STEFANO da Ferrara (Stefano di Benedetto)
Del pittore non si conoscono le date di nascita e morte. Di origini ferraresi, la sua attività si svolse però principalmente nel Veneto, a Treviso, città in cui raggiunse il fratello Lanzaroto di Benedetto, anch’egli pittore (doc. 1346-50; Gargan, 1978, pp. 279 s.), e dove risulta operoso per via documentaria (1349, 1351), e a Padova, secondo quanto tramandato da una tradizione plurisecolare. Carente di dati e appigli cronologici, la ricostruzione dell’intricata vicenda di Stefano da Ferrara è stata inoltre per lungo tempo inficiata dalla confusione creatasi nelle fonti dinnanzi a casi di omonimia e a conseguenti errate identificazioni.
Nella letteratura artistica, la sua più antica menzione si rintraccia nel Libellus de magnificis ornamentis regie civitatis Padue di Michele Savonarola, che lo ricorda con queste parole: «Postremo Stephano Ferrariensi non parvum honorem dabimus, qui stupendis miraculis gloriosi Antonii nostri cappellam figuris veluti se moventibus miro quodam modo configuravit» (Savonarola, 1446 circa, 1902, p. 44). La notizia di un’attività di Stefano nel luogo più sacro della basilica di S. Antonio, la cappella dell’Arca, venne successivamente confermata da Marcantonio Michiel, il quale ne venne a conoscenza da Andrea Riccio, non potendo già più godere della bellezza degli affreschi raffiguranti i miracoli del santo, che al tempo in cui scrisse erano stati sostituiti dai rilievi marmorei tuttora esistenti, poiché «la pittura, per esser vecchia, è caduta mezza: fu ruinata per refarla de sculpture de marmi» (Michiel, 1521-1543, 1800, p. 9). Ricordato da un’unica impresa, di notevole pregio ma ormai distrutta, probabilmente il nome di Stefano sarebbe andato a rimpolpare l’elenco dei pittori documentati ma privi di opere se non fosse intervenuto Vasari, nell’edizione giuntina della Vita di Andrea Mantegna, a ricondurre alla sua mano un’ulteriore prova all’interno della basilica del Santo, ossia «la Vergine Maria che si chiama del Pilastro» (Vasari, 1568, 1971, p. 555): si tratta dell’effigie affrescata sul primo pilastro di sinistra dall’ingresso, raffigurante la Vergine col Bambino, affiancata dai ss. Giovanni evangelista e Battista e incoronata da due angeli in volo. La testimonianza dello storico aretino, se da una parte ebbe il merito di istituire un collegamento tra il ferrarese e una pittura ancora in situ, dall’altra aprì la via ad una serie di equivoci sulla sua biografia: dapprima vissuto nel Quattrocento e fatto amico del Mantegna, poche pagine dopo, nella Vita di Vittore Scarpaccia et altri pittori viniziani e lombardi, Stefano ritornò ad essere pittore trecentesco operoso al tempo di Giusto de’ Menabuoi. Tuttavia, la tradizione sulla paternità della Madonna del pilastro di uno Stefano «scolaro di Andrea Mantegna» fu quella che alla fine prevalse, sopravvivendo nelle parole dello storico padovano Giovambattista Rossetti (1780, p. 64); scrivendo pochi anni più tardi, anche Pietro Brandolese (1795), benché smentisse l’informazione e adducesse per l’autore dell’affresco il nome di Fra Filippo (Lippi) già avanzato da Michiel (1521-1543, 1800, p. 5), non ne mise comunque in dubbio la cronologia nel Quattrocento avanzato. Un passo ulteriore venne compiuto dal ferrarese Girolamo Baruffaldi, che, nelle sue Vite (1707 circa, 1844), si convinse di aver identificato il pittore con uno Stefano Falzagalloni morto nel 1500 (Fioravanti Baraldi, 1994); confusione perpetrata anche da Napoleone Pietrucci (Biografia degli artisti padovani, Padova 1858, p. 196), il quale diede il nome di Stefano al collaboratore di Niccolò Miretto – e a suo dire allievo dello Squarcione – negli affreschi del palazzo della Ragione di Padova, realizzati dopo l’incendio del 1420 (così anche Ragghianti, 1972, pp. 131 s., mentre oggi si preferisce parlare di Pseudo Stefano da Ferrara).
Si deve a Bernardo Gonzati (1852) il primo tentativo di ridefinizione storica del pittore, ch’egli ricondusse al secondo Trecento, al tempo di Giusto de’ Menabuoi, dell’Avanzi e di Altichiero (di parere contrario Sartori, 1956, p. 102, che lo retrocesse alla prima metà del secolo); di conseguenza, anche la realizzazione della Madonna del pilastro venne anticipata a quel momento, sebbene non dovesse ingannarsi del tutto chi vi individuò anche la mano di Filippo Lippi: Gonzati per primo evidenziò il carattere di palinsesto pittorico dell’opera, in cui ravvisò l’intervento del ferrarese nell’immagine della Vergine col Bambino e del fiorentino negli angeli che la incoronano, frutto di un’aggiunta posteriore (ibid., p. 104; secondo Bresciani Alvarez, 1962-1963, p. 316, da datarsi alla prima metà del Quattrocento, con ritocco nella seconda metà del secolo successivo).
Su questa base cronologica, e contando sull’unica opera che, per quanto ridipinta, potesse essere addotta a termine di paragone, presero avvio gli studi novecenteschi, che poterono giovarsi altresì di alcuni referti archivistici per ricostruire con maggiore verosimiglianza l’attività di Stefano. Se Antonio Sartori (1958) accennò, ma senza fonte, alla presenza del pittore nel Veneto già nel 1348, il primo documento a lui riferito da Luigi Coletti risale al 6 giugno 1349, quando tale «Stephano de Ferraria quondam ser Benedicti» presenziò ad un legato accanto a Tomaso da Modena nella chiesa di S. Vito a Treviso (Archivio di Stato di Treviso [ASTv], Notarile I serie, b. 94, notaio Giacomo da Lancenigo, libro P, alla data 6 giugno 1349, citato in Coletti, 1933, p. 108; parzialmente trascritto da Gibbs, 1989, pp. 244 s.). La consuetudine con la città della Marca e con i luoghi in cui fu all’opera il modenese appare anche nel secondo documento riguardante Stefano, che il 9 marzo 1351 fece da testimone a un atto con cui i frati predicatori di S. Nicolò di Treviso nominavano un procuratore per riscuotere un lascito testamentario (ASTv, Notarile I serie, b. 79, notaio Domenico da Crespano, imbreviature 7 gennaio 1351 - 28 gennaio 1352; parzialmente trascritto in Liberali, 1970, pp. 252, 254).
Tali furono i presupposti che spinsero una parte della critica a ricercare l’attività del ferrarese nei cantieri supervisionati da Tomaso a Treviso e tra quei maestri che subirono la sua influenza. Così inizialmente Fulvio Zuliani (1979, pp. 103 s.) collegò la Madonna del pilastro all’effigie di S. Caterina con il modello della città affrescata nella chiesa servita di Treviso: l’ipotesi fu accettata da Serena Skerl Del Conte (1989; Ead., 1990), che fece un tutt’uno di Stefano da Ferrara e Stefano «plebanus» di S. Agnese (v. la voce Stefano Veneziano in questo Dizionario), con un’operazione che però non convinse gli studiosi; e da Miklós Boskovits (1994), che vi lesse la prova di una collaborazione tra il modenese e il ferrarese; ma risulta ostacolata dalle fasi costruttive dell’edificio e da considerazioni stilistiche, che la collocano nell’ultimo decennio del secolo (A. De Marchi, Il “podiolus” e il “pergulum” di Santa Caterina a Treviso, in Medioevo: arte e storia. Atti del convegno internazionale di studi, Parma… 2007, Milano 2008, pp. 394-399). In un secondo tempo lo stesso Zuliani (1980, pp. 250 s., 255 nota 11) propose di identificare il pittore con il colettiano Compagno di Tomaso, già autore dell’affresco raffigurante la Madonna col Bambino e santi nella cappella Rinaldi in S. Francesco a Treviso (1351), attribuendogli altresì la decorazione del vano absidale della chiesa dei Ss. Vittore e Corona a Feltre (1360 circa). La ricostruzione venne dapprima considerata da Robert Gibbs (1981), che però preferì ribattezzare il Compagno di Tomaso come Maestro di Feltre (da De Marchi, 1999, p. 20 individuato in Martino Gerardacci), mentre successivamente lo studioso si risolse a riconoscere due differenti personalità: il Maestro di Feltre, appunto, e un pittore emiliano che identificò come ipotesi di lavoro con Stefano da Ferrara (Gibbs, 1989). A quest’ultimo assegnò la decorazione di alcuni pilastri nella navata di S. Nicolò a Treviso, nella fattispecie quelli raffiguranti la Madonna del parto e s. Tommaso d’Aquino, la Madonna col Bambino e s. Nicola e, dubitativamente, quello prospiciente il pulpito con S. Caterina (attribuzioni riconfermate in Gibbs, 1992, p. 207; rigettate da De Marchi, 1999, p. 17).
Nel frattempo, sul versante padovano, alcune altre pitture furono avvicinate per stile alla Madonna del pilastro: la Madonna col Bambino sulla parete settentrionale della chiesa degli Eremitani, incorporata in una successiva composizione di Marcello Fogolino (Novelli, 1959-1960, p. 192), la Madonna col Bambino e santi sopra il pulpito nella basilica del Santo (Lucco, 1984, p. 132), realizzata nel 1376, come si evince da una data sopravvissuta allo stato di frammento, a cui furono aggiunte quella della chiesa di S. Agostino a Cremona del penultimo quarto del Trecento (Lucco, 1986b, p. 661; di parere diverso S. Bandera Bistoletti, in Pittura a Cremona dal Romanico al Settecento, a cura di M. Gregori, Milano 1990, p. 231) e, di recente, quella dell’osservatorio astronomico di Padova, già castello Carrarese, della metà dell’ottavo decennio (Murat, 2018, p. 116). Tra le assegnazioni al pittore, questo gruppo di Madonne devozionali emerge effettivamente per coerenza nell’accentuazione neogiottesca dei volumi e per affinità nella sottolineatura psicologica delle espressioni, soprattutto lo sguardo guizzante del Bambino.
L’attività di Stefano nel Veneto dovette quindi svolgersi nel terzo quarto del Trecento: dapprima a Treviso e in seguito a Padova, dove il maestro si trasferì per eseguire la decorazione della cappella dell’Arca, tra il 1350 e il 1361 (Bresciani Alvarez, 1962-1963, p. 326; Sartori, 1963, pp. 303 s.). Nella città euganea venne impiegato sia come frescante, come testimoniano le summenzionate Madonne votive (troppo labile è la base su cui attribuirgli i dipinti murali della camera di Camillo nella reggia Carrarese, per cui v. Gasparotto, 1968-1969, p. 254), sia come pittore su tavola, come ricorda l’iscrizione «Hoc opus Stephani de Ferraria 1376» siglata su una pala nella chiesa di S. Stefano, ora perduta (Bresciani Alvarez, 1962-1963, pp. 323 s.).
Va infine ricordato il tentativo di rintracciarne l’opera anche nella natia Ferrara: dagli affreschi della chiesa di S. Antonio in Polesine (Gibbs, 1981; Skerl Del Conte, 1990, p. 54 nota 17) a quelli di Casa Minerbi, secondo la proposta non del tutto convincente di Boskovits (1994, pp. 57-59), che li volle realizzati all’inizio del settimo decennio del Trecento (ipotesi accettata con riserva da Parmeggiani, 2001, che sottolinea il significativo collegamento con la Madonna di Cremona, ma le minori affinità con il gruppo di S. Caterina a Treviso individuato da Boskovits).
M. Savonarola, Libellus de magnificis ornamentis regie civitatis Padue (1446 circa), a cura di A. Segarizzi, Città di Castello 1902, pp. 13, 44; M. Michiel, Notizia d'opere di disegno nella prima metà del secolo XVI (1521-1543), Bassano 1800, pp. 5, 9; G. Vasari, Le vite de’ più eccellenti pittori scultori e architettori (1568), a cura di R. Bettarini - P. Barocchi, III, Firenze 1971, pp. 555, 621; G. Baruffaldi, Vite de’ pittori e scultori ferraresi (1707 circa), I, Ferrara 1844, pp. 155-158; G. Rossetti, Descrizione delle pitture, sculture ed architetture di Padova, Padova 17803, p. 64; P. Brandolese, Pitture, sculture, architetture ed altre cose notabili di Padova, Padova 1795, p. 45; B. Gonzati, La basilica di S. Antonio di Padova, I, Padova 1852, pp. 57 s., 256; L. Coletti, L’arte di Tomaso da Modena, Bologna 1933, pp. 108, 146; Id., I primitivi, III, Novara 1947, p. LXXIII nota 98; A. Sartori, La Madonna del pilastro della basilica del Santo a Padova, in Le Venezie francescane, XXIII (1956), pp. 97-114; Id., La provincia del Santo dei Frati Minori conventuali, Padova 1958, p. 220; M. Novelli, Opere venete in Emilia, in Arte veneta, XIII-XIV (1959-1960), pp. 191-194; G. Bresciani Alvarez, Stefano da Ferrara pittore del Trecento padovano, in Atti e memorie dell’Accademia patavina di scienze lettere ed arti. Parte III. Memorie della classe di scienze morali lettere ed arti, LXXV (1962-1963), pp. 309-326; C. Gasparotto, Guide e illustrazioni della basilica di Sant’Antonio in Padova. II - La scuola di pittura padovana nelle «Lodi di Padova» di Michele Savonarola, in Il Santo, s. 2, III (1963), pp. 221-246; A. Sartori, Nota su Altichiero, ibid., pp. 291-326; R. Pallucchini, La pittura veneziana del Trecento, Venezia-Roma 1964, pp. 129 s.; C. Gasparotto, Note di iconografia antoniana, ibid., VII (1967), pp. 87-98; Ead., Gli ultimi affreschi venuti in luce nella Reggia dei da Carrara e una documentazione inedita sulla camera di Camillo, in Atti e memorie dell’Accademia patavina di scienze lettere ed arti. Parte III. Memorie della classe di scienze morali lettere ed arti, LXXXI (1968-1969), pp. 237-261; G. Liberali, Schede biografiche per Tomaso da Modena, Stefano da Ferrara e Andrea da Murano, in Arte veneta, XXIV (1970), pp. 251-254; C.L. Ragghianti, Stefano da Ferrara, Firenze 1972, pp. 94-97; L. Gargan, Cultura e arte nel Veneto al tempo del Petrarca, Padova 1978, p. 282; F. Zuliani, Tomaso da Modena, in Tomaso da Modena (catal.), a cura di L. Menegazzi, Treviso 1979, pp. 75-109; Id., Proposte per Tomaso, in Tomaso da Modena e il suo tempo. Atti del convegno internazionale di studi… 1979, Treviso 1980, pp. 249-256; R. Gibbs, L’occhio di Tomaso, [Treviso] 1981, p. 119 nota 17; M. Lucco, Il Quattrocento, in Le pitture del Santo di Padova, a cura di C. Semenzato, Vicenza 1984, pp. 119-143; Id., Pittura del Duecento e del Trecento nelle province venete, in La pittura in Italia, I, Il Duecento e il Trecento, a cura di E. Castelnuovo, Milano 1986a, pp. 113-149; Id., Stefano da Ferrara, ibid., 1986b, pp. 661 s.; R. Gibbs, Tomaso da Modena, Cambridge 1989, pp. 100, 104; S. Skerl Del Conte, Stefano plebano di S. Agnese e le storie di Tomaso Beckett, in Arte in Friuli. Arte a Trieste, 1989, vol. 11, pp. 57-71; Ead., Stefano e Andrea Moranzon. Un esempio di collaborazione fra pittori e intagliatori, in Critica d’arte, LV (1990), 2-3, pp. 47-54; R. Gibbs, Treviso, in La pittura nel Veneto. Il Trecento, a cura di M. Lucco, I, Milano 1992, pp. 178-246; M. Boskovits, Per Stefano da Ferrara, pittore trecentesco, in Hommage à Michel Laclotte, Milano-Parigi 1994, pp. 56-67; A.M. Fioravanti Baraldi, Falzagalloni, Stefano, in Dizionario biografico degli Italiani, XLIV, Roma 1994, pp. 507-508; A. De Marchi, Tavole veneziane, frescanti emiliani e miniatori bolognesi. Rapporti figurativi tra Veneto ed Emilia in età gotica, in La pittura emiliana nel Veneto, a cura di S. Marinelli - A. Mazza, Verona 1999, pp. 1-44; L. Parmeggiani, La Madonna del pilastro al Santo di Padova, una Madonna cremonese e gli affreschi di Casa Minerbi a Ferrara: un’ipotesi di attribuzione a Stefano da Ferrara, in Ferrariae Decus, 2001, n. 18, pp. 75-78; Z. Murat, «Speciosissima et devota figura Virginis». Cappelle domestiche dei da Carrara, in Pregare in casa, a cura di G. Baldissin Molli - C. Guarnieri - Z. Murat, Roma 2018, pp. 111-130.