MIGLIARISI, Stefano
MIGLIARISI (de Migliarisio, Millarisio, Millarisis), Stefano. – Nacque probabilmente a Catania verso la metà del XIV secolo, da una famiglia locale legata agli Alagona. Fu miles e legum doctor.
Nel settembre 1378 compare a Roma come officialis pontificio, con le funzioni di secretarius di Urbano VI. Nella delicata situazione che precedette l’inizio dello scisma, gli fu anche affidata la protezione personale del papa. Fu uno dei molti curiali che, in coincidenza con l’elezione a Fondi di Clemente VII (20 settembre), abbandonarono il servizio del pontefice deposto dal Collegio dei cardinali. Si stabilì a Napoli, dove la regina Giovanna I d’Angiò lo nominò reggente della Magna Curia della Vicaria.
Nel maggio 1380 il ministro generale dei frati minori, Angelo da Spoleto, in una testimonianza resa ad Avignone sui fatti che avevano portato allo scisma, dichiarò di avere
appreso dal M. che Urbano VI con la sua complicità aveva compiuto numerose falsificazioni di documenti, attribuiti a sovrani, principi e cardinali.
Nel luglio 1381, quando Napoli fu conquistata da Carlo III d’Angiò Durazzo, il M. fu oggetto delle rappresaglie contro i clementisti più eminenti, condotte multum crudeliter dal legato di Urbano VI, il cardinale Gentile de Sangro. Con due cardinali, Giacomo d’Itri e Leonardo de Giffoni, e un vescovo di Clemente VII, Masello Brancaccio, pare che anche il M. fosse sottoposto il 4 o il 19 settembre, nella chiesa di S. Chiara, a una umiliante e solenne cerimonia di abiura. Fu quindi imprigionato con gli altri e all’inizio del 1382 (non è certo se il 9 gennaio o il 13 febbraio) fu trasferito dal cardinale de Sangro lontano da Napoli, forse nel castello di Aversa.
Nell’estate 1386 era ormai tornato libero, probabilmente in conseguenza degli avvenimenti del gennaio 1385, che avevano portato all’arresto dello stesso cardinale de Sangro, accusato da Urbano VI di partecipazione al complotto organizzato da Bartolomeo Mezzavacca, e per effetto dell’assedio al quale il pontefice fu sottoposto nel castello di Nocera da Carlo III. Rifugiatosi ad Avignone, tra giugno e agosto del 1386 il M. testimoniò dinanzi agli inviati del re Pietro IV d’Aragona. Confermò quanto riferito sei anni prima da Angelo da Spoleto, con l’aggiunta di molti particolari. Accusò Urbano VI della falsificazione, nel settembre 1378, del testamento del cardinale Francesco Tebaldeschi e più genericamente di altri falsi. Affermò che la condotta del pontefice lo aveva determinato ad abbandonarlo e a tornare nel Regno di Sicilia.
Non sappiamo quando sia tornato a Catania al servizio degli Alagona, sostenitori dell’obbedienza romana, accanitamente difesa dal vescovo Simone Del Pozzo. Il ritorno può essere avvenuto dopo la morte di Urbano VI (15 ott. 1389), quando molti avversari del papa furono perdonati dal successore Bonifacio IX.
Il 9 dic. 1392 per conto di Artale, figlio di Manfredi d’Alagona, ribelle all’autorità aragonese, il M. conduceva le trattative di pace che stavano per concludersi con il duca di Montblanc, Martino d’Aragona, che governava per il figlio Martino I il Giovane.
L’accordo prevedeva la rinuncia alagonese ai castelli di Aci e Paternò, in cambio di Mistretta e di feudi minori nel Val di Noto, e il temporaneo esilio di Artale che sarebbe andato in pellegrinaggio a Gerusalemme. Mentre il duca Martino ordinava alla Cancelleria reale di predisporre i provvedimenti di attuazione e preparava la liberazione degli ostaggi, affidati a Bernardo Cabrera, il M. il 18 dicembre continuava a occuparsi dell’ulteriore definizione dell’accordo. Esso fu concluso solo nel giugno 1393, in termini diversi. La rinuncia alagonese ai feudi siciliani divenne totale, compresi i possedimenti di Beatrice Incisa, moglie di Artale, e incluse il castello di Aci, la cui investitura gli Alagona avevano ricevuto da Bonifacio IX. In cambio il duca Martino concedeva ad Artale la contea di Malta.
Per tutto giugno continuarono le trattative per dare esecuzione all’accordo, che richiedeva tra l’altro la rinuncia di Guglielmo Raimondo Moncada al marchesato di Malta. Il perdono regio, accordato agli Alagona e ai loro sostenitori, fu giurato sul Vangelo dai sovrani e dal duca, ma restavano da stabilire le modalità di sottomissione di Artale e quelle relative all’investitura maltese e alla consegna della torre di Paternò. Il 3 luglio il M. fu presente nel castello di Aci alla cerimonia, nella quale l’Alagona prestò omaggio al procuratore reale e fu investito con la spada. Due giorni dopo la pace fu perfezionata con la firma del re di Sicilia, Martino I il Giovane, e della regina Maria, ma il 14 luglio il duca cercò di impedire il trasferimento del possesso dell’isola di Malta. Era l’effetto degli sviluppi a Palermo della ribellione chiaromontana. Da qualche giorno non giungevano più notizie dall’arcivescovo Asberto de Vilamarí, il quale difendeva la città da Enrico Chiaromonte. Vittoriosi, i ribelli palermitani erano entrati in contatto con Artale Alagona, che non riuscì a quietare i sospetti del duca, aggravati da ripetuti incidenti locali, benché gli consegnasse la lettera ricevuta dai chiaromontani. Il 26 luglio il M. fu duramente redarguito dal duca Martino, perché lo riteneva personalmente responsabile per le lentezze e i ritardi delle trattative, che continuavano a essergli affidate, per l’applicazione degli accordi (né Paternò né Aci erano state ancora consegnate al re).
Il 30 luglio il duca pose un ultimatum per la consegna di Paternò, minacciando di morte i due ostaggi (il padre Manfredi, già vicario del Regno, e il fratello di Artale, Giacomo Alagona). Il M. fu incaricato di affrontare e risolvere la drammatica situazione, consegnando a Martino le lettere di Artale per gli officiali di Paternò, con le quali il conte disponeva la consegna del castello al re. Il duca rifiutò di riceverle, perché riteneva l’Alagona responsabile dell’adempimento dei patti nei termini stabiliti e non era disposto ad avere rapporti diretti con gli officiali alagonesi a Paternò. A dimostrazione di buona fede, il M. offrì la consegna di altre due terre, Castiglione e Francavilla, destinate a Federico Spatafora. L’ultimatum fu rinnovato il 5 agosto con la richiesta di consegnare Paternò e Aci. Perdendo tutto, anche la contea di Malta, Artale ormai poteva sperare di ottenere soltanto la vita dei suoi due familiari. Rimase nel castello di Aci e ripresero le ostilità.
Il ruolo avuto nelle fallite trattative di pace aveva tenuto per lunghi mesi il M. in contatto con il duca Martino, il quale il 12 ag. 1393 gli accordò in comandam tutti i beni posseduti nei territori di Catania e di Messina dal ribelle Rinaldo Pizinga, con la motivazione che questi si era a sua volta impossessato a Palermo, dove era pretore, di beni che il M. rivendicava. Si trattava probabilmente dell’eredità (comprendente una vigna, con alberi d’olivo) di Giacomo Pizinga, la cui vedova, Allegranza, il M. aveva sposato. Il provvedimento della Cancelleria, che rinviava alla fine della ribellione palermitana l’accertamento giuridico sull’appartenenza dei beni, rivela che il M. non era più ritenuto un ribelle, ma un dilecto familiari et fideli della monarchia siciliana.
Quando il 16 dic. 1393 Artale entrò nuovamente a Catania, il M. tornò comunque a essergli accanto. A motivo della sua ribellione, il 4 giugno 1394 Allegranza veniva sottoposta a Messina a restrizioni, ma il 23 dello stesso mese interveniva il duca, per conservarle il possesso di una quantità di frumento e orzo appartenente al marito, il quale il 4 agosto era tuttavia ancora con l’Alagona.
Il 14 apr. 1396 ricevette un salvacondotto per andare in armi, accompagnato da cinque uomini e dal prete Guglielmo Rizzotto, da Calascibetta a Paternò, dove doveva avere un colloquio con Bernardo Cabrera, non sappiamo per quale motivo. Nel 1399 la corte pretoriana di Palermo, nel nominare un curatore per l’eredità di Giacomo Pizinga, rilevava la mancanza di ogni informazione sul M. e sulla moglie, da lungo tempo assenti dalla città.
Non abbiamo su di lui notizie posteriori né relative alla morte.
Fonti e Bibl.: I Diurnali del duca di Monteleone, a cura di M. Manfredi, Bologna 1960, p. 29; F. Guardione, Documenti sul secondo assedio di Catania e sul riordinamento del Regno di Sicilia (1394-1396), in Archivio storico per la Sicilia orientale, I (1904), pp. 87 s.; M. Seidlmayer, Die Anfänge des grossen abendländischen Schismas, Münster i.W. 1940, pp. 248, 314; I. La Lumia, Storie siciliane, Palermo 1969, II, p. 252; S. Fodale, Il conte e il segretario. L’ultimo Artale d’Alagona e il giurista S. M.: due storie incrociate, in Mediterraneo medievale. Scritti in onore di Francesco Giunta, I, Soveria Mannelli 1989, pp. 436-441, 444-446, 448-452; Id., La forza e gli argomenti della propaganda durante lo Scisma d’Occidente, in La propaganda politica nel Basso Medioevo, Spoleto 2002, pp. 458-462.
S. Fodale