D'ARRIGO, Stefano
D’ARRIGO, Stefano (Fortunato Stefano)
Nacque il 15 ottobre 1919 ad Alì Marina (od. Alì Terme), da Giuseppe e Agata Miracolo.
Ad Alì Marina, piccolo borgo di pescatori affacciato sul versante ionico dello Stretto di Messina, visse fino ai dieci anni, insieme alla madre, al fratello Peppino e alla nonna paterna, mentre il padre si separò presto dalla famiglia per emigrare negli Stati Uniti.
L’infanzia sullo Stretto costituì il primo deposito dell’immaginario popolare e marino del prosatore. Sebbene il privato emerga raramente da un habitus tenacemente riservato questo periodo fa in parte eccezione, e nella scrittura è più volte indicato come fonte di ispirazione. In seguito, il periodo di Alì Marina ricevette un'investitura scopertamente programmatica. Nella lettera a Elio Vittorini del giugno-luglio 1960 (edita integralmente in «Il Menabò» di Elio Vittorini…, 2016, pp. 144-150), i ricordi d’infanzia sono elevati a effige di un nuovo epos dello Stretto e collocati, in via retrospettiva, all’origine stessa dello stile ricercato. In breve l’archetipo di comunità utilizzato per l’opera in fieri è dunque ricondotto all’esperienza infantile. Si tratta di un’umanità sospesa tra il destino anti-provvidenziale di «una pesca di perpetua carestia» e lo stupore che può tuttavia scaturire dalle cose marine per arricchire – se non altro – almeno il racconto e la parola, moltiplicandone la forza espressiva.
Nel 1929, dopo le scuole elementari, raggiunse Milazzo con la famiglia, per poi trasferirsi «allo scoppio della guerra» a Messina (lettera a Vittorini, in «Il Menabò»…, cit., p. 146), nel cui Ateneo si applicò alle materie letterarie. Prima di ultimare gli studi dovette arruolarsi tra i «forzati» volontari universitari, iniziando a frequentare il corso per allievi ufficiali a Udine, poi interrotto, per essere destinato a Palermo, dove fu applicato al Reggimento autieri del Corpo automobilistico dell’Esercito.
Nell’estate del ‘43 fu di stanza nel territorio messinese reso spettrale da devastanti bombardamenti alleati e dalla rocambolesca evacuazione tedesca. Assistette alla presa dello Stretto, che attraversò poco dopo le truppe alleate, «quasi frammisto alle mute scatenate degli intrallazzisti» (ibid., p. 149). Alla ricerca di parenti, ai primi di ottobre sbarcò nella Napoli appena liberata delle quattro giornate, dove soggiornò fintanto che il fronte degli Alleati rimase attestato sotto Cassino.
Ancora sotto le armi, discusse a Messina la tesi di laurea su Friedrich Hölderlin, la lettura del quale ebbe una certa influenza sulla sua scrittura (Biagi, 2013). La facoltà di lettere era rimasta a lungo chiusa, fin dopo lo sbarco degli alleati (Pelleriti, 2013, p. 92). Lo stesso D’Arrigo volle ricordare le circostanze di fortuna in cui aveva affrontato la tesi, «[…] fatta oralmente, vestito in divisa di caporale. Parlai di Hölderlin non nazista pazzo, che si cambia il nome con uno italiano. Non credo che piacque molto... c'era Galvano Della Volpe... rimasi sempre caporale» (cfr. G. Massari, L’Orca nasce da una piccola poesia. Intervista con S. D’A., in Tuttolibri - La Stampa, 29 settembre 1977).
Nella già citata lettera a Vittorini («Il Menabò»…, cit., p. 147) D'Arrigo sembrò volere minimizzare l'influenza del poeta tedesco (che nel panorama culturale italiano di allora era condizionata dalla propaganda nazifascista che dei temi hölderliniani di patria e nazione si era appropriata in chiave strumentale e ideologica), definendo come possibile «stranezza» l’attenzione riservata a un «poeta ingrato come Hölderlin». A partire dallo stigma crociano (v. Intorno allo Hölderlin e ai suoi critici, in La Critica, XXXIX [1941], pp. 201-214), infatti, e dalla conseguente revisione critica sulla Hölderlin-renaissance d'inizio secolo, si era affermata una lettura pregiudiziale. Ma nella stessa lettera, D’Arrigo rivendicò le ragioni del proprio interesse giovanile per Hölderlin, evidenziandole esattamente nel «conflitto fra poesia e follia, fra civiltà e barbarie, che fa la Germania», coniugando così, in un solo tratto, una delle proprie principali aspirazioni intellettuali e, al tempo stesso, un motivo di perdurante valore da tributare a Hölderlin tra le macerie del Novecento: non la nostalgia romantica per una vaga età dell’oro, quanto piuttosto il senso ben più intimo e complesso, di separazione dalla Heimat (G. Alvino - A. Mastropasqua, Le origini della poesia di S. d’A., in L’Illuminista, IX [2009], n. 25-26, p. 105).
Quello degli studi e della guerra, forzatamente confusi sul piano dell’esperienza, fu il periodo più movimentato e formativo. La maturazione personale e una prima riflessione consapevole intorno alla letteratura si svolsero infatti sulla scena della tragedia bellica che ebbe l’effetto di sconvolgere i riferimenti tradizionali e l’arcaica compattezza della cultura popolare. Ancora studente aveva dato forma alla propria sperimentazione, pubblicando nella stampa universitaria brevi scritti di gusto espressionista: Due scene, passo a due teatrale (nel mensile del Gruppo universitario fascista - GUF, Palermo, 15 aprile 1942) e Lettera come memoria a Michele, racconto breve in forma epistolare (in L’Ora della sera, 14 ottobre 1942).
Dopo la laurea visse tra Napoli e Messina fino al 1946 per poi trasferirsi a Roma, dove si dedicò al giornalismo e alla critica d’arte, particolarmente nel campo della pittura contemporanea.
Dalla capitale, prese avvio la corrispondenza con l’amico siciliano Cesare (Rino) Zipelli, che si protrasse, poi, lungo l'intero arco della vita. L’urgenza dello scrivere e, in nuce, uno stile che trovò sistemazione nel decennio successivo traspaiono fin dalle prime lettere del marzo 1946: «[…] chi ci salva dai personaggi irretiti che entro di me hanno fame (una fame) di parole, di luce: di morte da prenderseli tutti? […] Che siamo rispetto a questi diabolici, dolci personaggi che non “vedremo” mai sui nostri passi, ma che “saranno” sempre sui nostri passi? Paura o amore di questi personaggi non basta a tenerli in noi o a scacciarli […]».
La grafia claustrofobica che spesso satura il foglio, e che a volte ritorna nervosamente lungo margini e interlinee, descrive un uomo alle prese con le difficoltà del quotidiano, incertezze economiche, fragilità, nevrosi. Oltre al sostegno economico (soprattutto attraverso acquisti d’arte, ma non solo), Zipelli garantì all'amico un riferimento affettivo saldo e leale, quasi una figura paterna alla quale D’Arrigo confidava ogni cruccio e sconforto, affidandovisi per le più disparate necessità, curiosità, dubbi, a volte con reiterazioni e impazienza inaspettate. E proprio da Zipelli lo scrittore, raramente disposto ad allontanarsi dal ritiro romano, ricevette impressioni e riscontri dettagliati, soprattutto sulla vita marinaresca dello Stretto negli anni ’40 ch'ebbero peso nella stesura del capolavoro Horcynus Orca.
Nel 1948 si unì in matrimonio con Jutta Bruto. Conosciuta a Messina quand'era anche lei studentessa, divenne la compagna di tutta la vita. Di carattere forte e riservato, Jutta fu testimone della ventennale elaborazione di Horcynus Orca e in qualche modo complice nella “sfida al mondo” che D’Arrigo lanciò dal suo eremo, ricevendone affettuoso riconoscimento nella dedica «a Jutta, che meriterebbe di figurare in copertina con il suo Stefano».
A Roma abitò dapprima nei pressi di viale Libia e poi, dal marzo del 1958, nel quartiere Monte Sacro, in un appartamento al terzo piano di via dell’Assietta, n. 4.
Entrato rapidamente in contatto con gli ambienti del neorealismo e del realismo critico, strinse intensa amicizia con Ennio Flaiano, che gli presentò Renato Guttuso (cfr. M. Serri, D'A. Editori e amici ora lo dimenticano. La vedova ricorda e accusa…, 1993). Questi lo introdusse nell’ambiente della «Scuola romana» (Renzo Vespignani, Giovanni Omiccioli, Ugo Attardi, e altri). Frequentò la casa di Giuseppe Mazzullo, ritrovo di artisti e intellettuali fra cui Cesare Zavattini e Giuseppe Ungaretti. La critica d’arte, soprattutto in campo pittorico, divenne il primo impegno professionale di D’Arrigo presso varie testate (Espresso quotidiano, Settimana, Domenica, Omnibus; v. comunque sempre lettera a Vittorini, in «Il Menabò»…, cit., p. 149), e per case d’arte. Collaborò per alcuni anni con il settimanale di area comunista Vie Nuove occupandosi spesso anche di vendite di opere d’arte.
Nelle estati del 1949 e del ‘50 soggiornò a Scilla con Renato Guttuso e alcuni amici e artisti tra i quali Mazzullo e Omiccioli.
Dopo il passaggio sullo Stretto appena sconvolto dalla guerra, nel '43, D'Arrigo tornava a perlustrare i luoghi del mito omerico, questa volta interessandosi allo sguardo engagé, di stampo gramsciano, del pittore di Bagheria. Sguardo incentrato sulla tensione tra il passato mitologico dello Stretto, con la sua aura evocativa, e la ben misera condizione attuale dei suoi abitanti, che ispirò una ricca produzione, attentamente meditata dal critico d’arte. I due soggiorni a Scilla toccarono le corde di D’Arrigo, in una temperie intellettuale la cui rilevanza è ormai dato storico-critico acquisito (W. Pedullà, Introduzione, in S. D’Arrigo, I fatti della Fera, Milano 2000, p. 9; Palumbo, 2016).
Tuttavia, pur muovendo dalle medesime impressioni, D’Arrigo si spinse oltre l’engagement neorealista e marxista del pittore, iniziando a elaborare la propria personale riflessione, affatto particolare nel panorama culturale del dopoguerra: in alcuni articoli coevi manifestò, infatti, pensieri e spunti espressivi originali, delineando probabilmente il primo vero incunabolo della grande opera di attualizzazione postmoderna del mito, che dopo venticinque anni culminò nella pubblicazione di Horcynus Horca.
Il 25 settembre 1949, al rientro da Scilla, apparve nel Giornale di Sicilia l’articolo Delfini e Balena Bianca, nel quale D’Arrigo volle cogliere nell’opera di Guttuso «[…] una stupenda, per quanto forse involontaria contaminatio di Omero con Verga», che ben definisce anche la propria intenzione letteraria. A Scilla aleggiava un passato mitico, dove l’umanità attuale è descritta come una discendenza diseredata. Una comunità-archetipo perché fatta di «uomini che sono uomini, uomini (per dire di essi ciò che Gertrude Stein dice di una “rosa”)».
L’anno successivo D’Arrigo firmò Omiccioli fino a Scilla (nota di presentazione in Omiccioli, catal., 1950). Il pretesto era ancora l’ispirazione pittorica, suscitata questa volta in Omiccioli, dai soggiorni presso Scilla i cui abitanti sono nuovamente descritti come «ulissidi» alle prese con il loro «pauroso viaggio di ‘conoscenza’». Cominciò qui a svilupparsi un particolare ornato dell’espressione per descrivere ricche immagini marine e mitiche (reti, arpioni, lotta per il sostentamento, le morti per mare dei padri che non tornano, mostri, sirene, donne che «tessono e stessono per dieci e dieci anni» e ancora l’ambiguo delfino-fera), fino a formare nella nota al catalogo Omiccioli un autentico abbozzo narrativo. Nel quale si rinviene già la celeberrima frase di chiusura del romanzo: «circoscritta ma disperata, vasta avventura quotidiana di questi pescatori che remano chini e assorti, in un gesto severo e immutabile, in un tentativo continuamente ripetuto di condurre l’imbarcazione dentro, più dentro dove il mare è mare» (ibid., pp. 7 s.); parole, d’altronde, molto simili a quelle che D’Arrigo utilizzò poi nella lirica Sui campi ora in cenere di Omero pubblicata nel 1957 nella raccolta Codice Siciliano, a testimonianza della ininterrotta tensione tra le impressioni di Scilla e il traguardo letterario.
Nel decennio 1946-56 D’Arrigo sviluppò progressivamente una scrittura più metodica e consapevole. L’8 ottobre 1946, nel quotidiano di Roma La Tribuna del popolo, fu pubblicato il racconto breve Il Licantropo e il 31 luglio 1948 a Bologna su il Progresso d’Italia il racconto A Taormina con la nonna. Allo stesso periodo risale Il compratore di anime, progetto rimasto inedito di riduzione per il cinema del romanzo Le anime morte di Nikolaj Gogol' (Biagi, 2012-2013, p. 164).
All’inizio del '56 pubblicò tre poesie, usando per la prima volta il nome «Stefano» (cfr. lettera a Zipelli, 31 gennaio 1956). La produzione poetica incontrò il consenso dell’editore milanese Vanni Scheiwiller che, nel 1957, pubblicò Codice siciliano, raccolta di diciassette liriche che impressionò Giacomo Debenedetti e per la quale D’Arrigo fu insignito con il premio Crotone il 12 luglio 1958.
La giuria era composta da Ungaretti, Carlo Emilio Gadda, Umberto Bosco e dallo stesso Debenedetti, che viaggiarono verso Crotone insieme con D’Arrigo, rinunciando al proprio gettone per costituire un premio in danaro, non previsto «in quanto il “Crotone” originariamente è destinato ad opere di saggisti e meridionalisti» (cfr. lettera a Zipelli, 4 luglio 1958).
Un incoraggiamento tanto partecipato e autorevole favorì l’immediato esaurimento delle trecentocinquanta copie stampate, ma influì forse negativamente sull’editore Scheiwiller, che pochi giorni dopo avere presenziato al premio escluse D’Arrigo dalla pubblicazione sulla rivista Stagione definendolo il «lanciatissimo D’Arrigo Premio Crotone […] ottimo ragazzo […] poetino buono […] sopravvalutato e un po’ montato dall’ambiente romano» (lettera del 21 luglio 1958 al direttore della rivista Mario Costanzo Beccaria: Roma, Università «La Sapienza», Arch. del Novecento, Materiali di e su D’A.).
Nel 1961 la rivista Palatina pubblicò tre nuove liriche: Pregreca, Quando con mite e Per un fanciullo ingaggiato come angelo poi incluse nell’edizione del '78.
L’incedere meditato dei versi e la lingua ricercata, tra alta e popolare, mossero Giorgio Caproni a definire lo stile come parola “pittata”, «d’antica scuola siciliana»: una parola barocca, «ma di un barocco (passi l’anacronismo) che però va inteso soltanto nel senso migliore, per quel misto – per quella unificazione – di qualità pittoriche e scultoree insieme che le sue immagini in legno conservano sempre» (Caproni, 1956, p. 100).
Indubbiamente, l’effetto poetico è coltivato con potenza evocativa delle immagini e una forte espressività linguistica. Fra i temi ricorre un’elaborazione originale del nostos come separazione insanabile da un vincolo arcaico complesso: ora una lingua madre da riconquistare (In una lingua che non so più dire), ora una terra – o una vita – da cui non si può che emigrare, “spatriare” attraverso uno Stretto – o un trapasso – che apparirà per sempre incolmabile (Pregreca) proprio lì dove il mare Peloro ha ancora il colore del vino, come quello del mito, ma il remo vi è battuto con la mestizia di poveri pescatori verghiani (Sui prati, ora in cenere, di Omero). Tematica che trovò, successivamente, pieno sviluppo nella prosa.
La riflessione in atto dal ’49 e la ricerca espressiva sviluppata in poesia mossero D’Arrigo a concepire una tra le più ambiziose imprese letterarie del '900: Horcynus Orca, oggi riconosciuta come fulcro del superamento del neorealismo, attraverso una sperimentazione «in forma di espressionismo» (Pedullà, 2008, p. 32) e un’impostazione postmoderna del tutto unica, nella quale il senso di apocalisse del corso arcaico della Storia si innerva di simbolismi, grazie a una stimolante contestualizzazione novecentesca del mito omerico.
Sul piano formale, l'opera è stata definita un «poema epico in prosa, moderno cantare, più che romanzo» (Corti, 1976, p. 92); epica, quindi, anzitutto della parola. Che in Horcynus Orca viene spesso forgiata direttamente sulla pagina, attinge nuove forme e significati direttamente dalle cose, o dal deposito della cultura popolare dello Stretto. Una sequenza interminabile di metalogismi, neologismi, ripetizioni, assonanze, anastrofi, allitterazioni, antitesi, dilatazioni di ogni possibile mezzo espressivo che veramente, in questo romanzo, hanno fatto delle parole «il paradiso e l’inferno delle cose» (Lanuzza, 1985, p. 136). Primo Levi – fautore della parola esatta, veicolare e perfettamente traducibile – definì tale registro «esuberante, crudele viscerale e spagnolesco […] eppure mi piace, non mi stanco di rileggerlo ed ogni volta è nuovo. Lo sento internamente coerente, arte e non artificio; non poteva essere scritto che così» (Levi, 1981, p. 187).
Oltre al portato sperimentale e alla novità linguistica, in Horcynus Orca si trova un impianto concettuale possente che, a parte ogni plausibile varietà di consenso, assomma molto di ciò che ancora non esisteva nel panorama letterario italiano: un «libro-mondo», un grande romanzo del mare, e un denso nucleo di significati.
Il ritorno a Cariddi dopo l’8 settembre del ’43 del «nocchiero semplice della fu regia Marina ‘Ndria Cambrìa», assai breve nel tempo della fabula si fa interminabile nell’intreccio: discesa agli inferi, cospetto dell’ancestrale mitologico classico e junghiano; e, via via, esplorazione dell’onirico, contemplazione dell’enigma operoso della morte che neppure la mente più sopraffina e la parola ornata possono eludere. Un ritorno che attraverso tutti questi significati si assimila al viaggio «di conoscenza» preconizzato negli scritti di Scilla; non, dunque, il ritorno in patria del re di Itaca, ma il «folle volo» dell’Ulisse dantesco, che in D’Arrigo trasfigura nel navigare disadorno dell’Uomo tra le rovine del Novecento e della Storia.
Lungo il filo di quarantanove episodi, il miraggio di ‘Ndria Cambrìa, che spera di ritrovare la stessa civiltà di Cariddi che aveva lasciato, integra e arcaica, si dissolve tra le vischiosità sollevate dal passaggio del Leviatano: l’Orca mortifera, che è essenzialmente un simbolo arcano, tanto da sfuggire alla fissità di un nome comune, e perfino a quella del titolo del romanzo.
Horcynus Orca è, infatti, una denominazione binomiale tassonomica alterata, che, in quanto tale, non esiste né fuori né dentro il libro, ma solo nel titolo (v. sul titolo: W. Pedullà, Introduzione a S. D’Arrigo, I fatti della Fera, cit., p. XXXIV).
Il perché di questa impossibile collimazione, nell’Orca di D’Arrigo, tra nome e soggetto è rinvenibile nella sua entità ambivalente. Un’entità irriducibile tanto alla vita quanto alla morte, destinata a palesare la compenetrazione dell’una nell’altra «come un essere dell’altromondo, per il quale vita e morte facevano una cosa sola, e lui aveva, contempo, tutte e due le cose insieme e nessuna delle due» (cfr. Horcynus Orca, ed. Rizzoli, Milano 2003, p. 669). Una condizione che infine diventa monito enigmatico: al protagonista, dopo la discesa negli inferi della conoscenza, risulterà impossibile l’agognato approdo al luogo mitico di un’origine ancestrale e innocente. Se non, appunto, a costo della vita.
Infatti, dopo un viaggio fatto di innumerevoli incontri con popoli e personaggi dai tratti indimenticabili, sospesi tra la rivisitazione di Omero e il verismo verghiano, il protagonista non trova la quiete del ritorno ma una morte banale. Colpito da una sentinella mentre, a bordo di una lancia, era impegnato in un estremo tentativo di riscattare la propria comunità. E finalmente, i ragazzini con i quali si trova a bordo, mossi da un’urgenza dolorosa e commossa, loro soltanto in qualche modo redenti, lo riportano a casa, «[…] al loro mare […]. La lancia saliva verso lo scill’e cariddi fra i sospiri rotti e il dolidoli degli sbarbatelli, come in un mare di lagrime fatto e disfatto ad ogni colpo di remo, dentro, più dentro, dove il mare è mare».
La stesura di Horcynus Orca fu intrapresa nel 1956 («Lavoro molto, moltissimo per me e spero di avere presto pronto un secondo libro e non di poesie questa volta»: lettera a Zipelli, 28 novembre 1956), e durò fino all’autunno del 1974.
Il suo distacco dall’approccio ideologico e stilistico del neorealismo, e l'applicazione indefessa come condizione di legittimità dell’opera intellettuale misero D’Arrigo in una posizione sempre più appartata, che è stata paragonata ai «sepolti vivi» della letteratura (v. Giordano, 1989 p. 7). Inevitabile la rarefazione dei contatti con gli ambienti romani. Anche l’intensa amicizia con Guttuso si esaurì nel 1959 (cfr. lettera a Zipelli, 20 maggio 1959; Di Stefano, 2002); e nonostante una partecipazione alle riprese del film di esordio di Pier Paolo Pasolini Accattone (1961), nel quale D’Arrigo interpretò la parte del giudice istruttore, il suo atteggiamento verso il milieu si fece distaccato, quando non critico: il 23 luglio 1957 aveva scritto a Zipelli: «è per me sottile motivo di piacere che alcuni mi citino in funzione antipasoliniana»; e l’8 novembre 1958: «[…] gli esempi dei Pasolini che vanno facili al successo come le divette che partono puntando sul pane e sul resto».
Il testo definitivo fu preceduto da significative anticipazioni.
Il 23 aprile 1959 un primo nucleo, intitolato La testa del Delfino, vinse il premio Cino Del Duca, che vedeva tra i giurati Elio Vittorini, il cui interesse per l’opera in fieri era nato mesi prima, grazie a Guttuso (lettera a Zipelli, 11 febbraio 1959). Vittorini aveva trovato il lavoro «davvero buono» e propose di pubblicarne una parte sulla rivista Il Menabò di letteratura, condiretta con Italo Calvino; pubblicazione che poi avvenne nel numero 3 del 1960 (pp. 7-109) sotto il titolo I giorni della Fera, con in calce un controverso «glossario a cura della redazione», dovuto soprattutto alle perplessità di Calvino che, durante la preparazione del numero, confessò: «Come ho già detto a Elio il testo non l’ho letto, dopo le primissime pagine non capivo niente e ho smesso» (cfr. lettera al redattore Raffaele Crovi del 12 luglio 1960: Il Menabò» di Elio Vittorini…, cit., p. 154).
D’Arrigo, che aveva elaborato una lingua ben conciliata con l’idioma popolare, ma non vernacolare, si era opposto al glossario, chiedendo con un risoluto telegramma a Calvino (da quest’ultimo trascritto nella lettera a Crovi del 29 luglio 1960: ibid., p. 160) che ne venisse almeno annotata l’origine redazionale, a dimostrazione della riottosità al compromesso di D’Arrigo, e della raggiunta consapevolezza sul valore della propria ricerca.
Vittorini nella Notizia su D’A. pósta in calce, pur condividendo un certo scetticismo per l’uso del lessico meridionale in letteratura, riconobbe il rilievo dell’opera: «Quanto qui ora pubblichiamo […] non è un’opera compiuta. Fa parte di un “work in progress” ch’io non sono riuscito ad appurare in che anno, e come, e perché sia stata iniziata, e come sia andata avanti finora ma che ritengo possa restare soggetta a mutamenti e sviluppi anche per un decennio».
Di anni ce ne vollero ancora quasi quindici e Vittorini, che morì nel 1966, non poté leggere la stesura definitiva.
Ancor prima dell’uscita nel Menabò, Arnoldo Mondadori aveva proposto a D’Arrigo un accordo di edizione che gli valse la preferenza su Einaudi, Garzanti e Feltrinelli (lettera a Zipelli 26 ottobre 1960), e nell'ottobre del '60 il contratto con Mondadori era firmato. Da quel momento prese avvio la fase più intensa e tormentata del lavoro: un'impossibile conclusione imminente venne ripetutamente annunciata (lettere a Zipelli del 20 febbraio e del 16 settembre 1961); il titolo provvisorio divenne I fatti della fera, e nel settembre 1961 un primo dattiloscritto di 1305 cartelle fu consegnato all’editore.
Quando Mondadori restituì le bozze per la correzione finale offrì l’aiuto di collaboratori del calibro di Walter Pedullà e Niccolò Gallo, ma D’Arrigo tollerò pochissimi incontri. Promise di correggere da solo le bozze entro quindici giorni. Impiegò, invece, altri tredici anni, durante i quali la mole del testo aumentò fin quasi del doppio, con il titolo definitivo di Horcynus Orca.
Fu una fase assai critica. Il 6 marzo 1962 scrisse a Zipelli «sono entrato nelle ultime cento colonne e mi sembra perfino incredibile»; ma il 28 dicembre 1966, quasi con un lamento, ne scrisse in termini imperativi «…chiuderlo, chiudere…», e proprio a Zipelli chiedeva intanto nuove informazioni e riscontri, e indicava nuovi possibili sviluppi.
Anni di lavoro febbrile, la salute segnata da emicranie violentissime, crisi epilettiche («[…] a causa della mia malattia perdevo coscienza dieci volte al giorno»: cfr. Barrese, intervista, cit.; Serri, 1993, cit.), violenti tracolli nervosi e una serie interminabile di rinvii per la consegna.
L’appartamento di via dell’Assietta si riempì di carte, quasi tutte vergate a mano, aperte sugli arredi, distese sul pavimento o «appese con mollette lungo dei fili, quasi si trattasse di biancheria stesa ad asciugare» (G. Alvino, 2014, cit.) con estensioni incollate, esse pure scritte e glossate fino ai margini. Mesi attorno a poche righe, le tapparelle sempre chiuse, smisurate quantità di cachet contro il mal di testa, il rifiuto di cure sistematiche per non interrompere un lavoro magmatico e interminabile. Dall’eremo trapelarono notizie drammatiche, perfino epiche, che spesso finirono per procurare alla vicenda della scrittura un interesse, forse una curiosità, prevalente rispetto all’analisi (v. A. Falvo, Sepolti vivi per un romanzo, in Corriere della sera, 26 febbraio 1975).
Nonostante la dilatazione dei tempi, Mondadori non fece mai mancare il sostegno economico, e nel periodo più difficile, quando D’Arrigo, stremato, aveva dovuto ritirarsi presso gli Altipiani di Arcinazzo per ristabilirsi, lo andò a trovare, apostrofandolo per incoraggiarlo: «ho cominciato con d’Annunzio e voglio finire con D’Arrigo […]» (cfr. Serri, 1993, cit.). Finalmente, l’ultima parola fu vergata l’8 settembre 1974 giorno del quale D’Arrigo dichiarò «ho definitivamente alzato la penna dal libro» (Lanuzza, 1985, p. 139). Il 25 febbraio 1975, preceduto da una fama ormai leggendaria e da un inedito battage pubblicitario Horcynus Horca venne pubblicato, nella mole imponente di 1257 pagine.
Negli anni successivi i coniugi D’Arrigo continuarono a condurre una vita molto appartata, mentre il romanzo, tra reazioni contrastanti, riceveva crescente interesse. Era stato detto «Horcynus Orca darà da fare a strutturalisti, psicoanalisti, linguisti» (L. Mondo Venne il giorno dell’Orca, in La Stampa, 23 febbraio 1975); e così avvenne, in una fioritura di analisi, commenti di segno opposto e ingombranti silenzi cui l’autore assisteva con forte partecipazione emotiva (Serri, 1993, cit.).
Nel 1977 curò il Catalogo dell'opera antologica di Giuseppe Mazzullo, tornando, se pur occasionalmente, a occuparsi della sua antica professione di critico d’arte.
Nel 1978, Mondadori pubblicò la nuova edizione di Codice Siciliano, con l’inserimento delle tre liriche pubblicate per Palatina nel 1961: il poemetto Pregreca, che infuse una nuova, elevata, intonazione all’intera raccolta, Quando con mite e Per un fanciullo ingaggiato come angelo. Unico inedito inserito, Taormina, mia Mignon.
All’inizio degli anni Ottanta, D'Arrigo entrò in contatto con Moshe Kahn, interessato a una traduzione del romanzo in lingua tedesca ch'ebbe inizio sotto la sua supervisione (D. Orecchio, Moshe Kahn: come ho tradotto «Horcynus Orca», in Nazioneindiana - rivista on-line, 29 settembre 2016), ma che vide la luce solo dopo molti anni per i tipi dell'editore Fischer (Frankfurt a.M. 2015).
L’obiettivo di D’Arrigo divenne ben presto quello di sottrarsi alla fama dell’auctor unius libri costretto nel cliché della sperimentazione neoespressionista. «Ho avuto anni angosciosi e tormentosi […]. Dopo tutto questo travaglio credo, anche se posso sbagliare, di aver trovato quello che andava trovato: un dopo Horcynus insomma […]» (cfr. Il Resto del Carlino, 4 settembre 1982).
Questo “dopo Horcynus ” si concretizzò nel 1985 con la pubblicazione per Mondadori di Cima delle Nobildonne, romanzo dall’apparenza antitetica rispetto al primo: 202 pagine costruite con una lingua asciutta e veicolare, e un soggetto apparentemente scevro dalla contaminazione del mito. Si trattava di un superamento forse impossibile sul piano della ricezione: la sistemazione critica di Horcynus Orca era appena al principio e il suo stile ancora al centro del dibattito; ma ancora una volta, si trattò di un libro sui generis.
Nulla, invero, venne rinnegato della stagione precedente. La validità dell'elaborazione linguistica venne se mai rivendicata («le parole, combinandosi, scombinandosi, finiscono per rivelare verità segrete, difficili altrimenti da riconoscere»: Cima delle Nobildonne, Milano 1985, p. 149), ma il nuovo romanzo si colloca certamente oltre l’orizzonte neo-espressionista.
Ricorrono ancora la densità e perfino una stratificazione di riferimenti culturali ed estetici, che però non si appoggiano più all'ornamento sofisticato di un linguaggio mediterraneo, quanto all'intreccio enigmatico di simboli (antichissimi e modernissimi), con i riferimenti della cultura mitteleuropea.
Con un’immagine non casuale, che concentri il significato come su un francobollo, si potrebbe indicare il passaggio dal canto delle sirene di Omero, apparse «loquacissime» in Horcynus Orca (cfr. Pedullà, 2008, cit., p. 397), al silenzio delle sirene di Kafka, che in Cima delle Nobildonne esprime il senso dell’ineffabile. E questo, appunto, mediante una rarefazione della forma espressiva. Che sul finale, attraverso la figura di un cane-personaggio, culmina perfino nella dissoluzione del linguaggio umano.
Dopo l'ampiezza fluviale del romanzo-monstre, nella brevità del nuovo testo trovano spazio una diegesi vertiginosa, che connette il presente illuminato dalla fredda luce scialitica di una sala operatoria scandinava con l’Egitto del XXXI e del XV secolo a.C., riferimenti al tema del doppio, omaggi all’allegorismo e all’introspezione onirica kafkiana, al dubbio metafisico, alla cultura chassidica mitteleuropea, ricercati simbolismi, riferimenti autobiografici (E. Giordano, 1989). Al centro sta la placenta, di cui “Cima delle Nobildonne” è correlato denominale allegorico, mutuato dalla traduzione di Hatshepsut (= prima fra le donne elette), nome della donna-faraone del XV secolo a.C. il cui regno fu primizia del bien gouverner femminile ma subì la damnatio memoriae da parte del suo popolo, come avviene in ogni relazione placentare.
Organo venerabile anche dallo scienziato come emblema della trasmissione della vita, la placenta introduce al tema cruciale del romanzo: l’inaspettata scoperta di cellule patogene lungolatenti e letali, potenzialmente trasmesse al nascituro proprio dalla placenta. Una scoperta che riconduce fino a questa “prima madre” – effigie stessa della vita – la possibile origine della morte dell’adulto.
Se la più ancestrale ancella della vita trasmette il seme della morte, il dare alla vita è l’atto stesso del consegnare alla morte. Ne consegue per il placentologo Amadeus Planika una delusione annichilente e letale, attorno alla quale D’Arrigo elabora pagine di rara complessità.
Amadeus era nato con un gemello, Wolfgang, morto alla nascita nel giorno 15 di ottobre (che è anche il giorno di nascita di D’Arrigo, e il personaggio ha la stessa età dell’autore nel momento della scrittura). Con la ferale scoperta, la fiducia di Planika nella scienza (simbolo della condizione culturale contemporanea) e il mito regale della placenta-Hatshepsut crollano rovinosamente, uccidendolo. La coppia del nato-morto-Wolfgang e del nato-vivo-Amadeus si ricompone così in una unità sconcertante, già suggerita dall’identificazione autobiografica dell’autore e più scopertamente predicata dal binomio mozartiano.
Dopo Cima delle Nobildonne D’Arrigo continuò a lavorare, ma senza portare a termine pubblicazioni di rilievo, fatta eccezione per il breve racconto Chi l’ha visto quel traditore coi capelli alla nazzarena? (in Tuttolibri - La Stampa, n. 568, 8 agosto 1987, pp. 4 s.), e un frammento espulso da Cima delle Nobildonne intitolato L’Elefante dello Zambesi (edito per Almanacco della Cometa 1987, a cura di G. Appella - P. Mauri, Roma 1987, pp. 87-93). Un episodio espunto da Horcynus Orca apparve, invece, in L’Illuminista, la rivista diretta da Pedullà, nel 2009.
La moglie Jutta testimoniò di un manoscritto cestinato improvvisamente quando era quasi un romanzo compiuto: «storia di uno scrittore colpito dal morbo di Alzheimer che scriveva dei racconti due volte, prima e dopo la malattia» (Serri, 1993, cit.).
In una delle ultime lettere a Zipelli (datata 16 marzo 1991), D'Arrigo confidò di voler scrivere un nuovo romanzo, una storia «che abbia a che fare con la mafia, senza averci a che fare». Quasi a voler riprendere il filo della stagione trascorsa, quando la tumultuosa stesura di Horcynus Orca veniva nutrita dai riscontri sul campo che lo stesso Zipelli gli trasmetteva dalla Sicilia, di nuovo D’Arrigo chiese all'amico una mappa di insenature e approdi della costa, immaginando un tratto dalle parti di Scoglitti dove «descrivere due villini in zona solitaria, uno nella parte scogliosa, l'altro sulla rena, acquartierato, perché il capomafia che ci sta possa eventualmente difendersi» (G. Bonina, D' A. e il romanzo incompiuto sulla mafia, in la Repubblica, 5 marzo 2012).
L’ultimo biglietto dell’epistolario, in data 2 aprile 1992, è però soltanto un affettuoso saluto per l’amico di sempre.
Morì improvvisamente poco dopo, a Roma, il 2 maggio 1992, nel suo “unico luogo”, l’appartamento di via dell’Assietta, dove, come sempre, si trovava solo con Jutta e le sue carte.
Poesia: Codice Siciliano, Scheiwiller, Milano 1957; 2ª ed., con modifiche, «Lo Specchio» Mondadori, ibid. 1978. Prosa: Due scene (breve dialogo teatrale), in Mensile del Gruppo universitario fascista (Palermo), 15 aprile 1942; Lettera come memoria a Michele (racconto breve in forma epistolare), in L’Ora della sera (Palermo), 14 ottobre 1942; Il Licantropo (racconto breve), in La Tribuna del popolo (Roma), 8 ottobre 1946; A Taormina con la nonna (racconto breve), in Il Progresso d’Italia (Bologna), 31 luglio 1948; I Giorni della Fera (anticipazione di due episodi del romanzo in corso di stesura) in Il Menabò di Letteratura n. 3, 1960, pp. 7-109 seguito da un glossario a cura della redazione e dalla Notizia su S. D’A. di Elio Vittorini; Horcynus Orca, Mondadori, Milano 1975; 2ª ed., con introd. di G. Pontiggia, «Oscar» Mondadori, ibid. 1982; ed. Rizzoli, con introd. di W. Pedullà, ibid. 2013; ed. «BUR» (Rizzoli), ibid. 2017; I Fatti della Fera, ed. critica a cura di W Pedullà - A. Cedola - S. Sgavicchia, Milano 2000; Cima delle Nobildonne, Mondadori, Milano 1985; con introd. di W. Pedullà, Rizzoli, ibid. 2006; Chi l’ha visto quel traditore coi capelli alla nazzarena? (racconto breve), in Tuttolibri - La Stampa, n. 568, 8 agosto 1987; L’elefante dello Zambesi (frammento espulso da Cima delle Nobildonne), in Almanacco della Cometa, a cura di G. Appella - P. Mauri, Roma 1987 pp. 87-93; Un episodio escluso da Horcynus Orca, in L’illuminista, IX (2009), n. 25/26, p. 63.
Saggistica e principali articoli: Delfini e Balena Bianca, in Il Giornale di Sicilia, 25 settembre 1949; Omiccioli fino a Scilla (nota di presentazione), in Omiccioli (catal., Studio d’Arte Palma), Roma 1950; Catalogo dell'opera antologica di Giuseppe Mazzullo, Palermo, Palazzo dei Normanni (maggio-luglio 1977), Palermo 1978; James Joyce, in L’illuminista, cit., p. 71.
Carte e materiali di e su D’A. sono conservati rispettivamente in: Roma, Università «La Sapienza», Archivio del Novecento, Materiali di e su D’A. (qui è conservata, in particolare, la corrispondenza con Cesare (Rino) Zipelli, costituita da complessivi 191 scritti – fra lettere, biglietti e cartoline – vergati quasi tutti a mano, da cui emerge il profilo personale dell’uomo); Firenze, Gabinetto G.P. Vieusseux, Archivio contemporaneo «A. Bonsanti», fondo Stefano d’Arrigo (contiene in buona parte i materiali di redazione relativi a Horcynus Orca e il dattiloscritto inedito de Il compratore di anime morte); Università degli Studi di Milano, Centro Apice, Fondo Vittorini, che conserva corrispondenza di redazione della rivista Il Menabò di Letteratura fra cui la lettera di presentazione scritta da D’A. a Elio Vittorini nel giugno-luglio 1960 in vista della pubblicazione de I giorni della Fera, poi edita integralmente in «Il Menabò» di Elio Vittorini -1959-1967, a cura di S. Cavalli, Torino 2016 pp. 144-150 e la lettera di I. Calvino citata.
Su D'A. si vedano: G. Caproni D’A., De Giovanni, Peregalli, Poesie, in Letteratura, IV (1956), n. 21-22, pp. 100-108; E. Vittorini, Nota su D’A., in Il Menabò di Letteratura, 1960, n. 3, pp. 111 s.; G. Pampaloni Un nuovo narratore dialettale: S. D’A., in L’Approdo letterario, 1960, n. 12, pp. 106-109; Id., Orcynus Orca, in Nuova Antologia, marzo 1975, f. 2091, pp. 329-334; L. Mondo, Venne il Giorno dell’Orca, in La Stampa, 23 febbraio 1975; S. Lanuzza, Horcynus Orca di Stefano D’Arrigo Anatomia e Dialetto, in Prospetti, X (1975), pp. 58-64; Id., Scill’e Cariddi. Luoghi di «Horcynus Orca» (intervista a S. D’A.), in Lunarionuovo, Acireale 1985, pp. 133-139; Id., Cima delle Nobildonne di S. D’A.: la pienezza metamorfica della realtà, ibid., 1985, n. 34 (gennaio-febbraio), p. 2; M. Corti, Principi della comunicazione letteraria, Milano 1976, p. 92; N. D’Agostino Prime perlustrazioni di «Horcynus Orca», in Nuovi Argomenti, n.s., 1977, n. 56 (ottobre-dicembre), pp. 27-52; C. Marabini, Lettura di D’A., Milano 1978; R. Crovi, Quei messaggi in «Codice Siciliano», in Corriere della sera, 2 aprile 1978; G. Pontiggia, Archetipo di «Horcynus Orca», in La Sicilia, 21 marzo 1978; Id., Introduzione, in S. D’Arrigo, Horcynus Orca, Milano 1982, pp. 5-11; Id., Un eroe moderno, in Id., Il Giardino delle Esperidi, Milano 1984, pp. 208-220; P. Levi, La morte scugnizza, in Id., La ricerca delle radici, Torino 1981, p. 187; E. Giordano, «Horcynus Orca»: il viaggio e la morte, Napoli 1984; Id., Cima delle Nobildonne o della metamorfosi infinita. Saggio sull’ultimo D’A., Salerno 1989; W. Pedullà, Su quella cima una gran luce, in Il Mattino, 13 febbraio 1987; Id., Introduzione, in S. D’Arrigo, I fatti della Fera, Milano 2000, pp. V-XXXVI; Id., S. D’A., in Letteratura italiana del Novecento (Rizzoli-Larousse), Sperimentalismo e tradizione del nuovo. Dalla contestazione al postmoderno: 1960-2000, Milano 2000, pp. 115-156; Id., Introduzione, in S. D’Arrigo, Horcynus Orca, Milano 2003, pp. VII-XXXI; Id., Introduzione, in S. D’Arrigo, Cima delle Nobildonne, Milano 2006, pp. 8-16; Id., S. D’A.: nascita di una lingua, in Id., Per esempio il Novecento: dal Futurismo ai giorni nostri, Milano 2008, pp. 350-410, Id., L’infinto passato di D’A., in L’Illuminista, IX (2009), n. 25/29, pp. 307-348; G. Amoroso - F. Vincenti - G. Raboni, D’A. e il capolavoro: riflessioni su un lancio editoriale, in Letteratura italiana (Marzorati), Il Novecento, X, Milano 1988, pp. 870-886; G.A. Camerino, D’A. in versi, in Poesia senza frontiere e poeti italiani del Novecento, a cura di Id., Milano 1989, pp. 202-220; M. Serri, D'A. Editori e amici ora lo dimenticano. La vedova ricorda e accusa (intervista a Jutta Bruto D’Arrigo), in Tuttolibri - La Stampa, n. 839, 30 gennaio 1993; G. Alfano, Il viluppo della vicenda. Sistemi della narrativa in «Horcynus Orca» di S. D’A., in Filologia antica e moderna, 1994, n. 7, pp. 143-168; Id., Gli effetti della guerra in «Horcynus Orca» di S. D’A., Genova-Milano 2000; G. Alvino, Tra linguistica e letteratura. Scritti su D’A., Consolo, Bufalino, introd. di R. Galvagno, «Quaderni Pizzutiani IV-V», Roma-Palermo 1998, pp. 1-59; Id., Conversazione su D'A. (con Stefano Docimo), in Le reti di Dedalus (rivista on-line del Sindacato nazionale scrittori), ottobre 2014; S. Sgavicchia, Da «I Fatti della Fera» a «Horcynus Orca», in S. D’Arrigo, I Fatti della Fera, ed. critica, cit., pp. V-LXIII; A. Cedola: I fatti della Fera nelle lettere di D’A. a un amico, ibid., pp. XXXVII-XLV; P. Di Stefano, D’A.: vent’anni di solitudine, poi il romanzo, in Corriere della sera, 22 settembre 2002; S. Sgavicchia, Il folle volo. Lettura di «Horcynus Orca», Roma 2005; L’Illuminista, IX (2009) n. 25-26, cit., a cura di W. Pedullà (contiene saggi, articoli e materiali inediti di D'A., fra cui: G. Alvino - A. Mastropasqua, Le origini della poesia di S. d’A., p. 105); The Reception of James Joyce in Europe, a cura di G. Lernout - W. Van Mierlo, Londra 2009, pp. 354 s.; «Horcynus Orca» di S. D’A. (contiene le relazioni del seminario tenutosi a Cassino nel 2010), a cura di A. Cedola, Pisa 2012; D. Biagi, Il discorso straviato. S. D’A. e il romanzo del Novecento (diss.), Università degli studi di Trento, dipartimento di lettere e filosofia, a.a. 2012-2013; Ead., II poeta ingrato. D'A. lettore di Hölderlin, in D'A.: un (anti)classico del Novecento?, a cura di J. Nimis e con introd. di S. Sgavicchia, Tolosa 2013; E. Pelleriti, «Italy in transition, La vicenda degli Allied Military Professors negli Atenei siciliani fra emergenza e defascistizzazione», Acireale 2013, p. 92; S. Palumbo, D’A., Guttuso e i miti dello Stretto, Valverde 2016; «Il Menabò» di Elio Vittorini (1959-1967), a cura di S. Cavalli, Torino 2016, pp. 108, 144, 150 s.,154, 160, 554.