Stato
di Nicola Matteucci
sommario: 1. Per una definizione storico-tipologica: a) Stato e altre forme di dominio; b) tipologia e storia; c) lo Stato e la sua storia. 2. Una parola, un concetto, un fatto. 3. Stato e diritto. 4. Individuo, società civile, Stato. 5. Rappresentanza: antica e moderna. 6. Stato e cultura. 7. Le partecipazioni incrociate. 8. Lo Stato neocorporato. 9. Verso lo Stato post-moderno. □ Bibliografia.
1. Per una definizione storico-tipologica
Con Stato generalmente s'intende - sulla scia di Max Weber - una forma storicamente determinata di organizzazione del potere o delle strutture dell'autorità, contrassegnata dal fatto che una sola istanza, quella statuale appunto, detiene il monopolio legittimo della costrizione fisica. In altri termini, lo Stato ‛moderno' si caratterizza per il monopolio del politico, per cui si può anche parlare di un'identità tra lo Stato e il politico. Questo monopolio viene esercitato attraverso procedure e mezzi razionali: da un lato il diritto, che stabilisce norme astratte, generali e impersonali, per evitare ogni forma di arbitrio, e, dall'altro, un'amministrazione burocratica, basata sulla gerarchia e sulla professionalità: tutto questo garantisce la legalità, cioè l'obiettività e la prevedibilità del processo politico-amministrativo. Questa forma di dominio si contraddistingue pertanto per la sua razionalità, una razionalità che, riferendosi esclusivamente ai mezzi e non ai fini, è una razionalità meramente formale. Lo Stato, cosi, è una particolare forma di organizzazione coattiva, che tiene unito un gruppo sociale su un determinato territorio, differenziandolo da altri gruppi, a esso estranei; esso generalmente viene caratterizzato da tre elementi: il potere sovrano, che dà sostanza all'autorità; il popolo, che nei diversi tempi storici ha ruoli diversi; e infine il territorio o meglio l'unità territoriale su cui esercita il proprio dominio (lo Stato ha un centro - la capitale - e ben precisi e delimitati confini), donde la territorialità dell'obbligazione politica. Da questa prima elementare definizione tipologica derivano tre importanti conseguenze.
a) Stato e altre forme di dominio
Innanzitutto lo Stato si differenzia da altre forme di organizzazione del potere. Per restare nell'ambito della storia dell'Occidente, esso è diverso dalla polis greca non solo per l'estensione del proprio territorio, che consente allo Stato complesse articolazioni interne impossibili in una piccola comunità, ma anche perché la democrazia diretta degli antichi non conosceva che deboli ed esili strutture verticali di potere. Lo Stato, invece, si presenta come un ‛ente', come una persona giuridica, fornita di propri organi e uffici, superiore ai suoi componenti e distinta da essi, con un diritto di imperio originario e sovrano su tutti e su tutto. Ciò non toglie che il pensiero politico classico non abbia esercitato ed eserciti una notevole influenza sulla cultura politica che ha accompagnato la storia dello Stato moderno: ieri con l'ideale del governo misto (cioè insieme monarchico, aristocratico e democratico), oggi con l'aspirazione a garantire a tutti una piena cittadinanza.
Parimenti, lo Stato si differenzia dalla Res publica romana, il cui governo era costituito da una molteplicità di magistrature collegiali con compiti specifici, limitate nel tempo, gratuite e responsabili, con garanzie per il cittadino offerte dalla provocatio ad populum. L'ordinamento repubblicano s'incardinava nel populus, che si esprimeva attraverso assemblee popolari o comizi (l'elemento democratico), per l'elezione dei magistrati e la votazione delle leggi, e nel Senatus (il principio aristocratico), i cui componenti erano nominati dai censori soprattutto fra coloro che avevano ricoperto magistrature, e che rappresentava la continuità della comunità politica, soprattutto per la sua competenza nella politica estera. Ciò non toglie che il diritto romano non abbia avuto un'enorme importanza nell'evoluzione dello Stato, dato che la Chiesa prima e poi le università ne avevano conservato la memoria. Il diritto romano non fornì solo armi all'assolutismo, col principio quod principi placet legis habet vigorem, ma anche alla riscoperta e alla difesa del diritto di proprietà, giusta la massima di Seneca: ‟Ad reges potestas omnium pertinet, ad singulos proprietas". Non solo: tutto il processo di razionalizzazione giuridica del diritto privato, operata dallo Stato continentale, ha come suo punto di riferimento il diritto romano, inteso come ratio scripta.
Lo Stato moderno si differenzia pure dal sistema feudale, storicamente antecedente, nel quale abbiamo, da un lato, un complicato intreccio dei diritti di sovranità dei diversi signori nei vari paesi, per cui manca l'unità territoriale dello Stato, e, dall'altro, un potere parcellizzato e diffuso nella società, o meglio; molti centri di potere ordinati gerarchicamente, ciascuno sovrano nell'ambito assegnatogli dal diritto; questi rapporti di potere erano personali e privati, basati su un rapporto sinallagmatico. Tutto questo consentiva la guerra privata o la faida, dove prevalevano i legami gentilizi o tribali, e la ribellione o la rivolta al superiore, quando si riteneva che avesse violato il diritto. Lo Stato, invece, con il monopolio dell'uso legittimo della forza, tende a instaurare la pace al suo interno o nel proprio spazio territoriale, e ha un rapporto impersonale e pubblico con il governato. Ciò non toglie che non si possa cogliere una continuità fra le assemblee rappresentative di stato o di ceto e le moderne rappresentanze politiche, come non toglie che l'eredità medievale del primato del diritto sul potere non pesi fortemente sulla formazione dello Stato moderno.
Infine, lo Stato si differenzia dal moderno regime totalitario, dato che essi hanno baricentri diversi, se non opposti: per il primo è lo Stato, tutto incardinato nel suo ordinamento giuridico e nella sua burocrazia legale, che garantiscono certezza e quindi libertà agli individui come ai gruppi sociali; per il secondo è il partito, con la sua ideologia, che pervade ogni momento dell'esistenza individuale per poter poi mobilitare politicamente le masse. Nei regimi totalitari abbiamo, infatti, una burocrazia carismatica, alla quale si accompagna una polizia politica segreta diretta a incutere il terrore: si perde il momento della legalità e della prevedibilità, perché il nemico non è soltanto quello reale, dato che può essere inventato un nemico ‛obiettivo', individuato da chi interpreta in modo sovrano l'ideologia. Ciò non toglie che i regimi totalitari non abbiano continuato quel processo di tecnologizzazione della politica, cioè quella riduzione del potere a tecnica razionale, che caratterizza lo sviluppo dello Stato: il totalitarismo lo porta solo alle sue estreme conseguenze, rendendo il potere del tutto impermeabile alla morale e ai principi religiosi, al senso comune e ai valori soggettivi degli individui, cioè a tutto ciò su cui si fonda la legittimità: si vuole, infatti, una politicizzazione totale della società, ridotta a soggetto da plasmare attraverso la tecnologia politica (v. totalitarismo).
b) Tipologia e storia
Come si vede, le definizioni tipologiche, proprio per la loro rigidità, cozzano contro lo svolgimento storico reale e, appena calano nella realtà, è necessario aprire le parentesi dei distinguo. I tipi ideali - come è noto - non sono la realtà, la storia; servono soltanto a meglio pensarla, soprattutto quando ci si riferisce a processi storici di lunga durata. A essi sfugge l'individuale, la microstoria con i suoi increspamenti e il suo brusio sociale, e - ma sino a un certo punto - gli spaccati rivoluzionari. Tuttavia questo tipo ideale deve essere inteso in modo non rigido e statico, ma dinamico: lo Stato è il risultato di un'intensificazione o di un'accelerazione di processi socioistituzionali, prima latenti o appena percettibili; è il condensarsi, più o meno rapido, di elementi prima allo stato fluido; è l'apparire di nuove costellazioni o di nuovi contesti, in cui i dati tradizionali finiscono per giocare un ruolo del tutto nuovo e diverso. Anche le rotture, che pur si danno nella storia dello Stato moderno, sono difficilmente databili, perché anch'esse sono il risultato di un processo, che si insinua nell'antico sino a eclissarlo. Le rotture che ci interessano sono essenzialmente tre: l'affermarsi della moderna sovranità; la dislocazione del potere politico dal re al popolo, che non distrugge, ma rafforza lo Stato; e, infine, l'attuale eclissi dello Stato nella perdita della sua autonomia.
La variabile esplicativa unitaria di questo lungo periodo storico, che ha come protagonista lo Stato, può essere ravvisata nell'assolutismo, che non è tanto un'età, in sè chiusa e omogenea, quanto appunto una variabile interveniente, la quale accelera - in modo diverso e in tempi diversi a seconda dei diversi paesi - processi istituzionali già in svolgimento. Tutti gli Stati europei hanno conosciuto un momento assolutistico, che si è manifestato più debole in quelli che l'hanno esperimentato per primi, come l'Inghilterra. Con assolutismo possiamo inizialmente intendere la concentrazione e l'unificazione della titolarità e dell'effettivo esercizio del potere nei suoi aspetti più squisitamente politici (la pace e la guerra) in una sola istanza (lo Stato o, meglio, il re): un potere monocratico, dunque, e meramente discendente, che poteva essere limitato, oltre che dal diritto naturale, dalle leggi fondamentali, ma non controllato dai sudditi. Da un punto di vista realistico è più vera l'affermazione di Luigi XIV, ‟lo Stato sono io", e più ipocrita quella di Federico il Grande, ‟io sono un servitore dello Stato". Il re è veramente il sole, che illumina tutto e a tutto dà vita. Non si deve però confondere la monarchia assoluta con quella dispotica o signorile, che rappresentò una forma regressiva di modernizzazione, nella quale il re ambiva a estendere quel potere signorile, che aveva da privato sulla casa e sulla corte, a tutto il paese, ritenendolo di sua proprietà, per cui il potere politico non si differenziava qualitativamente da una signoria domestica su altri capifamiglia e la moderna sovranità territoriale era ridotta all'antica signoria terriera.
La caratteristica dello Stato, in seguito alle sollecitazioni assolutistiche, è data dal fatto che questa concentrazione e questa unificazione del potere avvengono all'insegna di una sempre maggiore razionalizzazione del suo esercizio al fine di ottenere una maggiore efficienza: abbiamo così una progressiva differenziazione degli uffici burocratico-amministrativi, con la conseguente specializzazione dei diversi ruoli. Lo Stato moderno, nella sua realtà, è costruito come una macchina ed è sempre più gestito come un'impresa, adeguata ai diversi fini politici che si vogliono raggiungere: un impresa piccola - ma che è la forza motrice delle trasformazioni della vita collettiva - alla quale si contrappone la società, ancorata alla tradizione. Nasce qui il dualismo o la tensione fra Stato e società: il primo è ‛artificiale', perché costruito con apparati burocratici, la seconda ‛naturale', dato che era stata sempre intesa e sentita come un ‛corpo'. L'integrazione sociale diventa ora opera dello Stato, anche se, nella sua lenta crescita, questo deve venire a continui compromessi con la società, cioè con l'aristocrazia e con i signori, con la nobiltà di toga e con la nobiltà locale, con la città e i suoi patrizi e borghesi.
Proprio perché impresa, proprio perché macchina, lo Stato è qualcosa di esterno al tessuto sociale, per cui le innovazioni sul piano della tecnica del governo sono facilmente imitabili e importabili: c'è pertanto un facile processo di diffusione delle innovazioni dai paesi più avanzati nello sviluppo politico a quelli meno avanzati. I paradigmi o i modelli sono l'Inghilterra e la Francia: la prima ha realizzato, con la formazione della common law da parte dei giudici itineranti del re, l'unificazione della giustizia, poi, con Th. Cromwell, sotto Enrico VIII, ha sperimentato le forme di una moderna burocrazia centrale e, infine, ha dato una soluzione nuova alla partecipazione dei ceti al governo. Più intense sono le spinte assolutistiche nella Francia, dove l'amministrazione centrale e centralizzata cerca di togliere ogni autonomia locale alle signorie e alle comunità cittadine. La Spagna, pur godendo dell'unità territoriale e dell'unificazione dopo il regno di Ferdinando il Cattolico, pur avendo sperimentato moderne forme di governo burocratico, nei secoli successivi non è certo all'avanguardia della modernizzazione politica, perché ostacolata sia dal perdurante sogno universalistico e sovranazionale, sia dal ritardo nella secolarizzazione della cultura e delle istituzioni politiche, sia dalla scarsa capacità del potere reale a unificare realmente, con un'unità di indirizzo, i diversi regni, che erano uniti soltanto nella persona fisica del re. Anche l'Impero giunge tardi alla modernizzazione statale, per cui S. Pufendorf in De iure naturae et gentium (1672) lo definisce una ‟res publica irregularis", ma in quegli anni si erano già delineate nuove forme di aggregazione statale attorno al Brandeburgo e all'Austria, che nel Settecento porteranno a compimento il modello assolutistico.
Per questi motivi si può parlare degli Stati europei in modo unitario: il tipo ideale avrà certamente nei diversi paesi verifiche in tempi diversi e si dovrà adattare a situazioni o meglio tradizioni diverse, ma lo Stato moderno resta una creazione tipica dell'Europa e le varianti nazionali non incidono sull'unitarietà della creazione, che nell'Ottocento si configurerà come Stato nazionale burocratico rappresentativo.
Dovendo parlare dello Stato è ovvio che l'attenzione sia principalmente rivolta al potere; ma è necessario ribadire che questa non è un'ottica particolare, per cui il politico possa poi essere spiegato anche con fattori a esso estranei: lo Stato fu costruito per motivi esclusivamente politici, cioè di potere, e le sue future trasformazioni sono sempre trasformazioni di potere, della sua allocazione. Si può direttamente verificare l'autonomia, meglio, il primato del politico: lo Stato non è una creazione della cultura, come si diceva ieri, non è un derivato dell'economia, come si dice oggi. Se dobbiamo personificare lo Stato, troviamo prima i re, poi le élites politiche, ma in una costante distinzione fra governanti e governati: chi ha il potere agisce sempre secondo la logica della sua conservazione e difficilmente si subordina a volontà estrinseche, che tende piuttosto a utilizzare ai propri fini. Almeno sino alla guerra dei Sette anni (1756-1763), il politico, cioè lo Stato, è il dato dominante esplicativo di questa età, è la forza trainante dello sviluppo storico; solo dopo si potrà parlare dell'economia come di un fattore sempre più centrale della vita sociale, come ora si comincia a porre l'accento sulle trasformazioni dovute alla tecnotronica. Ma, se lo Stato non ha più un ruolo dominante, non per questo il politico ha perso la sua autonomia.
Bisogna evitare i pericoli del proiezionismo storico guardando al passato con gli occhi di oggi. Sino a tutto il Settecento le aree di autoconsumo, estranee all'economia di scambio, restano ancora assai vaste: l'economia di mercato, con i suoi piccoli mercanti, e il capitalismo commerciale che da esso nasce restano ancora aspetti limitati e minoritari della vita materiale, e non costituiscono un modo specifico di produzione, dato che anche le manifatture rappresentano una piccola parte del totale della produzione e la rivoluzione industriale è appena ai suoi albori. Non solo: i veri centri economici, sino a metà del Settecento, non sono gli Stati, ma le città-Stato, con la successiva egemonia di Venezia, Anversa, Genova, Amsterdam, e infine Londra, che, in quanto capitale di uno Stato, offre al successo del capitalismo mercantile un mercato nazionale. Il capitalismo, prima mercantile e poi industriale, per affermarsi ha bisogno di ordine, della neutralità del potere, della difesa della proprietà privata, intesa nel senso romanistico, contro altre forme di proprietà, come quella comunitaria e quella signorile, alla quale aspireranno alcune monarchie: lo Stato nella sua razionalizzazione assicurerà tutto questo, per cui nel Settecento assistiamo a un'accelerazione dello sviluppo economico, a un aumento progressivo della popolazione e a una più intensa mobilità sociale.
È certo d'altra parte che alla formazione dello Stato, in una società preindustriale e precapitalistica, si accompagnano trasformazioni nel campo culturale come in quello economico. Nel primo campo abbiamo la secolarizzazione della cultura politica: dal disgregarsi dell'etica medievale deriva il consapevole disancorarsi dai principi teologici della politica, dell'economia e del diritto, che diventano scienze autonome, e il conseguente rinchiudersi dell'etica nella sfera privata individuale. Nel campo economico la nascita dello Stato territoriale favorisce un intensificarsi degli scambi, il rapido dilatarsi del mercato dalla città allo spazio nazionale e a quello internazionale: questo processo, nonostante conflitti e contrasti, accelera la formazione del capitalismo commerciale, che guarda soprattutto al guadagno e al profitto; ma la ricchezza delle nazioni è anche ricchezza degli Stati. Questo sviluppo economico aveva radici lontane: nonostante ricorrenti crisi, quella grande trasformazione, che doveva rapidamente distaccare l'Europa - un tempo paese barbaro - dagli altri continenti, ormai - rispetto a lei - sottosviluppati, trova nello Stato e nella ragion di Stato il suo più valido sostegno e la sua difesa politica contro le invasioni dello straniero extraeuropeo. La modernizzazione dell'Europa è dipesa - in ultima istanza - dalla crescita dello Stato.
c) Lo Stato e la sua storia
Se lo Stato è una formazione storica, esso ha un suo inizio e una sua fine, e anche un suo spazio geografico. La sua fine, o meglio la sua eclissi, si dà nel Novecento; e, se si vuole una data emblematica, si potrà parlare della grande crisi economica del 1929, ma anche qui si tratta di processi che, intensificandosi gradualmente, assumono infine una rilevanza specifica, che poi il pensiero politico finirà per cogliere e individuare. L'inizio lo possiamo situare nella seconda metà del Cinquecento. Se lo Stato è un fatto eminentemente politico, politiche sono le cause del suo sviluppo: esso cresce non perché dominato da una ratio interna o guidato dal consapevole progetto di una classe, ma per dare precise risposte a precisi problemi politici, a sfide che gli vengono sia dall'arena internazionale, sia dal territorio sul quale vuole esercitare la propria sovranità, insomma dall'esigenza di costruire le proprie frontiere, per dividere la pace e la guerra.
Innanzitutto, le pressioni dell'ambiente internazionale: la guerra. Le guerre per il dominio sull'Italia (1494-1559) rappresentano una rottura con il passato, di cui i contemporanei - da Machiavelli a Guicciardini, da Moro a Erasmo - furono perfettamente coscienti: la rottura si diede non solo nell'arte della guerra, ma anche nella necessità di governare gli Stati in modo nuovo e diverso. Lo Stato doveva mirare soprattutto alla propria sopravvivenza in un mondo instabile, dove era perennemente esposto al rischio; e, per sopravvivere, la logica era quella di ingrandirsi e di rafforzare il proprio dominio all'interno. Ma, come soleva ripetere il generale Gian Jacopo Trivulzio, ‟per fare la guerra ci vogliono tre cose: danaro, danaro, danaro"; lo Stato è quindi costretto a diventare sempre più fiscale per estrarre nuove risorse dalla società, ai fini di soddisfare i propri bisogni: nasce così, attraverso un processo molto lento il cui protagonista fu l'Inghilterra, il monopolio della fiscalità o la nazionalizzazione delle finanze, con la gestione diretta da parte dello Stato dell'apparato finanziario e la relativa eliminazione di tutti gli intermediari, che erano di fatto dei parassiti. Tuttavia lo Stato era quasi sempre in deficit. Ogni secolo ebbe la sua o le sue grandi guerre: la guerra dei Trent'anni (1618-1648), la guerra di Successione spagnola (1700-1713), la guerra dei Sette anni (1756-1763).
Se isoliamo, ma solo parzialmente, la guerra dei Trent'anni, perché fortemente dominata da elementi religiosi, le altre furono guerre di re, dinastiche e di successione, attraverso le quali lo Stato ambiva a realizzare compiutamente la propria territorialità, la sicurezza dei propri confini. Se eccettuiamo il sogno di Carlo V di ristabilire l'antico impero universale, le guerre furono tutte condotte accettando la logica dell'equilibrio politico europeo, che comportava il riconoscimento degli altri Stati e il rispetto della loro esistenza. Poi vennero le guerre ideologiche della Rivoluzione francese e di Napoleone, il quale aspirava, se non all'impero universale, certamente all'egemonia; ma il Congresso di Vienna ristabilì l'antica Europa degli Stati, che nel frattempo aveva codificato un proprio ius publicum europaeum. Lo Stato risulta un fenomeno incomprensibile se non lo inseriamo nella realtà europea di un sistema di Stati monarchici, attenti ai loro confini, che avrà una sua scansione proprio nel Congresso di Vienna, ultima manifestazione dell'antica legittimità dinastica. Le repubbliche erano poche: nel Seicento la Svizzera, Venezia, le Provincie Unite, mentre le monarchie dominavano l'arena internazionale.
Se guardiamo ai problemi interni, ci troviamo di fronte al problema dell'ordine; agli antichi o antichissimi problemi di concentrare - onde impedire le faide - il potere giudiziario nelle mani del re e di acquisire o debellare principati feudali e signorie al fine di realizzare la territorialità dello Stato, se ne aggiunge uno nuovo, moderno: le guerre di religione, che di fatto erano guerre civili. In Francia la lotta fra cattolici e ugonotti (1559-1594), nell'Impero germanico - durante il periodo boemo-palatino (1618-1625) della guerra dei Trent'anni - il conflitto fra cattolici e protestanti, in Inghilterra la guerra civile (1640-1649) fra anglicani, presbiteriani, congregazionalisti e indipendenti. Erano guerre civili, nate da motivi religiosi, che indebolivano e disgregavano lo Stato: era pertanto necessario far trionfare il primato della politica e dell'ordine mondano, che esso rappresentava, su sette religiose intolleranti, che provocavano soltanto disordini in nome del primato della religione. Lo Stato così si secolarizza, perché agisce in nome di principi politici, sia poi che conceda una limitata tolleranza religiosa, sia che organizzi o favorisca una Chiesa di Stato: esso, infatti, tende sempre a neutralizzare la carica politica della religione e, spoliticizzandola, ricondurla al privato. Lo Stato era un'unità superiore (talvolta neutrale nei confronti della religione), dove tutto veniva giudicato in base all'utilità per lo Stato stesso, in base a un freddo calcolo razionale, nel quale i valori religiosi dovevano necessariamente tacere. Mondanamente, esso si giustifica nell'ideale della pace e dell'ordine, a cui poi si aggiunge quello del benessere, versione secolarizzata del bene comune. Viene così rafforzata e portata a compimento la dualità - caratteristica della storia europea - di potere spirituale e potere temporale, ma col rafforzamento del secondo a scapito del primo.
Se lo Stato moderno è una forma storicamente determinata di organizzazione del potere, dobbiamo guardarci dal caricare quel ‛moderno', che ha un significato esclusivamente cronologico, di un valore ontologico, positivo o negativo che sia, in base a una filosofia della storia che esalti il progresso o cerchi di vedere in esso l'inizio della ‛crisi'. Si deve cogliere lo Stato moderno nelle sue caratteristiche salienti, solo per cercare di decifrare quella nuova forma di organizzazione del potere nella quale - col Novecento - stiamo entrando e per la quale chissà se i posteri useranno ancora la parola Stato.
2. Una parola, un concetto, un fatto
Il termine Stato, nel suo significato antico di imperium o moderno di dominio (Herrschaft), si fa strada solo nel Cinquecento e si afferma con estrema lentezza. Nel linguaggio politico si parlava inizialmente di status publicus o di status rei publicae, dove la parola status a volte significava la condizione della repubblica, altre la costituzione, altre la forma di governo o la species politiae (status regalis, optimatorum, popularis; stato regio, di pochi, popolare, libero). Nel linguaggio del Machiavelli, che comincia a usare, soprattutto nel Principe (1513), questo termine nel suo significato moderno, esso conserva ancora significati più antichi, quale l'estensione territoriale o la popolazione o entrambi, come oggetto del dominio; e ancora in Rousseau (Du contrat social, 1762) con Stato si indica il popolo, quando è il soggetto passivo dell'autorità sovrana. Machiavelli, che è il primo a cogliere nei suoi elementi portanti la struttura del moderno Stato francese, quando si riferisce a esso parla di regno; e nella letteratura politica si continuerà a usare per molto tempo la distinzione medievale fra regnum e civitas (quasi sempre repubblicana).
La filosofia politica e giuridica però preferì termini meno scottanti, che indicano meno la dimensione verticale del potere e del dominio sopra i popoli, l'arché, e più il vivere insieme, la koinonia politica o la communitas civilis. Per questo è dominante, sino alla Rivoluzione americana e fino a Kant, il termine di res publica, che coglie l'organizzazione politica nella sua dimensione orizzontale, dato che indica la cosa del popolo, la comunità, una vera e propria politeia - indipendentemente dalla sua forma di governo: monarchica, aristocratica o democratica - perché in essa sempre vige lo iuris consensus (Cicerone) o uno stato giuridico, cioè una costituzione (Kant). Parimenti, nel linguaggio filosofico-giuridico si preferisce parlare di societas civilis o di societas politica; e, quando si vuole indicare il momento verticale del potere, si parla di governo, di re, di assemblea, sempre intesi però come strutture al servizio della comunità, della repubblica. Anche Hobbes, pur teorico dell'assolutismo, non fa uso del termine State, preferendogli quello di Common-Wealth. Sino alla fine del Settecento non c'è un classico del pensiero politico che porti sul frontespizio il termine Stato; il quale manca - come lemma - anche nell'Encyclopédie di Diderot e d'Alembert.
Tuttavia c'è un'eccezione: a imporre l'uso della parola soprattutto nel Seicento - è il pensiero realistico, sono i teorici della ragion di Stato, che si occupano delle cose, degli affari, dei coups di Stato: qui - pensiamo ora a Giovanni Botero - lo Stato è ‟un dominio fermo sopra i popoli" (La ragione di Stato, 1589). Crudamente appare la difesa di quel nuovo soggetto o protagonista politico, che è appunto lo Stato, partendo dal dato elementare della sua vitalità, della sua sopravvivenza biologica: lo Stato deve essere in primo luogo potenza e deve badare al continuo incremento e consolidamento di questa potenza; il che s'impone non tanto nei momenti d'ordinaria amministrazione, nelle situazioni pacifiche, ma nei momenti d'emergenza o nei casi d'eccezione, nelle situazioni straordinarie, dove sono in gioco gli arcana imperii, cioè i suoi interessi più delicati e più difficili, ai quali tutto deve essere sacrificato. Si tratta di realizzare la pace interna, imponendo come indiscussa la superiorità dello Stato, perché solo così esso è forte all'esterno; ma si tratta soprattutto di aumentare la propria potenza nell'arena internazionale con le alleanze e con la guerra. Il reggitore deve fare della ragion di Stato la propria sola regola di condotta: è una regola di condotta che non si traduce in una precettistica o in una casistica, ma in una decisione che viene imposta da una necessità oggettiva, una decisione essenzialmente razionale, frutto di un attento calcolo degli interessi. La vitalità dello Stato deve essere sempre sottomessa al dominio di una ragione che cerca di controllare un mondo sempre più insicuro, più minaccioso e più precario.
Dalla dissoluzione della sintesi giuridico-politica medievale emerge autonomo, prepotente ed esclusivo, il momento del gubernaculum, della prerogativa del re di decidere autonomamente al di fuori delle norme giuridiche quando si tratti degli arcana imperii, svincolandosi dall'altro momento, quello della iurisdictio, nel quale il re era limitato dalla legge. Il termine Stato s'afferma proprio in coloro che ne colgono la vera natura, basata esclusivamente sul suo specifico interesse; il pensiero giuridico e filosofico, invece, continuava a tenere le distanze, proprio perché tendeva a limitare questo potere con una razionalizzazione giuridica, che era una ripresa dei motivi della iurisdictio.
Solo con l'Ottocento, tramite la cultura tedesca, la parola Stato acquista la sua centralità: basti pensare che le Grundlinien der Philosophie des Rechts (1821) dello Hegel portano nel sottotitolo Scienza dello Stato (Staatswissenschaft); e il suo Stato esprime una razionalità sostanziale e non meramente formale. Così lo Stato diventa il punto di riferimento comune per discipline che si stanno sempre più differenziando. Con Hegel, nelle sue Vorlesungen über die Philosophie der Geschichte, con L. von Ranke, dallo scritto su Die grossen Mächte (1833) alla Weltgeschichte (1881-1885), e con J. Burckhardt, nelle sue Weltgeschichtliche Betrachtungen (1905), protagonista della storia universale è solo lo Stato; alla Staatsgeschichte si accompagna certo la Kulturgeschichte, ma per tutto l'Ottocento c'è un nesso stretto fra ricerca storica e Stato, già posto agli inizi della moderna storiografia. I giuristi - da C. F. von Gerber a P. Laband, a G. Jellinek - mentre sono intenti a costruire il dogma della personalità giuridica dello Stato, delimitano un nuovo campo del sapere, l'Allgemeine Staatslehre - la nostra ‛dottrina dello Stato' - che è stata consacrata come disciplina accademica in tutta Europa, tranne che nell'area angloamericana, dove si preferisce parlare di government. Questa è restia a usare il termine Stato e, se lo usa come H. Spencer in The man versus the State (1884), lo fa in chiave negativa: questo significa che, al fondo, abbiamo diverse strutture così di potere come di valori politici, che privilegiano, da un lato, il pluralismo sociale, e dall'altro, l'unità statale, coscienza di quell'identità collettiva che è il popolo o la nazione.
Ma, col Novecento, anche in Europa il termine Stato comincia a perdere il proprio valore scientifico e la propria centralità per i giuristi, gli storici e i politologi. Per la teoria pura del diritto di H. Kelsen lo Stato è un concetto metafisico, se non si risolve e si dissolve nello stesso ordinamento giuridico; per lo storicismo crociano non esiste uno Stato come entità, che abbia una propria vita al di sopra degli individui, perché esso è un complesso e un processo di azioni di individui e di gruppi di individui; per la sociologia politica di A. F. Bentley lo Stato non ha una unità sostanziale, perché dietro al governo c'è la realtà di una molteplicità di gruppi diretti a influenzare il processo decisionale. Pure Max Weber preferisce il termine dominio (Herrschaft) a quello di Stato, inficiato di sostanzialismo. Solo C. Schmitt ha una motivazione diversa per rinunciare (a malincuore) al concetto di Stato: esso, nel Novecento, è venuto perdendo il monopolio del politico.
Se, con l'inizio del Novecento, si è cercato di dissolvere il concetto metafisico di Stato, si deve anche riconoscere come, in questi ultimi anni, ci sia un rinnovato interesse per il fenomeno della statualità, per questa particolare forma di organizzazione del potere, così peculiare all'Europa. Due sono i punti di riferimento: da un lato la storiografia tedesca, con O. Hintze, O. Brunner e R. Koselleck, la quale segue un'ottica che è insieme sociale, istituzionale e culturale; dall'altro la scienza politica, con B. Moore, R. Bendix e S. Rokkan, attenta ai problemi dello sviluppo politico. Oggi sono queste due tendenze, assieme al neomarxismo e alla Scuola di Francoforte, a dominare il campo, un tempo monopolio dei giuristi: questi ultimi, nel costruire una teoria tutta giuridica dello Stato, da un lato davano per scontata la completa e totale sussunzione del politico nello Stato e, dall'altro, trascuravano il momento della decisione politica. Con la statica e giuridica dottrina dello Stato, lo Stato del Novecento resta incomprensibile: solo su una lunga durata e con l'integrazione di diverse discipline possiamo cercare di decifrare i fenomeni profondi di trasformazione che sono in atto nella seconda metà del Novecento.
Se il termine Stato tarda ad affermarsi, il concetto che lo sostanzia è chiaramente delineato, alla fine del Cinquecento, da J. Bodin nei Six livres de la République (1576): col termine sovranità egli vuole indicare il potere di comando in ultima istanza in una ‟repubblica" e, conseguentemente, differenziare la società politica dalle altre associazioni umane, nelle quali non c'è un tale potere supremo, esclusivo e non derivato. Il termine ‛sovrano' non è nuovo, perché nel Medioevo contrassegnava il potere del re (Le rois est souverains par dessus tous), ma anche qualsiasi posizione di preminenza nel sistema gerarchico della società feudale, per cui anche i baroni erano sovrani nelle loro baronie. Ma ora la sovranità spetta a una sola istanza (il re o, caso assai più raro, un'assemblea); si spezza quindi quella serie infinita di mediazioni, in cui si articolava nel Medioevo il potere, per lasciare uno spazio vuoto fra il ‛sovrano', che poi è quasi sempre il re, che aspira al monopolio del politico, e un individuo sempre più solo e disarmato, ridotto alla mera sfera privata.
Nell'antichità e nel Medioevo per indicare la sede ultima del potere si usavano svariati termini, come summa potestas, summum imperium, maiestas, plenitudo potestatis, superiorem non recognoscens, ma ora mutano radicalmente gli iura imperii et dominationis. Bodin, nella Methodus ad facilem historiarum cognitionem ancora aderiva alla concezione tradizionale: il compito principale del re, in quanto vicario di Dio nel mondo, era quello di dire la giustizia in accordo con le leggi del paese: egli era così sub Deo e sub lege. Les six livres de la République, scritti dopo la notte di San Bartolomeo, capovolgono radicalmente l'antica teoria: sovrano è colui che fa e abroga la legge, cosicché non è limitato dalla legge, anche perché il comando del sovrano è superiore alle altre fonti - il diritto consuetudinario, il diritto romano come ratio scripta - le quali si fondavano su un tacito consenso, dovuto a un uso immemoriale o all'opinio iuris diffusa nella società. Il diritto, lo ius, non riposa più nell'iustum, ma nello iussum. Il nuovo potere legislativo ingloba e riassume tutti gli altri, come dichiarare la guerra o trattare la pace, nominare gli ufficiali, giudicare in ultima istanza e concedere la grazia, fissare pesi e misure, imporre gravami e imposte.
Bodin lucidamente distingue fra consuetudine e legge, e chiaramente individua la funzione della seconda, cioè del comando del sovrano. ‟Il principe sovrano è signore della legge, i privati sono signori delle consuetudini [...]. La consuetudine acquista forza gradatamente e nello spazio di molti anni, per consentimento comune, di tutti o dei più, mentre la legge esce d'un colpo e riceve la sua validità da colui che ha il potere di comandare a tutti. La consuetudine s'insinua dolcemente e senza forza, la legge è comandata e promulgata per atto di potere e spesso contro la volontà dei sudditi" (I, 10). Pur non negando l'affinità fra la consuetudine e il re, e la legge e il tiranno, egli afferma la superiorità della seconda, mentre la prima può sussistere solo per semplice tolleranza. Il primato della legge è dovuto al fatto che è essa a dare unità e coesione al corpo politico, perché per suo mezzo si possono imporre ai sudditi determinati comportamenti; ma questa coesione e questa unità sono di fatto esterne ed esteriori alla società: si trovano solo nel comando del sovrano che, per le grandi masse della popolazione, è ancora il luogotenente di Dio in terra.
Il concetto di sovranità è un potentissimo strumento teorico per l'affermazione dello Stato moderno: è l'arma più raffinata per vincere tutte le possibili resistenze dal basso, ma sancisce anche la separazione dello Stato dalla società, non più padrona del suo ius. Conseguentemente e coerentemente vengono poste le basi per una distinzione fra diritto pubblico e diritto privato. Il primo si riferisce allo status rei publicae e ha come fine l'interesse pubblico: questo apre la strada alla spersonalizzazione del potere, per cui sovrano è lo Stato e non il re, che non ha la libera disposizione del proprio regno, perché non è un suo possesso o dominio privato. Ma, per Bodin, esiste anche un diritto privato autonomo dal diritto pubblico, basato sulla santità della proprietà privata, che il re non può togliere al suddito, se non con una rapina armata: il dominio della potestas s'arresta di fronte alla proprietas.
La teoria della sovranità muta col tempo il suo baricentro: non è più il potere legittimo di fare le leggi, ma il potere reale coattivo di farsi obbedire, attraverso il monopolio della forza o della coercizione fisica; sovrano è il potere di fatto, e la sua legittimità dipende solo dalla sua effettività, perché oboedientia facit imperantem. La parola Stato e il concetto di sovranità devono darsi una sostanza operativa, devono diventare un fatto: quel vuoto di potere fra il sovrano e il suddito deve essere riempito, quell'esigenza di governare la società dall'esterno, attraverso uno strumento meramente esecutivo e quindi non politico, deve essere soddisfatta. Nasce così, con diverse tappe, la ‛polizia', la moderna ‛pubblica amministrazione' con gli ufficiali, i commissari, gli intendenti. Alla vecchia mentalità, ancora feudale, per cui l'ufficiale si sente legato personalmente al re e vede nel proprio ufficio - da lui concesso - un ‛beneficio' o un ‛patrimonio', dal quale ricava una rendita tramite diritti casuali, se ne contrappone ben presto una nuova, quella del moderno burocrate o del funzionario, che occupa l'ufficio solo per le proprie capacità professionali e in cambio ottiene uno stipendio: egli si sente al servizio dello Stato, ma in un rapporto impersonale, che non coinvolge la sua vita privata; così crede nella gerarchia e punta sulla carriera basata sulla professionalità.
È la pressione dell'ambiente internazionale, insieme con i problemi interni, a rafforzare queste strutture burocratiche. Nasce il servizio diplomatico, con un corpo permanente e specializzato di funzionari, il quale agisce secondo regole ben precise e nell'ambito di uno ius publicum europaeum, che comincia a essere elaborato sistematicamente: la politica estera consiste nel negoziare senza posa, continuamente. D'altro lato si trasforma la tecnica militare: appaiono grandi eserciti statali permanenti, dipendenti dal re, che richiedono alle proprie spalle, per la propria esistenza e sussistenza, una solida struttura burocratica. Al raggiungimento di tutti questi fini il re non può far fronte col suo patrimonio personale o con quello della corona; è così costretto a estrarre sempre maggiori risorse dalla società. La necessità costante sarà quella di razionalizzare l'amministrazione attraverso dei tecnici; e l'amministrazione delle finanze è quella che subisce le più profonde trasformazioni e diventa centrale nel nuovo sistema di governo. Questo comporta l'affermarsi di una mentalità razionalistica, che cerca i mezzi tecnici adeguati al raggiungimento di fini politici dati, massimizzando i propri risultati, secondo la logica dell'efficienza e non quella dei valori: lo Stato diventa una vera impresa ed è gestito come un'impresa, con la partita doppia e con bilanci preventivi e consuntivi.
Lo Stato, così, ci appare come una gerarchia di ufficiali o di funzionari in continuo aumento, come la moltiplicazione di nuovi apparati centralizzati, basati sulla divisione del lavoro, che rendono reale e operativo il potere sovrano del re: una macchina razionale ed efficiente, che amministra una società sempre più neutralizzata e spoliticizzata, la quale trova così un suo ordine esterno, che ha il suo simbolo nel re e il suo agente nell'amministrazione. Ma è un'amministrazione che, sin dall'inizio, spesso mostra di essere capace di difendere anche i propri interessi di ceto, pur ponendosi al servizio dello Stato.
3. Stato e diritto
‟La sovranità è la forma che dà l'esistenza allo Stato [...] perché la sovranità è il culmine di potenza a cui è necessario che esso pervenga": così Ch. Loyseau (Traicté des Seigneuries, 24) interpretava il pensiero dei legisti favorevoli all'assolutismo. Ma erano pur sempre legisti, uomini di legge, per i quali l'assolutismo si differenziava nettamente dal dispotismo: questo era contrassegnato dalla volontà arbitraria del re, che agiva spinto da momentanei capricci, mentre il primo doveva emettere solo comandi giusti o comandi che si giustificavano secondo una razionalità tecnica o secondo l'adeguatezza allo scopo: salvare il regno e mantenere la pace. Per questo l'esercizio della sovranità veniva limitato dal diritto naturale e dalle leggi fondamentali e, insieme, frenato dalla rete degli uffici, delle corti e dei consigli, i quali mettono il re nella condizione di una ‛felice impotenza' di fare il male.
L'eredità medievale della supremazia della legge, della iurisdictio, era ancora assai forte, e i costruttori dello Stato moderno erano soprattutto uomini di legge, che lo costruivano appunto per mezzo del diritto. Questo sforzo era favorito dal clima culturale del Sei-Settecento: contro la ragion di Stato, che coglie la forza verde e nuda di questo nuovo protagonista politico, filosofi e giuristi si muovono nell'ambito del diritto naturale e del contrattualismo. Sono concezioni antiche, che però anche questa volta, grazie a processi di intensificazione e di trasformazione, diventano le nuove sintassi del ragionare sulla convivenza: la ragione sostituisce insieme la tradizione e la religione. Il diritto naturale appare sempre più come un diritto razionale, un diritto scoperto dalla ragione, interamente secolarizzato, in antitesi a quella secolarizzazione politica che aveva le sue fonti nel volontarismo o nel decisionismo di Occam e di Lutero: il diritto naturale è sempre posto come fondamento del diritto positivo. Il contrattualismo, dal canto suo, serve a dare un fondamento razionale al potere, a trovargli una nuova legittimità, oltre quella tradizionale e sacrale del passato: questa razionalità può limitarsi alla garanzia della pace sociale (Hobbes), può esprimersi nel consenso alle leggi tramite una rappresentanza (Locke), ma è sempre la ragione a fondare l'obbligazione politica. Questo processo di razionalizzazione ha un suo sbocco politico alla fine del Settecento e agli inizi dell'Ottocento: la codificazione tanto del diritto privato quanto del diritto pubblico, con cui inizia l'eclissi sia del giusnaturalismo che del contrattualismo.
La codificazione del diritto privato è un processo che interessa il continente e non l'Inghilterra, che l'aveva respinta sin dal Cinquecento. Noto è il Codice napoleonico del 1804, ma esso era stato preceduto dal Codice prussiano del 1794 e da quello austriaco del 1797. Protagonisti di questo processo nel Settecento furono Federico II, Maria Teresa e il cancelliere di Francia H. F. Daguesseau questi nomi mostrano come il processo di codificazione sia stimolato proprio dai governi assoluti (o dal dispotismo illuminato), per i quali l'unità politica dello Stato doveva compiersi nella sua unità giuridica, cioè nell'unificazione legislativa. In precedenza esisteva una situazione di particolansmo giuridico, nella quale coesistevano il diritto comune e il diritto consuetudinario, il diritto romano e il diritto germanico era un complesso di norme senza unità e senza coerenza, e quindi un diritto incerto e insicuro. Codificazione voleva dire una razionalizzazione del diritto intesa a ottenere un sistema di norme fra loro coerenti, ancorate a principi generali e basate su concetti razionali, che si riferivano all'azione dell'uomo con comandi e con divieti, dai quali far discendere determinate conseguenze giuridiche. Ne consegue che, in questo sistema di norme, chiuso e senza lacune, obiettivo e razionale, lo scienziato, il giudice, l'amministratore potevano operare solo attraverso la logica; la loro era quindi un'attività tecnica e non politica, cioè neutrale, perché solo conoscitiva. Tutto è finalizzato sempre all'individuo, che aspira alla certezza e alla stabilità dell'ordinamento giuridico, basato su norme astratte, generali e impersonali, come anche alla neutralità nella sua applicazione.
Pure alla fine del Settecento si ha la codificazione del diritto pubblico, prima con la Rivoluzione americana e poi con la Rivoluzione francese: è la rivoluzione democratica, questa volta, a essere la protagonista, ed essa vuole rendere certe e chiare le antiche e immemoriali leggi fondamentali. Il fine del costituzionalismo è di garantire i diritti (inizialmente intesi come ‛naturali') dell'uomo e del cittadino, i suoi diritti Politici e civili, per eliminare ogni possibilità d'arbitrio da parte del governo: lo Stato, così, è visto in funzione del cittadino. Le forme del costituzionalismo sono diverse, come diversi sono i nomi che nei diversi paesi esso assume: si parlerà di rule of law, di garantisme, di Rechtsstaat. Delle due forme principali, l'una si basa sulla divisione fra i poteri legislativo, esecutivo e giudiziario, per combattere appunto quella concentrazione del potere che caratterizza l'assolutismo e per assicurare la neutralità del giudice e dell'amministrazione, che con sentenze e decreti si limitano ad applicare le leggi votate dall'assemblea rappresentativa: tutto il funzionamento dello Stato è così sottoposto a ben precise procedure Politiche e giuridiche. L'altra la più antica e insieme la più moderna - è quella di porre con la Costituzione (e con una Corte costituzionale) dei limiti allo Stato, e più precisamente alla sua onnipotenza legislativa, per realizzare ‟il governo delle leggi e non degli uomini": si consegue in tal modo una limitazione piuttosto che una divisione del potere.
Nei suoi risultati ultimi questo parallelo e convergente processo di codificazione del diritto privato e del diritto pubblico porta, oltre che a rafforzare l'individualismo, cioè a vedere lo Stato in funzione dell'individuo, a fondare la legalità e la legittimità dello Stato: legale, perché le sue decisioni devono seguire determinate procedure giuridiche e ubbidire a leggi fisse e stabilite; legittimo, perché il suo potere si fonda sul consenso dei cittadini, sulla volontà del popolo. Lo Stato non è mera forza, perché è un potere legale e legittimo.
Se, all'inizio del Seicento, il legista Cardin Le Bret parla solo e soltanto della sovranità del re, perché il supremo potere di decisione può essere deferito soltanto a uno solo, con l'Ottocento, attraverso la lenta costruzione giuridica dello Stato, la sovranità appartiene solo allo Stato, a questa realtà impersonale che sintetizza e supera sia il re sia il popolo, e che a entrambi assegna particolari e distinti compiti: tutti, in modi diversi, sono servitori dello Stato ma questo nasconde, senza risolverlo, il dualismo originarig fra re e popolo, fra Stato-apparato e società. Lo Stato appare sempre più uno Stato di diritto, perché persegue i suoi fini nelle forme e nei limiti del diritto: esso produce e applica norme giuridiche. Lo Stato di diritto sembra avere eclissato o neutralizzato nella politica quotidiana il momento squisitamente Politico del dichiarare lo stato d'eccezione, che sospende l'ordinamento giuridico, quel momento politico che un tempo si contrassegnava col termine di prerogativa reale o, in tempi ancora più antichi, con quello di gubernaculum (una sfera di potere del re in cui egli era insindacabile), ma che nei tempi moderni si chiamerà anche rivoluzione. Il potere dello Stato di diritto risulta dunque ‛impersonale'; sennonché questo Stato è tanto giuridico, tanto risolto nell'ordinamento, che quasi scompare e, con esso, la realtà del potere. Per tre secoli i legisti hanno costruito giundicamente lo Stato al fine, se non di eliminare il potere, almeno di Sottoporlo alla razionalità, all'impersonalità e all'oggettività della legge: la teoria sembrava così concludersi con la fine dello Stato, perché la formalizzazione giuridica aveva eliminato ogni elemento di realismo.
In realtà, alle origini, si parlava di un ‛Potere sovrano', creatore dell'ordinamento giuridico; ma, con la progressiva razionalizzazione giuridica dello Stato, il vero potere sovrano tende a eclissarsi e ci troviamo di fatto di fronte a tanti poteri costituiti, che agiscono solo nell'ambito dell'ordinamento, con la scomparsa dell'antica sovranità. La costruzione dello Stato di diritto sembra aver risposto al desiderio di cancellare o di esorcizzare il proprio peccato originale. Ma la sovranità come potere di fatto di decidere lo stato di eccezione, come potere ultimo di decisione, non è scomparsa e riappare in tutta la sua forza nei momenti eccezionali: essa è fuori e non dentro l'ordinamento, perché la vera sovranità è un potere costituente, un potere ultimo supremo originario, che fonda la sua legittimità solo nella sua effettività. È col Novecento, con l'apparire di forti conflitti sociali o con l'affermarsi di rivoluzioni Politiche, che il potere sovrano riappare in tutta la sua forza, e le costruzioni giuridiche si dimostrano solo fragili costruzioni di pensiero.
Lo Stato di diritto comincia a entrare in crisi con il tendenziale affiorare dello Stato sociale o Stato di giustizia il primo si limita a essere una regola del gioco, una procedura; il secondo si propone un fine, la giustizia. Lo Stato di diritto è uno Stato limitato e garantista, per la difesa dei diritti dei cittadini: pertanto si fonda sia sulla separazione dei poteri legislativo, giudiziario e amministrativo (gli ultimi due autonomi, ma subordinati alla legge), sia sulla coscienza che solo il diritto può dare alla società stabilità e ordine, con le sue norme chiare e certe, generali e astratte (e quindi impersonali), un diritto sempre subordinato a quella legge fondamentale che è espressa dalla costituzione. È un diritto concepito per una lunga durata, appunto perché deve garanti re ai singoli la prevedibilità delle conseguenze delle proprie azioni. Lo Stato sociale, invece, vuole attuare principi etici che sono vaghi e soggettivi, indeterminati e imprecisati, spesso oltre i limiti della legalità e della costituzionalità, perché valorizza non la norma, ma la partecipazione, non il diritto Positivo, ma la giustizia. Il diritto, così, si trasforma da garanzia per il cittadino, perché stabilisce procedure e limiti al Potere, in uno strumento con cui esercitare meglio il potere: si governa, infatti, legiferando.
Infatti, quando l'esigenza di realizzare lo Stato sociale si sconnette dal quadro di riferimento superiore, che è lo Stato costituzionale di diritto, si verifica tutta una serie di fenomeni: lo Stato sociale programmatore tende ad affermare il primato del politico - e quindi la sua autonomia dalla costituzione - per realizzare finalità spesso contingenti e produce un'inflazione legislativa che, in quanto politica, è oscura, nella quale sono inosservati i grandi principi giuridici e si fissa più l'eccezione che la regola, attuando cosi, con una lex in fraudem legis, sia una forma di discriminazione fra i cittadini, sia una subdola espropriazione della proprietà dei singoli. Abbiamo, di conseguenza, una crisi dell'unità dell'ordinamento giuridico, con una legislazione contingente, non più riconducibile nel sistema, il quale aveva nei suoi principi giuridici, nei suoi istituti, nei suoi concetti basilari un'intrinseca razionalità. Viene meno anche la separazione dei poteri, perché - quasi attuassimo le indicazioni della scuola del diritto libero - nell'applicazione della legge prevale spesso il valore della giustizia su quello della certezza. Lo Stato contemporaneo è sempre più uno Stato amministrativo, ma con una nuova mentalità: non si tratta più di applicare la legge, educati alla logica del diritto, ma di agire e di dirigere con le opportune tecniche operative, per cui la giustizia nell'amministrazione è sovente violata da norme derogatorie dal diritto privato e dal diritto costituzionale. Pure la legge perde la sua sovranità: lo Stato, infatti, silenziosamente accetta che vi siano forze al suo interno, come i sindacati, che hanno il diritto di violare la legge comune. Ormai tutto rischia di essere politicizzato: nel primato del politico si eclissa un potere sovrano neutro, capace di far rispettare l'antica massima audiatur et altera pars.
4. Individuo, società civile, Stato
Nei grandi trattati di diritto pubblico della fine del Cinquecento o dell'inizio del Seicento la famiglia rappresentava una parte fondamentale, un pilastro dello Stato: basti ricordare la République di Bodin o la Politica methodice digesta (1603) di J. Althusius. Per il primo, il governo si esercita su diverse famiglie (I, 1); per il secondo, la famiglia, pur essendo un' associazione privata - insieme naturale e volontaria - appartiene anche alla politica, cioè alla sfera pubblica, e non all'economia, cioè alla mera sfera privata (par. 14, 42). C'è un'analogia fra governo domestico e governo politico, perché entrambi (famiglia e Stato) devono essere ben governati, anche se la natura dell'autorità domestica è diversa da quella del governo sovrano, che tiene unite tutte le famiglie. Il potere del capofamiglia è un potere privato sulla moglie, sui figli - con nuore, generi e nipoti -, sui servi e sugli schiavi, in base all'autorità maritale, paterna, signorile. Tutti costoro sono sudditi del capofamiglia e non del potere sovrano: tanto è vero che è opportuna l'esistenza di un diritto di famiglia sottratto al sovrano, e che è necessario garantire ai genitori il diritto di vita e di morte nella famiglia.
Questa importanza data alla famiglia, alla grande famiglia patriarcale, come elemento dello Stato non deve stupire: essa è alla base di una società nobiliare e contadina. La costituzione sociale dell'Europa sino alla fine del Settecento, cioè sino a quando il nostro continente non perde le sue caratteristiche di paese essenzialmente agricolo, era tutta incentrata sulla famiglia, cioè sulla casa, centro non solo della riproduzione biologica, ma della produzione economica per il sostentamento e l'autarchia della famiglia stessa. L'economia è ancora l'economia domestica, che ha il suo centro nella casa, e il commercio resta un elemento marginale. La casa ha una sua autonomia dallo Stato: in essa regna una pace, la pace di casa, realizzata dal padre di famiglia, che solo possiede diritti politici. Alle soglie della casa si fermò il potere dello Stato assoluto che, solo alla fine del Settecento, cominciò a limitare il potere patriarcale, maritale e signorile del padrone di casa.
Nella letteratura successiva (politica, giuridica, filosofica) la famiglia comincia a privatizzarsi e cessa di essere un elemento fondamentale dello Stato. Certo: la struttura della famiglia resta inalterata, con il dominio del padre, anche se questo potere viene sempre più laicizzandosi, perdendo i propri fondamenti religiosi, e sempre più temperandosi, nel senso che viene sempre più ristretta la sua natura arbitraria; ma la famiglia scompare dal diritto pubblico ed entra nella sfera privata. Per Hobbes e per Pufendorf la famiglia è una realtà naturale pre-statuale e il contratto che istituisce la società politica è stipulato appunto dai padri di famiglia; ma già con Locke protagonisti del contratto sono solo gli individui, e la famiglia non entra nella sua costruzione politica, giusta la radicale distinzione fra potere politico e potere paterno. Parimenti, la logica interna al giusnaturalismo, che prende in considerazione le azioni esterne dell'uomo nella sua individualità, approda ai suoi diritti naturali non solo con Locke, ma anche con Wolff, che parla di diritti soggettivi innati (iura connata). Proprio con l'ingresso della famiglia nella sfera del privato si pongono i presupposti per una funzione emancipatoria - ad opera dello Stato - degli individui: che si tratti dei figli maggiorenni, dei servi, ora situati giuridicamente fuori della casa, o della donna che ottiene la disponibilità sui propri beni. Questa emancipazione giuridica dell'individuo, che diventava un autonomo soggetto di diritto, era nella logica dello Stato assoluto; ma, perché diventasse anche un'emancipazione politica, nella quale tutti gli individui avessero eguali diritti politici, bisognava aspettare la rivoluzione democratica. Era, comunque, lo Stato moderno a contenere in sé i germi dell'individualismo.
Chi sembra riprendere motivi antichi fu lo Hegel, con le sue Grundlinien der Philosophie des Rechts (1821). Per lui la famiglia torna a essere una pietra fondamentale, un momento necessario nella costruzione dello Stato. La famiglia, ormai considerata - anche da Kant - un semplice contratto, perde questo suo connotato: la famiglia rappresenta l'eticità immediata, basata sull'amore, o il momento dell'altruismo particolare, e costituisce un potere etico autonomo contrapposto e che insieme prepara lo Stato, che sulla famiglia si fonda. L'eticità della famiglia prepara, infatti, l'eticità dello Stato, nella quale si raggiunge la libertà universale e oggettiva. Ma la famiglia dello Hegel non è più l'antica famiglia patriarcale: infatti, fondata esclusivamente sul concetto romantico di amore, diventa una realtà meramente spirituale e cessa di essere quella realtà economica della casa che, nella sua totalità, abbracciava, univa e integrava tutte le attività di coloro che in essa abitavano, attività che non erano soltanto economiche nel senso moderno della parola. Proprio per questo, fra la famiglia spiritualizzata e lo Stato etico, lo Hegel pone un termine intermedio: la società civile, che appare subito come un momento inferiore, di caduta o di dispersione, perché è il mero sistema dei bisogni e del loro appagamento attraverso l'istituto privatistico del contratto. In altri termini, la società civile è la sfera economica dell'egoismo universale, nella quale gli individui si trattano reciprocamente come mezzi e sono uniti solo dai bisogni e da quella divisione del lavoro che genera interdipendenza fra di loro, in una universalità meramente formale, dominata dalla produzione-scambio-consumo. Essa è tenuta insieme dall'amministrazione della giustizia e dalla polizia o amministrazione. Insomma: la società civile è la moderna economia di mercato.
Il concetto nuovo di società civile pone un terzo termine fra sfera pubblica e sfera privata, sulla cui distinzione era cresciuto lo Stato moderno: la sfera sociale. Ma, per intendere genuinamente questa, che in realtà è la sfera dei bisogni non solo materiali dell'individuo, bisogna ripercorrere la storia dell'affermazione dell'individualismo, che avrà il suo culmine nell'età della rivoluzione democratica con le Dichiarazioni dei diritti dell'uomo e del cittadino.
L'individualismo fu un prodotto o una conseguenza dell'assolutismo, proprio per la perdita di peso politico delle strutture sociali su cui si reggeva la vita comunitaria: la famiglia e le corporazioni, le città con le loro autonomie e le signorie nobiliari e, con esse, la religione, sempre più subordinata al politico. È una conseguenza delle guerre di religione che si avverte chiaramente nella Francia della prima metà del Seicento e che avrà la sua compiuta teorizzazione in Hobbes, rifugiatosi, all'avvicinarsi delle guerre civili, proprio in Francia, dove pubblicò il De cive (1647) e stese il Leviathan (1651).
Il clima culturale francese - dominato da un Montaigne, che aveva consumato sino in fondo la delusione politica di un Moro e di un Erasmo - mostra, nonostante la divisione fra libertini e giansenisti, un comune orientamento di scetticismo e di relativismo nei confronti dei valori politici. Cessa, così, l'impegno civile, ci si estranea dalla politica; e l'etica viene ricercata e fondata nel proprio foro interiore, nella propria soggettività, e quindi in una sfera del tutto privata: essa non vuole avere contatti non solo con il politico, ma neanche con la società, depositaria delle tradizioni e dei conformismi, sede di masse passive e inerti, ma sempre capaci di scatenarsi in modo irrazionale sotto la spinta delle passioni. L'uomo ricerca solo in sé le proprie certezze - come fa Cartesio, che parte dal famoso cogito, ergo sum - auspicando dallo Stato solo atteggiamenti di tolleranza e di neutralità nei confronti della sua sfera privata. Questa sfera riguarda la cultura e la religione, perché, a muoversi in questa direzione, è solo un movimento intellettuale fortemente elitario. Questo soggettivismo relativistico conosce per diretta esperienza tutti i pericoli cui andrebbe incontro se si trasformasse in sociale e in politico: per questo, terrorizzato di fronte al caos della politica, accetta l'ordine dello Stato, ritenendo però che i veri valori si diano solo nella sfera privata. Nasce la scissione fra sfera interiore e sfera esteriore; e di qui la necessità, talvolta, della dissimulatio, per cui al sovrano si deve solo un'obbedienza esteriore: l'uomo vive la sua solitudine mondana.
La politica, cioè lo Stato, è il regno del non valore: chi ha meglio espresso questa posizione è stato Blaise Pascal: ‟La giustizia è soggetta a contestazione; la forza si fa riconoscere di primo acchito, e senza dispute. Perciò non si è potuto dare la forza alla giustizia, giacché la forza si è levata contro la giustizia, affermando che solo essa era giusta. E così, non essendosi potuto fare in modo che quel che è giusto fosse forte, si è fatto in modo che quel che è forte fosse giusto" (Pensées, par. 298). È la logica dei ‟quattro lacché": nell'impossibilità di trovare un criterio ideale di ordine e di giustizia, bisogna accontentarsi della certezza della forza, sola capace a garantire l'ordine e la pace. e un accettazione utilitaristica dell'assolutismo, dello Stato ridotto a mera forza. Il potere appare però ormai del tutto sconsacrato, l'ordine spoglio di valori e di ideologie, del tutto esterno alla morale degli individui. Di fronte al re o al tiranno (ma anche al popolo) bisogna sempre avere une pensée de derriere la téte, pur prestandogli un'obbedienza esteriore, perché l'individuo deve elevarsi a ordini superiori a quello della carne: l'ordine delle scienze (les recherches de l'esprit) e infine quello della sagesse, che è solo in Dio. Il primo ordine non può nulla sugli altri due.
Hobbes, ma con un interesse più marcatamente politico, continua e perfeziona questa tendenza: sono gli individui, in base al calcolo utilitario della loro ragione, a creare lo Stato, uno Stato che ha un solo fine, quello di garantire la pace. Ma la pace non consiste nel semplice vivere, consiste piuttosto nel vivere ‟in modo piacevole". Ciò è possibile attraverso il lavoro e il risparmio, che consentono l'arricchimento individuale, e quindi attraverso i commerci e le industrie: lo Stato dovrà perciò rispettare le regole del mercato interno, salvo non minaccino la sua esistenza. Per questo lo Stato deve agire razionalmente in vista del suo scopo, eliminando dalla sua condotta ogni elemento passionale o religioso, in quanto fonte di disordine. Ma lo Stato, per garantire la pace, è anche detentore del giudizio sovrano sul bene e sul male; e la sua interpretazione è indiscutibile. Lo Stato è così una macchina, uno strumento artificiale per la pace, e la politica, che perde ogni riferimento a un valore, diventa una pura tecnica. Lo Stato di Hobbes chiede al suddito solo un'obbedienza esteriore, ma rispetta il suo foro interiore: gli lascia le sue soggettive opinioni, purché non diventino politicamente rilevanti.
Lo Stato organico, proprio della tradizione medievale, scompare: fra lo Stato macchina, paragonato a un edificio costruito da un architetto, e l'individuo c'è - o ci deve essere - il vuoto. Hobbes, certo, ammette società intermedie (i systems) politiche e private, ma sono create o concesse dal potere sovrano. Per lui, infatti, causa di ‟infermità di uno Stato è la smodata grandezza di una città [...] come anche il grande numero di corporazioni, che sono come tanti Stati minori nelle budella di uno maggiore, simili a vermi negli intestini di un uomo naturale" (Leviathan, II, 29). Hobbes non è soltanto ostile alle città, con le loro autonomie, alle università, dove si può discutere pubblicamente di tutto, alle sette religiose, che liberamente interpretano la verità, ai partiti, che propongono la loro particolare concezione del bene comune, ma anche - e soprattutto - alle crescenti e più forti corporazioni proprietarie; così, per lui, la proprietà non e un diritto originario, ma una semplice concessione dello Stato, sempre revocabile, perché la grande proprietà con il potere che ne consegue - può essere un elemento della sua disgregazione.
Nella radicale antitesi, propria dell'assolutismo, fra individuo e Stato, fra privato e pubblico, non c'era spazio per una dispiegata società civile veramente autonoma, per l'incontrarsi e l'associarsi degli uomini per fini non immediatamente politici, perché il giudizio sulla loro politicità spettava insindacabile allo Stato. Eppure in Francia, proprio dal disimpegno politico degli intellettuali erano nati circoli, ritrovi culturali e cenacoli scientifici, erano nate nuove strutture sociali basate sull'associazione.
Il primo a valorizzare questa nuova realtà non politica o pre-politica fra individuo e governo è stato Locke, ma essa era anche implicita nei contrattualisti che distinguevano il pactum unionis, che dà origine alla società, dal pactum subiectionis, che instaura il governo: la societas civilis, che un tempo equivaleva a res publica, appare ora come una nuova realtà, perché è una societas sine imperio. Sul finire del Seicento Locke ha dietro le spalle il fiorire di libere e volontarie associazioni, che - tramite il duttile strumento giuridico del covenant, dell'incorporation e del trust - agivano nel campo sociale: erano chiese e società per azioni, club e accademie scientifiche. Oltre a esse ci sono le famiglie, nate dal contratto, poi le comunità e le città incorporate sottomesse al commonwealth: sono queste libere associazioni, queste società ‟libere e volontarie" a costituire il tessuto della società civile, col diritto di emanare norme e leggi, anche se sottoposte al governo politico. I pilastri portanti della società civile sono due: il mercato e l'opinione pubblica, il potere economico e il potere filosofico, che così vengono chiaramente distinti dal potere politico; ciascuno ha i propri specifici organi di sanzione nel mercato e nell'opinione pubblica, mentre il governo ha in mano solo la coercibilità della legge. La rottura con Hobbes è completa, perché, per lui, le opinioni, se non restano private, e la proprietà assoluta del cittadino sui suoi beni, tale da escludere ogni diritto del sovrano, sono due cause che indeboliscono e dissolvono lo Stato.
Locke ci parla, nell'Essay concerning human understanding (1690), di una ‟legge dell'opinione o reputazione", che è una vera e propria ‟legge filosofica": essa è una norma riferita alle azioni, per giudicare se siano virtuose o viziose. Gli uomini, nel formare la società politica, hanno rinunciato, a favore del potere politico, a usare la forza contro un proprio simile, ma hanno conservato intatto il potere di giudicare in sede morale le sue azioni. È un giudizio espresso per ‟consenso di privati", che ha la sua sanzione in una censura privata. È un giudizio sostanzialmente morale, che inizialmente si pronuncia contro privati ma, proprio con l'estendersi del numero dei club e dei circoli e con l'affermarsi della stampa, può investire anche l'azione del governo: l'opinione pubblica diventa tale non solo nel momento della sua formazione (i privati che parlano in pubblico), ma anche nel suo oggetto (la cosa pubblica). L'opinione pubblica diventa il fondamento di legittimità di un governo libero, e in essa si deve legittimare il potere delle assemblee rappresentative, secondo il costituzionalismo liberale di B. Constant.
Mentre nella libera Inghilterra, secondo E. Burke, l'opinione pubblica si formava nei negozi e nelle manifatture, perché ogni uomo aveva interesse a tutte le questioni pubbliche e anche il diritto a manifestare un'opinione su di esse, nel continente, in cui esistevano regimi più o meno assolutistici che impedivano ai privati di pronunciare giudizi sul pubblico, l'opinione pubblica si presenta con caratteristiche strutturali assai diverse: non è la gente comune, il pubblico raziocinante, a formare l'opinione pubblica, ma i sapienti della res publica luterana, che si presentano così come gli interpreti della ragione e non dell'opinione. Solo gli intellettuali costituiscono ‟il pubblico che giudica, cioè che pensa", cui spetta da un lato il dovere di illuminare il governo sui suoi doveri e, dall'altro, di spandere lumi su tutte le classi del popolo per educarlo (così da d'Alembert a Diderot e a Kant). Gli intellettuali si costituiscono come un ceto separato fra il potere politico e il popolo, in un ambiguo rapporto pedagogico sia col primo che col secondo. Ma questi intellettuali, privi di pratica negli affari e nell'amministrazione, più portati alle questioni generali e astratte della filosofia che ai problemi empirici della politica, incuranti dei dati di fatto e fiduciosi soltanto nella teoria, a volte si dedicano alla ricerca del nuovo e dell'ingegnoso, a ciò che impressiona e seduce, piuttosto che a ciò che è utile: si ponevano così le premesse di un paludamento filosofico delle passioni sociali e quindi dell'ingresso nell'età delle ideologie.
Parimenti il Locke, sia nel secondo Treatise of government (1690), sia nelle Considerations of the consequences of the lowering of interest (1691), scopre la nuova struttura del mercato, la nuova economia di scambio basata sulla moneta. Dato che la terra è limitata e, oltre a un tanto, l'aumento della produzione non è possibile, la ricchezza di una nazione va cercata non già nel prodotto della terra o nel possesso di metalli preziosi, ma nel commercio, il quale è la vera via per creare ricchezza. Da questa impostazione derivano tre importanti affermazioni, che rompono con le concezioni economiche medievali. Sulla scia di Aristotele si credeva che il guadagno di uno rappresentasse la perdita per un altro e pertanto la crematistica, volta a massimizzare l'utile individuale, era da condannare. Per Locke, invece, con il commercio (e questo si verificherà a maggior titolo con la manifattura) l'incremento di ricchezza di uno non va a detrimento dei suoi vicini. Inoltre, per Locke, il valore di una cosa non dipende da qualcosa a essa naturale o intrinseco, ma dalla legge della domanda e dell'offerta, dal fatto che vi siano più compratori o più venditori. Pertanto, tutto ciò che ostacoli il prestito a interesse del danaro, fuori dalla logica del mercato, è da condannare: siamo totalmente usciti dalla condanna moralistica dell'usura, ma anche dalle politiche mercantilistiche dirette a favorire il danaro a buon mercato. Era la prima intuizione della moderna economia, basata sul mercato e sulla possibilità dell'aumento della ricchezza attraverso l'investimento del capitale: era una nuova realtà, che si era lentamente formata nel tempo e che ora stava rigogliosamente crescendo dentro lo Stato.
Nasce la moderna economia con l'entrare in crisi della casa, cioè della famiglia, come unità produttiva che mirava in primo luogo alla propria sussistenza. È il commercio che sfalda i rigidi confini dell'economia domestica: i suoi orizzonti ora si spostano sul mercato, ma così essa si impoverisce, dato che, non più guidata dalla realtà umana della famiglia, accetta una logica esterna e meramente quantitativa. La casa si svuota, perché alla casa-azienda autarchica si sostituisce la manifattura (e poi la fabbrica) e l'impresa agraria capitalistica. Sulle rovine della casa appare la società civile: il mercato è il luogo dove si scambiano le merci, ma possono scambiarsi anche le idee. Nasce una nuova socievolezza umana, una societas che si ritiene ‛civile', perché civilizzata, e si scoprono nuovi legami fra gli uomini, che possono essere dettati dall'interesse, ma anche scaturire dalla naturale simpatia.
Questa nuova realtà economica non poteva lasciar indifferente lo Stato, il quale reagiva con diverse politiche mercantilistiche, che avevano però sempre come fine, in primo luogo, il suo benessere e non quello dei singoli cittadini. Infatti la ricchezza della nazione era presa in considerazione dal punto di vista della potenza, e quindi della ragion di Stato: la sua ricchezza veniva fatta dipendere, in primo luogo, dal possesso di metalli preziosi. In un periodo di crisi economica, restava pur sempre necessario mantenere costosi eserciti pronti per la guerra, pagare una crescente burocrazia e anche soddisfare le spese delle corti (non borghesi), che miravano allo splendore. Il reddito nazionale era alla base della potenza dello Stato. Così si cominciò a procedere a una riduzione dei dazi interni e delle gabelle locali, per facilitare gli scambi: ciò servì anche, sul piano politico, a rafforzare il centro, la capitale, sulle altre città, per meglio controllare finanziariamente l'economia nazionale.
Lo Stato era sempre più attento - con la politica doganale - non solo a rendere attiva la bilancia commerciale, disincentivando l'entrata di prodotti stranieri, ma anche a favorire lo sviluppo economico e le proprie manifatture, ostacolando l'esportazione di materie prime, perché venissero utilizzate in loco, e mantenendo bassi i prezzi dei beni di prima necessità, affinché il costo del lavoro non crescesse. Altre prerogative del re - ricordate dal Bodin come poco importanti, perché riassunte e inglobate in quella di fare le leggi - come il diritto di battere moneta, di fissare pesi e misure, dazi e dogane, portano all'unità di moneta, di peso e di misura e alla possibilità, per lo Stato, di condurre una politica commerciale di tipo mercantile. Diritti vecchi, ma, intensificandone l'uso, lo Stato si mette in grado di intervenire nell'economia, sempre mosso dalla sua ragion di Stato.
L'individuo aveva accettato l'assolutismo, perché questo era il solo mezzo certo che gli garantisse il bisogno primordiale della pace e poi gli assicurasse il benessere: era un'accettazione utilitaristica, nella quale lo Stato era concepito in funzione dell'individuo. Ma poi i suoi interessi e i suoi bisogni aumenteranno o si diversificheranno, e quella cornice di potenza non sarà più adeguata a esprimerli: può accadere che la razionalità della macchina burocratica palesi le proprie inefficienze o la propria irrazionalità di fronte a nuovi e diversi bisogni. La società civile era cresciuta e, con essa, si erano moltiplicati i suoi valori come i suoi interessi. La società, attraverso la politica della tolleranza religiosa, aveva imparato ad accettarsi come diversa - le fedi erano differenti -, ma sotto una stessa legge e uno stesso re; attraverso il mercato gli uomini, che perseguivano il proprio utile, erano si in concorrenza e in conflitto, ma erano solidali nel difendere questo nuovo spazio economico e gli interessi che esso esprimeva. Il pluralismo, cioè l'accettazione del nuovo e del diverso in un pacifico confronto o in una pacifica concorrenza, stava apparendo e, con esso, l'individuo si sentiva più forte e la società più matura. Individuo e società erano così spinti a riappropriarsi del politico, cioè dello Stato, che era tutto incardinato sul re.
Per riappropriarsi del politico c'era un solo strumento, uno strumento antico: la rappresentanza. Il dualismo fra re e ceti, Stato e società era mediato da un esile filo, le assemblee di stato. Il loro antico compito era quello di consentire alle imposte, proprio in omaggio al valore costituzionale della proprietas; ma con la crescita dello Stato era apparso un nuovo potere, quello sovrano di fare le leggi, e pertanto la società, per esprimersi, doveva dare battaglia su questo nuovo terreno, quello della sovranità, e anche minacciare la prerogativa del re nella politica estera. Dietro la facciata del potere discendente dei re, con cui si era formato lo Stato, comincia ad apparire un potere ascendente, che esprime la nuova realtà della società, che sente come le questioni politiche la tocchino da vicino. Per le grandi masse della popolazione resta ancora valido il principio tradizionale del diritto divino del re; ma per una società in movimento non basta più quella legalità, che l'assolutismo pareva voler garantire; è necessaria una nuova legittimità, un nuovo fondamento all'obbligazione politica, in un potere ascendente.
5. Rappresentanza: antica e moderna
Se l'idea di rappresentanza (repraesentatio) è antichissima, anche la rappresentanza come istituzione è antica e risale al feudalesimo, sviluppandosi poi nel tardo Medioevo - per successive differenziazioni istituzionali - dal magnum consilium del re. Nonostante le tendenze assolutistiche insite nella formazione dello Stato moderno, si può cogliere una continuità fra la rappresentanza degli antichi e la rappresentanza dei moderni, una continuità che conosce rotture o meglio un periodo di interruzioni, ma anche lente e profonde trasformazioni. L'assolutismo, che pone nel re l'unico centro di potere, un potere indivisibile e non soggetto a obblighi di tipo contrattuale, è certamente ostile alla rappresentanza; ma, nella nuova lotta per la sovranità, anche quest'ultima subisce l'impatto col moderno e da esso viene razionalizzata. La prima forma di rappresentanza veramente moderna si ha in seguito alla Rivoluzione americana con la Costituzione del 1788, la quale prevede una rappresentanza eletta, a suffragio (quasi) universale, dai singoli cittadini, e quindi su basi individualistiche. Le vicende degli Stati europei sono più complesse e più tortuose; e alcuni giungeranno a questa forma di rappresentanza solo nel Novecento.
L'antica rappresentanza si basava sui ceti, sugli stati, sugli ordini: era una rappresentanza organica e corporativa, che privilegiava alcuni gruppi della popolazione che rappresentavano il territorio, i quali, in cambio di concessioni fiscali, ottenevano immunità, privilegi, diritti. Questi corpi (ceti, stati, ordini) sono una realtà - proprio perché ci muoviamo in una società corporativa - insieme sociale e giuridica, che risponde alla visione organica della società. Essa è bene ordinata quando è costruita su tre ordini funzionali: i sacerdoti, i guerrieri, i lavoratori; o il clero, i nobili, il terzo stato; o i colti, i militari, i produttori. Questa concezione trifunzionale è antichissima e risale alla protostoria dei popoli indoeuropei, fondandosi su una concezione religiosa, simbolica e cosmologica della società; è una struttura profonda, quasi un archetipo collettivo, che sopravvive nella visione ch'essi hanno della rappresentanza. Essa è ancor viva all'inizio dell'età moderna, e viene ribadita proprio da un teorico della sovranità, Ch. Loyseau, nel suo Traité des ordres et simples dignités (1610). La contrapposizione fra la sovranità del monarca e i ceti sarà alla base della moderna monarchia dualista, cosiddetta perché il potere resta diviso fra il re e la rappresentanza. Questa tensione fra unità e diversità (o molteplicità) è un dato strutturale e non riesce a raggiungere nell'età contemporanea una superiore unità; se la trova, la pone o nell'unità (lo Stato) o nella pluralità (la società); o vede nello Stato il tutto, che ingloba la società, o vede nel governo solo una parte del più vasto sistema sociale.
La formula politica, con cui razionalizzare questa complessa realtà, fu quella greca e rinascimentale del governo misto, secondo la quale il miglior governo, e anche il più duraturo, è quello che vede partecipare al sommo potere - in età moderna quello di fare le leggi - l'uno (il re), i pochi (la nobiltà), i molti (il popolo). La formula del governo misto fu usata durante le guerre di religione in Francia nella seconda metà del Cinquecento, e venne sconfitta; poi in Inghilterra, durante le guerre civili a metà del Seicento, e trionfò con la Gloriosa Rivoluzione del 1688-1689; ebbe la sua sistemazione teorica con Locke e la sua divulgazione con Montesquieu. Il governo misto si ispirava a un ideale di equilibrio dei poteri, una vera e propria balance of powers fra tre realtà sociali e politiche (il re, la nobiltà, il terzo stato), la quale impedisse che una di esse potesse imporre la propria egemonia, perché tutte partecipavano al supremo potere e solo il loro accordo cioè un compromesso poteva dar luogo a una legge valida. Era un salto rispetto alla monarchia ‟armonica" del Bodin, perché in questa il potere del re restava assoluto: continua però l'ideale dell'equilibrio, perché il re di Bodin doveva governare in modo armonico, mescolando il principio aristocratico e quello democratico. Il governo misto, con Locke e ancor più con Montesquieu, è strettamente legato al principio della separazione dei poteri: il re, che partecipa al potere legislativo, resta titolare del potere esecutivo (e anche della prerogativa di decidere liberamente nei casi eccezionali), mentre il potere giudiziario, che nel Medioevo faceva capo al re sommo giudice, acquista la sua autonomia, come mero esecutore della legge e quindi senza alcun reale potere.
In questo processo, in questa lotta fra re e ceti, l'Inghilterra era avvantaggiata: essa contrapponeva al re un Parlamento bicamerale, nel quale nella Camera alta sedevano i Lords spirituali e temporali e nella bassa i comuni. Questo Parlamento esercitava, o ambiva a esercitare, una duplice funzione: quella antica di concedere le imposte e quella moderna di consentire alle leggi, in base al fatto che, in quanto Alta corte, era un organo della iurisdictio. La Francia aveva i Parlamenti, corti sovrane di giustizia, per registrare gli editti del re al fine di verificarne la costituzionalità,e gli Stati generali per le imposte; istituzionalmente, la società era dunque più debole nei confronti del re. Ciò nonostante, anche in Inghilterra il Parlamento non venne convocato dal 1629 al 1640, mentre in Francia l'intervallo fu assai più lungo, dal 1614 al 1789, quando, alla vigilia della Rivoluzione, vennero riconvocati gli antichi stati del regno. La situazione certamente precipitò con rapidità e si ebbe subito un'Assemblea, prima nazionale e poi costituente; ma con la Restaurazione si tornò al modello inglese del 1688-1689, anticipato dal Locke e poi teorizzato dal Montesquieu. Questo modello, per alcune nazioni, durò sino alla prima guerra mondiale, sia pure con un progressivo affievolimento.
Il modello ottocentesco era ancora quello antico: quello del governo misto e della monarchia dualista. La rappresentanza, infatti, era ancora cetuale, perché nella Camera alta sedeva la nobiltà, e nella Camera bassa, per la ristrettezza del suffragio, solo la borghesia: certo, la concezione individualistica aveva infranto il vecchio corporativismo, ma pur sempre a un organo dello Stato corrispondeva un ceto sociale, mentre restava non rappresentato quello che nel 1848 A. de Tocqueville chiamerà il popolo e Karl Marx il proletariato. La società borghese individualistica, affermando di rappresentare la nazione, si era emancipata e aveva raggiunto il politico, ma, proprio perché borghese, restava fedele all'antica distinzione fra Stato e società civile. Il re, oltre al monopolio dell'esecutivo e a partecipare alla legislazione, aveva un forte potere di decisione nel campo della politica estera e un potere di prerogativa nei casi di eccezione, ma la cosa importante era che le grandi organizzazioni burocratiche facevano capo a lui, che rappresentava l'unità dello Stato.
Con il governo parlamentare, dove il re regna e non governa, la monarchia dualista viene lentamente svuotata: il governo dipende solo dalla maggioranza nell'Assemblea elettiva, mentre la Camera alta o si trasforma, diventando anch'essa elettiva, o perde il suo peso politico. Nel contempo, le maglie del suffragio elettorale tendono ad allargarsi e quello maschile diventa universale (salvo in Francia, che lo anticipa dopo la Rivoluzione del 1848) nella maggioranza degli Stati europei a cavallo della prima guerra mondiale. La rappresentanza cetuale era finita, ma era anche iniziato il crollo delle monarchie con l'instaurazione della repubblica in Germania e in Austria dopo la prima guerra mondiale. Sembra veder verificato il detto di Machiavelli e di Montesquieu: senza nobiltà, niente monarchia. In seguito alla rivoluzione industriale i nuovi protagonisti politici diventavano la borghesia, nella quale si era dissolta la nobiltà, e il proletariato, politicamente organizzato nei partiti socialisti, ma restava intatto il vecchio problema dell'equilibrio. Fra le due guerre mondiali il pensiero politico e giuridico continuava però a ritenere che lo Stato di diritto sarebbe sopravvissuto solo se avesse mantenuto in modo rinnovato i tre principi politici, il democratico, l'aristocratico, il monarchico, cioè il consenso, la selezione delle élites, l'unitarietà del comando.
Se il tragitto verso la moderna rappresentanza è stato lungo e tortuoso per gli Stati europei, il concetto moderno di rappresentanza era stato chiaramente espresso dall'individualista Locke nel secondo Treatise of government, non certo dove parla del Parlamento inglese, ma dove tratta del principio di maggioranza (par. 96, 98) nell'assemblea rappresentativa: la maggioranza consente alla società di deliberare come un sol corpo e in essa soltanto è possibile ritrovare l'unitarietà della volontà politica; è la maggioranza che esprime la volontà dello Stato, non il compromesso fra i ceti. La rappresentanza non esprime ceti, ordini, stati, ma ‟la varietà di opinioni e il contrasto di interessi" che si danno nella società. Per Locke sono ancora opinioni e interessi individuali ma, alla fine del Settecento, in Burke e Hume si evidenzia già l'organizzazione tramite i partiti politici, che vengono classificati distinguendo quelli che mirano al solo interesse da quelli che perseguono ideali più generali. Allora non si poneva chiaramente il problema se fosse possibile conciliare il principio di maggioranza, di una maggioranza capace di prendere vere e autonome decisioni, con quella pluralità di opinioni o di interessi che si davano a livello sociale, anche se lord Bolingbroke aveva tanto insistito per un ‟re patriota", che sottraesse il destino della nazione alla guerra delle fazioni.
Ma erano già poste le condizioni perché l'attenzione, di chi volesse osservare il politico, si spostasse dallo Stato alla società. Il primo a intuire e a porre il problema è J. Madison (The federalist, n. 10, 1788), il quale vede come i partiti, da lui chiamati ‟fazioni", possano incrinare la solidità dell'Unione, impedirle di perseguire il bene pubblico, perché sono spinti dalla passione del loro particolare interesse contro ‟gli interessi permanenti e complessi della comunità". Dato che Madison non vuole eliminare la libertà, che pur riconosce come causa delle fazioni, dato che nella società vi sono opinioni differenti e interessi contrastanti, bisogna cercare soltanto di limitare i loro perniciosi effetti: questo è possibile in un grande Stato, dove c'è una maggior varietà di opinioni e di interessi, dato che proprio questa pluralità impedisce che una fazione o un gruppo ‟possa superare e opprimere gli altri". Erano poste le basi della teoria pluralistica, la quale, approfondita da Tocqueville, apparirà solo nel Novecento, quando il fenomeno sociale dei partiti, dei sindacati, dei gruppi di interesse e di quelli di pressione diventerà macroscopico, e quando più attenta si farà l'analisi del processo di formazione delle decisioni politiche. Più gruppi e più centri di potere, anche in conflitto fra di loro, impediscono, proprio per il loro equilibrio, che un centro possa diventare dominante ed egemone. Sotto altre spoglie, rispetto al governo misto, continua l'ideale dell'equilibrio o della bilancia fra pesi e contrappesi, ora sotto la forma di una conflittuale armonia dei gruppi. Questo principio dell'equilibrio, variamente formulato, accompagna tutta la storia dello Stato moderno.
In realtà le teorie pluralistiche nascono in polemica contro lo Stato moderno, contro la tendenza alla concentrazione e all'unificazione del potere, contro un'autorità onnicompetente e onnicomprensiva, insomma contro la sovranità e contro l'assolutismo. Nel Novecento vi sono due teorie che si contrappongono e che riflettono le contraddizioni attraverso le quali si era formato lo Stato moderno: quella giuridica, monistica, che tutto incardina nello Stato e nella sua volontà sovrana, e quella politologica, pluralistica, che privilegia i gruppi e la società in cui essi si muovono. Sono due teorie cariche di opposti valori politici: lo Stato, come portatore dell'universalità, se non dell'eticità, e la società, come luogo della libertà e quindi della diversità. È uno scontro teorico in cui appare ancora una volta - la difficoltà di mediare il vecchio dualismo fra monarca e ceti, fra Stato e società, fra unità e pluralità, perché la prima porta all'assolutismo (o al dispotismo), la seconda alla paralisi (o all'anarchia). Problema teoreticamente non solubile, proprio perché in re, nelle cose, col Novecento la realtà diventava sempre più complessa e le antiche classiche distinzioni non consentivano più di orientarsi in essa.
Rispetto alle spinte o al fine ultimo dello Stato assoluto, c è infine da registrare una netta inversione di tendenza: la sua ambizione era stata quella di spoliticizzare o neutralizzare politicamente la società, ma, con il liberalismo prima e con la democrazia poi, la società comincia a ripoliticizzarsi, anche se questa ripoliticizzazione viene neutralizzata, per non giungere alla guerra civile, dall'accettazione delle regole del gioco: la guerra diventa un gioco attraverso il rispetto di regole e di procedure giuridiche, per cui gli avversari sono semplici concorrenti nel mercato politico ed elettorale (i partiti), come in quello economico (i sindacati). I partiti prima e poi i sindacati diventano, così, i soggetti della politica, ma inizialmente i primi erano organizzati solo a livello parlamentare, mentre i secondi si muovevano solo sul piano della società civile, secondo le regole e la logica del mercato, con un nuovo strumento: lo sciopero. Governo rappresentativo e società civile restavano ancora distinti: il vero problema si affaccerà con l'incontro fra potere ascendente e potere discendente, fra sovranità popolare e accentramento amministrativo, fra società e Stato, fra partecipazione e burocrazia: l'avvento della democrazia è solo una dislocazione del potere, che non distrugge lo Stato di apparati, costruito dai re, ma lo rafforza e amplia le sue competenze.
6. Stato e cultura
La costruzione dello Stato avvenne nell'età della rivoluzione scientifica, che aveva capovolto l'antico modo di accostarsi alla natura, la quale è ora vista in modo disincantato e senza fantasia o miti, cioè in modo meccanico e matematico, perché possiede sue proprie leggi sperimentabili. Questa misurabilità della natura coincide con la sua fattibilità, il che rafforza le possibilità tecnologiche di usare la natura per fini umani. Siamo in un nuovo clima di opinione, dove si è dominati dalla razionalità in vista dello scopo o del risultato: la natura può essere costruita artificialmente come lo Stato. La nuova scienza nasce e si sviluppa al di fuori della cultura delle corti dei re, dominate dal manierismo, in cui si esprime la dissimulatio politica, e dal barocco, che è un mero simbolo della potenza. La nuova scienza ha un altro fine, quello indicato da F. Bacone: ‟sapere è potere".
È ovvio che lo Stato sia interessato a trasformare le scoperte scientifiche in tecnologie operative nel campo della guerra: gli arsenali per la fabbricazione delle artiglierie e gli opifici per la polvere da sparo sono stati generalmente una prerogativa sovrana e hanno utilizzato macchinari evoluti, spesso d'avanguardia, con maestranze specializzate e particolarmente fidate. Lo Stato, fin dal suo nascere, per ragioni di difesa e di offesa è stato un elemento propulsore dell'innovazione tecnologica nell'arte militare. Ma lo Stato non doveva pensare solo alla guerra: doveva anche pensare alla conservazione e all'aumento della propria prosperità, perché la sua forza dipendeva dal suo esercito come dalla sua ricchezza. Fra così posto di fronte al complesso problema di un'amministrazione che andava rinnovata nei suoi quadri come nelle sue idee direttive: molte scienze moderne, che oggi hanno la loro cittadinanza nel sapere accademico, nascono proprio in questo periodo come scienze essenzialmente pratiche non ancora teoreticamente fondate; riferendosi tutte alla necessità di migliorare l'amministrazione, esse si pongono dal punto di vista dei bisogni dello Stato come apparato amministrativo. Si tratta di interessi che non vertono solo sulla mera amministrazione (sul problema delle finanze o della tassazione o della politica economica), ma anche sulle tecnologie produttive, come quella agricola, commerciale e manifatturiera. Lo Stato, così, è un elemento propulsivo della rivoluzione scientifica (alle cui sorti è direttamente interessato) in tutti quei campi nei quali si gioca il suo destino: lo Stato è il centro, a cui tutto va riferito (per questo durante l'assolutismo venne definito Gesamtstaat, lo Stato globale). La nuova scienza, però, è utile soltanto alla ‛poiesi', cioè alla produzione degli oggetti, non alla ‛prassi', cioè alla creazione di valori per l'azione.
La rivoluzione scientifica riduce il mondo (si tratti della natura come della società) a oggetto, a quantità misurabile, su cui operare in base a metri quantitativi e non qualitativi. Questo matematizzarsi dell'esperienza produce una rottura fra il sapere comune e il sapere scientifico; fra i valori e gli scopi; fra il mondo reale esperito ed esperibile dal singolo e la realtà di uno Stato costruito scientificamente; fra il mondo della vita, in cui l'individuo raggiunge le proprie certezze esistenziali, e l'impersonalità di un comando lontano, che ha altrove la sua logica; fra il mondo della coscienza, nel quale - in rapporto comunicativo con gli altri uomini - si formano le idee e i valori e si elaborano i significati delle cose e delle azioni, e un'amministrazione impersonale e oggettiva, che agisce per fini suoi, senza preoccuparsi se siano o non siano dotati di senso per la popolazione.
Fino a che le grandi masse della popolazione continuavano a credere alla consuetudine e al sacro, cioè al diritto divino dei re, fino a che continuavano a credere a un principio comprensibile nel mondo della vita, la legittimazione del potere era salva, perché l'obbligazione politica trovava un fondamento nei valori del singolo. Ma, con il secolarizzarsi della cultura politica e con il suo diffondersi (prima con il liberalismo e poi con la democrazia), il comando esterno del sovrano non era più sufficiente a dare coesione alla società, appunto perché era un comando esterno. Fin che la secolarizzazione toccò ristrette élites, la legittimità del potere trovò un fondamento nella ragione: il dispotismo venne giustificato, purché ‛illuminato'. Ma, con l'ingresso di più vaste masse della popolazione sulla scena politica, bisognò trovare una coesione interna, che rispondesse alle esigenze del mondo della vita dei singoli individui, creando emozionali identità collettive. La prima risposta fu l'idea di nazione (e poi il nazionalismo), che appare, come fatto politico o come fenomeno di massa, con le guerre rivoluzionarie della Rivoluzione francese, quando i soldati, cantando la Marsigliese, definivano ‛sacro' l'amore per la patria. Era necessario far riscoprire alle masse un nuovo sacro, di cui lo Stato burocratico amministrativo era sprovvisto, perché a cementarlo c'era soltanto il re e il freddo dovere d'ufficio in obbedienza alla legge.
Nello Stato nazionale si vide il culmine o la raggiunta completezza dello Stato moderno: è la nazione - meglio la nazione-popolo - a esprimersi, tramite la riconquistata sovranità, attraverso la personalità dello Stato, che le dà unità e capacità di agire: protagonisti della storia non sono più i re, ma le nazioni, o meglio lo Stato nazionale. Il dualismo fra società e Stato sembra superato. La vecchia, razionale e fredda ragion di Stato sembra trovare una sua sublimazione, in virtù della quale lo Stato-nazione diventa un valore assoluto, che giustifica moralmente i mezzi necessari alla sua affermazione: i supremi interessi nazionali restano l'ultimo obiettivo della politica, ma perseguito col fervore della passione e dell'entusiasmo, al punto che le guerre tornano a diventare guerre di religione, dirette a mobilitare la popolazione. Il concetto di nazione, come quello di popolo, indica però una realtà indistinta, in cui sfumano insieme sia quell'individualismo sia quella pluralità di opinioni e interessi di cui avevano parlato i primi teorici del sistema rappresentativo: in primo piano è lo spirito nazionale, la fraternità fra i cittadini di una stessa nazione, perché la nazione si vuole presentare come una vera e propria comunità, unita dalla lingua, dalla cultura, dalle origini, dai sentimenti. Ma, nell'Ottocento, a interpretare il popolo-nazione era ancora un più o meno ristretto strato della popolazione, quello dei ceti superiori, formato dai colti e dai dotti, dall'aristocrazia e dalla borghesia, e non ancora dalle masse. Sarà la prima guerra mondiale, ultima delle guerre nazionali, a ridare a tutte le nazioni la possibilità di farsi Stato: essa segnò un tragico spartiacque con il passato, nel quale guerre così micidiali non si erano mai combattute, e, insieme, impose il problema della nazionalizzazione delle masse da parte dello Stato.
Se il termine nationes è antichissimo, la nazione moderna non è stata però il risultato di una spontanea evoluzione sociale; è stata piuttosto una creazione dello Stato, dello Stato territoriale, che voleva unificare la popolazione entro i propri confini. In altri termini, non è il popolo-nazione a creare lo Stato, ma è lo Stato burocratico, questo arsenale di potere, a creare la nazione. Alla fine del Cinquecento noi non troviamo questa omogeneità di lingua, di tradizioni, di diritto: in Francia, addirittura, si parlava, in sede politica, di tre razze (i Galli, i Franchi e i Romani), in Inghilterra pure (i Britanni, gli Anglosassoni e i Normanni); in Spagna abbiamo la Castiglia, l'Aragona, per non dimenticare la Granada e l'antichissima presenza basca. E la monarchia con la sua capitale, con la sua corte, con la sua burocrazia, con il suo esercito, con la sua scuola a realizzare le prime forme di integrazione nazionale, non certo in ossequio all'idea di nazione, che si affermerà fra i colti solo alla fine del Settecento, ma per il funzionamento stesso dello Stato burocratico: era necessario che una lingua nazionale si imponesse sopra i molti e diversi dialetti, era indispensabile che le antiche regioni storiche, ancora periferiche rispetto alla capitale, perdessero ogni radice che potesse stimolare il loro particolarismo. Tale è la storia della Spagna, della Francia e dell'Inghilterra. Potrebbe sembrare che l'italia e la Germania si affermassero come Stati nazionali secondo una logica diversa, in base a un movimento che sale dal basso, che ha il suo momento emblematico nelle rivoluzioni del 1848. Ciò è vero, ma è anche vero che, perché diventassero Stati nazionali, fu necessaria l'azione di due vecchi Stati, il Piemonte e la Prussia, che erano i meglio organizzati allo scopo: anche qui è lo Stato - ma in misura diversa - che conquista la nazione.
L'idea di nazione, unita al senso dello Stato, servì a dare una notevole integrazione ai ceti che volevano pesare politicamente - l'aristocrazia, la borghesia, la burocrazia, i colti e i dotti, le libere professioni - ma non penetrò sino in fondo al popolo. Nella seconda metà dell'Ottocento il popolo cominciò a integrarsi intorno all'ideologia socialista, che si poneva in radicale rottura con lo Stato rappresentativo borghese, considerato come uno strumento, in mano alla classe economicamente dominante, di sfruttamento della maggioranza della popolazione: ai valori nazionali venne così contrapposto l'internazionalismo proletario. All'etica individualistica e competitiva il socialismo oppose la solidarietà di classe, al fine di raggiungere una nuova forma di organizzazione sociale più autogestita, nella quale lo Stato, come apparato di potere coercitivo, si dileguasse. Sotto il profilo squisitamente politico era l'apparire di una nuova volontà sovrana, diretta a instaurare, tramite una rivoluzione, un nuovo ordinamento sociale e politico. Ormai i giacobini avevano lanciato il mito della rivoluzione: contro i valori e la società esistenti una nuova élite politica, fortemente ideologizzata, cercava di saldarsi - mobilitandole - con le passioni sociali, avendo la pretesa, in nome del presunto possesso della verità, di essere la nuova rappresentanza del futuro e quindi di potere, con l'uso della violenza, pianificare la storia. Attraverso il mito della rivoluzione un filo rosso lega, durante tutto l'Ottocento, giacobinismo e bolscevismo: la violenza rigeneratrice avrebbe instaurato il mondo nuovo, cambiato il corso della storia, abbattendo gli antichi (e falsi) principi di legittimità.
Il problema centrale dello Stato liberale e poi - dopo l'estensione del suffragio - liberal-democratico divenne così quello dell'integrazione delle masse, necessaria per una più completa legittimazione, a sua volta indispensabile per rafforzare lo Stato sia all'interno sia all'estero. Il socialismo, dal canto suo, rispose con la lotta di classe: essa ebbe la sua massima espressione politica con la Comune parigina del 1871; cionondimeno, sino alla prima guerra mondiale, lo Stato riuscì parzialmente a integrare il socialismo e a ottenere questa legittimazione. Ma la guerra accelerò la socializzazione delle masse e la loro disponibilità a essere mobilitate dall'alto da partiti rivoluzionari. In Italia e in Germania, anche per la debolezza della formazione statale liberal-democratica, raggiunta da poco, il problema dell'integrazione delle masse nello Stato - quasi in risposta alla Rivoluzione bolscevica - venne risolto attraverso un regime totalitario, che si prefisse appunto la nazionalizzazione delle masse. Questo regime era totalitario, perché aspirava con la sua ideologia a permeare ogni momento della vita dell'individuo; ed era di massa, perché non voleva trattare con una società articolata nei suoi antichi gruppi, ma solo con individui sradicati, che avevano un rapporto diretto col capo, e tutto questo in nome di un nazionalismo esasperato, che era la perversione dell'antica idea di nazione.
Durante la seconda guerra mondiale - nell'Europa occupata - l'idea di nazione riprese forza proprio nella resistenza allo ‛straniero', nella lotta patriottica contro l'invasore. A essa si accompagnò, per le forze di sinistra, l'esigenza di un rinnovamento della società e della costruzione di una società socialista; ma, quasi dovunque (con successo, però, solo nell'Europa occidentale) la liberazione nazionale fu anteposta alla rivoluzione socialista. Tuttavia, finita la guerra, dappertutto in Europa si verificò un rapido declino dei valori nazionali, non più capaci di dare unità e coesione alla comunità, al di sopra di quelle differenziazioni e di quelle diversità che una società pluralistica esprimeva: lo spirito di partito, spesso, appariva più forte dello spirito nazionale. Nell'Europa occidentale la società alternativa, la società socialista, la nuova sovranità, resta ancora la proposta dei partiti comunisti europei, ma è una proposta che - frenata dagli equilibri internazionali - deve ogni giorno venire a compromessi con una realtà in rapida trasformazione, nella quale cangiano le strutture politiche, come quelle sociali ed economiche.
Il problema centrale resta quello dell'integrazione delle masse nello Stato; ma, nel tramonto dell'idea nazionale e nel deteriorarsi dell'immagine di una società alternativa, è apparsa una nuova realtà, che ha radici assai più antiche: l'integrale secolarizzazione delle masse, spinte alla conquista di un maggior benessere. Di fronte a questa realtà lo Stato era del tutto impreparato, anche se a produrla era stata proprio la sua azione, perché, nei suo momento assolutistico, esso aveva affermato, come proprio valore, quello del benessere, oltre quello dell'ordine. In questa secolarizzazione i confini fra borghesia e proletariato diventano sempre meno chiari, e appare un'indistinta, anonima e omogenea classe media in continua espansione, la quale mira a veder garantito il proprio reddito e il proprio benessere tramite una protezione politica, fuori dal gioco del mercato.
Nel campo della cultura lo Stato, al suo sorgere, si mostrò favorevole alle scienze che riguardavano la poiesi, disinteressato per quelle che si riferivano alla prassi: aveva bisogno delle prime, perché gli servivano a costruire la propria potenza, ma era neutrale nei confronti dei valori, purché non divenissero politicamente rilevanti. Nell'età liberale e in quella democratica divennero determinanti, invece, alcuni valori, come i diritti dell'uomo e del cittadino e la nuova legittimità democratica: tutto questo - tramite la società civile - apriva uno spazio al manifestarsi e all'affermarsi di nuovi valori, che finivano poi per esprimersi nel governo rappresentativo. La liberal-democrazia non era mera procedura; era invece carica di valore, perché era la sola forma che consentisse a tutti i valori di esprimersi. Solo con l'affermarsi dell'idea di nazione prima e poi con il socialismo, lo Stato pretese di esprimere e di realizzare un'idea etica: la nazione o la giustizia. Nella seconda metà del Novecento, sconfitta dalla realtà l'idea nazionale e costretta - dalla realtà - quella di giustizia ad adeguarsi alle procedure democratiche, lo Stato sembra essere ritornato alla neutralità liberal-democratica: sulle sue spalle però grava il problema della socializzazione interiore dei valori sociali, perché da essa dipende in gran parte la coesione del corpo sociale; socializzazione resa difficile per l'autonomia degli apparati a essa preposti (istituzioni educative, mezzi di comunicazione di massa), che spesso si ergono contro il potere o si fanno banditori di controculture. (V. anche nazione).
7. Le partecipazioni incrociate
Col Novecento cominciano a incrinarsi gli equilibri dello Stato liberale, assestati nel rapporto fra tre sfere: quella privata, quella sociale e quella pubblica. E la diretta conse guenza del suffragio universale, della grande depressione economica del 1929, della seconda guerra mondiale. L'allargamento del suffragio spezza quell'omogeneità di classe che si esprimeva nella rappresentanza, e introduce nel mercato politico nuove domande, che si ispirano tutte al valore della giustizia si richiede una più equa distribuzione del reddito nazionale, per ridurre l'inferiorità economica delle vecchie classi subalterne, e una maggior sicurezza sociale per gli individui, in caso di infortuni e malattia, di disoccupazione e vecchiaia. La grande depressione economica costringe lo Stato a intervenire attivamente nel mercato, con politiche monetarie, con la programmazione, con la gestione diretta o indiretta di imprese industriali. La seconda guerra mondiale perfeziona questa capacità di controllo e di direzione dello Stato sull'economia, nella quale, in un'età di alta tecnologia, le commesse militari diventano un decisivo fattore di sviluppo produttivo.
Sembra di assistere al dispiegamento di tendenze che, se erano da tempo latenti o in atto, subiscono però ora un'intensificazione tale da mutare la natura dello Stato. Lo Stato assistenziale, che ha il suo inizio nella sua forma contemporanea con la legislazione sociale di Bismarck, è una versione perfezionata dell'antico Stato di Polizia; lo Stato supremo arbitro dell'economia è una versione aggiornata delle vecchie politiche mercantili, come le imprese nazionalizzate o a partecipazione statale hanno un loro precedente nelle manifatture reali; lo Stato industriale o meglio industrial-militare è una costante della storia degli Stati europei. L'intensificazione di questi processi sembra rispondere alla stessa logica che ha dominato la vita dello Stato: la propria potenza. Lo Stato non può imporre oneri alle classi subalterne senza concedere in cambio - un diritto di cittadinanza e di partecipazione, e deve intervenire nel conflitto sociale quando esso mette a repentaglio la sua forza; sempre per la ragion di Stato non può certo disinteressarsi delle crisi economiche, della disoccupazione, della propria base industriale. Sembra di assistere a una rapidissima dilatazione del potere dello Stato sulla società, col trionfare dell'antica minaccia dello Stato Leviatano, il quale, utilizzando tutta la potenzialità delle moderne tecnologie, può esercitare con maggior effettività il proprio dominio e controllare tutto il processo sociale. Sembra che lo Stato voglia direttamente gestire l'ordine sociale per mezzo dell'amministrazione, il vecchio tramite fra Stato e società.
Le cose, però, sono assai più complesse: basti pensare che a questa trasformazione dello Stato ha corrisposto il venir meno del primato della politica estera su quella interna o il lento sostituirsi dell'amministrazione alla politica. Nel contempo, più lo Stato estende i propri compiti e le proprie aree di influenza, più si dimostra incapace di esercitare il proprio potere, perché rallentato o paralizzato nel momento della decisione: uno Stato sempre più onnipotente, ma sempre più debole di fatto. Anche nel campo più antico di sua spettanza, quello dell'ordine pubblico, lo Stato si dimostra incapace di garantire ai cittadini la sicurezza nelle strade e nelle case, mentre il dissenso si manifesta sovente in forme violente e criminali.
Il filo conduttore della trasformazione dello Stato nel Novecento passa altrove, e lo si trova nell'evoluzione della società civile - e soprattutto del processo economico - dal piccolo verso il grande, con un conseguente dilatarsi di una nuova forma di burocratizzazione. È dalla società civile, cioè da un momento non pubblico, che viene intaccata la sfera statuale, come anche quella privata. Nella società civile gli individui cominciano a scoprire che l'unica cosa che hanno in comune è l'interesse privato, e quindi organizzano questo comune interesse privato al fine di subordinare e funzionalizzare il pubblico, lo Stato, a questo interesse, con la conseguenza di assorbire il pubblico e il privato nel sociale. La nuova realtà è contrassegnata dalla burocrazia - un tempo caratterizzante lo Stato - privata e sociale: a fianco dell'antico apparato, esterno alla società sono sorti nuovi apparati da questa creati.
Il partito politico è un'associazione privata o fra privati: nasce come gruppo parlamentare, dotato, nel momento delle elezioni, di una debolissima struttura organizzativa di notabili nella società. Oggi, il Partito organizzativo di massa ha una struttura burocratica permanente, capace di mobilitare capillarmente il consenso, appunto, delle masse. Ma questa struttura burocratica rappresenta un diaframma fra il votante (o l'iscritto) da un lato, e la reale azione dei dirigenti del partito dall'altro: essa rafforza solo le élites, che controllano la composizione delle liste elettorali e danno poi direttive agli eletti in Parlamento, col risultato di espropriare il deputato della propria autonomia. Così il partito ‛privato' espropria il ‛pubblico', cioè la rappresentanza.
Anche l'impresa, come società per azioni, nasce dall'unione fra privati. Ma, con la grande corporation, ci troviamo di fronte quasi a uno Stato nello Stato, sia per il numero dei dipendenti, sia per il fatturato, sia per la potestà normativa, sia per le iniziative che promuove nel campo so ciale. Inoltre le sue strategie negli investimenti e nella ricerca incidono direttamente sull'autonomia dello Stato, mentre d'altra parte esigono dallo Stato ben precisi sostegni con politiche economiche adeguate, con investimenti nella ricerca scientifica, con la diffusione di un'istruzione sempre più adeguata a una società tecnologica. Il mercato dei consumatori privati tende a restringersi a vantaggio del mercato dei grandi produttori e dei grandi consumatori: i ‛grandi', proprio per la vastità degli interessi in gioco, hanno un potere di influenza sullo Stato; ne deriva che la classica distinzione ottocentesca fra Stato e industria scompare e si deve parlare di Stato industriale.
Locke, trattando della rappresentanza, aveva parlato di ‟opinioni e interessi". Ma due sono i fatti nuovi: gli interessi sono sempre più organizzati - organizzati burocraticamente e vengono interpretati da élites. Se prima trovavano una mediazione e un equilibrio nei meccanismi neutrali e automatici del mercato e - solo in seconda istanza un'espressione politica, ma mediata dall'opinione pubblica, nel Parlamento, ora questi ‛gruppi di interesse' sono diventati ‛gruppi di pressione' sul politico: sui partiti e sul governo, prima che sulla rappresentanza. Sono politicamente rilevanti gli interessi organizzati delle imprese, ma anche gli interessi organizzati dei lavoratori, che hanno come controparte lo Stato, per la redistribuzione del reddito nazionale e per sempre maggiori servizi sociali. Ma, anche stavolta, i sindacati sono in primo luogo grandi strutture burocratiche, che agiscono liberamente in base a una delega. Burocrazie partitiche e interessi organizzati burocratica mente: sono questi i nuovi attori politici, e il singolo viene sempre più relegato nella sfera privata o negli interstizi che questi giganteschi apparati gli concedono. Come all'azionista si è sostituito il manager, così al militante il politico di professione, al sindacalizzato il dirigente sindacale. La società si è burocratizzata e ha un potere sullo Stato; la mediazione del conflitto, d'altro canto, passa attraverso i vertici burocratici: il singolo individuo non conta.
Per completare il quadro, è necessario anche ricordare le nuove burocrazie create dallo Stato assistenziale (o welfare State) per soddisfare i nuovi bisogni di assistenza e di sicurezza dei lavoratori, ma anche gli interessi occupazionali di una nuova classe media, che continua a crescere fra l'antica borghesia e l'antico proletariato e che, per la propria sicurezza, sempre meno accetta la logica del mercato. Per la sicurezza sociale sono state create nuove burocrazie, nuovi apparati che, per essere al di fuori della classica cornice della vecchia amministrazione, sono più autonomi dallo Stato, che pur li finanzia, e tendono ad ampliare la propria sfera d'azione e a chiedere maggiori risorse: l'esame economico del funzionamento delle burocrazie statali e parastatali oggi dimostra quanto siamo ormai lontani dal modello weberiano, costruito avendo come referente la vecchia burocrazia che era al servizio dello Stato per applicare lo Stato di diritto. In questi apparati c'è oggi un vero e proprio sviamento istituzionale, in quanto l'organizzazione non persegue tanto i fini assegnatile dalla comunità, ma i propri fini particolari: essa, infatti, cerca di massimizzare le entrate, alle quali però assai spesso non risultano corrispondere adeguati servizi; riesce altresì a sottrarsi al controllo dell'assemblea rappresentativa, anche perché questa non possiede gli strumenti idonei per esercitarlo; e, infine, ragiona sempre in termini di organizzazione e non di mercato.
Forse aveva ragione Hobbes, quando temeva che le corporazioni diventassero tanti Stati nel ventre del grande Stato e minassero la sua unità e la sua autonomia, necessarie in vista dei suoi compiti squisitamente politici. Oggi il processo decisionale dello Stato passa attraverso una pluralità di burocrazie e di tecnostrutture, che hanno diverse fonti di legittimazione, attraverso le quali la società si è fatta Stato, e lo Stato è divenuto sociale: è un processo decisionale, frammentato e distorto in vista di sempre nuovi fini particolari, un tempo ritenuti non pubblici, perché privati o sociali. In questa logica della grandezza burocratica si verifica l'affermarsi di un nuovo mercato in cui si fa politica tramite il contratto: il mercato politico. Le antiche autonomie, neutrali o spoliticizzate, vengono di nuovo coinvolte dal politico, come l'economia, la cultura e il diritto, nella misura in cui i conflitti si spostano in questi ambiti. Ogni interesse, se organizzato, diventa pubblico e quindi politico, anche se la soluzione è sempre più amministrativa che politica, perché si tratta solo di questioni economiche, da risolvere con procedure burocratiche. Ma a questa pluralità di burocrazie manca il momento di una sintesi unitaria, che può essere data solo da una volontà superiore sovrana, una volta espressa dal re, poi dal governo rappresentativo. Nei contrasti e nei conflitti fra queste burocrazie il vecchio Stato è ridotto spesso a essere un mediatore, e talvolta è solo una parte fra le parti: per la gestione di una nuova economia domestica collettiva, e quindi per un'amministrazione contrattata della casa.
Come il sociale - gli interessi privati divenuti comuni - ha invaso lo Stato, così ha pure intaccato la sfera privata. La crisi dell'autonomia e dell'autarchia della vecchia famiglia era cominciata all'inizio dell'età moderna, con lo spostarsi dell'economia dalla casa al mercato. Poi, con l'avvento della società di massa, si è verificata una sostituzione di valori: il diritto naturale aveva difeso, in continuità col passato, il carattere sacro della proprietà, una proprietà però diversa dalla proprietà capitalistica, cioè dalla ricchezza e dall'accumulazione della ricchezza, perché era intesa come garanzia di libertà, di sicurezza e di protezione contro i rischi della vita. Ma, ben presto, la ‛ricchezza' (accumulazione, alti stipendi, protezione sociale), con la logica di una politica economica basata su di essa, intaccò sempre più la vecchia proprietà. Riducendosi così la proprietà della famiglia al mero lavoro, solo la garanzia pubblica, attraverso la pressione degli interessi privati organizzati, può tutelarla dai rischi e garantirla nel soddisfacimento dei bisogni essenziali. Nel contempo la famiglia cessa anche di essere la sede dell'educazione, della protezione, del sostegno morale.
La famiglia si riduce all'individualità, e questa alla mera interiorità: ma, mentre lo Stato assoluto aveva rispettato questo momento, la moderna società di massa impone un conformismo non più esterno, ma interno, cioè un'adesione, perché agisce - come intuì Tocqueville - direttamente sull'anima, con una pressione psicologica, e non sul corpo: lo scopo è di rendere uniformi gli uomini nella loro interiorità. Dopo l'invenzione del telefono e della macchina fotografica (siamo agli albori delle moderne tecnologie), nel 1890 venne rivendicato un diritto alla privacy, il diritto di essere lasciati soli, di non essere ne visti, ne sentiti, proprio contro la pressione dell'anonimo sociale: ora le tecnologie si sono raffinate e un pubblico impaziente esige di veder soddisfatte le proprie curiosità sugli altri. La sfera privata, garanzia dell'autonomia dell'individuo, si è impoverita nella solitudine: fuori, in una società atomizzata, ci sono solo folle o masse, non l'antica res publica, perché gli individui non sono fra di loro né in relazione, né separati: a unire i gruppi è solo l'interesse privato e, al di sopra degli interessi privati, non c'è più lo Stato.
8. Lo Stato neocorporato
Mentre nell'Ottocento la scienza giuridica tedesca, non senza nostalgie per lo Stato forte, per il Gesamtstaat della cameralistica, era tutta intenta a elaborare una Allgemeine Staatslehre, con il duplice fine di superare nell'unità dello Stato sovrano sia il dualismo fra re e popolo sia il conflitto di classe, e di fondare così la personalità giuridica dello Stato, O. von Gierke, rifacendosi alle teorie federalistiche di J. Althusius, riproponeva la teoria organica della societa, schierandosi così dalla parte di quest'ultima. In Das deutsche Genossenschaftsrecht (1868-1913), egli vede la società come un sistema di corporazioni che si incrociano in modo multiplo: sono i ceti (Stände), assieme alle comunità essenzialmente corporative (Gemeinde, Genossenschaften) naturali e volontarie (o artificiali), come la famiglia, la città, l'organizzazione del lavoro. L'unità statuale si può fondare solo costruendola dal basso, attraverso un processo federativo che parte da questa rete di corporazioni o comunità minori, le quali non sono qualitativamente diverse da quella più vasta comunità - anch'essa organica - che è lo Stato. Il problema è quello di mediare e integrare gli interessi sociali dei gruppi nello Stato, senza ridurlo al mero momento dell'Herrschaft. Il diritto, così, non è più inteso come espressione della volontà dello Stato, perché ha un altro fondamento a valle, cioè nella vita comune, nelle convinzioni di una comunità.
Il Gierke non creò in Germania alcuna scuola, ma ebbe un successo giuridico e politico in Inghilterra: ciò può sembrare strano proprio perché l'Inghilterra era assai più avanzata sul piano della modernizzazione sociale ed economica, per cui le corporazioni medievali erano il ricordo di un lontano passato, mentre la realtà vera, cui ci si trovava di fronte, era quella dell'associazione dovuta all'industrializzazione. Fu lo storico del diritto Fr. W. Maitland a recepire in Inghilterra la Korporationslehre: in Trust and corporation (1900) egli affrontò il problema teorico della natura della volontà delle ‛corporazioni' o della loro personalità giuridica, in base alla quale esse potevano agire nel mondo del diritto. Questa personae fictae deve la sua esistenza a una mera concessione del sovrano o il suo riconoscimento è la semplice presa d'atto di una volontà reale già esistente? Oggi il problema si è ancora spostato, perché l'associazione (come il sindacato) ritiene di avere un potere (sovrano) di autoriconoscimento e di autolegittimazione, di essere una personalità reale, di essere un ordinamento giuridico autonomo, originario e non derivato dallo Stato. Per Maitland è il trust a creare la corporation con la sua capacità giuridica; e non si riferiva soltanto a imprese e sindacati, ma a partiti, circoli culturali, associazioni, sette religiose.
Era stata così forgiata un'arma giuridica per una battaglia politica contro la sovranità dello Stato e la sua superiorità morale: dato che le associazioni non sono qualitativamente diverse dallo Stato, perché tutti sono personae fictae, si tratta allora di emancipare le prime dal secondo. H. Laski, in The foundations of sovereignty (1921) e in Authority in the modem State (1919), vuole appunto distruggere quella concentrazione di potere che è lo Stato, vuole ridurlo a una semplice azienda fornitrice di servizi, che non deve restare bloccata dal conflitto sociale. Proprio per questo, la sua rivendicazione andava al di là del pluralismo di fatto esistente, perché conteneva un progetto: la distruzione della concentrazione di potere esistente in quella corporazione che era il parlamento. Così, alla vecchia rappresentanza individualistica dei consumatori, organizzata territorialmente, egli contrappose una rappresentanza funzionale dei produttori, e cioè degli interessi reali, strutturata dalla singola fabbrica fino al Congresso delle gilde, il quale doveva rappresentare l'intera economia in una struttura federale. La rappresentanza dei consumatori veniva integrata da quella dei produttori non senza però evitare il pericolo che questi produttori si presentassero come le gilde medievali, come corporazioni naturali: insomma c'era il rischio di tornare ai vecchi ceti del Gierke, e quindi di uscire dal pluralismo. La teoria ebbe successo presso il fabianismo inglese, e - in versione assai depotenziata - venne attuata in alcune costituzioni di questo dopoguerra, come in quella italiana (con il Consiglio nazionale dell'economia e del lavoro). Ma l'istituzione costituzionale o pubblica, diretta a dare espressione agli interessi organizzati, non ha posto radici, anche perché l'accettazione - fra le due guerre mondiali - di strutture pubbliche corporative da parte di regimi autoritari o fascisti aveva screditato questa nuova organizzazione del potere, diretta a sostituirsi o ad affiancarsi alla rappresentanza.
L'intuizione però, sul piano della realtà dei fatti, era corretta: lo Stato contemporaneo, intervenendo nell'economia e diventando azienda, si era venuto subordinando alla logica del processo economico-industriale, quasi annullandosi in esso. Così esso ha perso il potere di decidere in modo autonomo, come superiore, perché costretto e imprigionato dalla logica dell'azienda e dai conflitti che in essa si davano. L'unità politica e l'unità produttiva tendevano a coincidere. La confusione del momento politico istituzionale - la vecchia forma giuridica dello Stato moderno che ha il monopolio del politico - con il processo socioeconomico - lo Stato azienda - mette in evidenza l'individuo non come cittadino, ma come portatore di un interesse organizzato, che si esprime tramite i vecchi partiti, ma soprattutto tramite i gruppi di pressione. Riappaiono così i vecchi ceti, uniti dal loro specifico interesse e organizzati a seconda della loro funzione nel processo produttivo: la società è di fatto organizzata per ceti, e lo Stato, che vuole amministrare questa società, non può essere che uno Stato neocorporato, in cui si perde la distinzione fra il politico e il sociale: è un governo di interessi organizzati burocraticamente da élites, un'azienda che distribuisce utili, cioè ripartisce il prodotto nazionale. Il vecchio Stato puntava ad avocare tutte le risorse disponibili in vista della propria potenza; lo Stato contemporaneo è, invece, un redistributore delle risorse tra i propri cittadini.
Dietro le istituzioni rappresentative, infatti, è apparsa in Europa nella seconda metà del Novecento, in modi e guise diversi, un nuovo tipo di rappresentanza informale: sull'onda del mito della partecipazione sociale (perché non degli individui, ma dei gruppi) si è affermato il corporativismo, il quale è appunto la rappresentanza degli interessi organizzati. Con neocorporativismo o anche corporativismo liberale non s'intende un'ideologia antiparlamentare o un regime politico autoritario, quali si sono dati fra le due guerre mondiali, ma una prassi più o meno informale, alle volte con procedure istituzionalizzate, la quale però non è prevista dalle classiche istituzioni costituzionali e non rientra negli organi dello Stato: il corporativismo attuale è, appunto, una prassi politica, più o meno consolidata, che formalmente appartiene al sociale e non allo statuale. Protagonisti di questo processo sono i grandi gruppi di interesse o gli interessi organizzati, che nella corporazione prendono corpo e acquistano una loro volontà: sono le associazioni dei lavoratori e degli imprenditori, che hanno come interlocutore il governo politico o meglio le sue amministrazioni. Queste associazioni non sono numerose e hanno una notevole capacità di imporre disciplina al proprio interno: sono riconosciute dal governo appunto per la loro rappresentatività. I gruppi di interesse o, meglio, di pressione possono così influire sul processo decisionale della politica economica e di quella sociale: in queste sedi si decide lo sviluppo economico, la programmazione, la politica dei redditi, la piena occupazione, la stabilità monetaria. Insomma il fine è un'economia concertata o contrattata.
Queste, un tempo, erano prerogative del Parlamento: è ancora difficile vedere se si tratta di una semplice differenziazione strutturale e di una specializzazione funzionale del sistema politico, per governare una società sempre più complessa, o, invece, se questa è l'espressione della duplice crisi sia dello Stato liberale rappresentativo, sia del mercato concorrenziale, o meglio della crisi del rapporto fra lo Stato e la sua funzionalità e le nuove forme della convivenza sociale basate sui gruppi organizzati (Verband), sui legami di alleanza e di federazione fra di loro (Bund), sui patti che li sanciscono. Forse la società borghese ha trovato la sua forma espressiva nella rappresentanza e quella di massa la troverà nello Stato corporato.
Il contrattualismo, su cui si basa oggi lo Stato neocorporato, è assai diverso da quello antico: allora il contratto, pur essendo un istituto privatistico, serviva a instaurare lo Stato e a legittimare il governo, era cioè alle origini della società politica per stabilire le regole del gioco; oggi, pur continuando a essere un fatto privato (non fra i singoli individui, ma fra le burocrazie delle grandi corporazioni che esprimono il sociale), è una prassi quotidiana per governare, per risolvere problemi determinati, cioè per regolare il rapporto bisogni-risorse, per la redistribuzione del reddito, per la sicurezza sociale: così quello che, un tempo, era il mercato economico, diventa ora un mercato politico, perché basato sul contratto, anche se lo scambio non è regolato dalla moneta, ma dal potere. Questo occulto processo decisionale - corporativo e federativo - si sostituisce alla sovranità dello Stato: nel governo rappresentativo la volontà dello Stato è espressa da una legge generale, votata dalla maggioranza, é un atto d'imperio rispetto al quale i privati sono sudditi; nello Stato neocorporato i patti privati esprimono sempre un compromesso fra le parti contraenti. Ciò ha una duplice, pericolosa conseguenza: non sempre le élites che guidano i gruppi organizzati interpretano la volontà delle loro basi; l'esistenza di gruppi organizzati, politicamente influenti, genera sempre, nell'universo dei cittadini, fenomeni di emarginazione e di esclusione. I produttori sono per numero assai inferiori ai consumatori, e l'alleanza dei primi contro i secondi è sempre possibile.
Il fine ultimo di questa collaborazione della rappresentanza degli opposti e diversi interessi organizzati con il governo è la riduzione del conflitto, per garantire, con una maggior pace sociale, l'aumento del reddito nazionale e la solidità economica dello Stato: si tratta appunto di armonizzare gli interessi in conflitto. Insomma prevale il momento dell'unità, della collaborazione in vista dell'interesse nazionale o del bene comune, ma è il patto o il legame federativo - e non lo Stato esterno - a mantenere unita la società.
La descrizione del nascente Stato neocorporato è difficile, proprio perché la fenomenologia politica è assai varia e diversificata: essa dipende soprattutto da due variabili, lo Stato e il mercato. Se è forte, è lo Stato a incorporare i gruppi di interesse, sino al punto da poter esercitare una vera e propria dittatura di piano; se è debole, è lo Stato a essere spogliato delle sue funzioni dai gruppi di interesse, col risultato di fungere semplicemente da notaio fra le parti in conflitto. Sempre però c'è uno scambio: da un lato lo Stato riconosce la rappresentanza degli interessi organizzati, dall'altro questi gli promettono un sostegno politico. E ancora: indipendentemente dalla forza o dalla debolezza dello Stato, questo corporativismo può essere aperto o chiuso all'entrata - nel processo politico - di nuovi gruppi di interesse; può derivarne una situazione caratterizzata dall'esclusione di pochi gruppi di carattere marginale o un'altra caratterizzata dalla presenza di pochi gruppi potenti muniti di potere di veto verso gli altri. L'altra variabile è il mercato concorrenziale, perché nei paesi in cui la mediazione degli interessi in conflitto trova in esso la sua sede, c'è poco spazio per l'affermarsi di tendenze corporative, mentre la debolezza del mercato o la crisi economica favoriscono il patto e, con esso, l'affermarsi di un regime corporativo-federativo, nel quale si potrà negoziare vuoi per obiettivi generali di lungo periodo, vuoi - più spesso - per interessi immediati.
Il corporativismo è l'opposto del pluralismo, anche se entrambi partono da un'unità intermedia fra l'individuo e lo Stato, la quale si basa sull'associazione. Ma il pluralismo è più un fenomeno politico, il corporativismo più un fenomeno economico, legato il primo all'ideale, il secondo all'interesse. Inoltre il pluralismo prospera nella società civile, il corporativismo cresce nel suo rapporto col governo, per cui il primo aspira a una società ‛aperta', il secondo a una società ‛chiusa': il primo presenta aspetti di fluidità e di mobilità, il secondo di rigidità e di ossificazione. I valori che presiedono a queste due società sono opposti: il pluralismo richiede individualismo, spontaneità, proliferazione, competizione nelle e fra le associazioni; il corporativismo li nega, perché l'organizzazione degli interessi nello Stato neocorporato deve essere limitata nel numero degli attori, controllata dall'alto, con scarsa competizione. Il pluralismo, per esistere, richiede la presenza di più élites rivali per la gestione del potere, mentre il corporativismo favorisce la formazione di una sola élite nella classe dominante dei grandi apparati. Infine ci sono due opposte filosofie della vita: il pluralismo è individualista e, per questo, privilegia quel libero contratto con cui l'uomo entra in rapporto con gli altri uomini; il corporativismo privilegia lo status, il corpo in cui l'uomo è inserito.
Questi sono due modelli ideali nettamente opposti, meglio, sono due occhiali, che ci possono consentire di penetrare più profondamente nella complessa realtà dello Stato contemporaneo, per verificare le contraddittorie tendenze, che in esso pur tuttavia si esprimono e che mostrano la difficoltà di una mediazione fra l'antica forma, che il politico aveva assunto con lo Stato rappresentativo, e le nuove realtà sociali dell'economia postindustriale. Si mantiene in tal modo l'antica tensione fra Stato e società, unità e pluralità, che lo Stato neocorporato tende appunto a superare e a eliminare.
9. Verso lo Stato post-moderno
Se, in una rapida sequenza, confrontassimo la geografia politica dell'Europa nel suo mutarsi da metà del Cinquecento a metà del Novecento, vedremmo sì spostarsi le frontiere - con maggiore intensità nell'Europa centrale - ma anche il permanere dei grandi protagonisti nell'arena internazionale della politica. La Francia, la Spagna, l'Inghilterra esistevano già nel Cinquecento; poi, dalla dissoluzione del Sacro Romano Impero - già a metà del Seicento, dopo la guerra dei Trent'anni - si delineano i nuovi poli di aggregazione statale intorno agli Hohenzollern, signori della marca del Brandeburgo, e agli Asburgo d'Austria: essi raggiungeranno piena dignità statale, nell'età del dispotismo illuminato, con Federico II e Maria Teresa; infine, nell'età delle nazionalità, la nascita di nuovi Stati-nazione, come l'Italia e il nuovo Impero germanico. Alla periferia e al centro, pur in mezzo a traversie, restano i vecchi Stati - il Portogallo, i paesi scandinavi, la Polonia - che in misura diversa hanno raggiunto l'unità e la modernità politica; al centro antiche repubbliche, ora riunite nella Confederazione elvetica.
Gli attori, i protagonisti della costruzione dell'Europa degli Stati sono gli stessi, ma, a metà del Novecento, la scena internazionale è totalmente cambiata, dominata da altre organizzazioni politiche, che si sono formate al di fuori di questa storia. I nuovi principali attori, che dominano la scena, sono gli Stati Uniti d'America e l'Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche. In America, il raggiungimento dell'unità politica conosce un processo opposto a quello dell'Europa, che fu un'espansione dal centro, dalla capitale verso la periferia: in America, infatti, ci fu un processo federativo, che - già a metà del Seicento - unì le città in unità politiche sempre più ampie, le quali poi con la Rivoluzione si federarono negli Stati Uniti, adottando un regime presidenziale. La Russia arrivò assai tardi alla modernizzazione, mentre l'unità politica venne raggiunta nelle forme del ‛dispotismo orientale' e nel cesaro-papismo di derivazione bizantina: prima della Rivoluzione, nel 1905, non poteva certo essere considerata uno Stato moderno, ma poi, dopo il 1917, la dittatura sovrana del Partito comunista bolscevico impose un'organizzazione del potere alternativa a quella europea, perché basata sulla sovranità del partito e non su quella dello Stato, un partito nato per modificare strutturalmente la realtà economica e sociale. Organizzazioni politiche opposte, perché la prima conserva il primato della società civile (e, con esso, l'autonomia del potere ideologico e di quello economico), mentre la seconda le nega ogni spazio e la confina nella dandestinità. Dal canto loro gli Stati europei, pur così vicini agli Stati Uniti per lo stesso principio di legittimazione democratica del potere, hanno però con più decisione scelto la via dello Stato sociale (Sozialstaat), per conciliare liberalismo e socialismo. Stati Uniti e Unione Sovietica hanno d'altra parte aspetti simili rispetto allo Stato nazionale europeo: sono organizzazioni politiche plurinazionali e multietniche, nonostante una certa egemonia culturale yankee o il persistente sciovinismo russo.
Nella seconda metà del Novecento si sono pure affacciati sull'arena politica mondiale i territori ex coloniali dell'Asia e dell'Africa, che, insieme alla Cina e alle società nate nel Sudamerica dalla conquista europea, formano il Terzo Mondo. Queste nuove realtà - salvo rarissime eccezioni - per darsi il massimo di coesione politica si sono richiamate a esperienze europee, che però erano estranee alla loro tradizione: un nazionalismo assai accentuato, che difficilmente però integrava le diverse etnie e le diverse razze; il mito dello Stato, che, quasi sempre, aveva la sua effettività nel solo potere militare; talvolta un sindacal-populismo esasperato. A queste nazioni emergenti manca di conseguenza tutta la ricca e complessa esperienza attraverso la quale si è formato lo Stato moderno europeo.
L'Europa degli Stati, del concerto fra le grandi potenze protagoniste di una storia plurisecolare, cessa con la prima guerra mondiale; dopo la seconda, l'arena politica internazionale da continentale è divenuta planetaria, e sempre più fitte e più strette si sono fatte le interdipendenze fra le vecchie e le nuove organizzazioni politiche. Questo è rivelato sul piano economico dal mercato internazionale, nel quale le variazioni del dollaro o l'aumento del prezzo del petrolio si ripercuotono immediatamente sulle economie dei paesi industrializzati. Inoltre il mondo è diventato più piccolo: da un lato la grande velocità dei trasporti si accompagna a una più intensa mobilitazione sociale fra nazioni e continenti, dall'altro i mezzi di comunicazione di massa rendono ogni avvenimento contemporaneo in ogni parte della superficie terrestre.
Tutto questo è ancor più manifesto sul piano politico: le antiche grandi potenze, un tempo signore della guerra, hanno perduto il diritto sovrano di dichiarare le ostilità, anche se le nuove grandi potenze lo vedono poi limitato dall'esistenza di sua maestà la bomba atomica. Le piccole guerre locali hanno però un'incidenza su tutto l'equilibrio politico mondiale, perché la pace è divenuta un fatto indivisibile: gli interventi di pacificazione dei grandi Stati sono di fatto mere operazioni di polizia. L'antico equilibrio fra le grandi potenze, sul quale si è costruita la storia degli Stati europei, è divenuto un equilibrio bipolare (Stati Uniti-Unione Sovietica), con la tendenza però di altri protagonisti (Cina, Giappone, Europa) ad affacciarsi sulla scena internazionale. Ma in questo precario equilibrio politico mondiale, l'antico ius publicum europaeum è venuto logorandosi, perché le nuove nazioni spesso mostrano di non accettare le antiche regole del gioco.
L'Europa degli Stati è stata costruita sostanzialmente dai re, perché furono essi (e i loro ministri) a esprimere quella volontà politica con la quale soltanto uno Stato può essere protagonista. A metà del Novecento l'Europa, anche se in alcuni Stati - molti dei quali piccoli - permangono di nome le monarchie, è di fatto repubblicana: essa, però, si travaglia nel grave problema irrisolto dell'unità dell'esecutivo, che possa esprimere la volontà dello Stato, perché sovente il governo è ridotto a una commissione parlamentare e imprigionato dai compromessi che questa comporta. Questa situazione spiega il ripiegamento nella politica interna, alla quale la politica estera viene subordinata.
A metà del Novecento gli Stati europei sono entrati in crisi perché il loro spazio territoriale è divenuto troppo piccolo. Sul piano economico si è resa necessaria la costruzione di un mercato comune, che ha implicato la rinuncia, da parte dello Stato, ad alcuni dei suoi antichi diritti sovrani anche nel campo della giurisdizione. Sul piano militare l'Alleanza atlantica ha portato a una parziale limitazione, da parte dello Stato, della propria libertà internazionale, con riferimento al proprio territorio (zone militari) e ai propri cittadini (i militari dipendenti dalla NATO). La costruzione di una comunità politica europea - imposta dall'impotenza degli Stati e ostacolata dalla loro resistenza - è ancora a mezza strada fra una confederazione o alleanza fra Stati, ancora sovrani, e una federazione fra Stati, munita però di alcuni poteri sovrani, quali il diritto di dichiarare guerra, di battere moneta, di nominare gli ufficiali, di esigere direttamente taglie e gravami: essa ha ora soltanto il potere di imporre dazi esterni, di controllare lo smantellamento dei dazi interni e di determinare e amministrare alcune politiche (agricola, sociale e regionale). Il luogo della decisione sovrana sembra scomparso. Lo Stato mercantile commerciale chiuso è però finito, anche perché, al di sopra degli Stati, si affacciano nel mercato mondiale le potenti multinazionali, che hanno un potere di decisione non soggetto ad alcuno: anche se non sono sovrane, dato che non hanno un territorio su cui esercitare i propri poteri in modo esclusivo, possono essere ritenute tali, nel senso che - entro certi limiti - non hanno un superiore. Per tutte queste ragioni è venuto ormai a mancare il centro che esprima l'unità politica.
Anche lo Stato nazionale è entrato in crisi. Là dove lo Stato ha creato e plasmato la nazione, le antiche etnie riappaiono e rivendicano le loro autonomie: in Spagna, i Baschi, i Catalani, i Castigliani; in Francia, la Bretagna e la Corsica; nel Regno Unito, l'Irlanda del Nord, la Scozia e il Galles. Si può dire di più: la guerra civile, che divampa nell'Irlanda del Nord come nei Paesi Baschi per motivi etnici e religiosi, dimostra il fallimento dello Stato sia nel neutralizzare il conflitto, sia nel realizzare un'integrazione nazionale. Anche dove sembra che sia stata la nazione a creare lo Stato permangono spinte e tendenze autonomistiche: in Italia, la Sicilia e la Sardegna, o l'Alto Adige e la Val d'Aosta; in Germania, la Baviera, mentre in Belgio il conflitto fra Fiamminghi e Valloni rimane irrisolto. Si può pensare che i processi politici in atto per ricostruire in Europa la nuova unità politica dovranno passare sulla distruzione dello Stato-nazione, meglio sulla distruzione dell'identificazione dello Stato con la nazione, perché il principio plurinazionale su cui essa si basa non può alla lunga non dare spazio e autonomia alle etnie o alle antiche nationes, seppure ridotte a realtà culturali e non a volontà politiche.
Gli Stati europei, nati e cresciuti per impedire la guerra civile interna, hanno sempre mirato a ributtare l'hostis, il nemico, sulle frontiere e là lo si combatteva; ma ora hanno riscoperto il nemico proprio all'interno del proprio Stato. Dopo la prima guerra mondiale il problema della pace e dell'ordine, cioè dell'hostis interno, diventa dominante: ci sono state le ideologie rivoluzionarie, come quella nazionalistica e quella comunista, che aspiravano alla sovranità per imporre con la forza un ordine nuovo, una diversa organizzazione sociale e istituzionale; e in alcuni casi conseguirono il loro scopo. Dopo la seconda guerra mondiale altri fenomeni si mescolano all'antico, per contestare l'ordine politico basato sulla rappresentanza. Ci sono fenomeni vecchi, come la riscoperta di un partito elitario veramente rivoluzionario o della democrazia diretta dei Consigli, che hanno portato ad alimentare un terrorismo endemico e diffuso. Ci sono fenomeni nuovi, dopo il grande boom economico, come l'ideologia del rifiuto, propria delle subculture non integrate alle quali i mass media danno largo spazio - basate sul negativismo, sul non utilitarismo e talvolta sulla malvagità e sulla droga; nelle battaglie contro le centrali nucleari si esprime politicamente la non accettazione della modernizzazione. Infine, gli immigrati del Terzo Mondo, nelle fabbriche e nelle università, rappresentano anch'essi un elemento di instabilità. Per tutto questo la violenza scoppia facilmente e devasta le metropoli: lo Stato non ha più il monopolio dell'uso della forza al proprio interno e l'esclusività del potere statale si è incrinata.
Sin dai suoi albori, lo Stato moderno aveva favorito la secolanzzazione, cioè un comportamento politico sempre più autonomo dai valori tradizionali e da quelli religiosi, perché dominato soltanto dalla razionalità in vista del fine mondano, che era rappresentato - nella cornice della propria legittimità - dallo stesso Stato di diritto. Ma, con l'avvento della società di massa - come aveva previsto Tocqueville nella Démocratie en Amérique - quella secolarizzazione cambia di qualità: non riguarda più ristrette élites colte, ma tutta la popolazione, non tocca la sola cultura politica, ma tutta la cultura, è una secolarizzazione di tutti e di tutto, che porta però non all'autonomia dalla tradizione e dalla religione in nome della ragione, ma a mettere in discussione ogni sistema di valore, ogni istituzione, ogni norma confutandone l'intangibilità. O meglio: se la prima secolarizzazione significa il trionfo dell'uomo autodiretto, che giudica in base alla propria ragione, con la crescente democratizzazione (e la massificazione che ne consegue) entrano in gioco scelte emozionali e non razionali eterodirette e la libera soggettività con il suo arbitrio domina sull'istituzione-norma. L'espansione del desiderio e dell'istintualità si scontra con la rigidità delle norme, come i movimenti collettivi insorgono contro le organizzazioni invecchiate e le istituzioni fossilizzate: non c'è un ponte fra il desiderio e la norma, fra la soggettività e le istituzioni, anche perché la società tecnologica richiede l'espletamento rigido di certi ruoli e di certe funzioni, per cui aumentano gli individui e i gruppi devianti e si rafforza l'anomia sociale. Insomma la secolarizzazione, favorita dai mezzi di comunicazione di massa e dalla rivolta contro qualsiasi autorità da parte del ceto intellettuale, ha finito per corrodere l'autorità, come i valori e i principî nei quali una società si ravvisa. Ma, senza questi valori e senza questi principî comuni una società non può sussistere, perché sono essi a consentire un'integrazione sociale non autoritaria e un cambiamento senza rotture catastrofiche: si dà, così, una pericolosissima tensione tra la crescente secolarizzazione e la necessità di mantenere un comune nucleo di valori prescrittivi. Non essendo più la società organizzata attorno a un valore o a un principio unitario, c'è soltanto un insieme di avvenimenti e di conflitti, spesso sui valori ultimi (la qualità della vita contro il benessere).
Lo Stato rappresentativo è, così, alla ricerca di una nuova legittimità, oltre quella che lo fondò nel recente passato, consistente nell'essere uno Stato legale, di diritto, che trova il suo fondamento nella sovranità popolare. Lo Stato, come il vecchio Stato assoluto, cerca ora di legittimare il proprio potere nella sua capacità di soddisfare il benessere e la felicità dei sudditi, cioè la spinta eudemonistico-sociale che muove la maggioranza della popolazione, anche se ristrette minoranze contestatrici hanno dichiarato guerra a questo modello di sviluppo. Lo Stato contemporaneo deve garantire il benessere e la felicità dei cittadini - compito svolto nell'età liberale dal privato - offrendo insieme una maggiore prosperità, dovuta alla crescita economica, e un sempre maggiore numero di servizi: lo Stato non si rivolge più al cittadino, ma al consumatore. Lo Stato democratico torna così a essere lo Stato paterno (Wohlfahrtsstaat) dell'assolutismo, contro il quale aveva polemizzato il liberale Immanuel Kant, che voleva responsabilizzare l'individuo a decidere sul proprio benessere: oggi l'individuo cerca più garanzie che libertà.
Ma proprio qui entrano in contraddizione due opposte esigenze: da un lato garantire quel processo di accumulazione, senza il quale non si dà uno sviluppo economico; dall'altro, procedere a una diversa allocazione delle risorse, sia ai fini di una maggiore eguaglianza, sia per riservare una maggior quota del prodotto nazionale ai servizi sociali. Problema di difficile soluzione, sia perché lo Stato può andare incontro a una vera e propria crisi fiscale, nel momento in cui non può più estrarre risorse da un'economia stagnante, sia perché esso, più ha esteso i propri compiti, più si è indebolito nella sua capacità decisionale, dato che ha visto aumentare contemporaneamente le domande di intervento statale e la partecipazione sociale alle decisioni. Ancora: in una società sempre più complessa e con un governo diffuso, lo Stato rischia di perdere il monopolio delle decisioni sulla spesa, costretto com'è a risanare deficit decisi da altri centri di potere.
Lo Stato contemporaneo si trova nella difficile situazione di avere meno forza, cioè capacità di coercizione, e meno consenso, che non sia mediato dal rapido soddisfacimento dell'interesse privato divenuto sociale. Questo ha finito per modificare profondamente la natura della vecchia rappresentanza: essa era nata per limitare e controllare la spesa dei re; oggi la rappresentanza, per ottenere voti e sotto la pressione degli interessi organizzati, spende facilmente, mentre l'arco temporale dei suoi progetti è assai breve. I dicasteri economici, quelli della finanza pubblica che regolano le entrate e le uscite, sono divenuti il luogo dove maggiormente si addensano i conflitti, perché la programmazione o la politica dei redditi resta la sola ed estrinseca forma di integrazione sociale: la grande anonima famiglia pubblica di oggi è tornata all'antichissima economia domestica. Ma qui lo Stato non appare come l'espressione di una volontà sovrana superiore, svincolata dai ceti e dalla società, al di sopra dei partiti e degli interessi organizzati: è solo il punto di incontro, il crocevia in cui essi si incontrano e trovano la loro mediazione.
Più che di Stato si potrebbe parlare di sistema: sistema, non solo perché tutto è interdipendente e non ci sono veri spazi autonomi, ma anche perché non c'è più un reale potere sovrano, né un comune punto di riferimento. Lo Stato è totale, perché è stato pervaso da tutta la società in un gioco ramificato e complesso, che però nessuno conduce, perché non c'è nessuno che possa decidere autonomamente. L'unità - un tempo - politica e giuridica dello Stato è data ora soltanto da tutta questa serie di interdipendenze in un sistema sociale sempre più complesso, il quale presenta una crescente differenziazione funzionale di apparati, che si sono autonomizzati da quello che era lo Stato: nelle società complesse esistono centri di potere ad altissimo livello decisionale, ma esiste anche un governo diffuso, cioè una direzione plurima del governo con autonomi centri decisionali. Lo Stato post-moderno può essere descritto e sintetizzato come l'eclissi della sovranità o meglio del potere sovrano. E scomparso il momento del gubernaculum, della decisione nei momenti d'eccezione, si è illanguidito il momento della iurisdictio, di una legge sovrana eguale per tutti: resta solo un intricato intreccio fra potere ascendente e potere discendente, fra sovranità popolare e apparati burocratici. Eclissi in un duplice senso: da un lato un potere sovrano può sempre rispuntare e imporre la sua nuova organizzazione della società, dall'altro nell'eclissi i colori si sfumano, diventano meno netti, prevale il grigio e tutto sbiadisce nelle sfumature. E un processo storico troppo a noi vicino per poterlo compiutamente decifrare e descrivere. Il potere sovrano dei re ha creato lo Stato, ma questo ha oggi perso la sua sovranità. (V. anche eguaglianza, liberalismo, libertà, parlamento, socialismo).
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