NARDINI, Stefano
– Nacque intorno al 1420 da Nardino e da Giulia dall’Aste.
I Nardini erano una famiglia nobile del territorio di Forlì, signori di Poggio Berni e di altri luoghi del Montefeltro; anche la madre apparteneva a una famiglia eminente. Secondo la cronaca di Paolo Bonoli, Stefano aveva una sorella, Gesumina, che sposò Nicolò da Marsciano e due fratelli, Pierpaolo e Cristoforo, entrambi capitani d’arme e per lungo tempo al servizio del papa.
All’inizio del quarto decennio del Quattrocento, prima di scegliere il sacerdozio, Nardini si dedicò alla milizia, mettendo la sua spada al servizio di Antonio I Ordelaffi, signore di Forlì, e di Francesco Sforza. Come condottiero è ricordato nella cronaca forlivese di Giovanni di Pedrino per l’anno 1442 sia come capo della scorta armata dell’Ordelaffi nel viaggio a Jesi per incontrare Francesco Sforza, sia come guardia del palazzo signorile di Forlì, sia – insieme allo Sforza – alla difesa di Todi dagli attacchi delle truppe pontificie comandate da Niccolò Piccinino. Da allora la cronaca pedriniana non menziona più Nardini e le sue imprese belliche, forse perché altri erano diventati i suoi interessi. Infatti già dal 1444 lo troviamo studente all’Università di Bologna. Il suo nome compare nell’elenco dei rettori citramontani e il 19 giugno 1445 è registrata la sua laurea in diritto civile, dove risulta approvato con merito da tutti gli esaminatori.
Le prime notizie della sua carriera ecclesiastica riguardano la presenza nella Curia pontificia, come chierico di camera nel 1451 durante il pontificato di Nicolò V; l’anno successivo lo stesso pontefice lo inviò in Francia come nunzio apostolico: questo non fu che il primo dei tanti incarichi diplomatici che gli vennero affidati. Anche sotto Callisto III continuò con successo la carriera ecclesiastica: ottenne un canonicato nella basilica di S. Pietro e tra l’aprile e l’ottobre 1456 appare con il titolo di notarius apostolicus. Nel 1458 risulta tesoriere generale della Marca anconitana. Da Pio II – in qualità di nunzio apostolico – venne inviato in Germania, da tempo lacerata dalle lotte tra il duca d’Austria e gli svizzeri; ma fu soprattutto in merito ai problemi creati dalla Francia e dalla Spagna in materia religiosa che si strinsero ancor più i rapporti tra questo pontefice e Nardini: fu senza dubbio un suo successo l’abrogazione di una sanzione contro la libertà ecclesiastica in Aragona. Come ricompensa per la sua intensa attività diplomatica ottenne, nel 1461, la nomina a vicecamerario e la consacrazione ad arcivescovo di Milano.
La nomina suscitò qualche resistenza da parte del duca Francesco Sforza, che aveva fino ad allora perseguito una politica di stretto controllo della carica arcivescovile. Nel carteggio con il suo ambasciatore a Roma, Ottone del Carretto, il duca manifestava la sua avversione verso un prelato che prevedibilmente non avrebbe potuto assicurare una costante presenza in sede e le sue preoccupazioni per la difficile situazione finanziaria della Chiesa milanese; ma proprio su quest’ultimo punto l’ambasciatore fece pervenire la rassicurazione del papa, secondo il quale il prescelto: «era omo composito et prudente et omni ex parte idoneo». Eletto il 13 novembre, Nardini indirizzò allo Sforza una lettera di omaggio, ma in effetti restò a Roma per tutto il 1462, occupato nell’attività di vicecamerario, attività piuttosto intensa, come testimoniano i numerosi documenti conservati nell’Archivio segreto Vaticano. Dal 30 aprile di quell’anno fino al 31 gennaio 1463 ricoprì la carica di governatore di Roma: in questo ufficio, ormai affidato a personaggi di completa fiducia pontificia, riuscì a guadagnarsi anche il plauso della principale magistratura cittadina, i Conservatori, che, quando finalmente lasciò Roma per recarsi nella sua diocesi, scrissero al duca di Milano per decantarne i meriti.
L’ingresso privato del nuovo arcivescovo in Milano avvenne nel marzo 1463, quello ufficiale il 16 maggio dello stesso anno. Il soggiorno milanese non fu lungo, confermando le previsioni del duca circa la scarsa propensione del prelato alla residenza; ma nei pochi mesi della sua permanenza (partì verso ottobre), ebbe modo di farsi apprezzare, non solo per l’attenzione verso la sede arcivescovile, che si premurò di fare ingrandire e restaurare, ma anche per le sue qualità personali, tali da spingere lo Sforza ad affidargli un incarico nel Consiglio segreto (il principale organo dell’amministrazione ducale) per il quale gli venne approntato un apposito cifrario per le comunicazioni riservate con il duca.
Nardini fu uno dei collaboratori di Pio II nell’organizzazione della crociata contro i Turchi: nel viaggio di ritorno a Roma, si fermò a Firenze dove ebbe diversi colloqui – peraltro infruttuosi – con Cosimo de’ Medici per convincerlo a sostenere l’impresa; fece poi parte del seguito pontificio nel viaggio verso Ancona, dove Pio II si doveva imbarcare per partire per la crociata e dove venne a morte il 14 agosto 1464. Nardini cercò subito di acquistarsi meriti presso il nuovo pontefice Paolo II, appoggiandolo – insieme a Teodoro de Lelli – nel proposito di non osservare gli obblighi della capitolazione elettorale, che pure aveva firmato al momento dell’elezione.
Nella prospettiva del conseguimento della porpora cardinalizia, Nardini continuò a sollecitare l’appoggio del duca di Milano, ma durante il pontificato di Barbo lo scopo non fu raggiunto, anche se la sua carriera, soprattutto diplomatica, continuò ad arricchirsi di ruoli prestigiosi (nel 1466 venne nuovamente nominato nunzio – con poteri di legato – presso il re di Francia) ricompensati con benefici redditizi. Tuttavia, se a Roma gli incarichi di fiducia e le testimonianze di stima si susseguivano (nel luglio 1465 venne nominato dal pontefice commissario negli uffici del camerariato e della tesoreria apostolica), a Milano si cominciava a lamentare l’assenza dell’arcivescovo dalla diocesi, guidata per mezzo di due vicari e di un vescovo ausiliare.
Negli Annali della Fabbrica del duomo di Milano, diversi sono i nomi di coloro che ricoprirono questi incarichi: in primo luogo Lancillotto conte di Medde e Romano de Barni, ma anche Ambrogio de’ Crivelli prevosto di S. Ambrogio, Davide de Lanterii, Pino dell’Aste, Giovanni da Viterbo.
Dalle accuse di perseguire esclusivamente interessi personali e famigliari, Nardini si difese con una lunga lettera al duca in data 3 novembre 1466. In concomitanza con la successione di Galeazzo Maria al padre Francesco Sforza nella guida del ducato, l’impegno pastorale e organizzativo nella diocesi si intensificò: da segnalare soprattutto gli interventi intesi a ristabilire la disciplina del clero secolare e regolare, in particolare nel monastero di S. Dionigi fuori le mura, dove parte dei monaci non rispettava più il precetto della vita comune.
Alla morte di Paolo II, il 27 luglio 1471, Nardini tornò a Roma, dove i conclavisti lo nominarono commissario dell’Urbe – con funzioni di controllo dell’ordine pubblico – durante il conclave dal quale il 9 agosto uscì eletto Francesco della Rovere che prese il nome di Sisto IV. Tra i sostenitori della candidatura del nuovo papa vi era il duca di Milano, con il quale Nardini, subito eletto vicecamerario – carica che costituì per lui l’occasione di fermarsi a Roma – si mantenne in contatto epistolare. Nonostante il duca appoggiasse apertamente per il cardinalato la candidatura del vescovo di Novara Giovanni Arcimboldi, il favore di Sisto IV valse a Nardini l’ambito traguardo della porpora: il 7 maggio 1473, insieme con il candidato del duca, fu nominato cardinale, con il titolo diaconale di S. Adriano, che il 12 novembre 1476 fu trasformato nel titolo presbiterale di S. Maria in Trastevere. La nomina venne salutata con grande gioia dalla città di Forlì con il pieno appoggio del signore Pino III Ordelaffi, come attestano le cronache cittadine.
Gli anni del cardinalato furono ricchi di soddisfazioni – finanziarie e di prestigio – per Nardini, il quale ricevette dal pontefice numerose commende: del monastero di Ss. Vittore e Costanzo nella diocesi di Torino, di S. Salvatore di Lodè in Francia, di Faya di Bordeaux, di S. Ambrogio milanese, di S. Tommaso di Ascoli Piceno e di S. Giovanni di Bagnacavallo. L’aumento dei redditi gli consentì di partecipare al processo di rinnovamento urbanistico di Roma promosso con particolare energia da Sisto IV nell’imminenza del giubileo del 1475, con la costruzione nel centralissimo rione Parione di uno dei palazzi più splendidi della Roma quattrocentesca.
Già prima dell’elevazione alla porpora, Nardini aveva cominciato ad acquisire immobili in questo rione, e precisamente lungo la via Recta, uno degli assi viari più importanti della città. Infatti è del 1472 l’acquisto, dai frati agostiniani di S. Maria del Popolo e da altri proprietari, di una domus seu palatium cum salis, cameris et claustris... tinellis, stabulis, horto, puteo etc. L’edificio, che dopo la ristrutturazione coniugò l’impronta del palazzo-fortezza del Medioevo con l’aspetto della sontuosa dimora principesca del Rinascimento, si può ammirare nell’attuale via del Governo Vecchio, che fino alla metà del Settecento si chiamava via di Parione. Il nucleo più antico dava probabilmente su via della Fossa, dove sulle finestre e le porte si leggono il nome del cardinale e la data 1475. In seguito Nardini intervenne lungo via di Parione: qui su alcune porte e finestre si legge la data 1477. Mentre attendeva alla costruzione dell’edificio, acquistò anche una casa e una torre nella stessa zona, dalla confraternita del Salvatore ad Santa Sanctorum. Non è nota la data in cui la ristrutturazione fu portata a termine, ma è certo che il palazzo era abitato dal cardinale già nel 1480, quando ne fece donazione inter vivos alla predetta confraternita, di cui faceva parte dal 1476.
Testimonianza della considerazione di cui era fatta oggetto la nuova costruzione nel quadro del rinnovamento urbanistico sistino e dell’importanza del suo proprietario è il decreto del Camerlengo di S.R.E., cardinale Guglielmo d’Estouteville, del 2 marzo 1482, dal quale si apprende che la Camera apostolica aveva sollecitamente provveduto all’allargamento e al risanamento del tratto di via prospiciente il nuovo edificio. In questo palazzo il 10 ottobre 1482, dopo essere stato ferito nella vittoriosa battaglia di Campomorto nelle paludi Pontine contro il re di Napoli, morì Roberto Malatesta signore di Rimini e condottiero pontificio, la cui sorella aveva sposato nel 1474 Cristoforo, fratello del cardinale.
Con il nuovo duca di Milano Gian Galeazzo, succeduto al padre ucciso nella congiura del 26 dicembre 1476, i rapporti conobbero momenti di difficoltà: nel 1479, in occasione di una grave malattia di Nardini, il duca pensò di potere finalmente sostituirgli alla testa della diocesi milanese il suo protetto Arcimboldi, ma la guarigione allontanò per il momento questa prospettiva.
Nel conclave celebrato dopo la morte di Sisto IV il 12 agosto1484, Nardini, che partecipava per la prima volta all’elezione di un pontefice, fu addirittura fra i candidati favoriti. Invece riuscì eletto Giovan Battista Cibo (Innocenzo VIII), che il 21 settembre 1484 lo nominò legato ad Avignone. Probabilmente Nardini non svolse mai il suo incarico, nonostante si trovi segnalato nella sua lapide tombale, perché appena un mese dopo, il 22 ottobre, a Roma lo raggiunse la morte.
Il giorno prima, aveva dettato il testamento alla presenza del cardinale Francesco Piccolomini e di molti altri testi, revocando ogni precedente disposizione. Nell’espressione delle sue volontà emergono con chiarezza i due elementi ai quali affidava la sua memoria postuma: la famiglia e la fondazione di un collegio per studenti poveri, non a caso uniti in un’unica preoccupazione. In particolare nominava erede universale, per tutti i beni non altrimenti destinati o precedentemente donati, il nipote Pietro Paolo, figlio del diletto fratello Cristoforo; a lui e a tutti i futuri membri della famiglia riservava il diritto di presentare tre studenti aspiranti a entrare nel collegio per studenti poveri, che istituiva con un apposito lascito. Non vi è dubbio che la famiglia beneficiò largamente del nuovo status e dell’accresciuta disponibilità economica connessi con l’elevazione al cardinalato di Nardini, il quale, il giorno seguente alla sua nomina, aveva fatto al fratello Cristoforo una cospicua donazione di beni fondiari posti in partibus Romandiole nella diocesi di Rimini.
L’impegno di Nardini nella fondazione di un collegio studentesco a Roma lo accomuna a numerosi altri ecclesiastici ‘letterati’ che, a partire dal Trecento e più intensamente in età umanistica, indirizzarono i loro sforzi caritatevoli verso questa specifica opera di promozione culturale e sociale. Il collegio stesso, come è designato nelle disposizioni del testamento e negli statuti, è la prima e più eloquente testimonianza degli interessi culturali del fondatore, non solo nel suo complesso ma anche per alcuni singoli tratti. Un’intera rubrica delle Costituzioni, stabilendo quas scientias gli ospiti del collegio possint studere, rivela come al centro delle preoccupazioni del cardinale fosse la formazione di teologi, che potevano entrare in collegio per seguire il curriculum delle arti, ma soltanto nella prospettiva di passare poi allo studio della teologia o al massimo del diritto canonico, come pure la frequenza dei corsi di diritto civile era consentita soltanto come propedeutica allo studio del diritto canonico. È degna di nota la precisazione che chiudeva la rubrica, nella quale si mettevano in guardia i collegiali dallo studiare le leggi ad voluptatem litium forensium, una critica alla degenerazione degli ambienti giuridici professionali tanto più significativa in quanto proveniente da un personaggio che degli studi di diritto civile aveva un’esperienza diretta, essendosi laureato proprio in questa disciplina a Bologna. Della sua cultura giuridica Nardini non mancò di dare prova proprio nell’ampio proemio premesso alle Costituzioni del collegio, uno degli aspetti di maggiore originalità rispetto al modello costituito dagli statuti del collegio Capranica: come coerente introduzione al testo normativo ed echeggiando motivi ricorrenti in età umanistica nelle dispute sulle discipline, il cardinale sviluppò in questa parte un’articolata lode della legge, con ampio sfoggio di citazioni dagli autori classici (Platone e Aristotele) e dalla Sacra Scrittura. Questo breve testo è l’unico conservato di Nardini: se certo non è sufficiente a giustificare la sua fama di eruditissimus, secondo la definizione di Ciacconio, non contraddice le notizie sul suo profilo di erudito e di umanista che è possibile ricavare da fonti esterne.
Dal 1450 al 1475 fu membro dell’Accademia forlivese dei Filergiti, che contribuì a far rinascere insieme con un altro membro illustre di questa istituzione, Antonio Urceo, più noto con il nome accademico di Codro. Nardini ebbe modo di stringere presso la Curia pontificia altre relazioni importanti nell’ambito degli intellettuali del tempo. Nel 1455 conobbe Giannantonio Campano, giunto a Roma in quell’anno da Perugia, dove aveva completato la formazione letteraria; tra Stefano e Campano nacque un’affettuosa e duratura amicizia, alimentata anche dalle numerose lettere che i due si scambiarono dopo il ritorno di Campano a Perugia, città di cui era vescovo. Ciacconio riferisce anche della corrispondenza che Nardini ebbe con Francesco Filelfo, incontrato a Milano alla corte sforzesca, dove l’umanista era giunto dopo essere stato al servizio dei Medici. In una lettera dello stesso Filelfo al cardinale Jacopo Ammannati Piccolomini, vescovo di Pavia, si trova un giudizio molto lusinghiero dal punto di vista morale e culturale che l’umanista ricavò dal suo primo incontro con Nardini, appena giunto a Milano dopo la nomina ad arcivescovo. Notizie su Nardini sono rintracciabili nell’epistolario dello stesso Ammannati, non tenero nei suoi confronti per i rapporti con papa Paolo II; esso comprende anche una lettera a lui indirizzata nel 1477. Pure l’umanista Pietro Marso ebbe rapporti con Nardini, cui dedicò un’orazione in lode di s. Stefano, molto probabilmente per ordine del signore di Mantova Federico I Gonzaga.
Della cultura e degli interessi intellettuali di Nardini è poi testimonianza evidente la cospicua raccolta di libri che lasciò per testamento al Collegio e costituì la biblioteca collegiale, oggetto negli statuti di prescrizioni accurate e precise per la sua conservazione. Nel testamento Nardini prevedeva anche che, se il collegio non fosse stato realizzato aut dissolveretur, la metà dei libri fosse destinata alla chiesa milanese di S. Ambrogio e l’altra metà alla basilica romana di S. Pietro. Purtroppo della biblioteca nulla è restato, neppure l’inventario, la cui regolare compilazione era prescritta dagli statuti: la scomparsa dell’una e degli altri è lamentata già nella visita al collegio del 1657, voluta da papa Alessandro VII.
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