PAVESI, Stefano
PAVESI, Stefano. – Nacque a Casaletto Vaprio (vicino a Crema, all’epoca Repubblica di Venezia) il 22 gennaio 1779, secondogenito di Giambattista e di Rosa Bonizzoli.
Svolse i primi studi musicali a Crema, prendendo lezioni di spinetta dagli organisti Valerio Piazza e Luigi Riva della Fratta; a Varese ebbe poi lezioni dall’organista Giovanni Domenico Zucchinetti, e a Vimercate da un certo canonico Beduschi. Rientrato a Crema, completò la sua prima formazione sotto la guida del maestro di cappella del duomo, il noto compositore Giuseppe Gazzaniga, del quale sarebbe poi stato successore.
Su consiglio di costui, e probabilmente con l’aiuto di qualche facoltosa famiglia locale – forse quella del conte Luigi Tadini, oppure dei conti Sanseverino cui apparteneva Faustino Vimercati Sanseverino, suo futuro biografo –, verso il 1795 venne mandato a Napoli per studiare composizione in uno dei conservatori della città, il S. Onofrio (che proprio nel 1797 venne assorbito dal S. Maria di Loreto): vi entrò il 12 febbraio 1797 e vi rimase fino al 1799 (Di Giacomo, 1924). Fu allievo di Niccolò Piccinni (Sanseverino, 1851, p. 10) e di Fedele Fenaroli a S. Maria di Loreto. L’esperienza napoletana, a quell’epoca fondamentale nella formazione di un compositore italiano di prima sfera, fu bruscamente interrotta dagli eventi politici: simpatizzante repubblicano – e ormai cittadino della Repubblica Cisalpina, che dall’ottobre 1797 aveva inglobato il territorio cremasco – venne segnalato dal direttore del conservatorio con alcuni compagni e fu vittima della repressione borbonica succeduta alla caduta della Repubblica Partenopea (8 luglio 1799): imprigionato il 18 giugno nel carcere della Vicaria, venne imbarcato su una nave diretta a Marsiglia e finalmente liberato in territorio francese. Con pochi danari e in terra straniera, secondo Sanseverino (1851, pp. 14 s.), Pavesi sarebbe riuscito a mantenersi arruolandosi come suonatore di serpentone in una banda di una delle due divisioni italiane di stanza a Digione, e spostandosi con essa in alcune città francesi e svizzere; all’attività di esecutore affiancò quella di compositore scrivendo, per alcuni ex allievi napoletani là incontrati, brani anche vocali da eseguire nei teatri delle località toccate dalla divisione (non però a Ginevra dove lo zelo antimusicale dei calvinisti avrebbe impedito loro di tenere pubblici concerti). In seguito alla battaglia di Marengo (14 giugno 1800) Pavesi poté rientrare a Crema, atteso dai genitori e dalla sorella Cecilia.
Tornato alla scuola del maestro Gazzaniga, il ventunenne Pavesi volle intraprendere la carriera di operista teatrale trasferendosi nel 1802 a Venezia, sede di teatri stabilmente dediti all’opera (e alla farsa) per musica. L’incontro con uno dei librettisti più feraci, il veneziano Giuseppe Foppa, fu un’occasione propizia: Foppa gli propose di lavorare assieme per il teatro di S. Benedetto. Nacque così la farsa in un atto Un avvertimento ai gelosi: andata in scena nell’agosto 1803, segnò un positivo debutto sulle scene teatrali (non è invece comprovata l’attribuzione a Pavesi della farsa La pace, data a Livorno nel teatro degli Avvalorati nel 1801, su un libretto di Giovanni Bertati rimaneggiato: nell’unica fonte, una copia manoscritta conservata nel Conservatorio di Napoli, l’indicazione dell’autore è dubbia). Attestato dalle numerosissime riprese in teatri italiani ed europei sull’arco di un trentennio, il successo dell’Avvertimento ai gelosi (che ebbe poi anche il titolo alternativo Sandrina) decretò l’inizio della lunga e brillante carriera operistica di Pavesi, che si protrasse prolifica fino all’inizio degli anni Venti, e più saltuariamente fino al 1831.
La valentia del compositore nella produzione farsesca venne sottolineata anche da Giuseppe Carpani, censore dei teatri veneziani, nella seconda delle sue Lettere di un viaggiatore ad un amico sopra i teatri di Venezia, datata 12 dicembre 1804 (1824, p. 29): dopo aver assistito a una ripresa dell’Avvertimento ai gelosi, Carpani notò come dall’opera (che in questo egli accomunava all’Elisa di Giovanni Simone Mayr) tralucesse «molto ingegno e molta tendenza a quel Bello di cui non perderansi mai onninamente le tracce nell’Italia, madre d’ogni bell’arte». In particolare, a detta del censore, Pavesi «ha, per così dire, imparata la lingua che parla, cerca d’esprimere la parola, e dove lussureggi un po’ meno nello strumentale, in cui peraltro è valentissimo, e più cerchi di limare e ammorbidire il canto, egli toccherà ben presto la perfezione».
Nei quattro anni successivi al debutto, Pavesi compose una ventina tra farse e opere, la maggior parte delle quali di genere comico: e con tal genere fu dapprima identificato. Il sodalizio con Foppa proseguì e s’intensificò proprio nel primo decennio del secolo: insieme scrissero le farse L’amante anonimo, I castelli in aria (Venezia, S. Moisè, e Verona, teatro Filarmonico, entrambe 1803), La forza de’ simpatici, L’amore prodotto dall’odio e L’accortezza materna (rispettivamente al teatro Filarmonico di Verona, al Nuovo di Padova, e al S. Moisè di Venezia 1804), il dramma eroicomico Amare e non voler essere amante ossia L’abitatore del bosco (Venezia, La Fenice, 1805: anche con il titolo L’incognito), le farse Amore vince l’inganno e La sorpresa ossia Il deputato di Grossolatino (Venezia, S. Moisè, 1806) e Sapersi scegliere un degno sposo ossia Amor vero e amore disinteressato (Venezia, La Fenice, 1807).
Con l’opera seria Pavesi si cimentò nel 1804, chiamato a Genova per comporre un’Andromaca (dramma per musica di Giulio Artusi, teatro S. Agostino) che tuttavia non ebbe il successo sperato: si rifece l’anno dopo con un soggetto ossianico, Fingallo e Comala (Venezia, La Fenice, 1805), su libretto di Leopoldo Fidanza, medico di professione, ma con il gusto della politica – era fervente repubblicano – e dell’improvvisazione poetica (il libretto fu rivisto e sistemato dal già citato Carpani, come egli stesso ci informa in una minuziosa analisi dell’opera; 1824, p. 41). Il successo si rinnovò pochi mesi dopo con l’opera che permise a Pavesi di presentarsi per la prima volta alla Scala di Milano: Il trionfo d’Emilia (1805), prima di una decina di collaborazioni con il poeta Gaetano Rossi. Alla riuscita della rappresentazione contribuì anche la presenza di cantanti di lungo corso quali Brigida Giorgi Banti e Luigi Marchesi, entrambi al volgere della carriera. Quattro anni dopo, di nuovo con Rossi, Pavesi fu incaricato di scrivere l’opera che inaugurò il teatro Sociale di Bergamo (Ippolita regina delle Amazzoni, 1809): in quell’occasione avrà rincontrato Mayr, che già da qualche anno risiedeva stabilmente nella città orobica, e del quale si definiva «scolaro» (così si firmò in una lettera indirizzatagli nell’aprile 1808; cfr. Il carteggio Mayr, 2010).
In uno degli anni più fecondi, il 1810, Pavesi poté di nuovo comporre per la Scala, addirittura con un doppio impegno, dapprima a inizio d’anno (Arminia), poi a fine settembre con quella che è oggi la sua opera più conosciuta: Ser Marcantonio. Il successo di quest’ultima fu immediato e straordinario: 54 recite in quello scorcio di stagione scaligera, cui fece seguito almeno una sessantina di riprese diverse, in Italia e all’estero, nei trent’anni successivi, unica tra le sue opere a resistere al predominio rossiniano dei decenni a venire.
La vicenda – un uomo attempato, in sprezzo del ridicolo, vuol prender moglie, ma viene solennemente gabbato da una giovane pretendente finta ingenua – fu magistralmente architettata dal librettista Angelo Anelli. La bontà del lavoro venne implicitamente riconosciuta molti anni più tardi quando Gaetano Donizetti decise di comporre un’opera sul medesimo tema (Don Pasquale, 1843): parti del libretto di Anelli confluirono direttamente in quello di Donizetti (confezionato dall’esule mazziniano Giovanni Ruffini, con corposi interventi di mano del compositore). Nel 1839 anche il celebre librettista Felice Romani, recensendone una tarda ripresa, elogiava «l’antica sua semplicità» e le «voci non sopraffatte dagli strumenti» (Gazzetta piemontese, 22 giugno 1839, n. 141) in celata polemica con la musica del giorno.
Negli anni successivi, Pavesi continuò a scrivere con grande fervore, saltuariamente ostacolato da problemi salute. Nel 1814 alla Scala di Milano diede alle scene Agatina o La virtù premiata tratta dalla celeberrima fiaba di Charles Perrault, Cendrillon (tre anni prima della Cenerentola di Gioacchino Rossini, la cui comparsa sulle scene certo non ne favorì la diffusione); l’anno dopo produsse il melodramma eroico Celanira (Venezia, San Benedetto, 1815, libretto di Rossi), ch’ebbe invece l’onore di un certo numero di riprese, qualcuna anche all’estero.
Nel febbraio 1818, pochi giorni dopo la morte di Gazzaniga, Pavesi fu nominato maestro di cappella nella cattedrale di Crema, incarico che mantenne fino alla morte. Lo stesso Pavesi aveva inoltrato domanda per ottenere questo incarico, probabilmente spinto dal desiderio di avere una carica stabile cui corrispondesse una remunerazione più certa (era alla soglia dei quarant’anni), sì da permettergli di continuare comunque il lavoro in teatro, e allo stesso tempo di rimanere vicino alla sorella (dal 1819 l’unica familiare ancora in vita). Alla produzione teatrale, che calò quindi in quantità ma non venne abbandonata, affiancò quella ecclesiastica, sia vocale sia strumentale. Tra un impegno e l’altro – per le maggiori festività doveva essere presente in duomo – poté continuare a viaggiare al seguito delle sue opere. Nei primi anni Venti si divise tra Milano, Venezia e Napoli, con produzioni che virarono decisamente al versante serio: tra le altre, Arminio ossia L’eroe germano (Venezia, La Fenice, 1821, che ebbe discreto successo), Antigona e Lauso (Milano, Scala, 1822), Egilda di Provenza (Venezia, La Fenice, 1824), Ardano e Dartula (Venezia, La Fenice, 1825, di nuovo di sapore ossianico, un’ambientazione a quanto pare gradita a Pavesi).
Nella seconda metà degli anni Venti, Pavesi ebbe un incarico ufficiale nel teatro di corte di Vienna: a detta di Sanseverino (1851, pp. 27 s.), vi rimase per circa quattro anni, 1826-1830, come direttore del teatro con l’impegno di risiedere nella capitale austriaca per sei mesi l’anno, in modo da poter mantenere anche l’incarico nel duomo di Crema. In realtà, le notizie sul periodo viennese sono piuttosto contraddittorie: Pavesi ebbe più probabilmente il ruolo di maestro di cappella e direttore del canto solo alla fine di tale periodo, mentre negli anni precedenti si doveva essere recato a Vienna in qualità di insegnante di canto. A uso dei cantanti pubblicò una raccolta di arie, duetti e terzetti su testi del Metastasio, intitolata Il Parnaso italiano. A Vienna provvide anche a riscrivere una sua vecchia opera comica (La festa della rosa, Venezia, La Fenice, 1808) proponendola con il titolo Maifest (1829). Terminata quell’esperienza, Pavesi accolse le ultime commissioni teatrali: un’opera comica (La donna bianca d’Avenello, Milano, Canobbiana, 1830, stesso soggetto della fortunatissima Dame blanche di François-Adrien Boieldieu, da Walter Scott) e una seria (Fenella ossia La muta di Portici, Venezia, La Fenice, 1831, stesso soggetto del grand opéra di Eugène Scribe e Daniel Auber), che chiusero definitivamente la sua carriera teatrale.
Libero da impegni di scena, Pavesi continuò l’attività nella cattedrale di Crema, componendo musica sacra e onorando gli impegni professionali almeno finché le condizioni generali glielo permisero. La salute ebbe però un brusco peggioramento nel 1847; la situazione divenne ancor più insostenibile l’anno dopo, quando il settuagenario fu colpito dal grave lutto della morte della sorella Cecilia, con la quale viveva nei periodi cremaschi.
Morì a Crema il 28 luglio 1850.
Altre opere certe non citate nel testo: La fiera (Firenze 1804), Le donne fuggitive (Roma 1806, anche con il titolo Il giuocatore), I baccanali di Roma (Luigi Buonavoglia, Livorno 1806), I Cherusci (Rossi, Venezia 1807), Aristodemo (Rossi, Napoli 1807), Il maldicente ossia La bottega del caffè (Gaetano Gasbarri, Firenze 1807), Il servo padrone ossia L’amor perfetto (Caterino Mazzolà, Bologna 1808), Il trionfo delle belle (Rossi, Venezia 1809), Elisabetta regina d’Inghilterra (Jacopo Durandi, Torino 1810), Odoardo e Cristina (Giovanni Schmidt, Napoli 1810), Il trionfo di Gedeone (dramma sacro, Bologna 1810, talvolta forse intitolato erroneamente Il Giobbe), La giardiniera abruzzese ossia Il signorino e l’aio (Napoli 1811), Il trionfo dell’amore ossia Irene e Filandro (Napoli 1811, opera identificabile probabilmente con Il monastero, come viene chiamata da Sanseverino e da altri biografi), Nitteti (Metastasio, Torino 1812), Tancredi (Luigi Romanelli, Milano 1812), Amore e generosità (Foppa, Venezia 1812), Teodoro (Rossi, Venezia 1812), Una giornata pericolosa (Luigi Prividali, Venezia 1813), Le Danaidi romane (Antonio Sografi, Venezia 1816, rifatta con il titolo Anco Marzio a Napoli 1822), La gioventù di Giulio Cesare (Romani, Milano 1817), I pitocchi fortunati (Foppa, Venezia 1819), Don Gusmano (Foppa, Venezia 1819), Eugenia degli Astolfi (Andrea Leone Tottola, Napoli 1820), Ines di Almeida (Tottola, Napoli 1822), I cavalieri di Nodo (Schmidt, Napoli 1823), Il solitario ed Elodia (Tottola, Napoli 1826).
Viene talora attribuito a Pavesi Boozia e Rutlemi in Betlemme (Palermo 1817), mentre erronea è l’attribuzione dei Gauri (Venezia 1810), in realtà di Rossi-Mellara.
Centoni senza coinvolgimento di Pavesi: Ines de Castro (Napoli 1806), Aspasia e Cleomene (Firenze 1812).
Opere prive di riscontri documentari: L’alloggio militare (Napoli 1811), L’ostregaro (Venezia 1812), La villanella fortunata (Urbino 1816), Gli esiliati di Firenze (Parigi 1819), Il gran naso (Napoli 1820).
Cantate: Edelmonte (Crema 1800), Telamone (Macerata 1803), Il giudizio di Febo (Venezia 1804), Napoleone il Grande al tempio dell’immortalità (Venezia 1806), Cantata per festeggiare il giorno onomastico di S.A.I. principessa Paolina duchessa di Guastalla (scenica: Torino 1812), Il voto (Pavia 1816), Cantata per l’inaugurazione del monumento dedicato alla memoria di Giuseppe Bossi pittore (Milano 1818), La gloria (Milano, s.d.).
Musica sacra: numerose composizioni ecclesiastiche e alcune composizioni devozionali tra cui Salmi, cantici ed inni cristiani su testi di Luigi Tadini (vi compaiono brani di Pavesi e di Gazzaniga: Crema 1818).
Il Museo teatrale alla Scala di Milano possiede circa 140 lettere di Pavesi indirizzate in gran parte a Gaetano Melzi.
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