DE FRANCHI, Stefano
Nacque a Genova il 7 marzo 1714 da Giovanni Stefano in una importante famiglia dell'alto patriziato cittadino, inserita fino a tutto il Settecento tra i venticinque casati di maggior consistenza patrimoniale dell'intera Repubblica. Le scarse notizie biografiche esistenti su di lui - che vanno di poco al di là delle date di nascita e di morte - sono dovute alle rapide compilazioni del contemporaneo Agostino Della Cella, e alle registrazioni ufficiali del Liber aureus della nobiltà genovese, che lo annoverò tra i propri membri il 9 marzo 1723. In mancanza di ulteriori dati, il profilo del D. è dunque da ricostruirsi attraverso la storia editoriale e i contenuti delle sue opere.
Nei giorni immediatamente seguenti la rivolta antiaustriaca del dicembre 1746 uscì a Genova - pubblicata anonima e senza indicazioni di tipografia - una raccolta di dieci sonetti in vernacolo per la liberazione della città dalla occupazione straniera, con il titolo di Corona Sacra a Nostra Signora d'Immacolata Concezion, in ringraziamento dro seguio in Zena ro dì 10 Dexembre 1746 per l'occasion dro Mortâ da bombe restao in Portoria (l'opuscolo è conservato alla Biblioteca civica Berio di Genova nel volume miscellaneo Scritture spettanti al Trattato di Worms, guerra de Genovesi cogli Austriaci, segn. m. r. IV.4.15.). Ne era autore il D. che, con queste liriche scritte per l'importante occasione storica - alle quali avrebbe attribuito in seguito particolare rilievo tanto da iniziare con la ristampa di esse il suo canzoniere -, iniziava l'attività di scrittore dialettale per cui sarebbe diventato, nel giro di pochi anni, l'esponente più rappresentativo della poesia ligure settecentesca.
Se la Corona siinseriva nella salda linea patriottica della tradizione genovese cinquesecentesca (da Paolo Foglietta a Giovanbattista Pastorini), essa chiarisce d'altra parte la posizione del D. all'interno di una classe nobiliare la cui ampia maggioranza aveva reagito ai moti insurrezionali con atteggiamenti di interessata ostilità o, al più, di imbarazzato silenzio. I temi erano quelli dell'entusiasmo per il rinato orgoglio cittadino, della partecipazione al dolore collettivo, della totale accettazione delle difficoltà e delle sofferenze, dell'abbandono alla preghiera-invocazione, dentro una cornice narrativa che puntava a ricostruire l'atmosfera realistica di una Genova in lotta, cui era sotteso l'implicito riconoscimento delle forze genuine della rivolta, quelle popolari. Ma, di là da questo riconoscimento, lo scarto dalle tesi dei più avvertiti esponenti della fazione popolare era evidente. Il D. tendeva a dare un'interpretazione unitaria e conciliativa delle giornate antiaustriache, a presentarle più come effetto di un rinnovato e collettivo senso di patria che come risultato delle laceranti contraddizioni sociali interne alla stessa Repubblica genovese.
Nei primi giorni del 1747 (come risulta dall'ultimo verso del componimento) il D. scrisse Ra Leggendra do retorno dro Mortâ. In questa lunga filastrocca di ottonari piani e tronchi, pubblicata, dopo la circolazione manoscritta, nel 1752 e poi ristampata anch'essa nel canzoniere (possediamo anche una edizione ottocentesca: Ro retorno dro Mortâ de Portoria a ra Batteria da Cava in Carignan. Lezzendra de Steva De Franchi, Genova, Faziola, s. a.), il poeta sviluppava l'idea di una sommossa compatta e coordinata tra tutti gli strati cittadini, con il mortaio di Portoria assunto ad emblema conciliativo del coraggio popolare e dell'avvedutezza dei nobili. Era la lettura degli eventi cara alla parte più attiva dell'aristocrazia genovese, quella stessa che, minoritaria, aveva agito in seno al Minor Consiglio per sconfiggere l'ala immobilista legata a vincoli feudali, finanziari e politici con l'Impero, che aveva accettato, sia pure cautamente, l'aiuto del popolo per riacquistare l'indipendenza dello Stato, e che, divenuta maggioritaria a fatti accaduti, stava tentando la via della pacificazione generale per ristabilire l'autorità dei Serenissimi Collegi sull'inquieta Assemblea popolare. Dopo la conclusione della rivolta, il D. compose una canzone per la liberazione di Genova (Ra Libertae vendicâ l'anno 1746: anch'essa ripubblicata nel canzoniere) e la dedicò significativamente a Gian Francesco Brignole Sale, già capo della minoranza attiva del patriziato e, dal 1746 al '48, doge impegnato nella riforma del potere oligarchico.
Amico e ammiratore del Brignole Sale, il poeta si presentava come nobile illuminato e genovese amante della libertà e del progresso della propria città. E a questa immagine di se stesso, così come si era venuta precisando nelle poesie patriottiche, sarebbe rimasto fedele, con un progressivo accentuarsi dei dati di moderazione e di ripiegamento politico-culturale che caratterizzano non solo una storia personale ma quella di una intera classe dirigente.
Ormai cantore "ufficiale" degli avvenimenti, il D. era entrato, con il nome di Micrilbo Termopilatide, a far parte della Colonia Ligustica d'Arcadia, che nei primi anni del Settecento - la sua fondazione, ad opera di Giovanbattista Casaregi, risaliva al 1705 - si era segnalata per l'impegno etico-civile, non esente dalle formule della retorica alta, di derivazione chiabreresca. Come arcade, dunque, sollecitato dalle occasioni celebrative, ma anche come scrittore attento agli antecedenti modelli dialettali della poesia ligure- e qui occorre fare il nome del secentesco Giangiacomo Cavalli, poeta dei fasti della Repubblica -, il D. scrisse una serie di canzoni per le incoronazioni dei dogi. Attraverso gli elogi di Giovan Battista Grimaldi (collabora agli Applausi poetici per la Coronazione del Serenissimo Giovan Battista Grimaldi, editi a Genova nel 1753, senza indicazioni di tipografia), di Agostino Lomellini (1760), di Ridolfo Maria Brignole Sale (1762), di Giovanbattista Negroni (1769), di Giovanbattista Cambiaso (1771). con l'importante prolungamento in questo caso dell'ode Strada Cangiaxa, di Giovanbattista Airolo (abbiamo notizia di una plaquette: Ro Retraeto dro Serenissimo Gianbattista Airoeu, per ra so coronazione in Duxe dra Republica de Zena, Canzon de Micrilbo Termopilatide P. A., Genova, eredi di Adamo Scionico, 1783), il D. si pronunciò ancora per una decisa attuazione di forme di svecchiamento statale (i dogi scelti avevano tutti fama di uomini dinamici e liberali, in taluni casi, il Negroni e soprattutto il Lomellini, aperti alle nuove idee preilluministiche); anche se l'identificazione della salvezza dello Stato nella figura del principe saggio e prudente, capace di riflettere in sé la continuità delle istituzioni, veniva a restringere irrimediabilmente lo spazio per più impegnativi discorsi sui nuovi problemi della società genovese.
Interessato all'ufficialità etico-civile, e non alieno a prove di erudizione fini a se stesse (aveva collaborato, con la stesura dei canti I, II, VII e IX alla versione in dialetto a più mani della Gerusalemme Liberata: Ra Gerusalemme deliverà dro Signor Torquato Tasso traduta da diversi in lengua zeneize, Genova 1755, 2 voll.), il D. raggiunse tuttavia i risultati più persuasivi con temi leggeri in misure poetiche brevi. Nel 1772 pubblicò il suo canzoniere, Ro Chitarrin o sae strofoggi dra Muza (una seconda edizione genovese è del 1847), che raccoglieva, oltre alle poesie patriottiche e alle canzoni per i dogi, una fitta produzione "arcadica" di sonetti e canzonette.
Ancora una volta però, prima che debitore agli schemi letterari nazionali, il poeta lo era a quelli genovesi. Come ci avverte lui stesso nella prefazione all'opera, era il citato Giangiacomo Cavalli, con la sua Chittara zeneize, l'immediato punto di riferimento. Le "rime civili", prima raccolta poetica della Chittara cavalliana, offrivano al D. lo spunto per calare la narrazione delle intime vicende d'amore, d'impronta petrarchesca, dentro un sistema dialettale dalle accentuazioni colloquiali; ugualmente, le "rime servili", seconda raccolta cavalliana, erano d'esempio per una poesia dal vivaci contenuti popolari, dai pregnanti modi gergali, dai toni solidi e umoristici. Ma, se al modo delle poesie per i dogi, gli oggetti, le immagini, le ambientazioni, i protagonisti erano gli stessi, nulla resta dei bizzarri effetti stilistici che da essi ricavava il barocco Cavalli. Il D. era pur sempre poeta di pieno Settecento, partecipe di una sensibilità medioarcadica. I sonetti amorosi trovano allora, nella discorsività propria dell'operazione dialettale, una cadenza patetica e sentimentale che riduce a piccole proporzioni razionali l'analitica interna. I sonetti "popolari" possiedono, da parte loro, un'efficacia realistico-descrittiva verso un mondo umile e dimesso che entrava intatto, per la prima volta, nella poesia ligure, con i rumori, i "contrasti", le figurine buffe e leggere, concrete nel loro parlato. È quest'ultima, per quantità e qualità, la linea portante del Chitarrin. Nelle numerose canzonette che costituiscono l'ultima parte del canzoniere, l'interesse bozzettistico, già rivelatosi nei sonetti patriottici ed in quelli "popolari", si dilata in una più ampia misura concertante, si arricchisce di una musicalità che vale in parte ad eliminare le asprezze linguistiche del genovese. Lontani ormai gli entusiasmi civili, la città si fa animato scenario di una rappresentazione quotidiana. Il passaggio del D. dalla lirica al teatro era, dunque, conseguente.
Nel 1771, sulla collina "fuori porta" dello Zerbino, la compagnia dilettantesca degli "Accademici e degli Interessati" aveva iniziato la propria attività teatrale con la messa in scena di un adattamento in genovese dell'Avaro di Molière. Era la prima di una serie di traduzioni o rifacimenti di opere francesi curate dal De Franchi. La commedia ebbe - come nota lo stesso autore nella prefazione - "un fortunatissimo incontro", che si ripeté l'anno seguente: un incontro avvenuto, a quanto testimoniano le note d'epoca, con una platea composta non soltanto da esponenti del patriziato cittadino, ma allargata a strati popolari di Genova e della sua periferia; e concretizzata in un teatrino d'Accademia o di "villeggiatura" non più riservato alle rappresentazioni private dei circoli nobiliari, ma sorto nell'intento di interessare un pubblico eterogeneo (e spesso turbolento per la lunga abitudine ai canovacci dell'improvviso) a spettacoli comici e insieme "morali", secondo le norme di un teatro regolare e "riformato" che si era venuto formando, a Genova come altrove, tra non poche difficoltà. Il teatro defranchiano fu pubblicato nel 1771-72 a Genova, in due volumi, con il titolo di Commedie trasportae da ro françeize in lengua zeneize. Le commedie sono: L'Avaro, Re preçiose ridicole, Re furbarie de Monodda, Ro mego per força, Ro manezzo per força (ricavati dai molieriani L'Avare, Les fourberies de Scapin, Le médecin malgré lui, Le mariage forcé); L'ommo raozo (da Le grondeur di D.-A. de Brueys-J. Palaprat); L'Avvocato Patella (dalla Farce de Maître Patelin di Brueys-Palaprat); Ro legalitario universale e Ro retorno non previsto (da Le légataire universel e Le retour imprévu di J.-F. Regnard); Ri fastidiosi e Ra locandera che, nonostante il richiamo a testi noti (Les fâcheux di Molière e la commedia goldoniana), sono interamente inventati.
Il duraturo successo delle opere teatrali del D. è testimoniato da altre ristampe settecentesche (danno notizia di una seconda pubblicazione Gli Avvisi di Genova del 25 nov. 1780, n. 47, p. 369, e del 2 giugno 1781, n. 22, p. 171), e ottocentesche (l'edizione del 1830 presso Camiglia), fino alle recenti messinscene della Compagnia di teatro dialettale e popolare di Genova. In realtà, anche a giustificazione della sua "fortuna", il teatro defranchiano non è una semplice riscrittura di opere altrui ma, nella riduzione di grandi commedie di carattere tipo L'Avaro, nella manipolazione di pièces più dichiaratamente farsesche, nella stesura di brevi lavori originali, si inserisce in quella produzione dai contenuti pregoldoniani che aveva avuto i suoi primi esiti nel teatro toscano del Gigli, Nelli e Fagioli, o in quello veneziano di inizio Settecento, di un Bonicelli ad esempio. Con la sua commedia, incentrata nelle figure di "rusteghi", di giovani amanti, di donne pratiche, di saggi consulenti, attenta ai ritmi di una vita popolare e sostenitrice della vittoria drammaturgica del buon senso, il D. aveva costruito, nel segno del divertimento, uno stretto e settecentesco rapporto tra teatro ed aspirazioni e costumi medi di una città.
Il D. morì a Genova nel gennaio del 1785.
Fonti e Bibl.: I pochi dati della biogr. del D. si trovano nei manoscritti di A. della Cella, Famiglie di Genova e Riviere, 1783, conservato presso la Biblioteca universitaria di Genova, segn. C. IX. 19-22, vol. II, c. 79r, e del Liber aureus della nobiltà genovese, presso la Bibl. civica Berio, segn. m. r. XVI 5-6, c. 101r. (ma si veda anche la recente riedizione, a cura di G. Guelfi Camajani, Il "Liber Nobilitatis Genuensis" e il Governo della Repubblica di Genova fino all'anno 1797, Firenze 1965, p. 207). oltre che nei generici riferimenti delle prefazioni alle opere. Più consistente il materiale bibliografico: G. B. Spotorno, Storia letter. della Liguria, IV, Genova 1824 (ristampa anastatica, Bologna 1972), p. 80; T. F. Belgrano, La guerra del '46 giusto le poesie del tempo, in Caffaro, 2 ott. 1881; C. Randaccio, Dell'idioma e della letteratura genovese, Roma 1894, pp. 41-86; A. Neri, La cacciata dei tedeschi dalla poesia contemporanea, in Giorn. stor. e letter. della Liguria, IX (1908), pp. 311-334; F. Donaver, Antologia della poesia dialettale genovese, Genova 1910, pp. 85-102; P. Toldo, L'oeuvre de Molière et sa fortune en Italie, Torino 1910, pp. 230-235; A. Pescio, Il Settecento genovese, Palermo 1922, pp. 277-293; G. Gnecco, Il Molière nella produzione comica di S. D., in Giornale storico e letter. della Liguria, n. s., II (1926), pp. 219-247; Id., Il Palaprot nell'opera di S. D., ibid., IV (1928), pp. 222-233; E. Firpo, S. D. poeta genovese del '700, in Il Lavoro, 13 luglio 1939; Id., S. D. poeta del '700, in L'Unità, 16 febbr. 1951; M. Boselli, Poesia dialettale genovese, Genova 1960, pp. 105-148 (una seconda ristampa è del 1974); R. Boudard, Gênes et la France dans la deuxième moitié du XVIII siècle, Paris 1962, pp. 450-465; E. Bassano, G. Govi e il teatro dialettale genovese, Genova 1968, pp. 34-42; A. Beniscelli, S. D.: un poeta dialettale del Settecento genovese, in La Rassegna della letter. ital., LXXVII (1973), pp. 319-337; P. C. Beretta, Storia del teatro dialettale genovese, Genova 1974, pp. 35-37; A. Beniscelli, Il teatro dialettale di S. D., in Resine, 1978, 24, pp. 96-119; Bibl. dialettale ligure, a cura di L. Coveri-G. Petracco Siccardi-W. Piastra, Genova 1980, pp. 47-49.