popolo. Tuttavia l’autorità non può imporre al cristiano qualcosa che egli sente come ingiusto, e se ciò accade il cristiano deve resistere e disobbedire. Ora questo dualismo di religioso e di politico, di spirituale e di temporale, non implica soltanto una rivendicazione di libertà individuale, implica anche la rivendicazione della libertà di un’altra società a cui il cristiano appartiene, una società celeste, ma con precisi e indubitabili agganci terreni. Il cristiano fa parte di una Chiesa, che ha proprie gerarchie, cui è dovuta obbedienza. Pur non identificando senza residui questa Chiesa con la città celeste e lo S. con la città terrena, Agostino ribadisce la superiorità della Chiesa sullo S.; ciò non esclude però che lo S. abbia una sua legittimità e una sua autonomia, anche se non cristiano: persino a Giuliano l’Apostata era dovuta obbedienza, e infatti i soldati cristiani gli obbedivano quando ordinava di andare in battaglia. La successione dei regni del resto è riconducibile a un piano provvidenziale. La città terrena deve in ogni caso fondarsi sulla pace, cioè sulla convivenza ordinata, sull’accordo di autorità e obbedienza. Tuttavia il principe cristiano fa qualche cosa di più: non si limita a essere umile e moderato, ma sottopone il suo potere «alla maestà di Dio, per estendere il più possibile il suo culto» (De civitate Dei, V, cap. 24). La vera giustizia non è neutra, è cristiana: è legittimo l’intervento dello S. in favore della vera fede contro eretici o pagani. Per questa via i doveri religiosi del principe possono diventare prevalenti, la distinzione dei due poteri può tendere a cancellarsi. In Isidoro di Siviglia la figura del principe cristiano è essenzialmente quella del protettore della Chiesa, del garante della sua disciplina, del promotore di virtù cristiane nei sudditi. Torna il modello biblico del re sacerdote e si sacralizzano S. e vita politica. Di fatto questa figura sarà rappresentata dai re carolingi, il cui potere avrà una forte impronta religiosa. Le campagne di Carlo Magno contro i Sassoni «si possono considerare le prime guerre religiose d’Europa» (Pirenne). Scrittori del 9° sec. (Giona d’Orléans, Incmaro di Reims, Smaragdo, Sedulio Scoto) esprimeranno questa concezione del potere politico. La superiorità della religione sulla politica si esprime poi in un’altra forma dottrinale e pratica, quella che tiene fermo alla distinzione dei due poteri, ma subordina il potere politico al religioso, lo S. alla Chiesa. Tutti sono soggetti al papa dentro e fuori della Chiesa: al papa è lecito deporre gli imperatori e sciogliere i sudditi dall’obbedienza a individui ingiusti. È la tesi teocratica affermata da Gregorio VII e ripresa da Innocenzo III e da Bonifacio VIII. L’autonomia dello S. invece, oltre a essere riaffermata dai diretti avversari delle pretese teocratiche, è sostenuta da Tommaso d’Aquino. Per Tommaso la socialità è un fatto naturale (non è il risultato della caduta originaria), come naturali sono le disuguaglianze, le diversità fra gli uomini. Questo mondo di diversi ha e deve avere però una sua armonia, una sua unità, unità rappresentata da Dio rispetto al cosmo, dalla ragione nell’uomo, dall’autorità politica nella società umana. Dato il carattere appunto unitario di questa autorità, il governo monarchico (il re è di per sé uno) è per Tommaso il governo migliore. La monarchia tomista è temperata: il re è responsabile del bene del suo popolo e risponde a Dio del suo operato. Ma Tommaso accenna anche all’opportunità di strumenti giuridici che evitino la degenerazione della monarchia in tirannia e nella Summa theologiae parla di governo misto (compresenza del principio monarchico, dell’aristocratico, del democratico) con riferimento all’Antico Testamento, ai re biblici assistiti dagli anziani e al governo dei giudici che precede quello monarchico. Il re è dunque il medievale re nella legge. E sulla legge Tommaso insiste a lungo in termini generali: la legge è l’espressione stessa della razionalità, e la razionalità permea di sé il mondo e non può non permeare di sé gli ordinamenti e le leggi positive. C’è nella legge positiva un fattore volontaristico che dipende dal principe, ma la struttura della norma deve essere razionale, ossia conforme a giustizia. E la giustizia è proporzionalità, è dare a ciascuno il suo, è rispettare l’altrui diritto. Si è qui chiaramente di fronte a una logica giusnaturalistica: c’è una giustizia naturale-razionale che costituisce e deve costituire la trama delle leggi positive. Ma questa giustizia e la correlativa ragione, pur essendo autonome, non sono tuttavia indipendenti, perché al di sopra di esse c’è la legge eterna, la ragione sovrana di Dio. Il diritto naturale tomistico si completa in una visione cristiana e anche chiesastica. S. e Chiesa, come natura e soprannatura, sono distinti, ma la Chiesa è una fonte suprema di verità ed è in certo senso l’organo delle decisioni di ultima istanza. Il caso più sicuro di doverosa disobbedienza civile è quello del sovrano colpito da scomunica; il cittadino eretico (che cioè ha tradito la verità dopo averla conosciuta) non può vantare alcun diritto, e così via. Torna il motivo della preminenza del potere spirituale su quello politico: l’autonomia della sfera temporale è incontestabile, ma spetta al potere spirituale delimitare l’ambito di questa autonomia. In termini radicali questa autonomia è invece teorizzata da Dante, da Marsilio da Padova, da Guglielmo di Occam, da Wycliffe. Per Dante l’autorità imperiale deriva direttamente da Dio, mentre la Chiesa è estranea alle faccende temporali conformemente alla famosa espressione di Cristo, suo modello, che affermava non essere il suo regno di questo mondo; il sovrano temporale deve reverenza al pontefice, ma solo in quanto guida verso la vita eterna. La superiorità dello spirituale nei confronti del temporale è riaffermata, come è riaffermata anche da Marsilio, da Occam, da Wycliffe, ma questa superiorità è, per così dire, sublimata: lo spirituale è ciò che attiene alla salvezza, non ha nulla da vedere con i valori terreni. Il sacerdote è un cittadino come gli altri, senza privilegio alcuno; egli sfugge all’autorità politica solo in quanto esercita funzioni inerenti al culto e ai sacramenti, tutte cose prive di conseguenze sul piano temporale. Lo S. si modernizza, ossia si viene emancipando dalla religione. In Marsilio la genesi dello S. è aristotelica: una genesi naturale, naturale essendo l’associazione. Accanto a questa causa materiale Marsilio pone un elemento volontaristico, una causa efficiente, rappresentata da quello che egli chiama il legislatore, ossia l’assemblea dei cittadini che fa le leggi e istituisce il potere esecutivo, che resta sotto il suo controllo (Marsilio riprende la divisione sestuplice delle forme di governo, ma preferisce la monarchia elettiva). Questa assemblea «è il popolo o l’intero corpo dei cittadini o la sua ‘parte prevalente’» (Defensor pacis, I, cap. XII, 3). Sebbene taluno abbia voluto vedere in ciò una nota modernamente democratica, è molto probabile che Marsilio pensasse alle assemblee medievali, e specialmente all’arengo comunale, cioè a quell’insieme dei cittadini in grado di rappresentare la totalità dei veri cittadini, ossia di quelli che partecipano alla cosa pubblica secondo il loro rango. Appare comunque evidente il carattere laico della sovranità marsiliana.
Questa emancipazione della politica dalla religione e quindi dello S. dalla Chiesa caratterizza la politica moderna. Non che la religione non continui a essere oggetto importante dell’attenzione del politico, ma egli la guarda con occhi appunto politici, mondani, ossia la prende in considerazione nella misura in cui essa può influire sui fatti politici. In Machiavelli è tipicamente presente questo modo di sentire: egli fa gran conto della religione in quanto può giovare (o eventualmente nuocere) allo S., in quanto le virtù che essa ispira possono essere anche virtù politiche. Perché lo S. è l’orizzonte ultimo della riflessione e dell’etica di Machiavelli. Ed egli pensa allo S. moderno, alle grandi monarchie accentratrici, e avverte dolorosamente la mancanza di uno S. moderno in Italia. Per la fondazione di questo S. tutto è lecito, forza, astuzia, crudeltà. Ma una volta che lo S., degno del nome, c’è, allora bisogna governarlo con spirito repubblicano (la repubblica romana è il modello antico da imitare), ossia con assoluto rispetto delle leggi, della libertà, della sicurezza dei cittadini. Grave errore è per il governante la violazione della legge. E la legge è, classicamente, anche educatrice dei cittadini. Il cittadino virtuoso è il cittadino probo, disposto a rinunciare al suo utile privato per il bene comune. Il cittadino tuttavia non partecipa al governo dello S., perché governare è affare di pochi, ma fruisce della sicurezza. Accanto alle buone leggi Machiavelli vuole le buone armi, milizia cittadina e non mercenaria, fanteria piuttosto che cavalleria. Le buone armi sono essenziali perché lo S. vive fra S. con i quali è possibile venire in conflitto. E in caso di guerra (cioè di difesa dello S.) è anche lecito ogni mezzo: razionale e legalitario all’interno, lo S. moderno è potenzialmente violento nei rapporti con gli altri Stati. Sulla sovranità dello S. e sull’assolutezza di questa sovranità (anche se con qualche temperamento) insiste Bodin, nel quale troviamo anche il concetto di tolleranza religiosa. Questa tolleranza (➔) deriva dalla convenienza politica del rispetto delle fedi: la religione è un fattore positivo di coesione politica, ma lo S. non deve intervenire positivamente in questa materia. Solo l’ateismo non deve essere ammesso, dato il carattere fondamentalmente asociale dell’ateo. Bodin riflette la posizione del partito detto dei ‘politici’ nel periodo delle guerre di religione in Francia, partito che faceva una considerazione appunto politica, ossia confessionalmente neutra, di quelle controversie. Con Hobbes abbiamo una teorizzazione molto rigorosa della sovranità assoluta dello Stato. Hobbes ricorre alla distinzione di stato di natura (➔) e stato civile e allo schema del contratto. Nello stato di natura gli uomini, eguali tra loro, perseguono fini eguali, fini di illimitata appropriazione delle cose e anche fini di dominio sugli altri. E ciò dà luogo a una situazione di perenne guerra reciproca, e quindi di miseria e infelicità. La ragione (perché l’uomo è ragione oltre che passione) suggerisce di uscire da questa condizione e di ricercare la pace, che sola garantirebbe l’autoconservazione che è poi il diritto fondamentale e inalienabile dell’uomo. Ciò avviene mediante un contratto (➔ contrattualismo) di ciascuno con ciascuno, consistente in una concorde rinuncia alla libertà naturale, ossia al diritto di appropriarsi di tutte le cose e di comportarsi secondo i propri desideri. Solo l’autoconservazione non viene alienata, in quanto di per sé inalienabile. Questa rinuncia viene fatta in favore di un sovrano (singolo uomo o assemblea), il quale però non è da parte sua contraente, non ha obblighi verso i sudditi, è cioè un sovrano assoluto. Qualunque atto esso compie lo compie per delega dei sudditi. Vero dio mortale, egli è la fonte stessa della razionalità e della legittimità: le leggi sono giuste perché emanano da lui, le comunità minori, le consuetudini, le assemblee sono soggette alla sua autorità. Suo compito è naturalmente di garantire la sicurezza della comunità contro ogni violenza interna o esterna. E il sovrano ha sempre ragione di fronte ai sudditi, perché i sudditi non hanno un criterio razionale in base a cui giudicarlo. C’è un solo caso in cui la disobbedienza è possibile, ed è il caso di eventuali comandi irrazionali, come quelli di uccidersi, mutilarsi, autoaccusarsi e simili. Ma se ciò accadesse il sovrano non sarebbe più sovrano, perché verrebbe meno allo scopo stesso della sua istituzione, la conservazione del singolo. E allora finirebbe la comunità politica e si tornerebbe allo stato di natura. Una impostazione per certi versi ravvicinabile a quella di Hobbes è quella che del problema politico dà Spinoza: anche il suo S. è assoluto, è fondatore di diritto e di eticità. Ma, a differenza che in Hobbes, la società politica spinoziana non presuppone un sovrano istituito da un contratto che non lo obbliga a nulla e gli conferisce illimitati diritti; essa risulta da un contratto che potenzia il singolo, facendone un membro di una comunità razionale. Certo questa comunità è unitaria, compatta, non lascia posto all’arbitrio del singolo o alla sua insoddisfazione; ma la sua base è democratica (lo schema di Spinoza anticipa quello di Rousseau) e il suo reggimento non può non essere razionale. Lo S. per es. è consapevole della pluralità delle opinioni in fatto di credenze religiose e dell’incoercibilità del pensiero e dell’insegnamento; esso interviene soltanto quando le azioni dei cittadini mettono in pericolo la sua conservazione.
I concetti di diritto naturale e di contratto, che, in partic. nell’uso che ne fa Hobbes, possono condurre alla fondazione di un potere assoluto, sono pur sempre dei concetti che razionalizzano il potere, ossia lo considerano suscettibile di un controllo da parte della ragione. In secondo luogo lo esteriorizzano: il potere concerne gli atti esterni del cittadino, le sue eventuali infrazioni della legge e dell’ordine, non le sue convinzioni intime. Queste ultime interessano lo S. solo se diventano un fattore d’insicurezza. Ora diritto naturale e contratto possono anche essere interpretati come criteri di valutazione della bontà e legittimità del potere e dei suoi atti. Il potere non è incondizionato, non tutti i suoi atti sono leciti, gli si può e gli si deve resistere quando va oltre certi limiti. Tale la logica della posizione dei monarcomachi e quella del diritto naturale di tradizione groziana. I monarcomachi sono degli scrittori calvinisti e anche cattolici che nella seconda metà del 16° sec. e nei primi anni del secolo seguente rivendicano il diritto di resistere al sovrano e in genere alcune autonomie tradizionali di contro alle pretese accentratrici delle grandi monarchie. Il potere politico non emana dal sovrano, ma dalla società nel suo insieme, e il sovrano deve esercitarlo nel rispetto delle comunità minori che popolano la società. È una visione organicistica della società (non individualistica), comprendente diritti di città, di province, di autorità minori. Althusius, che è il più importante e sistematico di questi scrittori, parla di un supremo magistrato eletto dal collegio degli efori, che rappresentano la collettività, e che controllano e in casi estremi possono deporre il supremo magistrato. Il cui potere è dunque limitato dalle leggi, dal diritto naturale, dai doveri religiosi. Oltre questi limiti il potere diventa tirannico ed è lecito resistergli (questa resistenza è in genere una resistenza legale, da esercitarsi attraverso i magistrati inferiori; in sostanza solo nel caso estremo del tiranno usurpatore e invasore è ammessa la resistenza violenta). Il diritto naturale moderno si fa in genere cominciare con Grozio, il quale nel suo celeberrimo De iure belli ac pacis (1625) sostiene che alcuni contenutiessenziali del diritto (rispetto dei beni altrui, obbligo di mantenere le promesse, risarcimento del danno arrecato) sono validi perché conformi alla ragione e alla natura umana (come è conforme alla natura umana la tendenza alla vita sociale), e tale validità sussiste in sé, senza alcun bisogno di fondazione teologica. Neppure Dio potrebbe mutare quelle verità, come non potrebbe mutare l’esattezza di una proposizione matematica. Si tratta in sostanza dell’affermazione dell’autonomia della ragione, da cui deriva un’impostazione affatto laica del problema dello Stato. C’è in Grozio il motivo contrattualistico (anche se non rigorosamente elaborato), che torna poi con maggiore precisione in Pufendorf. Sia Grozio sia Pufendorf sono però assolutisti in fatto di dottrina dello S.: il contratto è irrevocabile, il popolo non può resistere al principe. Sebbene Grozio affermi che il principe deve rispettare il diritto naturale e ammetta che, nel caso estremo in cui diventi nemico di tutto il popolo, decade dal potere, tuttavia egli utilizza lo schema contrattualistico per convalidare l’autorità di fatto e non per metterla in discussione. Alcuni scrittori però si serviranno della sua dottrina in funzione antiassolutistica (per es., P. Jurieu contro l’assolutismo di Luigi XIV). E tesi più liberali sosterranno, sempre nell’ambito giusnaturalistico, Barbeyrac e J.-J. Burlamaqui in tema di sovranità: concepiranno cioè la sovranità come divisa e non unitaria (possibilità, questa, non negata dallo stesso Grozio). Più rigido assolutismo sostiene invece Thomasius, il quale però intende i poteri assoluti del sovrano come autoregolantisi in senso razionale. Con Thomasius siamo in clima illuministico e di dispotismo illuminato: lo S. è assoluto ma provvidente e riformatore, il sovrano deve occuparsi della felicità dei sudditi. Si sottrae però all’intervento dello S. la sfera dell’interiorità, intangibile dalle leggi positive e dalla coercizione. E questa distinzione di sfera dell’interiorità, propria della morale, e sfera dell’esteriorità, propria del diritto, ha un evidente significato non solo metodologico, ma anche ideologico, in quanto affermazione di tolleranza e di libertà di coscienza. Stato di natura e contratto sono anche utilizzati da Locke nella sua costruzione politica. Lo stato di natura lockiano è descritto in termini ottimistici e ‘liberali’: l’uomo naturale è socievole, pensa alla sua conservazione ma anche a quella degli altri, ha il senso della giustizia. Stato di natura e stato di guerra, dice Locke in evidente polemica con Hobbes, sono tra loro distanti come uno stato di pace e di reciproca benevolenza e assistenza e uno stato di violenza e reciproca distruzione. L’uomo naturale di Locke si prolunga nella proprietà, che è l’istituto fondamentale dello stato di natura: proprietà comune in origine, essa diventa poi proprietà privata mediante il lavoro. È un dato evidente della ragione che un oggetto da me lavorato o un animale da me ucciso mi appartengono, perché sono un’oggettivazione della mia fatica, una continuazione del mio corpo. Dallo stato di natura però si esce perché la «corruzione e la perversità di uomini degenerati» (Secondo trattato sul governo, IX, § 128); rendono necessaria un’associazione in cui il diritto sia certo e sia effettiva un’autorità che lo faccia rispettare. Sorge così la società politica o civile (➔), fondata su un contratto, e avente lo scopo di assicurare, meglio di quanto lo stato naturale non facesse, la proprietà del singolo. Un gruppo di individui si accorda per costituire un corpo politico, senza ledere la libertà di quanti volessero rimanere nello stato naturale. Le decisioni di questo corpo politico sono prese a maggioranza, come è ragionevole che sia. Il popolo dunque è e rimane sovrano. Le forme di governo sono varie, si caratterizzano a seconda della collocazione del potere legislativo, che è il potere supremo. Si hanno la perfetta democrazia (la comunità fa direttamente le leggi a maggioranza e si serve di funzionari da essa delegati per farle eseguire), l’oligarchia (potere legislativo di pochi), la monarchia (potere legislativo di uno), che può essere ereditaria o elettiva, eventuali forme miste. Accanto al potere legislativo abbiamo il potere esecutivo (che vigila sull’esecuzione delle leggi) e il federativo (che si occupa dei rapporti con gli altri S.). La vita costituzionale dello S. lockiano deve svolgersi nel pieno rispetto della legalità, dell’interesse del popolo, della proprietà (non tassazioni arbitrarie). In caso di infrazioni, il popolo ha diritto di riprendere nelle proprie mani il potere e di resistere anche con la forza. Lo S. di Locke è poi tollerante: la vita religiosa come tale non appartiene all’interesse dello Stato. Tuttavia, questa tolleranza non è illimitata: non possono beneficiarne quanti diventerebbero intolleranti come i papisti, quanti attraverso la loro religione dipendono da un’altra autorità, gli atei per la loro asocialità. Locke non esclude lo S. assoluto, purché non sia un potere arbitrario, ma «limitato dalla ragione» (XI, § 139), tuttavia la caratteristica più tipica del suo S., quella che fa del suo pensiero politico un pensiero politico liberale, è che questo S. non ha in sé il suo fine, perché il fine della sua azione è la proprietà, ossia il lavoro umano e il rigoglio della società come sede e risultato di questo lavoro. È il lavoro che conferisce valore ai prodotti, che in definitiva costituisce la ricchezza. L’importante è che esso si espanda senza impacci, e il buon governo è essenzialmente quello che favorisce tale espansione.
Questi motivi, che pongono nettamente l’accento sulla società anziché sullo S., sul lavoro produttivo anziché sulla politica, sono i motivi della moderna civiltà borghese e trionfano nel pensiero illuministico. L’Illuminismo è in questo senso antipolitico, ossia nemico di una concezione della politica che si fa risalire a Machiavelli e che considera essenziale la forza e l’espansione dello Stato. Per il politico illuminista lo S. deve invece favorire il progresso dell’industria, il crescere della ricchezza, il commercio e i traffici. Le forme di governo possono essere varie, e accettabili o criticabili a seconda del loro assolvere o meno tale funzione. Campeggia la razionalità del mercato industriale e della vita economica: lo S. deve promuoverla rimuovendo gli ostacoli rappresentati da residui storici e tradizionali. Il potere politico suscita diffidenze, a meno che non faccia proprie quelle istanze di razionalità che sono caratteristiche della società moderna. Deve essere tollerante, ma inflessibile con gli intolleranti, deve governare il meno possibile, ma intanto deve favorire lo sviluppo di quelle condizioni che gli consentano di governare il meno possibile. La logica di questa impostazione razionalistica è democratica ed è egualitaria: è democratica nel senso che non è concepibile altra fonte legittima del potere all’infuori del consenso degli interessati, è egualitaria perché la ragione è possesso di tutti e non tollera privilegi. Non sempre però gli illuministi trassero tutte le conseguenze di questa impostazione, e spesso considerarono la sovranità del popolo come un principio non pienamente operante, l’eguaglianza come un’idea plausibile ma dalla quale non era possibile trarre conseguenze economiche radicali. Voltaire, Diderot, Helvétius, Holbach sviluppano questi motivi, che sono anche presenti in forma sistematica in Montesquieu. Anch’egli parte da premesse razionalistiche: il mondo è abitato da una razionalità che è anche stampata nei cuori degli uomini, le leggi sono l’espressione eminente di questa razionalità. In astratto la forma più razionale è la democrazia, perché in essa il popolo è per un verso sovrano per un altro suddito; seguono l’aristocrazia, governo di pochi, e la monarchia, governo di uno solo. Il dispotismo infine rappresenta il potere nella sua manifestazione brutale. È evidente la degradazione dovuta al progressivo dualismo di governanti e governati, a partire dalla loro unità rappresentata dalla democrazia. A questi tipi ideali Montesquieu commisura una serie di fattori concreti, di condizioni, onde per es. il governo repubblicano (che comprende democrazia e aristocrazia) si adatta agli S. piccoli, la monarchia ai medi, il dispotismo ai grandi imperi. Ma la preoccupazione maggiore di Montesquieu è che in ogni caso il potere non schiacci il singolo, che la legalità trionfi. Perché ciò si abbia è necessario che «il potere freni il potere» (Lo spirito delle leggi, libro XI, cap. 4). Da ciò la celebre teoria della divisione dei poteri (ma sarebbe più esatto dire della distinzione e del bilanciamento), e non solo e non tanto in senso tecnico-giuridico, quanto in senso politico: si tratta di forze effettuali che devono equilibrarsi. I modelli di Montesquieu sono due, uno inglese, uno francese. Quello inglese ripropone la costituzione inglese (alquanto idealizzata), come quella di «una nazione che ha per scopo diretto della sua costituzione la libertà politica» (libro XI, cap. 5). Nell’identificare i poteri Montesquieu ricalca dapprima la distinzione lockiana: legislativo, esecutivo della politica estera (federativo di Locke), esecutivo delle cose dipendenti dal diritto civile (l’esecutivo di Locke, che appunto vigila sull’esecuzione delle leggi). Subito dopo precisa che quest’ultimo potere punisce i delitti e giudica le liti dei privati e lo chiama «potere giudiziario», mentre chiama semplicemente «esecutivo» quello che provvede alla politica estera. Più avanti però osserva che il potere giudiziario è «invisibile e nullo», ossia non è un vero potere, perché lo assegna a persone scelte fra il popolo, che formino un tribunale di durata limitata. I tre poteri della costituzione inglese sono dunque, come Montesquieu precisa, la Corona e le due Camere (dei Comuni e dei Lord), in reciproco equilibrio. Il modello francese è quello della monarchia limitata dai poteri dei corpi intermedi, dalle prerogative dei signori, della nobiltà del clero, delle città. È ancora una volta il potere che frena il potere: abolite questi privilegi, dice Montesquieu, e avrete lo S. popolare (nel senso negativo, come dispotismo di tutti) o lo S. dispotico. Lo S. democratico, cioè lo S. fondato sulla sovranità assoluta del popolo, è invece per Rousseau l’unico S. legittimo, l’unico S. fondato sul diritto. Attraverso una convenzione consensuale unanime, ossia attraverso il contratto sociale (che, beninteso, non è un fatto, ma un concetto della ragione), ciascuno rimette ogni suo diritto naturale nelle mani di tutti gli altri contraenti, e diventa così membro della società politica, uomo non più naturale ma sociale. Con questo l’individuo ritrova, rafforzata, la sua libertà naturale, la possibilità di operare con sicurezza secondo i suoi più veri interessi e secondo i dettami della ragione. Ogni atto della comunità è un suo atto, perché egli è intrinseco alla comunità in virtù del contratto. E se la comunità prende una decisione non condivisa dal singolo, il singolo non può non persuadersi del suo torto, ossia di aver badato alla sua particolarità e non alla sua ragione per essenza universale. Questa razionalità Rousseau chiama «volontà generale», e i suoi atti razionali-universali sono le leggi (la volontà generale non si volge mai a casi singoli). Quando la comunità è bene ordinata, quando non vi prevalgono interessi particolari o frazioni, la volontà generale è data dalla volontà di tutti o dei più. Ma quando prevalgono interessi o gruppi particolari la volontà generale non coincide più con quella di tutti o della maggioranza. Insomma, la volontà generale è l’intima razionalità di una comunità politica, quella razionalità che la comunità dovrebbe manifestare ed essere nelle condizioni di manifestare. Quando si parla di volontà generale e di sovranità ci si riferisce al potere legislativo (che Rousseau vuole si eserciti direttamente e non attraverso rappresentanti). Questo potere è indivisibile e anzi è l’unico vero potere, ma esso deve limitarsi a fare le leggi. Le funzioni governativa e giudiziaria sono funzioni autonome (non indipendenti) e affidate a magistrati. Ed è soprattutto sulla distinzione di legislativo ed esecutivo, di sovrano e governo che Rousseau insiste. Il governo è un delegato del sovrano. E il governo che Rousseau preferisce è l’aristocrazia elettiva. Il governo democratico (e Rousseau intende il governo democratico, nella sua accezione rigorosa, come quello in cui la maggioranza direttamente governi) non è realizzabile. Gli dei si governerebbero democraticamente, ma agli uomini tale governo non si conviene. La dipendenza del governo dal sovrano è effettiva: si hanno delle assemblee periodiche, convocate a date fisse, nelle quali si vota su due proposizioni: se piaccia al sovrano conservare l’attuale forma di governo, se gli piaccia lasciarne l’esercizio ai governanti attuali. Il consapevole modello di Rousseau è la città antica, il piccolo S. abitato da cittadini virtuosi e interessati alla sua conservazione. Socialmente è uno S. fondato sulle fortune mediane (in questo senso egualitario). Le tendenze della società moderna verso il prevalere del capitale mobile, verso l’unificazione di ricchezza e potere (anziché di virtù e potere) e il dominio del ricco sul povero sono fattori di corruzione e di decadenza culturale-morale. Nel Contratto sociale (II, 10) Rousseau elenca le condizioni necessarie perché un popolo possa avere delle buone leggi, e cita la Corsica come il paese europeo «capace di ricevere una legislazione». Tali condizioni sono un’implicita conferma del suo giudizio sull’irreversibilità della decadenza del mondo moderno. Per Rousseau dunque la sua costruzione politica è praticamente irrealizzabile. Per Kant lo S. si fonda pure sulla sovranità del popolo e sulla divisione degli organi del potere. Accanto al potere sovrano o legislativo troviamo il potere esecutivo e quello giudiziario. Ma il potere esecutivo, cioè il governo, è sottoposto non solo alle leggi, che sono naturalmente opera del sovrano-legislatore, ossia del popolo, ma anche al controllo politico del sovrano-legislatore che può deporlo o può riformare il tipo di amministrazione. Potere legislativo e potere esecutivo devono essere distinti; se sono nelle stesse mani si ha il caso del dispotismo. Autonomo è anche il potere giudiziario; con giuria popolare nei tribunali. Questo S., a rigore, non fa politica: non deve occuparsi della felicità dei cittadini (Kant considera lo S. paterno, tutore dei sudditi, come il più dispotico degli S.), non deve pensare a ingrandirsi, ma soltanto ad allearsi con altri S. per la conservazione della pace. L’unica politica dunque che lo S. kantiano deve fare è quella mirante all’attuazione del diritto: coesistenza di liberi cittadini e di liberi Stati. Lo S. kantiano è perciò liberale, perché bada soltanto alla libertà dei cittadini (e c’è anche in Kant il motivo dell’opportunità economica del non-intervento dello S.: non intralciare le iniziative dei singoli, non danneggiare con interventi i commerci), ed è democratico perché fondato sulla sovranità del popolo (Kant parla tuttavia di una restrizione del suffragio in base alle condizioni economiche e sociali, anche se vuole che le leggi non ostacolino il superamento di questa disuguaglianza). Lo S. descritto da Kant è, consapevolmente, uno S. ideale, un modello a cui tutti gli S. storicamente esistenti devono ispirarsi, verso cui devono tendere. E Kant stesso traccia le linee di una politica di riforme d’ispirazione illuministica e federiciana che miri all’attuazione dello S. razionale. Questa politica riformistica non deve però essere condotta dal popolo, ma dal governo e specialmente dal principe illuminato (che è l’esempio a cui Kant si riferisce). Finché il popolo non diventi sovrano, esso è politicamente nulla: può soltanto esprimere delle opinioni (e il principe deve promuovere questa forma di libertà) o delle lamentele, ma in nessun caso può resistere agli atti del governo. Il qual governo, da parte sua (e il governo è in questo caso anche sovrano, perché la sovranità non è stata ancora trasferita al popolo), ha il dovere (dovere morale, non giuridico, non coattivo) di legiferare nell’interesse del popolo, di non deliberare per il popolo nulla che il popolo non delibererebbe per sé.
Nelle linee successive di sviluppo, la dottrina dello S. liberale finisce per approdare alla concezione organicistica dello S. etico. Anche lo S. di Fichte ha fondamenti democratici. La sua genesi è contrattuale, e il contratto ha lo scopo di stabilire e garantire la coesistenza giuridica dei singoli (a ciò si giunge compiutamente attraverso tre contratti). L’organizzazione di questo S. comprende due poteri, l’esecutivo e l’eforato. L’esecu-tivo comprende in sé la funzione legislativa e quella giudiziaria: la legislativa perché l’attività legislativa altro non è che l’applicazione della legge fondamentale, cioè la coesistenza giuridica dei cittadini; la giudiziaria perché se l’esecutivo deve eseguire il verdetto del giudice, allora è il giudice ad avere un potere illimitato, se invece deve sindacare l’operato del giudice, allora l’indipendenza del giudice è illusoria. Vari sono i tipi di governo: monarchia, democrazia pura (governanti eletti dalla comunità), democrazia mista (governanti non tutti eletti direttamente), ecc. L’eforato, che è il tratto più caratteristico dello S. fichtiano, è un contropotere, un potere negativo avente il compito di controllare la legalità degli atti dell’esecutivo e, in caso d’infrazione, di sospenderne l’efficacia. Gli efori possono anche sospendere tutto il pubblico potere o alcuni membri di esso. Chi decide sulla giustezza o meno dell’accusa degli efori (che sono eletti dal popolo) è il popolo riunito. Ora il giudizio del popolo (e questa è la nota più tipicamente democratico-rousseauiana) è naturalmente giusto, ha valore di legge costituzionale, ha effetto retroattivo. Il popolo riunito giudica anche di eventuali rivolte contro il potere (rivolte parziali, perché quelle di tutto il popolo sono naturalmente giuste), per decidere se le ragioni di quanti si sono rivoltati debbano diventare le ragioni di tutta la comunità (se cioè sono giuste). Altra caratteristica dello S. fichtiano è il suo intervento nella vita economica, intervento volto a garantire a ciascuno ciò che gli spetta, a garantire cioè non tanto il diritto di proprietà quanto il diritto alla proprietà. Lo S. regola dunque la vita economica secondo un criterio di giustizia. In una fase di ripensamento della sua teoria politica Fichte, pur lasciando immutate le strutture del suo S., ha sovrapposto a esse un nuovo potere, un potere straordinario avente compiti educativi. Ha parlato di un despota altamente ispirato e ha indicato nella comunità dei dotti gli uomini capaci di educare il popolo e anche di operare all’interno dello Stato. Il popolo, di diritto fonte della razionalità, di fatto è ancora incapace di governarsi. Si ripropone a Fichte il tema del despota illuminato o del legislatore rousseauiano che elevi il popolo alla razionalità. I motivi democratici e contrattuali scompaiono invece in Hegel, che anzi li critica vivamente. Lo S. di Hegel infatti non è più uno S. ideale, ma vuole essere lo S. del tempo di Hegel, lo S. moderno, rispecchiante effettive tendenze moderne, in conformità con la concezione hegeliana della filosofia, come comprensione di una razionalità realizzata. Tale S. è una monarchia costituzionale ereditaria, fondata sulla distinzione dei poteri. I poteri sono il potere legislativo, il potere governativo, il potere del sovrano. Nel potere del sovrano i poteri distinti si raccolgono in unità individuale. In realtà il monarca ha il potere di grazia e ha quello di nominare e revocare quanti ricoprono gli uffici più importanti dello Stato. Solo simbolicamente esso è l’organo delle decisioni ultime, perché in uno S. bene ordinato il monarca sanziona dei contenuti anteriormente elaborati. Il più vero potere è quello dei funzionari, dei componenti il potere governativo, che accedono agli uffici a seconda delle loro attitudini. Il potere legislativo è affidato a due camere, una camera alta non elettiva (vi si accede per diritto di nascita) e una camera bassa elettiva. Questa elezione però non è un’elezione fatta dai singoli come tali, ma dagli organizzati in «associazioni, comunità e corporazioni» (Lineamenti di filosofia del diritto, § 308). Il potere legislativo discute e propone le leggi. L’attività legislativa è nel medesimo tempo costituzionale, nel senso che essa arricchisce di nuovi contenuti quell’insieme di norme e di consuetudini che per Hegel è la costituzione (la costituzione è un fatto storico, non è il risultato del lavoro di un’assemblea appositamente convocata). Questo S. non è e non deve essere invadente, deve anzi operare con una certa discrezione, ossia rispettare i diritti delle comunità minori, quelle comunità che nel Medioevo avevano acquistato un’autonomia eccessiva ma che costituiscono pur sempre «la forza caratteristica degli S.» (§ 290, aggiunta). Anche nella vita economica l’intervento dello S. non deve essere eccessivo, ma deve limitarsi a temperare gli inconvenienti della vita economica, che dà luogo a squilibri e a crisi. La vita economica è vista da Hegel con occhi smithiani, e il suo interventismo è un interventismo liberale. Ritroviamo in Hegel quel dualismo moderno di politica ed economia, di S. propriamente detto e di società civile. Ora la società civile ha leggi proprie, le leggi appunto economiche, e queste leggi nel loro attuarsi generano dei danni sociali, e segnatamente la formazione di una classe di persone, chiamata da Hegel la «plebe», che viene gettata nella miseria, che è messa in condizione di non partecipare al godimento della ricchezza, di non potersi procurare con il lavoro il sostentamento, come sarebbe nelle regole della società civile che è appunto una comunità di lavoro. Hegel indica nella fondazione delle colonie un rimedio a questo inconveniente (che è un inconveniente strutturale, connesso con il modo di produzione della società civile), ma è evidente che ciò sposta ma non risolve il problema. Aperto rimane pure il problema della guerra, che per un verso è un elemento di coesione dello S. in quanto scuote i singoli dai loro egoismi, ma per un altro è una condizione di violenza e di non giuridicità. Gli S. cioè, come per tutto il pensiero politico moderno, sono tra loro in un rapporto naturale di potenziale violenza. Contrari allo S. moderno, e più specialmente all’Illuminismo e alla Rivoluzione francese, sono alcuni scrittori che in sostanza vagheggiano un ritorno a istituzioni e modi di sentire medievali. Essi sono amanti delle realtà organiche, dove ciascuno ha il posto che la tradizione gli assegna, dove prevale il consenso dolce a un’autorità consacrata, dove il rapporto etico-politico non è più contrattuale ma personale, dove la religione è un fattore di coesione politico-sociale e torna a essere la religione delle immagini e dei riti vistosi. La polemica si estende a tutto il mondo moderno-borghese ed è anche polemica contro l’assolutismo livellatore in favore dello S. articolato nei ceti e nelle comunità minori. Capostipite di questa letteratura è Burke, le cui Riflessioni sulla Rivoluzione francese apparvero nel 1790. Da ricordare Novalis, A. Müller, K. L. von Haller, De Maistre, L.-G.-A. de Bonald, il primo La Mennais.
L’idea dello S. a servizio della società e garante della libertà del singolo torna negli sviluppi del pensiero liberale da Humboldt a B. Constant, a Madame de Stäel. L’importante è che lo S. intervenga il meno possibile, che il singolo abbia una sufficiente sfera di liceità, non solo per le sue iniziative economiche, per il suo utile, ma anche per lo svolgimento della sua personalità culturale-morale. La costruzione politica di Constant, che è la più sistematica, parte appunto da questo presupposto, dall’assunto che l’uomo, in quanto tale, è libero nel senso di essere rivolto verso valori superiori, anche e soprattutto di tipo religioso. La libertà riceve così una fondazione spiritualistica, e calpestarla è un peccato contro lo spirito. È perciò necessario che la sovranità sia limitata, cioè si arresti di fronte ai diritti dell’individuo. Ora la sovranità a cui pensa polemicamente Constant è la sovranità democratica illimitata di Rousseau, che egli considera una pericolosa fonte di dispotismo. Il sistema politico di Constant è un sistema armonico, monarchico-costituzionale, con due camere, una ereditaria e una elettiva, con elezioni a suffragio ristretto censitario, con giudici inamovibili, con assoluto rispetto delle forme giudiziarie. Centro di questo sistema è il potere regio, a cui spetta con oculato arbitraggio conservare l’armonia delle parti. Constant non ha difficoltà a rilevare che negli S. moderni il popolo, che interviene a lunghi intervalli per eleggere i suoi rappresentanti, è sovrano solo in apparenza. Ciò tuttavia non ha per lui importanza, perché il mondo moderno non è un mondo politico come quello della città antica. L’importante è che in esso l’individuo possa operare e svolgersi liberamente, possa perseguire le sue passioni, godere i suoi agi privati. A questo corrisponde un’accettazione dell’assetto sociale seguito alla Rivoluzione francese e una larga fiducia nelle armonie economiche. Anche i poveri laboriosi trovano possibilità di vivere in un paese dove regnano libertà e pace. Una preoccupazione dello stesso genere, ossia nei confronti della democrazia e della conseguente eccessiva politicizzazione della vita dello S., è presente in alcuni giuristi tedeschi, come R. von Mohl, R. von Gneist, K. F. von Gerber, G. Jellinek, assertori dello S. di diritto, ossia dello S. come istituzione storico-giuridica autosufficiente, che fonda il diritto, che garantisce la libertà dei cittadini, che regola la sua stessa azione entro i limiti delle leggi stabilite. La sovranità popolare e le idee a essa relative sono concetti astratti, che di fatto conducono al parlamentarismo e, in generale, a una situazione di permanente contrasto tra governo e popolo (motivo, questo, che era stato anche di Hegel) con danno della stabilità dello Stato. La vera libertà non nasce dalla rivendicazione di astratti diritti del singolo, ma dall’evoluzione storica, ed è garantita da alcuni istituti, come per es. i tribunali amministrativi. I diritti soggettivi sono certamente un dato essenziale della civiltà moderna, ma sono diritti nello S., posti dallo S. e da esso, per sua volontà, rigorosamente rispettati. È evidente che, pur partendo da preoccupazioni analoghe, i rimedi che questi scrittori propongono contro gli eventuali abusi della democrazia sono opposti a quelli di Constant: non l’intangibile e sacra libertà del singolo, ma la saggia autorità dello S. è la garanzia ultima di una vita politica razionale. Non allo S. ma essenzialmente alla società volgono la loro attenzione gli scrittori socialisti, i quali non riconoscono allo S. una funzione autonoma, perché lo considerano uno strumento a servizio degli interessi predominanti nella società. Con atteggiamento ravvicinabile a quello degli illuministi, essi valutano lo S. sotto un duplice profilo: nello S. esistente, da essi non voluto, vedono un semplice mezzo per la conservazione di un assetto sociale ingiusto, e dunque un fattore di oppressione; nello S. futuro, cioè quello della società giusta da essi voluta, vedono un garante e un coadiutore di questa società. Ma con ciò lo S. perde le sue caratteristiche in senso stretto politiche, ossia derivanti dalla divisione in dominanti e dominati, scomparsa la quale tende a scomparire anche quella di governanti e governati. Alla politica subentra l’amministrazione, la società può fare da sé e farà da sé. La società disegnata da Saint-Simon è quella del lavoro organizzato, in cui lo S. ha il ruolo di pianificatore di questo lavoro, e svolge tale ruolo con criteri scientifici e non opinabili. La società disegnata da Fourier si fonda su un’organizzazione decentrata della produzione, ossia su unità produttive autonome (a cui sono estranee preoccupazioni di tipo politico); vi è previsto un consiglio superiore dell’industria, ma con voto solo consultivo. E anche in Proudhon la produzione è decentrata, il principio nazionale e statale è sostituito da quello federativo, il governo diventa un organo scientifico, regolatore della produzione. Per Marx lo S. è sempre uno strumento di oppressione: lo è lo S. borghese perché serve soltanto all’esercizio del dominio, ma lo è anche lo S. che seguirà alla rivoluzione (la dittatura del proletariato) perché opprimerà i nemici della rivoluzione. Tuttavia quest’ultimo S. è uno S. democratico perché la dittatura è una dittatura di classe ed è una dittatura di maggioranza, della larga maggioranza interessata alla rivoluzione e al nuovo assetto sociale. Ma è democratico anche in un senso più tecnico, perché la sua organizzazione, modellata sulla Comune parigina, viene raffigurata in termini di democrazia diretta: unità di lavoro legislativo ed esecutivo affidato a consiglieri eletti a suffragio universale e revocabili in qualsiasi momento, magistrati e giudici elettivi e revocabili, rigido controllo dal basso di ogni funzione pubblica. Terminato il periodo di transizione, distrutte cioè definitivamente le basi economiche del dominio capitalistico, a questo S. democratico succederà una società non più politica, ma fondata su un autogoverno tecnico dei singoli e sulla loro piena espansione. La funzione riformatrice dello S., con J.S. Mill e dopo di lui, è teorizzata anche dai pensatori liberali. I quali ammettono che per la realizzazione delle loro idee, che postulano il pieno svolgimento anche economico dell’individuo, è necessario che lo S. non si limiti a un ufficio puramente negativo e socialmente neutro, ma operi in modo da assicurare una condizione economico-sociale che non ostacoli ma favorisca le libere iniziative. Si prendeva con ciò atto, come J.S. Mill esplicitamente riconosce, di una situazione non «liberale», ma oppressiva per i più. J.S. Mill parla di difesa della proprietà privata purché fondata sul lavoro, di confisca del reddito non guadagnato, in partic. della rendita fondiaria, di promozione di forme di produzione sempre più associative. Sul piano delle istituzioni la preoccupazione liberale di Mill è la difesa da eventuali eccessi delle maggioranze, che vuole prevenire specialmente adottando il voto plurimo, cioè accordando al voto di alcuni un valore maggiore di quello normale. I beneficiari del voto plurimo sono gli uomini colti. Mill intende privilegiare fattori qualitativi di fronte alla forza «materiale» del numero. Altri pensatori liberali, quali Green, Bosanquet, Hobhouse insistono sull’intervento dello S. in senso appunto liberale, volto cioè a riaffermare il valore primario dell’individuo. A riaffermarlo anche in senso economico: l’istinto del guadagno e la libera impresa restano i fattori più efficaci per l’incremento della produzione e quindi per il generale benessere. È comunque evidente in questo garantismo attivo la tendenza a far proprie certe istanze di giustizia del socialismo, tanto che Hobhouse parla di socialismo liberale. Da parte sua Croce tiene distinti i due piani, quello della libertà politica e delle libertà civili e quello del modo di produzione. Non c’è nessun legame necessario tra libertà politica e libero mercato: in linea di principio è perfettamente ammissibile la coesistenza di liberalismo politico ed economia collettiva. Dewey va invece più oltre, asserendo che solo un’economia pianificata (e democraticamente controllata) può ormai assicurare il pieno e sempre maggiore sviluppo dell’individuo.
Una forte enfatizzazione dell’ufficio dello S. e della stessa maestà dello S. si è avuta nei teorici dello S. autoritario, i quali hanno sostenuto che la società moderna ha bisogno di uno S. forte e presente in tutti gli aspetti della vita dei cittadini. Per molti versi questi teorici riprendono le dottrine controrivoluzionarie antilluministiche, perché criticano l’individualismo e la democrazia in quanto regime presupponente la razionalità, almeno virtuale, degli individui. Il singolo non ha invece alcun senso fuori dello S., e lo S. ha una sua etica, ha fini propri di ordine nazionale e di ordine economico. Nel fascismo italiano questo statalismo fu teorizzato (e anche praticato in quanto legislatore del fascismo) da A. Rocco, proveniente dal nazionalismo, mentre Gentile insistette sull’unità di individuo e S., sostenendo che lo S. fascista, dopo la fase rivoluzionaria e illegalista, fosse in grado di realizzare e avesse in larghissima misura realizzato questa unità, sia sul piano politico per il conquistato consenso, sia sul piano istituzionale, perché i nuovi istituti (ordinamento corporativo, partito organo dello S., Gran consiglio del fascismo) offrivano al cittadino la possibilità di vivere questa unità partecipando attivamente alla determinazione delle decisioni politiche. Anche i teorici nazionalsocialisti partono da premesse antindividualistiche e stataliste. Lo S. non è un ente politicamente neutro che ospiti tutte le ideologie, ma deve avere una sua ideologia e una sua politica, proporsi mete nazionali e razziali. Carl Schmitt vede nel partito nazista il custode di questi valori e nel suo permeare di sé le varie istanze dello S. la loro adeguata realizzazione. In sostanza queste dottrine pretendono di impegnare l’individuo in una direzione politica assunta come giusta, perché ritenuta conforme agli interessi di tutto il popolo (e non, poniamo, di una sola classe), perché volta verso l’ordine e la disciplina sociale di contro al «disordine» democratico. Sono perciò considerate inammissibili le libertà tradizionali (di stampa, di associazione, ecc.) e si pensa a forme di partecipazione di tipo emotivo (raduni, acclamazioni, dedizioni alla causa nazionale). Nella dottrina nazista l’antindividualismo è spinto verso forme primitive, quali la considerazione del singolo in stretta unità con la stirpe per vincoli di sangue o la considerazione del Capo come incarnazione del popolo e quindi fonte autentica di autorità.
Una concezione democratica dello S. si ha in alcuni teorici che risolvono l’idea dello S. in quella del diritto. Lo S. altro non è che l’ordinamento giuridico, è un insieme di norme, naturalmente valide ed efficaci. In questo senso gli atti più strettamente politici come quelli rivoluzionari non sono oggetto dell’attenzione di questi teorici perché non rientrano nella fenomenologia giuridica. Il più tipico rappresentante di questo punto di vista è Kelsen. Egli distingue due forme di S., quella democratica e quella autocratica: nella prima i cittadini concorrono alla creazione dell’ordinamento giuridico, nella seconda ne sono esclusi. Queste due forme sono da vedersi come tipi ideali, perché in concreto tutti gli S. partecipano in varia misura dell’una e dell’altra. Kelsen è assertore della superiorità della democrazia, ma fonda questa superiorità su una filosofia che egli definisce relativistica, tale cioè da escludere verità indiscutibili. Chi è certo di possedere una verità non può non costringere gli altri ad aderirvi, chi invece è cosciente del fatto che la sua certezza vale quanto un’altra e quindi può essere smentita, ascolta le ragioni degli altri e si rimette al parere dei più. Questa argomentazione, assai diffusa nelle correnti analitiche, è un elogio della politica moderata e gradualista, mentre considera la rottura della legalità come qualcosa d’incomprensibile, di primitivo, perché fondato su convinzioni indimostrabili. Queste dottrine possono collegarsi al formalismo kantiano, e più che fornire un’idea di S. attestano come lo S. si comporta e deve comportarsi. La politica del diritto non ha contenuti propri, ma si limita a rendere giuridica una politica proposta da altri. Il danese Alf Ross lo dice in termini molto chiari: «Il compito del giurista come politico del diritto è di operare quanto possibile come un tecnico razionale. In questo compito egli non è né conservatore né progressista. Come gli altri tecnici, egli si limita a mettere il suo sapere e la sua arte a disposizione di altri, in questo caso di chi tiene le redini del potere politico» (Diritto e giustizia, § 87). Tuttavia, la teoria dello S. contemporaneo ruota attorno alla riformulazione del concetto di cittadinanza, sia sul piano filosofico, come rinnovamento del patto fondamentale fra individui e S. secondo regole di giustizia razionale e giustificabile per tutte le parti – che è la posizione del neocontrattualismo di Rawls (Una teoria della giustizia, 1971) –, sia soprattutto sul piano sociologico, a partire dal saggio di T. H. Marshall Cittadinanza e classe sociale (1950). La cittadinanza opera nell’ambito della sovranità dello S. moderno nelle sue componenti specifiche di cittadinanza civile, politica ed economica, ciascuna delle quali attribuisce poteri e diritti particolari agli individui, configurando storicamente una successione di modelli statali che, per successive stratificazioni, confluiscono tutti nella forma di S. tipica delle società sviluppate. Questa, di fatto, si caratterizza al tempo stesso come S. di diritto, che garantisce i diritti di libertà, come S. democratico, che afferma i diritti di partecipazione politica, e come S. sociale, o welfare State, in quanto promuove diritti di uguaglianza sostanziale attraverso politiche di ridistribuzione della ricchezza.
Il concetto di S. diventa, nel 20° sec., il punto d’incrocio di numerose teorie – giuridiche, filosofiche, storiche e soprattutto quelle orientate dalle nuove scienze sociali – come riflesso delle mutazioni di forma e funzioni che l’organizzazione dello S. assume in una società costantemente in bilico fra soluzioni democratiche e deviazioni autoritarie o totalitarie. I fondamenti concettuali di questo processo evolutivo si possono trovare nelle analisi sociologiche di Max Weber, che definiscono lo S. come «impresa istituzionale di carattere politico nella quale l’apparato amministrativo avanza con successo una pretesa di monopolio della coercizione fisica legittima» (Wirtschaft und Gesellschaft, 1922; trad. it. Economia e società). Il fenomeno della burocratizzazione, che già Weber aveva intravisto come «gabbia d’acciaio» della democrazia, ossia le spinte endogene alla stessa struttura delle organizzazioni di massa – dal partito allo S. – verso esiti di tipo oligarchico e bonapartista, in definitiva verso la negazione stessa dello S. di diritto, è sottolineato con forza anche dagli scrittori delle correnti di pensiero elitista (G. Mosca, Pareto, R. Michels) nella loro critica al parlamentarismo e nella loro previsione di un potere politico tutto concentrato nelle mani di ristretti gruppi di comando se non di un leader carismatico. Sul piano teorico, vengono così ad assumere rilievo i rapporti fra S. e potere politico, lasciandosi nondimeno irrisolta la questione della specificità e della supremazia dello S. rispetto alle altre organizzazioni di potere che tendono a costituirsi nella società contemporanea come altrettante autorità concorrenziali e antagonistiche, secondo quelle che saranno le correzioni apportate in chiave di pluralismo democratico, cioè di sistemi poliarchici, alla concezione elitistica dello Stato. Le esperienze dei regimi totalitari del Novecento – in partic. il nazismo in Germania e il comunismo in Russia – hanno suggerito il modello di un dual power rivoluzionario che modifica la stessa forma tradizionale dell’ordinamento statale nei suoi requisiti di sovranità, trasferendo al partito-S. tutte le competenze istituzionali, e gli uffici e i centri potestativi che competono alla struttura dello S., con in più il compito ideologico di controllare il conformismo, mantenere costante la mobilitazione delle masse in vista della costituzione del «nuovo» ordine sociale, nonché di gestire e pianificare dall’alto, mediante la centralizzazione del comando, qualsiasi aspetto della vita collettiva. Dopo la Seconda guerra mondiale, il dibattito ha per sfondo il nuovo scenario del welfare State, divenuto l’arco voltaico in cui si tengono assieme, in una sorta di compromesso istituzionale, democrazia e capitalismo: mentre la teoria dello S. si presenta a sua volta come il tentativo di spiegare, talvolta giustificandolo, talaltra contrastandolo, questo compromesso. In questo senso possiamo distinguere contributi diversi e in parte contrapposti che maturano più nel campo degli studi sulle politiche pubbliche – cioè sul terreno empirico delle attività di governo in cui si colgono i confini allargati dello S. contemporaneo – che non nell’ambito tradizionale delle dottrine giuspubblicistiche e del formalismo giuridico. Un primo filone di analisi, di orientamento neomarxista, porta alla rivalutazione dello S. come soggetto storico di unificazione di una determinata formazione sociale – il capitalismo – da cui dipendono sia i processi decisionali sia l’apparato amministrativo e repressivo. Lo S. nel capitalismo maturo, visto come ‘relativamente autonomo’ rispetto agli interessi di classe, interviene per strutturare il campo delle decisioni politiche, fissandone regole e confini: e le conseguenze più rilevanti della sua azione si risolvono nella «crisi fiscale dello S.» che è, al tempo stesso, crisi dello «S. fiscale» (J. O’Connor, La crisi fiscale dello Stato, 1973). Per contro, vi è tutta una linea di pensiero di matrice liberale e liberista, che parte dalla Scuola austriaca dei primi anni del Novecento con autori quali C. Menger, L. von Mises, von Hayek, e perviene fino agli epigoni americani della rational choice, portata a considerare lo S. – al pari di altre entità collettive – un’astrazione concettuale priva di realtà concreta: nella realtà sociale esistono solo gli individui e le loro azioni guidate da criteri di razionalità strumentale, mentre lo S. e tutte le istituzioni in genere non sono altro che il prodotto ‘irriflesso’ del modo in cui queste azioni si combinano per evoluzione storica, senza alcun progetto preordinato. Questi assunti di individualismo metodologico hanno come correlato etico e politico una visione di S. minimo che deve limitarsi a provvedere una base di regole comuni e condivise senza pretese d’interferenza nella vita privata dei cittadini. Un altro gruppo di teorie, che potremmo definire societarie, è portato, sulla scia delle concezioni pluralistiche della politica, ad accentuare l’importanza degli ambiti e dei meccanismi di regolazione che si producono al di fuori della sfera statale, spesso in conflitto o in concorrenza con questa, in ordine all’elaborazione, implementazione e controllo delle politiche pubbliche. Rientrano in questo gruppo gli approcci di derivazione funzionalista o cibernetica, che sostituiscono alla stessa nozione di S. quella più onnicomprensiva di sistema politico, in grado di dar meglio conto dei processi di diluizione e di ubiquità della politica nella società, mediante la diffusione dei luoghi di decision-making nei quali le domande dell’‘ambiente’ vengono convertite in «allocazioni autoritative di valori». Successivamente, il cosiddetto policy approach ha ricollocato il processo di produzione e messa in opera delle politiche pubbliche in una serie di «reti decisionali» (policy networks) in cui interagiscono fattori individuali e collettivi, e in cui il ruolo dello S. diventa obiettivamente marginale, o meglio può essere solo ricomposto come un aggregato ‘policentrico’. Un’applicazione particolare di questo approccio è data dallo schema di analisi neocorporativa, per il quale lo S. contemporaneo appare bensì frazionato nella sua struttura – lo S. «in briciole» – ma al tempo stesso autoritario nei suoi metodi di governo, impostati secondo la logica pattizia dei «triangoli di ferro»: una coalizione chiusa di interessi della quale fanno parte, scambiandosi continuamente risorse di consenso e di gestione delle politiche pubbliche, in specie quelle economiche, organi amministrativi, commissioni parlamentari, e associazioni di rappresentanza delle parti sociali. Alle teorie pluraliste, così diversamente connotate, si contrappongono posizioni di neoistituzionalismo che propugnano un ritorno alla centralità del concetto di S., troppo a lungo e a torto trascurato nelle scienze sociali, nella convinzione che gli stessi comportamenti politici, sociali ed economici sono quanto meno strutturati entro modelli di regole e routines formali, che trovano nell’ordinamento e nell’organizzazione statale i loro criteri di regolazione e legittimazione. Rimettere lo S. all’ordine del giorno – come consigliano di fare questi autori della corrente new-statist – comporta peraltro conferire nuovo risalto all’idea relativamente antica di azione in quanto specifica base sociale dello S., caratterizzata da altre appartenenze ed esperienze – etniche, religiose, culturali, linguistiche – che non siano quelle di natura strettamente politica che lo S., nella sua identità di ‘S.-nazione’, controlla e difende. La vicenda dello S. in epoca contemporanea è pervasa da numerose contraddizioni che presentano esiti di crisi. Al processo di progressiva espansione dello S.-apparato è corrisposta, dopo la rimozione collettiva che se ne era avuta per via delle tragiche esperienze totalitarie consumate fra le due guerre in nome degli ideali nazionalisti, la riscoperta dello ‘S.-nazione’; questo concetto si carica a sua volta di valenze localistiche e autonomiste, talvolta definite impropriamente come federaliste, in tutta una serie di conflitti che oppongono, in diverse parti del mondo, le ‘piccole patrie’ alla ‘madre patria’, le tante periferie al potere centrale dello Stato. In questa prospettiva sono emersi, soprattutto in ambienti intellettuali statunitensi, sotto il nome di neocomunitarismo (➔) alcuni movimenti critici nei confronti della civiltà liberale, che convergono a favore della creazione di piccole comunità organiche autonome, che consentirebbero l’instaurazione di una nuova democrazia partecipativa all’interno di contesti federali. Ma sono stati i vorticosi processi di globalizzazione in atto negli ultimi decenni del 20° sec. a svelare l’inarrestabile sottrazione di materie alla competenza legislatrice dello S. sovrano, nonché di tutto un complesso di attività interdipendenti su scala planetaria – economiche, tecnologiche, ecologiche e culturali – che hanno effetti e campi d’azione eccedenti i confini tradizionali di sovranità dello Stato. Senza dimenticare, peraltro, il limite di diritto all’attività dello S., costituito dall’accettazione di un sistema di diritti umani garantito dal diritto internazionale. In questo quadro di forte erosione della sovranità, gli S. a regime liberal-democratico – sia che si assoggettino alla forza di questi processi, sia che tentino di dominarli – sembrano rivelare un senso d’impotenza, d’inadeguatezza e d’insufficienza in quanto soggetti politici unitari.