MADERNO, Stefano
Nacque, forse a Roma o a Palestrina, da Antonio e Francesca Frasca, intorno al 1570, piuttosto che nel 1576 come finora ritenuto.
La critica si era in passato basata sull'autorevole testimonianza di G. Baglione (1649) che definiva il M. "lombardo". Tale indicazione potrebbe riferirsi, in effetti, alle origini della sua famiglia: infatti, sebbene il M. stesso si qualifichi in diverse occasioni (per esempio nel bassorilievo per il deposito di Paolo V Borghese in S. Maria Maggiore) come romano, nel 1590 il padre Antonio viene detto milanese nel documento di morte del figlio Giacomo (Roma, Arch. stor. del Vicariato, Parrocchia di S. Biagio alla Pagnotta, Libro dei morti, I, 1575-1629, c. 37r; il M. ebbe anche due sorelle, Margherita e Agata). L'atto di morte del M. (1636) - la cui attendibilità, per una serie di ragioni, andrebbe ulteriormente verificata - ne attesterebbe d'altro canto la nascita nella cittadina laziale di Palestrina, da cui proveniva certamente la madre (Ibid., Parrocchia di S. Lorenzo in Lucina, Libro dei morti, II, 1606-1633, c. 175v). In base a tutto ciò si può anzitutto escludere che il M. fosse originario della Lombardia settentrionale (Bissone o Capolago), come già ritenuto (Muñoz, p. 3; Riccoboni, p. 140; Nava Cellini, 1966); e avanzare altresì l'ipotesi di una nascita a Palestrina o forse nella stessa Roma.
Per quanto riguarda la data di nascita, poiché sia Baglione (1649) sia l'atto di morte lo dicono di sessant'anni al momento del decesso nel 1636, sembra potersi porre attorno al 1576; ma da una testimonianza inedita fornita dallo stesso M. nel gennaio 1596 in occasione di un interrogatorio in difesa di tale Paolo Zenale (Arch. di Stato di Roma, Tribunale del Governatore, Testimoni per la difesa, 175 [1006], c. 144r) si evince che egli all'epoca avesse venticinque anni "circiter": ciò che farebbe spostare dunque i natali intorno al 1570. Dallo stesso documento si apprende che all'epoca, dopo aver abitato "in Capo alle Case", quartiere allora di nuova formazione tra via Sistina e la zona di Trevi, dimorava in via Giulia, strada nella quale risiedeva anche la madre: la parrocchia cui fanno capo tutti i membri della famiglia è quella di S. Biagio della Pagnotta, di cui però mancano quasi completamente le memorie documentarie relative a quel periodo.
Dalla testimonianza del 1596 si desume che il M. aveva compiuto un periodo di alunnato di cinque anni presso lo scultore di origine fiamminga Niccolò d'Arras, uno dei più accreditati dell'epoca sistina, attivo nella cappella del Presepe della basilica di S. Maria Maggiore (Economopoulos, 2004, pp. 11-17). Fu probabilmente presso di lui che il M. iniziò a praticare il restauro di statue antiche, cui fa cenno anche Baglione (1649). Il rapporto di alunnato si interruppe bruscamente nel 1592 allorché Niccolò d'Arras accusò il M. di aver sottratto dalla sua bottega alcuni disegni e un modello in bassorilievo, da cui l'allievo avrebbe derivato una fusione a scopo di lucro (Arch. di Stato di Roma, Tribunale criminale del Governatore, Processi del sec. XVI, vol. 262, f. 11, cc. 460-462).
In relazione alla produzione di questo primo periodo di cui non rimangono opere certe, è ancora dibattuta l'attribuzione al M. o a Silla Giacomo Longhi della statua raffigurante S. Brigida di Svezia, sita oggi nella cappella del Sacramento della basilica di S. Paolo fuori le Mura, ma concepita originariamente per l'oratorio di Leone III (restaurato per volere di Clemente VIII Aldobrandini in prospettiva dell'anno santo del 1600) posto dietro l'altare maggiore della basilica romana. La scultura, attribuita da Baglione ne Le nove chiese (1639, pp. 59 s.) al M. e ne Le vite (1649, p. 120) a Longhi, è risolta con un modellato duro e poco naturale affine alla maniera di Longhi, benché l'originalità dell'impostazione su piani obliqui e su linee diagonali faccia tuttavia pensare a un qualche intervento del M., almeno in fase ideativa.
Risale al 4 sett. 1597 (Roma, Arch. stor. Capitolino, Archivio Urbano, sez. I, t. 186, c. 917; già segnalato, ma non trascritto, da Bertolotti, I) un contratto in cui il M. si impegnava a eseguire, in soli sette mesi, un Crocefisso con un soldato a bassorilievo insieme con una s. Barbara e una s. Maria Maddalena a tutto tondo per l'orefice senese Alessandro de' Turchi. Stando ai termini contrattuali, l'opera doveva eguagliare in perfezione un S. Sebastiano allora ancora presso l'artista ma commissionato con ogni probabilità dal cardinale Paolo Emilio Sfondrati.
Mentre del gruppo scultoreo si è persa ogni traccia, il S. Sebastiano può agevolmente essere riconosciuto nella statua che attualmente si trova collocata nella cappella del cosiddetto bagno della chiesa romana di S. Cecilia in Trastevere (Economopoulos, 2001, p. 34) che pervenne in quella sede il 7 apr. 1620 attraverso il lascito testamentario del cardinale Sfondrati (ibid., p. 53). Verosimilmente egli commissionò il S. Sebastiano al M. per la sua stessa collezione, nella quale è infatti ricordata in un inventario del 1615 (vivente ancora il cardinale) una statua di analogo soggetto (ibid., p. 47). La statua denuncia una forma ispirata a modelli ellenistici, come il cosiddetto Alessandro morente della Galleria degli Uffizi di Firenze, soprattutto nell'atteggiamento fortemente patetico del volto, sorpreso con lo sguardo rivolto verso l'alto e la bocca semiaperta nell'atto di intessere un muto colloquio con Dio.
Al cardinale Sfondrati si deve la committenza dell'opera che contribuì maggiormente a consolidare la fama del M., la S. Cecilia collocata nella nicchia rettangolare antistante l'altare maggiore della chiesa di S. Cecilia in Trastevere, di cui il prelato era titolare.
Stando alla tradizione, il corpo della santa è atteggiato allo stesso modo in cui fu trovato il 20 ott. 1599 durante una ricognizione voluta dello stesso Sfondrati. Una delle questioni aperte riguarda la datazione dell'opera: già il 22 novembre dello stesso 1599 il corpo della santa, rinvenuto secondo le fonti miracolosamente incorrotto, veniva riposto sotto l'altare in una cassa argentea offerta da Clemente VIII e a sua volta collocata all'interno di un sarcofago antico. Nel descrivere la solenne consacrazione che accompagnò la cerimonia, l'oratoriano Antonio Bosio nella Historia passionis b. Caecilie virginis (Roma 1600) riferisce che già per quella data la scultura era collocata "intra hunc loculum" ed eseguita "ex pario marmore candidissimo" (p. 172); stando a questa testimonianza, la statua avrebbe avuto tempi di ideazione e di lavorazione strettissimi (un mese all'incirca), circostanza questa alquanto improbabile vista l'estrema accuratezza con cui la scultura è condotta. È dunque verosimile che essa fosse stata iniziata con largo anticipo rispetto al ritrovamento del corpo della martire cristiana, o che, in alternativa, l'opera vista da Bosio non fosse la statua finita, bensì un suo modello in stucco approntato dall'artista per le celebrazioni, cui avrebbe fatto seguito l'opera in candido marmo greco menzionata da Bosio, probabilmente già in fieri al momento della stesura del testo. La sensazionale novità dell'opera, che contribuì, tra l'altro, a diffondere il nome dello scultore anche al di fuori della cerchia romana, risiede nel sapiente dosaggio di elementi antiquariali (si confronti con il Persiano morente del Museo archeologico di Napoli o con le cosiddette Danzatrici Borghese del Louvre di Parigi) combinati a un gusto per il revival archeologico di ascendenza filippina e di temi e motivi paleocristiani cui non sono estranee anche declinazioni naturalistiche che risentono degli influssi della pittura coeva dei Carracci (Nava Cellini, 1969, p. 30) e del Caravaggio (Fruhan, p. 204).
Sempre per il cardinale Sfondrati il M. eseguì una S. Cecilia in avorio, di cui si ha notizia attraverso i pagamenti effettuati a suo favore il 21 apr. 1603 (Nava Cellini, 1969, p. 39 n. 16).
Per quanto riguarda i rilievi in bronzo dorato ai lati della nicchia raffiguranti i Ss. Valeriano, Cecilia, Tiburzio e i Ss. Lucio, Urbano, Massimo, la Nava Cellini (ibid., p. 34, ma già anche Muñoz, p. 4) assegna la paternità dei modelli al M., poi fusi in bronzo da Domenico Ferrerio e Orazio Censore; ancora al M. vanno attribuiti i due Angeli reggicorona in bronzo al di sopra della nicchia con la statua, riprodotti già nel 1601 nell'incisione di Cornelis Galle eseguita su disegno di Francesco Vanni (Vienna, Graphische Sammlungen, R. 424).
Sulla scia del successo ottenuto con la S. Cecilia, il M. venne incaricato dell'esecuzione della statua della Prudenza per il monumento funebre del cardinale Michele Bonelli (morto nel 1604) in S. Maria sopra Minerva e dei due Angeli dadofori a coronamento della sepoltura di Silvestro Aldobrandini (inaugurata, insieme con quella della consorte Luisa Deti, nel marzo 1611) nella cappella omonima della stessa chiesa, come attesta anche la stima fatta da Antonio Gentile da Faenza e Francesco da Pietrasanta nel 1604 (Pressouyre, I, pp. 248 s., n. 50).
Per S. Maria sopra Minerva il M. si era impegnato a scolpire nel 1603 la statua di S. Giovanni Battista da collocare nella cappella di S. Sebastiano (oggi Grazioli Lante Della Rovere) concessa alla Confraternita del Ss. Salvatore (Arch. di Stato di Roma, Collegio dei Trenta notai capitolini, n. 993, cc. 533-534), opera che venne di lì a poco affidata, per motivi ancora oscuri, ad Ambrogio Buonvicino. A una possibile forma di collaborazione tra il M. e Buonvicino va ricondotta la statua raffigurante S. Carlo Borromeo destinata all'omonima cappella (smantellata) nella chiesa di S. Lorenzo in Damaso e ora posta nell'endonartece (pilastro destro). Concessa nel 1615 al canonico Cesare Melotti, la cappella dovette essere sistemata nella sua veste architettonica e decorativa entro il 3 nov. 1616, quando venne solennemente inaugurata dal vescovo di Salona Cesare Fedele, il quale fu, tra l'altro, tra i testimoni chiamati a deporre in favore della causa di canonizzazione dello stesso Borromeo nel 1610. Nominato più volte vicegerente di Roma, Fedele ricoprì anche la carica di vicario del cardinale Alessandro Montalto Peretti, per il quale il M. procurò la scultura, probabilmente antica, di un "Fauno di marmo al naturale" destinato al giardino della sua villa sull'Esquilino (Granata).
Il nome del M. compare anche tra gli artisti che presero parte alla decorazione in stucco della cappella del Ss. Sacramento in S. Maria Maggiore, come documentano i conti a essa relativi (Bertolotti, I, p. 107).
Il M. fece parte di accademie e congregazioni di artisti. Nel 1603 e nel 1605 risulta avere contribuito alla spesa delle candele per la festa dei Ss. Quattro Coronati, protettori dell'università dei marmorari, sodalizio cui nel 1628 versava la tassa (Leonardo). A partire dal settembre del 1607 il suo nome compare tra quelli degli artisti che partecipavano alle spese della Compagnia di S. Luca, all'interno della quale nel 1620 risulta "accademico eletto"; nel 1624, nel 1628 e nel 1630 rivestì il ruolo di stimatore.
Dal 1606 entrò a far parte di quel nutrito novero di artisti coinvolti nella decorazione delle fabbriche Borghese nella basilica di S. Maria Maggiore.
Come primo incarico eseguì una oramai irrintracciabile coppia di Putti reggistemma (l'altra, fu affidata a Francesco Mochi) per la facciata della cosiddetta "sacrestia nova", voluta da Paolo V adiacente alla basilica lungo la navata laterale destra (Fonti, pp. 41, 128, 150, 157, 166). Gli furono in seguito commissionate due statue in travertino per l'esterno della cappella Paolina raffiguranti S. Mattia apostolo e S. Epafra martire (pagamenti tra agosto 1608 e gennaio 1609), poi realizzate con il contributo di Francesco Caporale, ancora oggi in situ (ibid., pp. 35, 41, 150). Insieme con le altre statue eseguite da Giovanni Antonio Paracca detto il Valsoldo (S. Luca e S. Girolamo) e da Mochi (S. Matteo e l'angelo), esse dovevano assolvere la funzione di indirizzare i pellegrini verso le sacre reliquie contenute nella basilica e di presentare, in modo storico e autorevole al contempo, le figure della storia ecclesiastica che lì si celebravano. Il successivo lavoro per la cappella Paolina fu la realizzazione di un rilievo raffigurante il Miracolo della neve in marmo bianco, bronzo dorato e lapislazzuli, da collocarsi all'interno del monumentale tabernacolo destinato a custodire la miracolosa icona della Vergine Salus Populi Romani. Il modello dell'opera era pronto già nel luglio 1610, quando il M. ricevette il saldo del pagamento (ibid., pp. 60, 166), mentre il rilievo fu compiuto entro il dicembre del 1612, quando la scultura, giusta la stima del lavoro, venne arrotata e levigata (Dorati, p. 247; Fonti, p. 189).
Sulla base di pagamenti a suo favore (Dorati, p. 234), la critica assegna al M. anche alcuni dei Cherubini reggighirlanda del fregio del cornicione della stessa cappella.
L'intervento più significativo per la cappella Paolina può considerarsi il rilievo con L'esercito pontificio che soccorre Rodolfo d'Asburgo durante la spedizione in Ungheria, collocato nel registro inferiore sinistro del monumento funebre di Paolo V (Fonti, pp. 81, 113). L'allogazione dell'opera è documentata dalla polizza di obbligazione del 10 maggio 1613, sottoscritta dai diversi scultori coinvolti nell'impresa (ovvero, oltre al M., Buonvicino e il Valsoldo, anche Ippolito Buzzi e Cristoforo Stati), nella quale gli artisti indicavano i soggetti, le modalità, le tecniche di esecuzione e i rispettivi tempi di consegna e si impegnavano a fornire anche i modelli in creta, grandi l'ottava parte delle opere finite (Dorati, p. 255). L'opera del M., che doveva fare da contraltare alla Presa di Strigonia di Francesco Mochi e Camillo Mariani per la tomba di Clemente VIII, non descrive una battaglia; piuttosto vuole dare l'idea dell'incedere serrato e regolare dei soldati dal fondo verso il proscenio: i ritmi sono compatti, le figure vicinissime le une alle altre, il tono concitato.
Nel 1610 il M. venne contattato dalla Fabbrica del duomo di Orvieto per l'elaborazione di un modello di statua di apostolo (S. Bartolomeo) da accostare a quelle già esistenti lungo la navata, all'interno dell'edificio (Muñoz, p. 20); la trattativa non andò in porto e l'incarico venne in seguito affidato a Buzzi che ne ultimò l'esecuzione nel 1618.
Tra l'agosto del 1611 e il febbraio dell'anno successivo si può datare, in base alle note di pagamento (Fonti, pp. 52, 59, 81, 187 s.), l'esecuzione di un delfino in travertino sormontato da un putto per la fontana del Belvedere in Vaticano (generalmente identificato con il gruppo del Tritone su delfino collocato nella nicchia destra della fontana, ma forse riferibile al gruppo immerso nella vasca), compagno di un secondo gruppo di analogo soggetto eseguito da Santi Solaro.
Di committenza borghesiana sono il busto dell'ambasciatore congolese Antonio Emanuele Ne Vunda detto il Nigrita (1608-09; S. Maria Maggiore, vestibolo della sagrestia), realizzato dal M. con la collaborazione di Caporale (ibid., pp. 35, 161), nonché un numero di opere per il palazzo del Quirinale, tra cui la statua reclina di S. Pietro (agosto 1615 - ottobre 1616) adagiata sul frontone del portale d'ingresso al palazzo con il S. Paolo di Guillaume Berthelot (ibid., pp. 99, 113).
L'opera non è stata accolta con grande entusiasmo dalla critica novecentesca che vi ravvisava certe durezze nelle pieghe e un qualche impaccio nel movimento della testa; tali limiti sono tuttavia in parte imputabili al precario stato conservativo dovuto all'utilizzo di marmo di recupero proveniente dalla basilica di S. Pietro, secondo quanto attesta la relativa documentazione (ibid., p. 205).
È possibile accertare la presenza del M. tra le maestranze che lavorarono alla decorazione in stucco della cappella Paolina nel palazzo del Quirinale, databile tra l'aprile del 1616 e il febbraio 1617; tuttavia i dati in nostro possesso non permettono di circoscrivere il suo intervento e di distinguerlo da quello dei diversi artisti che, sotto la guida di Martino Ferrabosco, parteciparono all'impresa.
Negli stessi anni delle committenze Borghese il M. consolidò i rapporti con il nobile imprenditore Gaspare Rivaldi, il quale, avendogli offerto un ufficio presso la Gabella di Ripetta, fu, secondo Baglione, la causa dell'abbandono della sua attività artistica. In realtà il M. non lasciò mai la pratica scultorea, ma fu impegnato, nel decennio a partire dal 1617, nella produzione seriale di bronzetti realizzati su suoi modelli, a volte ispirati dalla statuaria classica. Per lo stesso Rivaldi eseguì due figure allegoriche raffiguranti la Pace e la Giustizia collocate sul frontone dell'altare della tribuna della chiesa di S. Maria della Pace. L'altare, che di fatto svolge la funzione di altare maggiore della chiesa con l'immagine miracolosa della Vergine che vi si venera, era stato concesso a Rivaldi il 12 dic. 1611 dai canonici lateranensi, e la sua decorazione dovette verosimilmente essere compiuta prima del 14 luglio 1614, quando la cappella veniva consacrata dallo stesso pontefice Paolo V.
Tra le opere più celebrate del M., le figure della Pace e della Giustizia tracciano un filo ideale con la S. Cecilia svolgendo nuovamente il tema della figura femminile distesa, questa volta in una soluzione esente da implicazioni devozionali, e piuttosto indebitata nei confronti della statuaria classica e del suo vasto repertorio iconografico (Economopoulos, 2003, pp. 76 s.). Donati (p. 28) attribuisce alla mano del maestro anche il cherubino sito al centro del timpano, così come i due cherubini in bronzo sui pilastri laterali; sempre al M. va assegnata la piccola immagine in lega metallica della Madonna con Bambino inserita nella grata del paliotto dell'altare, la cui generale impostazione rimanda direttamente alla figura della Prudenza del monumento Bonelli in S. Maria sopra Minerva (Economopoulos, 2004, p. 412).
Ancora per Rivaldi il M. scolpì il gruppo marmoreo di Giacobbe e l'angelo (Roma, Galleria Doria Pamphilj) del quale si ha notizia precoce dall'inventario dei beni di famiglia del 1631, dove viene menzionata "una statua di marmo fino grande, cioè Giacobbe, che lotta con l'Angelo con suo piedistallo", senza dubbio da riconoscersi nella statua oggi presso le collezioni pamphiliane, vista la rarità del soggetto e la conformità dell'opera allo stile dell'artista (Economopoulos, 2003, pp. 68-72).
Verso il 1624 il M. si avvicinò alla cerchia di Gian Lorenzo Bernini che in quel momento attendeva alla messa in opera del baldacchino in S. Pietro.
Per le colonne di quest'ultimo è documentata l'esecuzione da parte del M. di "cinque puttini in creta", pagatigli dallo stesso Bernini 12 scudi (Città del Vaticano, Arch. della Reverenda Fabbrica di S. Pietro, Arm., 1, A, G; Pollak). Per l'apparato effimero allestito in occasione della cerimonia di canonizzazione di Elisabetta del Portogallo, avvenuta il 25 marzo del 1625 sotto la regia dello stesso Bernini, il M. realizzò "quattro statue del Re di Portogallo", non più rintracciabili (Lorizzo, p. 356).
Nella chiesa di S. Maria di Loreto lasciò due statue a grandezza naturale di Angeli. In origine collocate nelle nicchie laterali dell'altare maggiore e invertite rispetto all'attuale disposizione, vennero commissionate dalla Confraternita dei fornari nel 1628 e compiute entro il dicembre 1629 (Boudon, pp. 122-127), insieme con la S. Flavia Domitilla di Domenico Rossi e la S. Agnese di Pompeo Ferrucci. Dal punto di vista iconografico gli Angeli sono concepiti in modo da enfatizzare l'altare maggiore della chiesa e il tabernacolo in esso contenuto, amplificando il significato salvifico del Sacramento, secondo quanto prescriveva la liturgia cattolica controriformata.
Esiste poi un numero di opere la cui attribuzione al M. andrebbe ancora vagliata da un attento esame dei documenti e delle fonti.
Tra queste, le due statue in travertino raffiguranti S. Caio papa e S. Gabinio poste nelle nicchie dell'ordine superiore della facciata della chiesa di S. Susanna: sebbene manchi a tal riguardo qualsiasi testimonianza antica che le assegni al M. (fatta eccezione di Lione Pascoli il quale, confondendosi, attribuisce sia la facciata sia le statue che la ornano all'architetto Carlo Maderno), la critica ha finora accolto senza riserve la proposta avanzata da Riccoboni nel 1942 (p. 141) anche se in assenza di appigli documentari. Lo stesso studioso (pp. 142 s.) gli attribuisce i due gruppi di Putti che lottano, conservati nella Galleria Doria Pamphilj di Roma, già ritenuti di Alessandro Algardi, per i quali non è stato finora possibile formulare alcuna attribuzione convincente. Anche il gruppo marmoreo raffigurante Ercole e Caco (Dresda, Staatlichen Kunstsammlungen), già riferito a Francesco Baratta e assegnato per la prima volta al M. da Wittkower (1928-29) grazie al confronto con il modello in terracotta della Galleria G. Franchetti alla Ca' d'Oro di Venezia, può essere ancora considerato sub iudice. Controversa è anche l'attribuzione del Crocifisso in marmo della cappella Santori della basilica di S. Giovanni in Laterano, che Baglione assegnò prima al M. (1639) e poi (1649) a tal "Aurelio Cioli", figura di artista del tutto sfuggente e con ogni probabilità confusa con Valerio Cigoli o Cioli da Settignano (Riccoboni, pp. 79 s.).
Problematico è pure il caso delle due statue di S. Pietro martire e di S. Tommaso d'Aquino nelle nicchie superiori della facciata della chiesa dei Ss. Domenico e Sisto, considerate l'opera estrema del M., dal momento che all'indomani della morte i suoi figli ricevettero "scudi 100 moneta per intiera sadisfatione delle dui statue da lui fatte per mettere nelli nicchi della facciata della nostra chiesa" (Arch. segr. Vaticano, Monasteri femm. Rom. Soppressi, Ss. Domenico e Sisto, vol. 386, c. 74v). L'assenza di ogni documentazione in grado di fornire ulteriori elementi, le vicende che accompagnarono la commissione delle due statue nelle nicchie inferiori (S. Sisto e S. Domenico di Marcantonio Canini), e la testimonianza della madre priora Salamoia, la quale affermava che le quattro statue della facciata furono eseguite nel 1653 sotto il priorato di suor Lorenza Molara (Economopoulos, 2004, p. 300), lasciano ancora aperta la questione dell'attribuzione delle due statue al M. stesso.
Un capitolo a parte è quello relativo alla statuaria di piccolo formato che costituisce circa la metà della produzione del maestro. Come conferma anche Baglione (1649, p. 345), questa attività si svolse parallela a quella della statuaria di grande formato e venne realizzata "per servigio di varii Personaggi che di questa professione si dilettano, sì per Roma, come per fuori, et a publico beneficio". All'interno di questo gruppo di opere occorre distinguere i modelli in terracotta, spesso siglati e datati dall'artista stesso, dalle fusioni in bronzo da essi derivate, per lo più ascrivibili alla mano di abili fonditori in grado di trasporli in metallo, tra cui senza dubbio vi fu anche lo stesso Giacomo Laurenziano, zio di Lucrezia Pennini, moglie del M. dal 1611 (Pressouyre, I, p. 210). Tale circostanza smentisce la convinzione di alcuni studiosi (tra cui in particolare Androsov, p. 296) secondo i quali i modelli in terracotta del M. venivano eseguiti non per essere replicati in bronzo, ma esclusivamente come pezzi da collezione autonomi. Del resto, il metodo di "fusione indiretta" - che oramai agli inizi del Seicento veniva largamente impiegato, dopo che il Giambologna (Jean Boulogne) ne aveva sperimentato le potenzialità ai fini di produzione a basso costo e di alta qualità - consentiva di conservare il modello in terracotta e di replicarlo in infinite versioni in bronzo, alle quali a volte venivano anche apportate modifiche compositive. Tra le migliori fusioni va senza dubbio ricordato l'Ercole ed Anteo delle Civiche Raccolte del Castello Sforzesco di Milano, derivato dalla terracotta della Ca' d'Oro di Venezia, siglata e datata 1622 (altre fusioni del medesimo soggetto: San Marino [California], The Huntington Art Collections; Dresda, Staatliche Kunstsammlungen; Cracovia, Castello Wawel; Baltimora, The Walters Art Gallery). Sempre alla Ca' d'Oro sono conservate le terrecotte raffiguranti Ercole e il leone Nemeo (1621; fusione in bronzo: San Francisco, Fine Arts Museum), Ercole e Caco (1621), Neottolemo col corpo di Astianatte (s.d.), tutte provenienti dalla collezione Farsetti di Venezia; della stessa provenienza sono le terrecotte conservate presso il Museo dell'Ermitage di San Pietroburgo, Nicodemo con il corpo di Cristo (1605), Ercole e il piccolo Telefo (1620), Laocoonte (1630), oltre che una copia da originale perduto del M., raffigurante Ercole e il centauro (1626). Una ulteriore versione del Nicodemo con il corpo di Cristo (1605) è quella conservata presso gli Staatliche Museen di Berlino (Skulpturensammlung), nella quale è possibile scorgere un ricordo del tema delle ultime Pietà michelangiolesche, mentre ispirata all'Ercole Farnese è la terracotta dell'Ashmolean Museum di Oxford (1617).
Il M. morì intestato a Roma nella sua abitazione di via dei Pontefici e fu sepolto presso la chiesa di S. Lorenzo in Lucina il 17 sett. 1636 (Roma, Arch. stor. del Vicariato, Parrocchia di S. Lorenzo in Lucina, Libro dei morti, III, 1634-43, c. 59r), lasciando la moglie e i figli Lorenzo, Andrea, Angelo, Francesca, Caterina e Maria.
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