STATUTI DEL COMUNE ITALIANO
Indicano la normativa comunale, espressione tipica dell'autonomia del comune cittadino rispetto a un superior, in primo luogo l'imperatore. È quindi comprensibile che l'atteggiamento generale di Federico II non sia stato favorevole nei loro confronti. Ciò non ha impedito che proprio nella prima metà del sec. XIII un numero considerevole di comuni dell'Italia centrosettentrionale sia venuto a dare alla propria normativa un aspetto più solido e duraturo, e dai frammentari e singoli statuta sia passato alla redazione organica di una raccolta delle disposizioni vigenti, via via accumulatesi nel tempo: si forma così il liber statutorum, o più semplicemente lo statutum cittadino, che si presenterà spesso come l'emblema dello ius proprium civitatis e dell'autonomia comunale in contrapposizione al diritto e al potere imperiale. Sovente su esso giureranno fedeltà al comune i suoi diversi reggitori prima di entrare in carica.
Non è da escludere che nei momenti iniziali i singoli statuta comunali fossero temporanei, ma l'affermazione della disciplina statutaria ne comportò una vigenza senza limite cronologico: la stessa redazione del liber statutorum, al fine di una più agevole conservazione e conoscenza della normativa comunale, ne è una significativa testimonianza. Con il termine di statutum o statuta si indicano perciò le fonti normative comunali, ben distinte ‒ e sottostanti ‒ rispetto alla lex e agli iura imperiali: esso serve per riferirsi tanto ai singoli provvedimenti quanto al libro in cui sono riuniti, con un'ambivalenza che può a volte indurre a qualche confusione, trattandosi di due realtà spesso diverse fra loro (Gualazzini, 1958, p. 8).
Sebbene sia una raccolta con aspirazione di organicità, lo statuto ha peraltro sempre un contenuto specifico di ius proprium civitatis, che deve essere collegato allo ius commune (v.), civile e canonico, ma anche imperiale (e quindi pure fridericiano). Il liber statutorum non è certo un codice nel senso moderno del termine, con aspirazioni di completezza e generalità nella materia contenuta, ma è una semplice raccolta del diritto cittadino: come diritto speciale locale può anche applicarsi per primo rispetto ad altre fonti, ma presuppone sempre i concetti del diritto comune generale. Esistono anzi dei limiti, per quanto di opinabile valutazione: gli statuti sono infatti validi solo se non sono iniqua, cioè contrari al diritto divino e ai boni mores, né odiosa, cioè contrari al diritto imperiale e comune (Benedetto, 1971, p. 392). In tal modo il diritto statutario rientra nel sistema generale del diritto romano-canonico, ma nello stesso tempo risulta su-bordinato ‒ nella sua autonomia ‒ al principio dell'unità politica imperiale (unum imperium). In concreto, l'imperatore Federico II poteva quindi sostenere una generale pretesa ‒ peraltro di difficile realizzazione ‒ a che lo ius proprium civitatis non si rivelasse odiosum nei confronti della sua autorità.
Per i giuristi dell'epoca non è stata agevole la ricostruzione del fondamento dello ius statuendi in capo al comune, proprio quando la riscoperta del diritto giustinianeo e l'esplosione dell'insegnamento universitario concentravano l'attenzione sulla lex imperiale e sul diritto comune. In periodo fridericiano la glossa accursiana indica che questa prospettiva ‒ profondamente radicata nei doctores dell'epoca ‒ porta a una stratificazione di interpretazioni (Gualazzini, 1958, pp. 52-68): nella prima metà del Duecento i giuristi da un lato sono ben consapevoli del rilievo assunto dal comune e dai suoi statuti, dall'altro faticano a inserirli negli schemi concettuali del rinato diritto giustinianeo, che naturalmente li ignorava ed era imperniato sulla figura dell'imperatore.
Si sostenne allora che, poiché con la pace di Costanza del 1183 (cap. 10) Federico I Barbarossa aveva consentito che nelle città si giudicasse "secundum mores et leges illius civitatis", l'imperatore aveva ammesso l'esistenza di uno ius proprium civitatis, all'epoca costituito di mores, ma che si sapeva esistente nella forma scritta degli statuta. Questa ricostruzione, per quanto in qualche punto piuttosto forzata, aveva il pregio di inserire lo statuto (parificato alla consuetudine) entro la tradizionale duplicità delle fonti romane (lex-consuetudo) e di richiamare ‒ tramite la concessione ‒ il potere unitario dell'imperatore quale fonte del diritto secondo l'impostazione giustinianea, ma nello stesso tempo di individuare una ragionevole legittimazione generale degli statuta.
La teoria della permissio aveva però un punto debole nella sua stessa base di partenza: l'imperatore, come aveva 'concesso' lo ius statuendi, così poteva revocarlo. E proprio le rinnovate, violente ‒ e per un certo periodo anche fortunate ‒ lotte di Federico II contro l'autonomia dei comuni attestavano che l'eventualità non era affatto remota. I giuristi giunsero allora a impostare tutta un'altra spiegazione, autonoma dal potere imperiale, basata sulla iurisdictio: l'acquisizione di quest'ultima da parte dei comuni comportava pure il potere di fissare le regole entro le quali esercitarla, e quindi lo stesso ius statuendi. Sarà la motivazione che per lo più resterà nel tempo, ed era venuta emergendo proprio in risposta alla politica fridericiana, si può quasi dire per prevenire eventuali rinnovate contestazioni imperiali. Gli statuta cittadini avevano ormai raggiunto una dimensione tale da non consentire più dubbi sulla loro esistenza.
Il liber statutorum o statuto aveva una certa organicità, quasi sempre con suddivisione in parti, la prima delle quali conteneva le norme sull'organizzazione comunale e le magistrature cittadine; seguivano generalmente quelle sullo svolgimento del processo (civile e penale), sulla repressione penale, sulla scarsa disciplina privatistica, sulla delicata materia fiscale e della polizia amministrativa e rurale, a volte sulle corporazioni (Besta, 1925, pp. 537-540). La successione delle diverse parti poteva anche cambiare, ma la frequenza dell'imitazione tra un comune e l'altro condusse sovente a soluzioni simili, sia nella struttura della raccolta statutaria sia nella sostanza di numerosi capitoli interni.
La consolidazione nel liber statutorum dell'alluvionale normativa statutaria precedente non impedì una sua periodica revisione o integrazione, per lo più a cadenza annuale, o anche più breve, portando a una proliferazione di ulteriori specifici statuti, con una duplice conseguenza negativa. In primo luogo, il liber statutorum, se rappresentava il punto d'arrivo della normativa precedente, venne ben presto scavalcato dalla produzione statutaria successiva, con palese danno per la chiarezza e la certezza normativa. In secondo luogo, l'accentuarsi ‒ spesso tumultuoso e frenetico ‒ della produzione statutaria, sotto l'impulso dello spirito di parte, comportò una tale inflazione e mutevolezza degli statuti da causare la perdita di molta della loro autorevolezza nella stessa sfera cittadina ("legge di Verona dura da terza a nona", "tanto sottili / provvedimenti, ch'a novembre / non giugne quel che tu d'ottobre fili", come ebbe a dire Dante: Purgatorio VI, 142-144). Per cercare di sopperire a ciò si provvide allora a redigere nuove raccolte statutarie, continuando a lungo in tal modo, ben oltre l'età fridericiana: il periodo di maggiore incisività del diritto statutario può essere perciò considerato quello del sec. XIII, sino all'inizio del successivo.
La vivace attività statutaria dei vari comuni centrosettentrionali italiani fu particolarmente intensa durante tutta la prima metà del Duecento e numerose furono le occasioni in cui ebbe modo di essere influenzata ‒ in entrambi i sensi ‒ dalle iniziative di Federico II, a seconda delle città, delle situazioni locali e delle vicende politiche generali. Nel Regnum Siciliae la situazione si presentava invece in modo del tutto diverso, in conseguenza del ben più stretto controllo regio sulle città meridionali sin dal periodo normanno, che impedì l'emersione di un vero diritto locale autonomo: le consuetudines locali furono nel complesso collaterali e sempre soggette alla legislazione di Federico II. Il problema degli statuti si pose quindi per lui solo nei confronti dei comuni dell'Italia centrosettentrionale, anche se fu senza dubbio impegnativo e logorante, sia sul piano generale sia nelle singole e contingenti vicende delle lotte di fazione di ogni città dell'epoca.
Fonti e Bibl.: A. Lattes, Studii di diritto statutario, Milano 1887; E. Besta, Fonti: legislazione e scienza giuridica dalla caduta dell'Impero romano al secolo decimosesto, in Storia del diritto italiano, a cura di P. del Giudice, I, 2, ivi 1925; U. Gualazzini, Considerazioni in tema di legislazione statutaria medievale, ivi 1958; P. Costa, Iurisdictio. Semantica del potere politico nella pubblicistica medievale (1100-1433), ivi 1969; M. Sbriccoli, L'interpretazione dello statuto, ivi 1969; M.A. Benedetto, Statuti. Diritto intermedio, in Novissimo Digesto Italiano, XVIII, Torino 1971; U. Nicolini, Diritto romano e diritti particolari in Italia nell'età comunale, "Rivista di Storia del Diritto Italiano", 59, 1986, pp. 13-169; Legislazione e società nell'Italia medievale. Per il VII centenario degli statuti di Albenga (1288). Atti del Convegno, Bordighera 1990; Statuti, città, territori in Italia e Germania tra medioevo ed età moderna, a cura di G. Chittolini-D. Willoweit, Bologna 1991; Dal dedalo statutario. Atti dell'incontro di studio dedicato agli statuti, Bellinzona 1995; Gli statuti dei comuni e delle corporazioni in Italia nei secoli XIII-XVI, a cura della Biblioteca del Senato, Roma 1995; La libertà di decidere. Realtà e parvenze di autonomia nella normativa locale del Medioevo, a cura di R. Dondarini, Cento 1995; Repertorio degli statuti della Liguria (secc. XII-XVIII), a cura di R. Savelli, Genova 2003.