Stato
Termine e nozione
La lessicografia registra concordemente l'uso del termine Stato, nel linguaggio ordinario, per indicare l'organizzazione politica e giuridica di una comunità stanziata stabilmente su un determinato territorio. Tale organizzazione viene solitamente qualificata come unitaria e sovrana: unitaria, perché raffigurabile nella forma di una persona giuridica, cioè di un soggetto giuridico collettivo; sovrana, perché titolare di un supremo potere di governo, grazie al monopolio dell'uso legittimo della forza, sia sul versante domestico (ordine pubblico) sia sul versante delle relazioni internazionali (belligeranza).
L'uso comune mostra così di recepire in pieno la nozione dottrinale di S. come elaborata, nel corso del Novecento, dalla letteratura giuspubblicistica. Nel panorama giuspubblicistico italiano, per es., S. Romano definisce significativamente lo S. come "ogni ordinamento giuridico territoriale sovrano, ossia originario" (Corso di diritto costituzionale, 1926, p. 49) e C. Mortati ripete, nelle molte edizioni del suo fortunato manuale, che lo S. è un "ordinamento giuridico a fini generali esercitante il potere sovrano su un dato territorio, cui sono subordinati in modo necessario i soggetti ad esso appartenenti" (Istituzioni di diritto pubblico, 19699, p. 23).
L'evoluzione novecentesca della nozione dottrinale di S. è avvenuta in massima parte all'interno di un paradigma definitorio fortemente debitore nei confronti delle formulazioni originarie di M. Weber e G. Jellinek. Il primo sostiene, in un noto passo, che "per Stato si deve intendere un'impresa istituzionale di carattere politico nella quale - e nella misura in cui - l'apparato amministrativo avanza con successo una pretesa di monopolio della coercizione fisica legittima, in vista dell'attuazione degli ordinamenti" (Wirtschaft und Gesellschaft, 1922; trad. it. 1974, 1° vol., p. 53). Weber pone in stretta correlazione tre processi: la crescente pacificazione ed espansione del mercato; la monopolizzazione dell'uso della forza legittima da parte di un gruppo politico; la razionalizzazione delle regole per l'applicazione della violenza fisica. L'affermazione dello S. come fonte ultima di ogni legittimità della violenza fisica è vista in dipendenza della posizione del concetto di ordinamento giuridico legittimo, in sintonia con la percezione che il potere effettivo statuale si manifesti nella condotta quotidiana dell'amministrazione. Jellinek, dopo aver individuato nei rapporti di volontà tra dominanti e dominati, che si ritrovino in un continuum spazio-temporale, l'elemento oggettivamente distintivo della fenomenologia statuale, definisce lo S. come "l'unità di associazione di uomini con sede fissa, dotata di un potere di dominazione originario" (Allgemeine Staatslehre, 19143; trad. it. 1921, p. 370). Tale unità di associazione si chiarisce nel concetto di personalità giuridica ovvero nella relazione tra un soggetto collettivo e l'ordinamento giuridico. Lo S. è pertanto, per Jellinek, un soggetto giuridico, più specificamente una corporazione (Körperschaft), cosicché la precedente definizione può opportunamente essere trascritta nel seguente modo: lo S. è "la corporazione territoriale dotata di un potere di dominazione originario" (p. 374).
Le formulazioni di Weber e Jellinek hanno concorso a delineare un modello di S. costruito su tre caratteri fondamentali: l'indicazione dei rapporti statuali come rapporti di dominio poggianti sull'esercizio esclusivo della forza fisica; il tendenziale assorbimento del 'politico' nello 'statuale' proprio in virtù della minaccia di coercizione fisica da parte dell'apparato dello S.; la progressiva compenetrazione tra S. e ordinamento giuridico in modo che l'ordinamento statuale sia per sé stesso ordinamento giuridico e l'ordinamento giuridico esaurisca le modalità di esistenza e di azione dello Stato. Contemporaneamente e conseguentemente si è attenuato l'interesse teorico per i tre tradizionali elementi dello S. - ossia, popolo, territorio e sovranità -, conservati nell'impianto della dottrina dello S. in posizione secondaria o funzionalmente alla nuova equilibratura giuridica delle categorie statuali. La stessa sovranità, apparentemente esaltata nella sottolineatura della dimensione di dominio dei rapporti statali, ha subito, per mano di Jellinek, un'eloquente riduzione a 'concetto giuridico', dato che viene negato il suo significato di onnipotenza dello S. e la si assume, tecnicamente, come quella "proprietà di un potere statale, in forza della quale questo potere possiede la capacità esclusiva di giuridica autodeterminazione ed autoobbligazione" (Allgemeine Staatslehre, 19143; trad. it. La dottrina generale del diritto dello Stato, 1949, p. 76).
Si può sostenere che le teorizzazioni sullo S. dei maggiori giuristi e politologi del Novecento si siano mosse, con intenti conservativi di affinamento o con intenti demolitivi di superamento, comunque all'interno di questo modello. Anche le due contrapposte figure eminenti del pensiero giuspolitico novecentesco - H. Kelsen e C. Schmitt - ne sono espressione, rispettivamente nell'accordo e nel disaccordo. La coappartenenza di S. e diritto è stata da Kelsen perfezionata nella teoria dell'identità di S. e ordinamento giuridico. La qualificazione di entrambi come ordinamenti coattivi della condotta umana non consente di vedervi due distinti fenomeni sociali. Lo S. è un ordinamento giuridico e propriamente un ordinamento giuridico accentrato, in cui, a seguito del processo della divisione del lavoro sociale, si formano organi centrali aventi la funzione di curare la produzione e l'esecuzione delle norme che lo costituiscono. Coattività e normatività determinano interamente la natura del concetto kelseniano di S.: l'atto dello S. "non può presentarsi in altro modo che come atto giuridico, come atto di produzione e di esecuzione di norme giuridiche" (Reine Rechtslehre, 1934; trad. it. Lineamenti di dottrina pura del diritto, 1967, p. 142); il popolo e il territorio dello S. si risolvono nell'ambito di validità personale e spaziale delle norme che compongono l'ordinamento giuridico statuale; la sovranità dello S. è concepibile solo come la positività di un ordinamento giuridico nazionale. Il meccanismo giuridico della coazione svela pure il potere politico dello S. come potere organizzato dal diritto positivo: "Il 'potere' non consiste nelle prigioni e nelle sedie elettriche, nelle mitragliatrici e nei cannoni; il 'potere' non è alcuna sorta di sostanza o entità nascosta dietro l'ordinamento sociale. Il potere politico è l'efficacia dell'ordinamento coercitivo riconosciuto quale diritto" (General theory of law and state, 1945; trad. it. 1952, p. 195).
La teorizzazione kelseniana dell'identità di S. e diritto, se da un lato, pur partendo da una dura critica della teoria jellinekiana dell'autoobbligazione dello S., mostra il suo rapporto di prosecuzione con l'opera jellinekiana di concettualizzazione giuridica dello S., dall'altro lato, mostra pure con evidenza la sua affinità con l'analisi weberiana. A proposito è stato osservato come la struttura gerarchica dell'ordinamento giuridico kelseniano sia la rappresentazione più adeguata dello S. legale-razionale weberiano, così da poter concludere: "lo Stato è lo stesso ordinamento giuridico (Kelsen) in quanto il potere si è completamente legalizzato (Weber)" (N. Bobbio, Diritto e potere. Saggi su Kelsen, 1992, p. 176). In Schmitt sembra, invece, avere il sopravvento un intento di differenziazione, che rischia però di non fuoriuscire, nell'ansia del rovesciamento, dal recinto teorico del modello prevalente. La definizione di S. - "Stato è lo status politico di un popolo organizzato su un territorio chiuso" (Begriff des Politischen, 19323; trad. it. in Le categorie del 'politico': saggi di teoria politica, 1972, p. 101) - acquista, infatti, il suo significato principalmente dalla sconfessione dell'assimilazione del 'politico' a 'statale'. Al contrario, il concetto di S. presuppone quello di 'politico', fondato autenticamente sulla distinzione amico-nemico e non riducibile, se non attraverso il circolo vizioso di una doppia identificazione dello 'statale' come 'politico' e del 'politico' come 'statale', all'aspetto tecnico-pratico della decisione giuridica o amministrativa. Così precisata l'essenza del 'politico', lo S. si chiarisce, per Schmitt, come la condizione dell'unità politica di un popolo, raggiungibile grazie all'indispensabile unione del principio di identità (in virtù del quale il popolo è presente a sé stesso, avendo la capacità di distinguere tra amico e nemico) e del principio di rappresentanza, nella quale unione viene espressa "la contemporaneità del dominare ed esser dominati, del governare ed esser governati" (Verfassungslehre, 1928; trad. it. 1984, p. 285). La concezione schmittiana dello S. rappresenta una seria minaccia al modello statuale prevalente, la cui propensione giuridica viene contestata per mezzo di una ridefinizione del concetto di sovranità, orientata sul soggetto che decide sullo stato d'eccezione. La questione della sovranità viene risolta in quella del soggetto della sovranità, ponendo in luce come l'essenza della sovranità statuale riposi non sulla norma, ma sulla decisione che dichiara la presenza di uno stato di normalità o di un caso eccezionale. L'esistenza dello S. non può, quindi, essere ridotta alla validità di un ordinamento giuridico, poiché fattore determinante dell'autorità statuale non è il monopolio della sanzione, ma il monopolio della decisione ultima. Malgrado tutto ciò, sembra, tuttavia, che nel pensiero di Schmitt persista un'importante traccia del modello statuale prevalente sia nella conservazione del rapporto di dominio quale principio identificativo dell'unità politica di un popolo, sia nell'estremo riconoscimento di un valore giuridico della sovranità, dal momento che "anche il caso d'eccezione resta accessibile alla conoscenza giuridica, poiché entrambi gli elementi, la norma come la decisione, permangono nell'ambito del dato giuridico" (Politische Theologie, Vier Kapitel zur Lehre der Souveranität, 19342; trad. it. in Le categorie del 'politico': saggi di teoria politica, 1972, p. 39).
Si può dire, a questo punto, che il modello teorico di S., scaturito dalle analisi di Weber e Jellinek, perfezionato da Kelsen e resistente alla critica di Schmitt, costituisca il nucleo irrinunciabile della nozione di S. che ha attraversato tutto il Novecento e ancora sottende l'uso comune del termine. In breve, tale modello prevede due assi, l'uso della forza e la giuridicità, sui quali si incardina il rapporto politico tra l'istituzione statuale e la società. La maggior parte della problematica riguardante l'ideologia, la struttura e la funzione dello S. contemporaneo può ricevere adeguata lettura attraverso questa lente.
Società e Stato
Nella rappresentazione del rapporto tra società e S. si radica tanto l'ideologia della legittimazione dello S. contemporaneo quanto l'ingegneria istituzionale dell'azione statuale. Il primo aspetto, che qui si affronta, fornisce materia per i discorsi politici sullo S.; il secondo (per il quale v. oltre) costituisce uno dei criteri per l'individuazione, storica e teorica, delle forme di Stato.
Nella cultura ufficiale ottocentesca ha prevalso la tipica convinzione che lo S. sia l'istituzione tutelare della società. Impegnata nel duplice sforzo di superare l'antica predominanza degli istituti giuridici privatistici, difesa a oltranza dal ceto dei giuristi contro il vincente movimento delle codificazioni statualiste, e di contrastare le pretese del laissez faire per uno S. indifferente e inerte rispetto agli svolgimenti della vita sociale, la cultura giuridica e politica ottocentesca ha diffuso, con efficacia pedagogica, l'immagine di uno S. intimamente coinvolto nella missione esclusiva della realizzazione del "principio eterno della giustizia". Lo S. persegue il fine dell'umanità e agevola lo sviluppo di "tutto ciò che è buono, bello, vero, umano", rivelandosi non come un'istituzione arbitraria e convenzionale ma come "un'opera progressiva della natura razionale dell'uomo". Lo S. non è, insomma, "un male necessario, ma un ordine sociale del bene; non è un meccanismo, ma un organismo" (H. Ahrens, Cours de droit naturel ou de philosophie du droit, 18442, p. 173).
Nel panorama giuspolitico novecentesco, questa immagine dello S. come valore etico, coronamento e motore dello sviluppo storico-sociale, ha subito un progressivo deterioramento, conservandosi per lo più all'interno della dottrina neohegeliana dello Stato etico, strenua assertrice dell'universalità e moralità della volontà statuale, in cui trova attuazione l'autonomia degli individui, l'esistenza del popolo e la creazione della nazione (cfr. G. Gentile, Genesi e struttura della società, 1943, p. 57 e segg.). Al posto dello S. come principio spirituale si è affermata, invece, l'idea dello S. come meccanismo, un meccanismo specificamente giuridico e coercitivo, che trova la ragione della propria esistenza e i motivi della propria legittimazione o delegittimazione nella conformazione dei rapporti sociali.
Questa impostazione si può ritrovare al fondo di molte analisi eminenti del fenomeno statuale, anticipatrici e ispiratrici di un'azione politica sorretta dall'effetto di delegittimazione di uno S. visto come oppressore delle istanze della società civile o come gestore della repressione per conto della classe o del gruppo dominante. È facile inserire in questo profilo la teorizzazione marxista e alcune componenti del pensiero cattolico sullo Stato.
Nella rivisitazione operata da V. Lenin, in Gosudarstvo i revoljucija (1917), della dottrina marx-engelsiana dello S. si dice, in modo emblematico, che "lo Stato è il prodotto e la manifestazione degli antagonismi inconciliabili tra le classi" (trad. it. Stato e rivoluzione, 1970, p. 61). Lo S. si origina dalla situazione conflittuale della società civile come "organo del dominio di classe, un organo di oppressione di una classe da parte di un'altra" (p. 61). Lo S. viene allora definito da Lenin, sulle orme di F. Engels, come una "forza repressiva particolare" (p. 74), dotata di strumenti di potere - tra cui, in primo luogo, l'esercito permanente e la polizia - , al fine di perpetuare lo sfruttamento della classe oppressa da parte dei possessori dei mezzi di produzione. Una diversa strutturazione economica della società civile, liberata dagli antagonismi causati dal sistema capitalistico e caratterizzata dal possesso comune di tutti i mezzi di produzione, condurrebbe quindi, per Lenin, all'estinzione dello S., venendo meno i motivi della sua creazione. Tale concezione leniniana, pur lasciando intravedere la tendenza dello S. a porsi come apparato della forza relativamente indipendente, si presta a esser ridotta a uno schematismo semplicistico, riecheggiante la vulgata marxista del rapporto struttura-sovrastruttura. Più consapevoli della complessità della relazione tra società e S. appaiono, perciò, quegli autori marxisti ai quali non sfugge la delicata questione della specifica natura giuridica dello S. e della autonomia, seppur relativa, della sfera giuridico-statuale. Acuta si rivela, al riguardo, la domanda di E. Pašukanis sul perché il sistema della coercizione statuale abbia assunto i "caratteri distintivi di apparato pubblico impersonale, separato dal corpo della società" (Obščaja teorija prava i marksizm, 19273; trad. it. La teoria generale del diritto e il marxismo, 1975, p. 150), e la sua risposta nei termini di una riconduzione dell'astratta giuridicità normativa dello S. alla caratteristica d'astrattezza della "società produttrice di merci" (p. 151). E minuzioso appare il tentativo di N. Poulantzas di dimostrare come la concezione dello S. quale strumento della classe dominante sia "particolarmente inadatta a cogliere il funzionamento dello Stato capitalistico" (Pouvoir politique et classes sociales de l'État capitaliste, 1968; trad. it. 1971, p. 327), contraddistinto da una "specificità delle sue strutture, relativamente autonome in rapporto all'economico, nella loro relazione con la lotta politica di classe, relativamente autonoma in rapporto alla lotta economica di classe" (p. 328).
Alcuni rappresentativi autori cattolici nutrono, invece, la preoccupazione che il meccanismo dello S. contemporaneo trascenda la sua funzione di garanzia dell'ordine pubblico e tradisca le sue finalità di giustizia, perdendo di vista il traguardo del bene comune e arrivando, così, a opprimere insopportabilmente la società e il suo corpo politico. Tale preoccupazione, insorta dallo spettacolo della degenerazione totalitaria dello S., anima, per es., le pagine di J. Maritain, il quale, sebbene riconosca nella crescita dello S. come "meccanismo razionale e giuridico" e come "meccanismo tecnico" un innegabile fattore di progresso, ne contesta la soggettività giuridica e la dignità di persona. Maritain ricorda che "il fine supremo dello Stato è il bene comune della società politica, e viene prima del fine immediato dello Stato, che consiste nel mantenere l'ordine pubblico" (Man and the state, 1951; trad. it. 20033, p. 27), traendone la conclusione di un'inferiorità dello S. rispetto al corpo politico e di una continua esigenza di controllo esercitato dallo stesso corpo politico sullo Stato.
Si può qui notare una potenziale contraddizione. I criteri di legittimazione o delegittimazione dello S. imperniati sull'uso statuale della forza ammettono inizialmente la natura di meccanismo dello S. ma finiscono, poi, per riversare sullo strumento statuale le approvazioni e le critiche più correttamente indirizzabili ai sistemi di valori sociali perseguiti o agli assetti sociali esistenti o proposti. Hanno, quindi, almeno il pregio di sfuggire a tale contraddizione quelle concezioni che, esasperando l'idea dello Stato guardiano notturno della teoria liberale classica, raccomandano l'esistenza di uno Stato minimo, "ridotto strettamente alle funzioni di protezione contro la forza, il furto, la frode, di esecuzione dei contratti, e così via" (R. Nozick, Anarchy, state and utopia, 1974; trad. it. 1981, p. xiii), e condannano, come violazione dei diritti degli individui, ogni sua estensione nella direzione del conseguimento della giustizia distributiva tra i cittadini.
È, peraltro, palese quanto possa essere carente, nei contesti dottrinali illustrati, una lettura del rapporto società-Stato basata solo sull'opera repressiva della forza, senza l'integrazione dell'elemento della regolazione giuridica. Sotto questo aspetto non sortisce un minore effetto di ridimensionamento della figura dello S. la considerazione alternativa di un ordine giuridico non discendente dalla volontà statuale, identificata nella legislazione come volontà dei governanti, ma dalla realtà sociale, così da determinare il convincimento - difeso soprattutto da L. Duguit (Le droit social, le droit individuel et la transformation de l'État, 19222) - di una formazione sociale del diritto secondo il principio di solidarietà. Né sortisce un minore effetto di delegittimazione dell'attività statuale eccedente la funzione assegnata l'opinione di colui che, adeguando il punto di vista liberale agli sviluppi del mondo contemporaneo, dichiara la preferibilità delle società e delle strutture che si autogenerano spontaneamente, "mentre le organizzazioni deliberate [lo Stato], basate sul potere di coercizione, tendono a divenire una camicia di forza che si dimostra dannosa non appena usa i suoi poteri al di là dell'applicazione di norme di comportamento necessariamente astratte" (F.A. von Hayek, Law, legislation and liberty, 1982; trad. it. 2000, p. 514).
Forme di Stato
Nella teoria dello S. si distingue, in verità non sempre con la medesima convinzione e precisione, tra forme di S. e forme di governo, dove le prime descrivono il campo dei rapporti tra società civile e istituzioni politiche ovvero il prodotto delle svariate combinazioni possibili tra gli elementi dello S. (per es., popolo, territorio, sovranità), mentre le seconde riguardano l'organizzazione e la distribuzione del potere tra gli organi statuali e la trama costituzionale delle loro relazioni. La trattazione di tali forme può seguire diversi criteri. Si può adottare il criterio della rappresentazione storica dei tipi di S. e di governo; un criterio ideologico di individuazione dell''ottimo' S. o governo; un criterio 'scientifico' di costruzione di modelli capaci di decifrare e classificare la ricca fenomenologia degli S. e dei governi. Appartiene alla tipologia delle forme di governo, per es., la classica distinzione aristotelica tra monarchia (governo di uno), aristocrazia (governo di pochi) e democrazia (governo di molti); alla tipologia delle forme di S. la rappresentazione della successione dei tipi di S. assoluto, rappresentativo, socialista, totalitario.
Per quanto riguarda la problematica delle forme di governo, l'attenzione sembra concentrarsi, all'inizio del 21° sec., sull'evoluzione della forma repubblicana, storicamente vincitrice nel teatro politico del secolo scorso, impegnata nell'alternativa parlamentarismo-presidenzialismo. Per quanto riguarda, invece, la problematica delle forme di S., è sempre viva la discussione su quei tipi di S. - S. costituzionale di diritto, S. sociale - che meglio riflettono la giuridicizzazione dei processi di organizzazione e manifestazione del potere statuale e dei rapporti tra società civile e sistema politico.
Lo Stato costituzionale di diritto appare come la rimodulazione dell'idea e delle strutture ottocentesche e novecentesche dello Stato di diritto in modo da sfuggire ai pericoli di un giuspositivismo formalistico insensibile all'accoglimento preventivo di nuclei determinati di valori. Nella forma dello S. di diritto, di schietta matrice liberale, veniva perseguito il fine di controllare e limitare il potere statuale attraverso la posizione di norme giuridiche generali e astratte. L'esercizio arbitrario del potere era contrastato con una progressiva regolazione dell'organizzazione e del funzionamento dei pubblici poteri, che ha come scopo sia la 'diffusione' sia la 'differenziazione' del potere, rispettivamente, attraverso istituti normativi (unicità e individualità del soggetto giuridico; eguaglianza giuridica dei soggetti individuali; certezza del diritto; riconoscimento costituzionale dei diritti soggettivi) e modalità istituzionali (delimitazione dell'ambito di esercizio del potere politico e di applicazione del diritto; separazione tra istituzioni legislative e amministrative; primato del potere legislativo, principio di legalità e riserva di legislazione; subordinazione del potere legislativo al rispetto dei diritti soggettivi costituzionalmente definiti; autonomia del potere giudiziario), comunemente e correttamente considerati come parti integranti della nozione di S. di diritto (sul punto, N. Luhmann, Politische Planung, 1971, trad. it. Stato di diritto e sistema sociale, 1978, pp. 31-52; D. Zolo, Teoria e critica dello Stato di diritto, in Lo Stato di diritto. Storia, teoria, critica, a cura di P. Costa, D. Zolo, 2002, pp. 33-44). Il limite di tale forma di S. è noto e riconosciuto: il rapporto tra supremazia della legge e legittimità del potere produce un insoddisfacente effetto di controllo dell'attività statuale, poiché trascura i contenuti veicolati da decisioni assunte nel rispetto della procedura indicata e perciò giuridicamente valide. Questa indifferenza nei confronti dei contenuti risulta, inoltre, aggravata dalla predicazione della complementarità, tipicamente liberale, tra il principio dell'autonomia individuale e il principio dell'astensione statuale in campo economico e sociale. Non deve quindi stupire se anche la nozione di S. di diritto abbia subito nel tempo un letale impoverimento, testimoniato dalla sconcertante affermazione kelseniana per cui, data l'identità tra S. e ordinamento giuridico, ogni S. è necessariamente S. di diritto, e dalla conseguente messa in liquidazione del principio politico della separazione dei poteri, in virtù di una riduzione di legislazione, amministrazione e giurisdizione a semplici 'gradini' del processo di produzione dell'ordinamento giuridico.
Lo S. costituzionale di diritto risponde alla caduta di efficacia dello S. di diritto, sostituendo il principio di legalità formale con il principio di legalità sostanziale, che sottopone i contenuti legislativi e, a maggior ragione, i contenuti di ogni decisione giuridica a un esame di conformità con i principi e i diritti stabiliti in costituzione. Tale mutamento, procurato dall'introduzione nel secondo dopoguerra di forme di costituzioni rigide, cioè non riformabili attraverso il procedimento legislativo ordinario e indicanti contenuti assolutamente non disponibili alla stessa revisione costituzionale, tra cui, in primo luogo, i diritti fondamentali, si estende pure al principio della soggezione del giudice alla legge, rinnovato nella versione della soggezione del giudice alla legge "solo se valida costituzionalmente" (L. Ferrajoli, Lo Stato di diritto fra passato e futuro, in Lo Stato di diritto. Storia, teoria, critica, a cura di P. Costa, D. Zolo, 2002, p. 355), con dovere di censura nel caso di difformità costituzionale. La tipologia storica e dottrinale dello S. costituzionale di diritto comprende pure un fermo pronunciamento a favore della forma di governo democratica, vista come naturale prosecuzione del ruolo essenziale giocato dai diritti umani nella fondazione e nella perpetuazione della società politica e non avvilita nelle forme vuote di una democrazia meramente procedurale. Descrive il medesimo movimento con toni per molti versi convergenti chi, sottolineando l'ampiamento quantitativo e qualitativo dei compiti statuali, ritiene che la sopravvivenza dello S. di diritto sia legata a un incremento del processo di democratizzazione nella forma dello Stato democratico di diritto, in cui l'onere della legittimazione ricada soprattutto sulla genesi democratica del diritto, orientata sul rispetto del sistema dei diritti (J. Habermas, Faktizität und Geltung, 1992; trad. it. Fatti e norme, 1996, pp. 506-28).
La forma di Stato sociale ha come suo principio guida l'interventismo dei pubblici poteri in campo economico e sociale al fine di realizzare una diffusa situazione di benessere e di eliminare le più vistose sperequazioni di reddito e opportunità. Molti dei valori incorporati nell'idea di S. sociale possono già ritrovarsi nella Costituzione di Weimar (1919), che asserisce perentoriamente "la proprietà obbliga" (art. 153), volendo ciò significare che l'uso della proprietà debba essere rivolto tanto al bene privato quanto al bene pubblico e che la libertà economica dei singoli possa trovar tutela solo in un contesto che assicuri a tutti una degna esistenza umana (art. 151). Lo S. sociale si afferma, però, propriamente nel secondo dopoguerra con l'inserimento costituzionale dei diritti sociali (diritto al lavoro, alla salute, all'istruzione, all'assistenza e previdenza) e la previsione legislativa di istituti ed enti destinati alla loro tutela e alla gestione di risorse e servizi di così rilevante interesse generale da sconsigliarne l'affidamento in mano privata. Il valore dell'eguaglianza sostanziale - propugnato esemplarmente, nel panorama costituzionale occidentale, dall'art. 3, 2° co. della Costituzione italiana (1948) - e quello della solidarietà sociale si affiancano, così, all'elenco delle classiche libertà fondamentali, stabilendo un rapporto non sempre conciliato con i principi dello S. di diritto. Se, infatti, è indubbio l'apporto dei principi e degli istituti dello S. sociale al processo di integrazione democratica di massa che ha coinvolto gli S. costituzionali nella seconda metà del Novecento, neanche v'è dubbio che, come evidenziato dalla dottrina, il richiamo al 'sociale' contenga una vena polemica verso la ripartizione dei beni, non collimante con l'intenzione garantista dello S. di diritto, portata a registrare lo status quo sociale (cfr. E. Forsthoff, Rechtsstaat im Wandel, 1964; trad. it. 1973, pp. 67-70). Da qui la difficoltà di attribuire rango costituzionale ai principi dello S. sociale e il loro affidamento alle cure della legislazione e dell'amministrazione, con la sospetta motivazione che discipline legislative e regolamenti amministrativi possano assecondare l'ampiezza della domanda sociale meglio delle 'lapidarie' norme costituzionali.
I principi dello S. sociale sono stati esposti a una violenta controffensiva liberistica, mirante ad assicurare l'espansione dell'economia di mercato in ogni settore di produzione e di fornitura di servizi. Allo S. sociale è stato rimproverato l'alto costo di mantenimento, da coprire attraverso esose politiche fiscali, e un continuo disturbo del regime di libera concorrenza, con l'effetto di innalzare i prezzi di forniture e prestazioni. Dopo una fase di euforia neoliberistica, sembra, però, che prevalga, nell'ultimo decennio, l'idea di una saggia combinazione di pubblico e privato (Welfare mix), capace di assicurare, nello stesso tempo, la tutela sociale dei ceti più deboli, riconosciuta necessaria per la salvaguardia della democraticità del sistema politico, e il rispetto dei meccanismi dell'economia di mercato. L'attenzione per la dimensione sociale mostrata dall'Unione Europea, dal Trattato di Amsterdam (1997) al Trattato che adotta una Costituzione per l'Europa (2004), testimonia la realtà di questo orientamento, che ha trovato nell'adozione del principio di sussidiarietà un indispensabile strumento di attuazione.
Crisi dello Stato
Il tema della crisi dello S. attraversa tutto il Novecento. Già nel 1910 S. Romano intitolava Lo Stato moderno e la sua crisi una, ben presto celebre, prolusione, in cui constatava l'insufficienza dello S. a rappresentare i nuovi interessi sociali. La teoria politica marxista ha insistito nel leggere le crisi dello S. come un momento connaturato alla riproduzione del dominio di classe e alla riproduzione del capitale nello stadio monopolistico e postmonopolistico. All'inizio del nuovo secolo il tema ha però raggiunto un'ampiezza e una radicalizzazione inedite a seguito dell'osservazione del declino dello Stato-nazione per effetto dei processi inversi di localizzazione e di globalizzazione.
Da una parte, la compattezza dello S. appare minata dall'attribuzione di vaste competenze legislative e amministrative a comunità territoriali regionali, in una prospettiva di decentramento decisionale, rispondente a un'esigenza, presuntivamente democratica, di limitazione della sovranità statuale dal basso e, comunque, di più sollecita aderenza a bisogni e interessi localizzati. Dall'altra parte, la decadenza e la marginalizzazione del ruolo dello S. nell' ambito del sistema complessivo dell'economia e della società si mostra chiaramente nella sua incapacità di determinare e regolamentare una serie di fenomeni di portata planetaria e nella sua sostituzione con una rete di poteri pubblici ultrastatali. È facile notare come le dimensioni e le interdipendenze mondiali dei mercati economici e finanziari, le cooperazioni produttive e gli effetti non circoscrivibili ad aree nazionali delle produzioni tecnologicamente avanzate, la diffusione delle tecnologie automatizzate nei settori dell'informazione e della comunicazione siano, di fatto, fuori della portata 'territoriale' del potere statale. Il singolo S. non detiene strumenti di regolamentazione e controllo adeguati per tali fenomeni, né può offrire efficace tutela a individui e comunità, che si ritrovino lesi dall'attività di enti e società multinazionali, sfuggenti al suo dominio giuridico. Si affermano, quindi, forme di giuridicità sempre più indipendenti dal sigillo statuale. In campo privatistico, l'utilizzo dello strumento negoziale assicura, specialmente nel settore del commercio internazionale, l'autonomia dei contraenti dalle rispettive discipline legislative, fino alla scelta della disciplina in assoluto più vantaggiosa o del foro più accessibile. In campo pubblicistico, si osserva lo sviluppo di un ordinamento globale composito, caratterizzato dall'integrazione e dalla sovrapposizione di livelli giuridici statali, internazionali, sovranazionali e transnazionali. Organizzazioni generali (ONU) e settoriali (WTO), organizzazioni nazionali (UE), accordi (GATT, NAFTA) formano l'aggregato di una global governance, che presenta una struttura cooperativa reticolare contro l'assetto gerarchizzato statocentrico, coltiva in prevalenza valori economici e materiali, e privilegia conseguentemente i criteri della corretta amministrazione sui principi della politica (Cassese 2002, pp. 14-20).
Se i processi di globalizzazione svelano impietosamente l'inarrestabile sottrazione di materie alla competenza legislatrice dello S. sovrano, il colpo più grave inferto allo S. contemporaneo appare quello dell'imposizione di un limite di diritto all'attività dello S., costituito dall'accettazione di un sistema di diritti umani garantito dal diritto internazionale. I diritti umani, originariamente espressi nella Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo (1948), ribaditi e specificati fino ai primi anni del 21° sec. in un numero rilevante di carte e convenzioni internazionali, fissano contenuti indisponibili al legislatore statuale e impegnano gli organi dello S. al loro rispetto e alla loro protezione, prevedendosi sanzioni contro lo S. violatore o inadempiente, decise dalla comunità internazionale e applicate con il concorso degli altri Stati. In questo quadro rientrano la creazione di tribunali penali internazionali, per giudicare sui crimini contro i diritti umani compiuti da individui coperti dall'autorità dello S. o direttamente da organi e corpi statali, e gli interventi armati a fine umanitario, condotti a difesa dei diritti umani di popolazioni inermi da coalizioni di S. su richiesta o autorizzazione dell'ONU, fenomeni che, con diverso significato politico, segnano il tramonto del principio di non ingerenza negli affari interni dello S., primo corollario del dogma della sovranità statuale.
Non v'è dubbio che è assai mutata la percezione della figura e della funzione dello S. nella coscienza individuale e collettiva: lo S. non è più avvertito come il garante esclusivo della convivenza civile ma l'opinione pubblica internazionale associa spesso il suo nome a situazioni di conflitto o di rischio per la pace. Vi sono, inoltre, pochi dubbi sul profilarsi di un embrionale processo di costituzionalizzazione oltre lo S. (il sistema internazionale dei diritti umani) e senza lo S. (il caso della costituzione europea) che lasci intravedere l'apertura di uno spazio giuridico pubblico alternativo, maggiormente immunizzato verso le tentazioni d'una politica di potenza. Sembra, però, affrettato da qui concludere su una crisi irreversibile dello S., poiché l'uso della forza, cui ricorrere per l'esecuzione di ogni atto giuridico che concerna ambiti globalizzati o per la stessa protezione del sistema dei diritti, permane, in ultima analisi, in mano statale come da mano statale provengono ancora - in mancanza di una valida e affidabile alternativa - la maggior parte delle prestazioni riguardanti bisogni sociali e fini collettivi.
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