STEFANO III
Nato in Sicilia "ex patre Olibo" (Le Liber pontificalis, p. 468) presumibilmente verso il 720, S. si trasferì ancora fanciullo a Roma venendo ben presto accolto da papa Gregorio III nel monastero benedettino di S. Crisogono, dove, come ricorda il suo biografo, "clericus atque monachus est effectus" (ibid.). Dopo la morte del suddetto papa, S. fu chiamato ad assumere il ruolo di "cubicularius" del patriarchio lateranense dal nuovo pontefice, Zaccaria, il quale peraltro, poco tempo dopo, lo ordinò presbitero cardinale del titolo di S. Cecilia, uffici che, stando a quanto riferito dal Liber pontificalis, il giovane siciliano cominciò a svolgere con tale competenza e discrezione da indurre i successori di Zaccaria, Stefano II e Paolo I, a mantenerlo in carica in entrambe le funzioni. È pertanto lecito ipotizzare che S., descritto come "vir strenuus et divinis Scripturis eruditus atque ecclesiasticis traditionibus inbutus et in earum observationibus constantissimus perseverator" (ibid.), sia ben presto diventato, se non altro in ragione delle capacità dimostrate nell'assolvimento dell'incarico di "cubicularius", uno dei più autorevoli ed ascoltati esponenti della Curia romana. Del resto, la crescente stima goduta in quegli anni dal titolare di S. Cecilia è testimoniata anche dai delicati incarichi diplomatici che gli vennero affidati. S. infatti risulta quasi certamente identificabile con l'omonimo presbitero che il biografo di Stefano II colloca al seguito del pontefice durante l'importantissimo soggiorno in terra franca, culminato con gli incontri di Ponthion e di Quierzy (gennaio e Pasqua 754), che, com'è noto, diedero vita all'alleanza fra il papato e la monarchia carolingia. Il "cubicularius" del patriarchio lateranense dovrebbe inoltre essere riconoscibile sia nell'omonimo missus pontificio incaricato, dopo la morte di re Astolfo, di indurre il fratello di quest'ultimo, Ratchis, già monaco a Montecassino, a rinunciare definitivamente al trono, sia in uno dei membri dell'ambasceria successivamente inviata da papa Paolo I al re franco Pipino. Nei drammatici giorni in cui il duca nepesino Totone, approfittando dell'irreversibile malattia di Paolo I, si impadroniva della città di Roma (767), S., stando a quanto da lui stesso riferito nel corso del successivo concilio del 769, fu il solo a rimanere a fianco del pontefice morente, curandone personalmente le esequie. Tuttavia, pur essendo stato uno dei maggiori esponenti dell'entourage di papa Paolo, durante il governo dell'antipapa Costantino, imposto nel frattempo sul trono pontificio dal fratello Totone, non risulta che S. sia stato personalmente coinvolto dalle misure repressive che colpirono alcuni dei più rilevanti membri dei "proceres Ecclesiae", quali il "primicerius" Cristoforo e suo figlio Sergio. Stando infatti a quanto è possibile ricavare dalle fonti, sembra che in tale periodo egli abbia potuto conservare la cura del titolo di S. Cecilia, dove il 1° agosto del 768, subito dopo la deposizione di Costantino e l'allontanamento di Filippo, il monaco del cenobio di S. Vito che l'emissario di re Desiderio, il presbitero longobardo Waldiperto, contando sulla presenza in città delle truppe spoletine, aveva fatto acclamare pontefice, lo raggiunse la notizia della sua elezione, proclamata nel corso di un'assemblea generale convocata dal "primicerius" Cristoforo "in Tribus Fatis" (ai piedi della collina del Campidoglio). Secondo una consolidata tradizione storiografica (H.K. Mann, E. Delaurelle, E. Amann), l'elezione di S., imposta dal vittorioso Cristoforo, sarebbe stata sostanzialmente motivata dall'inesperienza politica del titolare di S. Cecilia, destinato a diventare, in ragione della sua pretesa debolezza di carattere, un docile strumento nelle mani del "primicerius", che proprio a tale scopo ne avrebbe sostenuto la candidatura. In realtà, come sottolineato in studi recenti (J.T. Hallenbeck, Pope Stephen III), le motivazioni sottese alla scelta di S., certamente riconducibile ad una imposizione di Cristoforo, devono essere più verosimilmente ricercate in altre direzioni. Esperto e fidato esponente dei "proceres Ecclesiae", peraltro dotato di una certa abilità diplomatica, il presbitero titolare di S. Cecilia doveva infatti apparire agli occhi del potente "primicerius" come il personaggio che meglio avrebbe potuto risollevare il prestigio del papato in una non facile congiuntura politica, e soprattutto garantire la ripresa di quella linea di massimalismo antilongobardo, imperniata sull'alleanza franco-papale, che l'ex "cubicularius" di Stefano II aveva forse contribuito ad elaborare. Quel che è certo è che, non appena ebbe fine la spirale di rappresaglie - culminate con l'accecamento dell'antipapa Costantino e le mortali mutilazioni inflitte a Waldiperto - che caratterizzarono le settimane immediatamente successive alla deposizione dell'antipapa, il primo atto di governo di S. fu diretto a riallacciare i rapporti tra la Santa Sede ed il sovrano franco. A tale scopo, il pontefice, intenzionato a convocare un concilio destinato a discutere i problemi sollevati dagli ultimi drammatici avvenimenti e a giudicare l'operato di Costantino, inviò oltralpe il "secundicerius" Sergio, figlio di Cristoforo, per chiedere a re Pipino l'invio di una qualificata rappresentanza dell'episcopato franco. È comunque probabile che fra le finalità del concilio, ufficialmente volto a sanare le violazioni dei canoni perpetrate da Totone e Costantino, ci fosse anche quella di una definitiva legittimazione dell'elezione di S., la quale, in ragione delle sue modalità, avrebbe forse potuto essere messa in discussione da parte di quegli esponenti dei "proceres militiae" che, seppur sconfitti, non si erano ancora riconciliati con Cristoforo. La richiesta del papa, ricevuta dai fratelli Carlo e Carlomanno, da poco succeduti a Pipino (morto nel settembre del 768), fu accolta con benevolenza dai nuovi sovrani dei Franchi, i quali ebbero peraltro cura di riconfermare i patti a suo tempo stipulati da loro padre con i predecessori di Stefano. Il felice esito dell'importante missione diplomatica di Sergio fu così ben presto coronato dall'arrivo a Roma di tredici vescovi della Gallia, guidati da Wilchario, vescovo di Sens (ma già vescovo di "Nomentum"), i quali si unirono ai trentanove rappresentanti dell'episcopato della penisola, alcuni dei quali provenienti dai territori longobardi. Apertosi ufficialmente il 12 aprile del 769 presso la basilica del Laterano, il concilio, che dato l'alto numero di partecipanti può essere considerato come una delle più rilevanti assemblee conciliari italiane dell'VIII secolo, ebbe inizio con una dichiarazione di papa S., il quale, proclamando la sua totale estraneità ai fatti accaduti, chiamò in causa il "primicerius" Cristoforo, e lo pregò di illustrare ai presenti le vicende che avevano determinato l'avvento di un laico sul trono di Pietro. La deposizione del "primicerius", che di fatto costituì un vero atto d'accusa nei confronti dell'antipapa, fu seguita dall'interrogatorio dell'ormai accecato Costantino, il quale, pur riconoscendo la propria colpevolezza ed implorando il perdono dell'assemblea, durante la seconda sessione tentò di difendersi sostenendo che le norme in questione erano state violate prima e dopo la sua discussa elezione e ricordando ai presenti il caso dei vescovi di Napoli e Ravenna, entrambi originariamente laici, ma ugualmente consacrati da papa Paolo I poco tempo prima dell'inizio del concilio. Tali affermazioni suscitarono l'immediata reazione dell'assemblea: Costantino fu schiaffeggiato ed espulso dalla basilica, il decreto della sua elezione e tutti gli atti da lui sottoscritti nel corso del suo governo vennero dati alle fiamme. Due giorni dopo, pronunciata la definitiva condanna di Costantino, che venne ben presto rinchiuso in un monastero, i padri conciliari procedettero ad una nuova regolamentazione dell'elezione papale, dichiarando eleggibili soltanto i cardinali presbiteri e diaconi e limitando il corpo elettorale al solo clero di Roma, mentre al laicato della città venne riservata la facoltà di ratificare l'avvenuta elezione. L'assemblea, inoltre, provvide a cassare i provvedimenti adottati da Costantino e a proclamare la nullità dei sacramenti (fatta eccezione per il battesimo e per la cresima) amministrati da quest'ultimo, ingiungendo ai vescovi e ai presbiteri consacrati dall'antipapa di rientrare nell'ordine cui appartenevano in precedenza, fatta salva per i primi la possibilità di essere rieletti e quindi nuovamente ordinati secondo le norme di rito. A coloro che prima dell'ordinazione appartenevano al laicato fu invece imposto il definitivo ritiro in monastero o nella propria abitazione. L'ultima sessione del concilio venne infine dedicata alle questioni relative al culto delle immagini, e si concluse con la condanna delle dottrine iconoclaste, precedentemente approvate dal sinodo costantinopolitano del 754, e dei seguaci di esse, i quali vennero colpiti da anatema. Il concilio si concluse ufficialmente con una solenne processione verso S. Pietro, dove fu proclamato l'anatema per chiunque avesse osato violare le norme stabilite dall'assemblea. La positiva conclusione dei lavori conciliari, che di fatto sanciva la sconfitta dell'aristocrazia militare da parte dei "proceres Ecclesiae", ormai impadronitisi, grazie alla nomina a duca di Roma di Grazioso, genero di Cristoforo, anche del controllo delle milizie del contado e della città, fu ben presto seguita dalla ripresa di iniziative politiche volte ad ottenere, con il sostegno dei sovrani franchi, il recupero dei territori indebitamente occupati a suo tempo dai Longobardi (Bologna e Imola in Emilia, Numana, Osimo e Ancona nella Pentapoli). Gli intenti della Curia romana, di fatto sostanzialmente ispirati al programma politico elaborato a suo tempo da Stefano II, si scontrarono però con le iniziative di Desiderio, che nel frattempo, oltre ad attaccare i territori della laguna veneta ed ad inviare le sue truppe in Istria, occupando le terre della Chiesa di Grado, aveva di fatto esteso la sua influenza su Ravenna, dove, inserendosi abilmente nelle controversie relative all'elezione del nuovo vescovo, aveva fornito il proprio sostegno al candidato imposto sulla cattedra episcopale dalla locale fazione autonomista, il laico Michele, che il papa, in ragione del suo status, si era fermamente rifiutato di consacrare vescovo. Tale complessa situazione venne ulteriormente aggravata dalle crescenti divergenze politiche fra i due sovrani franchi, che minacciavano di sfociare in un aperto conflitto, il quale, distogliendo l'attenzione dei più autorevoli e potenti alleati del papato dalle questioni della penisola, avrebbe certamente posto la Respublica sancti Petri alla mercé del re longobardo. La situazione parve addirittura precipitare quando S., che in precedenza aveva inutilmente tentato di sollecitare la riconciliazione fra i due fratelli, ebbe notizia che i Franchi erano sul punto di stringere un'alleanza matrimoniale con i Longobardi mediante le nozze di Carlo con una figlia di re Desiderio. L'immediata e veemente reazione del pontefice, affidata ad una missiva indirizzata ad entrambi i sovrani d'oltralpe, non valse tuttavia a impedire che Carlo, grazie anche all'appoggio di sua madre Bertrada, procedesse nell'attuazione del suo disegno politico, che, garantendogli l'alleanza di Desiderio e del duca Tassilone di Baviera (marito di un'altra figlia del re longobardo), gli avrebbe consentito di affrontare l'imminente conflitto con il fratello Carlomanno in una indiscutibile posizione di forza. Tuttavia, le paure di S., il quale certamente temeva che tale intesa, contratta ai danni dell'ormai isolato Carlomanno, comportasse anche la fine della vitale tutela franca su Roma, terminarono con l'arrivo a Roma della regina Bertrada. Costei, infatti, oltre a ribadire che Carlo avrebbe tenuto fede ai patti a suo tempo stipulati con Roma, promise al pontefice l'invio di missioni franche volte al recupero dei territori rivendicati dalla Respublica sancti Petri in area beneventana e a ricondurre la sede episcopale di Ravenna, illegittimamente governata da un esponente del partito autonomista, sotto l'autorità della Chiesa romana. Inoltre, stando a quanto riferito da alcune fonti, la regina avrebbe fatto presente al papa che Desiderio si era impegnato a restituire le "iustitiae sancti Petri" sottratte nella Pentapoli. Quel che è comunque certo è che Bertrada riuscì a convincere il pontefice che l'alleanza franco-longobarda non avrebbe costituito un pericolo per Roma. Pertanto, fornito il suo assenso alle nozze di Carlo, S., prendendo atto dei nuovi equilibri politici, non poté fare altro che adeguarsi ad essi e, di conseguenza, prendere progressivamente le distanze dal massimalismo antilongobardo propugnato da Cristoforo e Sergio, i quali, determinati ad opporsi ai disegni di Desiderio, finirono così per diventare i naturali alleati di Carlomanno. Il latente conflitto sotteso a tale situazione prese corpo durante la Quaresima del 771, quando il re longobardo, con il pretesto di discutere con il papa la restituzione delle "iustitiae sancti Petri", si diresse verso Roma con il suo esercito. La notizia dell'arrivo di Desiderio scatenò la reazione di Cristoforo, che proprio in quei giorni stava trattando con un emissario di Carlomanno, Dodone, giunto nell'Urbe con un folto seguito di guerrieri franchi. Concentrando in città sia le milizie cittadine che quelle della Tuscia e della Campania, Cristoforo diede ordine di sbarrare le porte di Roma, preparandosi ad un assedio. Tale provvedimento, presumibilmente volto a difendere l'Urbe sia da un attacco esterno che dai colpi di mano dei suoi oppositori interni (primo fra tutti l'ambizioso "cubicularius" Paolo Afiarta, ostile alla politica antilongobarda sostenuta dal "primicerius"), fu ben presto seguito da una vera azione intimidatoria nei confronti del pontefice, il quale, dopo essersi incontrato con il sovrano longobardo, accampatosi con le sue truppe nei pressi di S. Pietro, venne assalito dai partigiani di Cristoforo nel patriarchio lateranense. Sebbene costretto a giurare solennemente che non avrebbe stipulato accordi con Desiderio, S. riuscì ad arginare la furia degli assalitori, penetrati fin dentro le sale del palazzo pontificio. Tuttavia, il giorno successivo, forse temendo per la propria incolumità, il pontefice decise di uscire da Roma e di rifugiarsi con il suo seguito in S. Pietro sotto la protezione del re longobardo, il quale però, come testimoniato dal Liber pontificalis, oltre a porre come condizione necessaria per la ripresa delle suddette trattative l'eliminazione di Cristoforo e Sergio, nel frattempo asserragliatisi in città con i propri uomini, fece sbarrare le porte della basilica, impedendo a chiunque di avvicinare il papa senza il suo consenso. S., tentando di convincere il "primicerius" alla resa, inviò allora i vescovi di Preneste e Segni sotto le mura della città. Essi ingiunsero a Cristoforo di ritirarsi in monastero o di consegnarsi al pontefice; ma costui, temendo le insidie di Desiderio (certamente intenzionato a liberarsi di due fieri oppositori, responsabili ai suoi occhi dell'uccisione di Waldiperto) e forse convinto di poter resistere ad un assedio longobardo, rifiutò sdegnosamente. Ad ogni modo, quando Cristoforo e Sergio ebbero notizia che il duca di Roma, Grazioso, e molti dei suoi soldati, divelti nottetempo i battenti di Porta Portuense, erano usciti dalla città per consegnarsi al papa, decisero di presentarsi dinanzi a S. per impetrarne il perdono. Catturati entrambi dai soldati longobardi posti a guardia della basilica, Cristoforo e Sergio vennero condotti dinanzi al pontefice, che, intenzionato a salvar loro la vita, ordinò che la notte successiva fossero ricondotti a Roma e rinchiusi in monastero. Tuttavia, dopo che il pontefice ebbe lasciato S. Pietro, Paolo Afiarta "et alii eius nefandissimi consentanei" (Le Liber pontificalis, p. 480), chiesero a Desiderio la consegna dei prigionieri, i quali, condotti dinanzi alle mura della città, vennero entrambi accecati. Cristoforo, rinchiuso nel cenobio di S. Agata, morì dopo tre giorni; Sergio, tradotto prima nel monastero "ad Clivum Scauri" e poi in una segreta del Laterano, venne fatto uccidere da Afiarta pochi giorni prima della morte di papa Stefano. Ma, contrariamente a quanto presumibilmente auspicato da S., l'eliminazione di Cristoforo e Sergio, che il pontefice non era riuscito, o forse non aveva voluto sottrarre alla loro triste sorte, non comportò la restituzione dei territori indebitamente occupati dai Longobardi. Quando infatti i messi pontifici si recarono a Pavia per sollecitare la cessione delle "iustitiae sancti Petri", Desiderio, nonostante la gratitudine precedentemente espressa nei suoi confronti da S. nella lettera inviata a Carlo dopo i tragici fatti ricordati poc'anzi, rispose (come riferito dal biografo di Adriano I) che tale questione era fuori discussione e che al papa, ormai esposto all'eventuale ritorsione di Carlomanno, doveva bastare la sua protezione, peraltro già ampiamente dimostrata in occasione della cattura del "primicerius" e di suo figlio "qui illi dominabantur" (cfr. ibid., p. 487). Del resto, la posizione di S., che a partire all'incirca dalla metà del 771 scompare del tutto dalle fonti (Th.F.X. Noble), doveva essersi fortemente indebolita anche a Roma, ormai di fatto sotto il controllo di Paolo Afiarta, fedele alleato di Desiderio, che proprio in tale periodo, per rafforzare il suo potere, provvide ad eliminare i suoi residui oppositori, mandandoli in esilio. Tuttavia, proprio quando una serie di inaspettati eventi, quali l'improvvisa rottura dell'alleanza fra il re longobardo e Carlo (autunno 771) e la morte di Carlomanno (dicembre 771), era ormai sul punto di determinare un importante e decisivo mutamento degli equilibri politici, S. morì il 24 gennaio del 772 e fu sepolto in S. Pietro. Fonti e Bibl.: G. Cenni, Concilium Lateranense Stephani III (IV) ann. DCCLXIX [...], Romae 1735; I.D. Mansi, Sacrorum conciliorum nova et amplissima collectio, XII, Florentiae 1766, coll. 680-722; Stephani papae III Epistulae, in P.L., LXXXIX, coll. 1248-58; Ratherii Episcopi Veronensis Decreta et Libellus de clericis a Milone suae sedis invasor ordinatis, ibid., CXXXVI, col. 480; Iohannis Aventini Annales ducum Boiariae III, 10, a cura di S. Riezler, in Iohannes Turmair's genannt Aventinus Sämtliche Werke, II, München 1882, p. 410; Regesta Pontificum Romanorum, a cura di Ph. Jaffé-G. Wattenbach-S. Loewenfeld-F. Kaltenbrunner-P. 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