MAGNASCO, Stefano
Figlio di Lorenzo e di Pellegrina, di cui s'ignora il casato, nacque a Genova molto probabilmente nel 1635. Non è emersa finora documentazione sulle date di nascita e di morte né sui tempi del giovanile soggiorno di studio a Roma. Si sposò a Genova con Livia Caterina Musso, dalla quale ebbe i figli Alessandro (nato il 4 febbr. 1667), Artemisia (nata nel 1669) e Giuseppe, del quale non si conosce l'anno di nascita.
Il 19 maggio 1670 il M. era ancora in vita poiché in questa data è documentata la riscossione di un credito. Questa notizia, insieme con quelle della nascita dei figli Alessandro e Artemisia, e le date del Miracolo di s. Ugo e del Transito di s. Giuseppe (1663 e 1666) sono i soli dati cronologici certi della sua breve vita.
I due studi monografici sul pittore (Biavati Frabetti, 1984, e Orlando, 2001) evidenziano infatti le difficoltà di ricostruire sia la vicenda biografica sia l'itinerario stilistico del M., nella quasi totale assenza di documentazione non solo sulla sua vita, ma anche sulle sue opere.
Il M. entrò come allievo nella bottega del pittore genovese Valerio Castello, probabilmente intorno al 1650; il suo soggiorno di cinque anni a Roma iniziò certamente quando l'artista non aveva ancora compiuto venticinque anni, poiché Soprani, che ne scriveva la biografia a pochi anni dai fatti, annota che partì "con licenza dei suoi maggiori", cioè prima della maggiore età, forse nel 1655-56.
Soltanto undici dipinti sono firmati: Il miracolo di S. Ugo (Genova, oratorio dell'Immacolata Concezione) è firmato e datato per esteso ("Stephanus Ma [(] faciebat à 18 marzo 1663"); mentre gli altri dieci sono contrassegnati dalla tipica sigla dell'artista, una "S" e una "M" sovrapposte.
L'Angelo custode della chiesa genovese di S. Teodoro, la Madonna del Rosario già nell'omonimo oratorio presso la stessa chiesa (ora in collezione privata) e Il transito di s. Giuseppe già nell'ospedale genovese di Pammatone, ora nella chiesa dell'ospedale di S. Martino, quest'ultimo documentato dal pagamento all'artista nel 1666 (Biavati Frabetti, 1984, p. 36, n. 8), sono stati identificati come opere del M. sulla base delle indicazioni delle Vite di Soprani.
La maggior parte delle 61 tele oggi assegnate al M. è dunque frutto di un lavoro attributivo condotto sul confronto delle poche opere certe.
Da questo catalogo di dipinti, assai differenziati sul piano stilistico e culturale, emerge la figura di un artista pronto a recepire le suggestioni di numerosi testi pittorici, nel corso di un itinerario tutt'altro che lineare, che lo portò a realizzare opere di alta qualità ma non a elaborare una sua personale e coerente caratterizzazione linguistica. Da Castello apprese lo scorrere veloce della pennellata, il gusto di un colore prezioso e sfavillante e le influenze della pittura del Correggio (Antonio Allegri), del Parmigianino (Francesco Mazzola) e di Giulio Cesare Procaccini. Se nel giovanile Baccanale di putti (collezione privata: Orlando, 2001, p. 86, n. 6) sono evidenti i riferimenti a Castello, sia nella tematica sia nella preziosità del colore, nella Pietà della Pinacoteca di Vilnius (ibid., p. 92, n. 12) si legge l'influenza dell'opera genovese di Antoon Van Dyck. Nel Passaggio del Mar Rosso (collezione privata: ibid., p. 94, n. 14) è evidente la lezione del Grechetto (Giovanni Benedetto Castiglione); mentre nell'Adorazione dei magi, siglata "SM" (collezione privata: ibid., p. 96, n. 16), i ricordi di Castello sfumano nell'evidenza costruttiva e plastica delle forme. Nell'Euclide, siglato (collezione privata: ibid., p. 98, n. 18), la spazialità della composizione, l'ampio gesto del protagonista e il movimentato panneggio esprimono, invece, lo studio del M. sui testi della pittura genovese dal secondo al quinto decennio del secolo.
A questa molteplicità di suggestioni elaborate negli anni della formazione, si aggiungono, probabilmente negli anni compresi fra il 1655-56 e il 1660 circa, gli studi e le esperienze compiuti in un soggiorno di cinque anni a Roma. Degli anni romani del M. non si conosce nessuna opera certa.
Sono probabilmente da riferire a questo momento tele come la Susanna e i vecchioni e La predicazione del Battista, siglata (collezioni private: ibid., pp. 101, 107, nn. 21, 28), molto diverse fra loro, con evidenti riferimenti a P.P. Rubens e a G.B. Gaulli.
Soprani (1674) dichiara che "havendo fondato non solo nel dissegno, ma altresì nel colorito i suoi studij" con le esperienze romane, il M., tornato a Genova, vi aprì bottega ed eseguì molte opere che "con lo stile appreso fuori piacquero".
Le tele collocabili fra il 1660 e il 1672 esprimono, come quelle degli anni giovanili, il prevalere, di volta in volta, di suggestioni diverse. Nella Negazione di Pietro (Pommersfelden, Kunstsammlungen Graf von Schönborn) l'affollarsi in primo piano delle figure, drammaticamente atteggiate ed emergenti dall'oscurità in forti contrasti luministici, rivela un attento studio della pittura postcaravaggesca, in particolare di Bartolomeo Manfredi; al contrario Cristo e l'adultera (collezione privata: Orlando, 2001, p. 127, n. 47) - nelle forme tornite, nella gestualità pacata e solenne, nello sfondo classicheggiante e nel colore dalle campiture decise - fa riferimento al classicismo romano di Andrea Sacchi e di Carlo Maratta. A queste suggestioni si unisce quella della pittura di Orazio Gentileschi e delle opere, eseguite a Roma e a Genova, del savonese Giovanni Maria Bottalla, in tele come Il sacrificio di Isacco (collezione privata: ibid., p. 117, n. 38), certamente uno dei capolavori degli ultimi anni dell'artista insieme con la drammatica e vigorosa Carità romana, siglata (collezione privata: ibid., p. 141, n. 61). In questa tela il naturalismo tardocaravaggesco si innesta sulla lezione dei pittori bolognesi, Guido Reni e Giovanni Lanfranco, studiati a Roma, nella plasticità delle forme evidenziate da drammatici contrasti fra luce e ombra e nella stesura cromatica compatta. La difficoltà di una sistemazione cronologica di queste opere sta proprio nell'eclettismo del M., che sembra sperimentare diverse strade proponendo spesso soluzioni di compromesso, con esiti di qualità a volte molto alta, fra le acquisizioni romane e la cultura pittorica genovese. Più che i due noti Trionfi di Davide, ambedue siglati (collezioni private: ibid., pp. 138 s., nn. 58 e 59), caratterizzati da un notevole impaccio nell'affollato schierarsi in primo piano delle figure evidenziate in una statuaria plasticità e in un vivido colore che si rifanno chiaramente al classicismo romano, sono opere come l'Ester e Assuero (collezione privata: ibid., p. 128, n. 48) a rappresentare la capacità del M. di fondere le sue varie esperienze in composizioni di barocca teatralità, arricchite da quella "buona maniera di colorire" alla quale il biografo attribuiva il suo successo presso la committenza.
Nei suoi ultimi anni il M. rielaborò le acquisizioni della grande pittura genovese della prima metà del Seicento. Da Andrea Ansaldo, da Giovan Battista Carlone, da Giovanni Andrea e Orazio De Ferrari assunse soluzioni compositive e cromatiche; ma nella sua opera si legge anche l'attenzione al nuovo corso della pittura intrapreso da Domenico Piola.
L'Ester e Assuero, Mosè salvato dalle acque (collezione privata: Orlando, 2001, p. 118, n. 39), il Crocifisso con l'angelo, siglato, della chiesa di S. Maria delle Vigne, Il miracolo di s. Ugo, Il transito di s. Giuseppe, La Sacra Famiglia e il ladrone Tito, siglato (collezione privata: ibid., p. 140, n. 60) e il S. Pietro liberato dal carcere, siglato, del municipio di Pontecurone (ibid., p. 135, n. 55) sono tele che, con risultati diversi, esprimono la costante tensione del M. alla rielaborazione delle lezioni acquisite. Delle sue opere la più significativa è forse Lo sposalizio mistico di s. Caterina, siglato (collezione privata: ibid., p. 123, n. 43), nel quale la molteplicità delle influenze culturali si fonde in una composizione sapientemente calibrata, connotata da un raffinatissimo cromatismo.
La pittura genovese fu studiata dal M. nei suoi più recenti sviluppi con tele come La morte di Cleopatra della Galleria di Palazzo Bianco, i pendants Putti come allegoria della Musica e Putti come allegoria delle Arti (collezione privata: ibid., p. 112, n. 33 a-b) e soprattutto L'Angelo custode della chiesa genovese di S. Teodoro.
Se nelle prime tre tele si legge l'interesse per Piola, nella pala in S. Teodoro, probabilmente fra le sue ultime opere, le tonalità cromatiche schiarite e preziose e la levità della scrittura pittorica indicano una nuova direzione di linguaggio: quei "toni lucidi, chiari e fioriti" quel "brio" e quelle "grazie", che stupirono tanto Alizeri (1847). C'è forse, in questo momento, un recupero dei ricordi della pittura parmense filtrata dalla lezione di Castello, in direzione di una nuova leggerezza e soavità della pittura, come si scorge anche nella parte superiore del Transito di s. Giuseppe, dove Ratti (1768) annotava "un gruppo d'angioli di rara, e sorprendente bellezza".
Il M. morì a Genova nel 1672 o nel 1673, poiché la sua biografia nelle Vite di Soprani, stese entro il 1673 in successione cronologica delle date di morte, è l'ultima e segue quella di Francesco Capurro, deceduto nel 1672.
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