RAGGI (Raggio), Stefano
RAGGI (Raggio), Stefano. – Nacque a Genova attorno al 1599, da Giovanni Filippo (quondam Baliano) e dalla seconda moglie Banetta Fieschi (quondam Urbano). Ebbe tre fratelli (Urbano, Raffaele, Baliano) e quattro sorelle (Ottavia e Maria, inoltre Virginia e Accilia, che divennero turchine nel convento della SS. Annunziata di Castelletto).
Giovanni Filippo, esponente tra i più facoltosi e influenti della nobiltà nuova, detentore di alcune fra le massime magistrature cittadine (fu per esempio due volte procuratore, 1612, 1622), vantava «fra suoi Antenati, chi riportò l’onore d’una statua nel palagio publico per aver lasciato alla Republica (con insolito legato in Genova) il mantenimento d’una Galea» (Brusoni, 1664, p. 174). Nel suo patrimonio, il palazzo di piazza S. Donato (ove avrebbe continuato a risiedere anche il figlio Stefano) e numerose proprietà immobiliari a Struppa, Fontanegli e Sarzana. La consorte Banetta apparteneva invece a un casato tra i più antichi della nobiltà genovese, la cui ascesa era stata funestata da un celebre episodio di dissenso politico (la congiura antidoriana dei Fieschi, 1547). Divenuta vedova, anche Banetta significativamente donò «molte centinaia di lire» alla patria; «a palle con tutti i voti» (nel marzo 1642) i Collegi le tributarono anzi un singolare encomio («per rossor degli huomini e per honor e pregio delle donne», quale «matrona» ricolma di ogni virtù e «madre de chiari cittadini»; Alfonso, 1972, pp. 138, 154).
Stefano, ascritto al Liber Nobilitatis all’età di 23 anni (1622), convolato a nozze con una Spinola (Vittoria di Stefano, 1629), famiglia fra le più ragguardevoli di quel patriziato, aveva appena intrapreso la carriera pubblica, divenendo giusdicente di commissario e governatore di Sarzana (1642-43); incarico che gli valse «molta lode di giustizia, di probità ed integrità» (Bargellini, 1857, p. 262). Lo legavano a Sarzana anche interessi di carattere patrimoniale (parte dell’eredità paterna), per la gestione dei quali fu coadiuvato dal fratello Baliano; questi, che aveva preso i voti (1625 circa), godette della protezione dei cardinali Ottaviano (morto nel 1643) e Lorenzo Raggi (esponenti di vertice di una fitta rete di consanguinei radicatisi a Roma e molto legati ai Barberini).
Stefano avrebbe «dalla natura sortito inclinazione alle lettere, attitudine ai negozi, e per sua disavventura, un’indole focosissima mal moderata dal senno» (Varese, 1836, p. 361). Sarebbe cioè stato «soggetto di gran talento», dedito in specie al «continuo studio delle Istorie», ma propenso a trarne «un’affezione smisurata» verso quelle figure della storia genovese «che per troppa libertà di lingua, e di costumi […] acquistorono nel concetto del vulgo una gloria immensa», meritando viceversa il biasimo «de’ Savij» e il rancore dei governanti (Brusoni, 1664, pp. 173 s.).
Incline «a detti e a fatti d’imprudente temerità ripieni» (Varese, 1836, p. 361), attorno al 1645 Raggi sarebbe entrato in contesa «con certi gentiluomini» e, vistosi circondato «con numeroso seguito d’armati, e incalzato dai ministri della giustizia», si sarebbe trincerato «nel campanile di S. Donato, donde faceva con essi loro le schioppettate» (p. 361). Le protezioni e le ricchezze di cui godeva gli avrebbero in quel frangente temperato «l’ira del governo» («costituitosi volontariamente prigione, espurgava con poca pena la contumacia»; p. 362). Gli venne anzi addirittura consentito di entrare nel Seminario, assieme al fratello Urbano (ovvero di entrare nella rosa di nomi mediante la quale veniva periodicamente effettuato, tramite estrazione, il parziale rinnovo delle massime cariche della Repubblica).
Con l’altro fratello Raffaele, nel dicembre 1646, Raggi prese parte alla mobba o cabilda dei gentiluomini, protesta divampata nel «cuore stesso dell’oligarchia», quando una trentina di esponenti della nobiltà vecchia e nuova («pecore nere di casati solidamente inseriti al massimo livello del governo genovese», Bitossi, 1990, p. 257), contrari a consentire nuove ascrizioni al patriziato, uscirono dall’aula del Gran Consiglio facendo mancare il numero legale (ottenendo il rinvio della proposta all’anno successivo). Assieme ad altri quattro protagonisti della mobba, fra i quali l’amico Giovan Paolo Balbi ('nuovo' tra i più facoltosi e influenti), Raggi fu colpito da bando il 31 gennaio 1647. Balbi reagì macchinando una congiura (per la quale cercò invano il sostegno di Giulio Mazzarino prima, di alcuni ministri spagnoli, quindi): disegno finalizzato a «riportare Genova al 1575, alla prevalenza incontrastata della fazione nuova», o meglio «del suo vertice» (p. 261). Il piano fu sventato (maggio 1648) ma Balbi rimase latitante (sarebbe morto ad Amsterdam nel 1675).
In questo clima politico, gravido di rancori e sospetti, segnato dalla tenace repressione posta in atto dagli inquisitori di Stato, si consumò l’epilogo della vicenda Raggi. Il 28 giugno 1650, appena rientrato a Genova, Stefano venne denunciato al doge dal concittadino Ottaviano Sauli, il quale lo accusò di avergli proposto di aderire a una congiura volta a spartire il governo «fra qualche galanthuomini» (p. 274). Nei giorni seguenti si aggiunsero ulteriori deposizioni (dei servitori di Raggi, di Giovanni Camillo Invrea, suo amico e parente, di Luca e Agostino Spinola, di Marco e Bartolomeo Centurione…) tese a dimostrare il forte astio nutrito dell’imputato verso i Collegi e il doge (Giacomo De Franchi).
Decisiva fu la testimonianza di Tobia Pallavicino, il quale era stato appena condannato all’esilio biennale assieme ad altri aristocratici e a Giacomo Raggi, figlio di Stefano (giudicato reo di futili «turbolenze di strada»; p. 257 nota). Il 1° luglio Pallavicino cominciò a deporre in ordine ai dettagli della presunta congiura (l’occupazione armata di palazzo ducale, il massacro del doge e dei Collegi durante la processione del Corpus Domini, l’appello alla plebe, l’apertura delle carceri, infine l’ipotesi di offrire Genova ai francesi o agli spagnoli). Le perquisizioni a casa di Raggi portarono frattanto in luce una lettera a lui diretta, la quale, nel giudizio di Giovanni Battista Questa, principale accusatore di Balbi, sarebbe stata di mano di quest'ultimo. Una prova d’accusa che perfettamente si inscriveva «nel clima torvo» di questa nuova azione inquisitiva, «carica di veleni e falsificazioni» (Grendi, 1997, p. 206). Nel mentre, Raggi, tradotto nottetempo agli arresti, respingeva ogni accusa, e il 2 luglio riusciva a trafiggersi ripetutamente con un pugnale.
Morì a Genova la sera del 5 luglio 1650, poco prima di essere per l’ennesima volta interrogato. Il giorno successivo fu condannato per lesa maestà. Il suo cadavere fu impiccato davanti a palazzo ducale, i suoi beni confiscati e la sua dimora (in luogo della quale per secoli rimase una lapide d’infamia) 'spianata'. Il 7 luglio le sue spoglie vennero tumulate «al Monte» («extra muros»), come attesta il libro dei defunti di S. Maria delle Vigne (Alfonso, 1972, p. 144).
«Personaggio scomodo e forse imprudente», Raggi verosimilmente cadde nel tranello che consentì di sgominare definitivamente una pericolosa frangia di dissenso. Con la sua scomparsa un’intera famiglia «politicamente influente era stata annientata» (Bitossi, 1990, pp. 277 s.): il fratello Raffaele rinunciò alla carica di senatore (cui era appena giunto), il figlio Giacomo, privato della nobiltà e colpito da esilio perpetuo (al pari degli altri figli di Stefano, dei quali non si conosce il nome), riparò a Venezia (presso Balbi), quindi in Francia (sotto la protezione di Luigi XIV). Trent’anni più tardi chiedeva ancora la restituzione delle proprietà paterne, anche mediante l’intercessione del patrizio genovese Nicolò Imperiale.
Fonti e Bibl.: Archivio di Stato di Genova, Archivio Segreto, 1572 e 2987.
G. Brusoni, Supplemento all’Historia d’Italia, Francoforte 1664, pp. 173-177; N. Battilana, Genealogie delle famiglie nobili di Genova, I-III, Genova 1825-33, II, Spinola, tav. 118, III, Fieschi, tav. 17; C. Varese, Storia della Repubblica di Genova, VI, Genova 1836, pp. 352-365; C. Botta, Storia d’Italia continuata da quella del Guicciardini, V, Parigi 1837, pp. 409 s.; É. Vincens, Histoire de la République de Gènes, III, Paris 1842, pp. 212 s.; M. Bargellini, Storia popolare di Genova: dalla sua origine fino ai nostri tempi, II, Genova 1857, pp. 262-264; L. Alfonso, La fondazione della “Casa della Missione” di Fassolo in Genova, in Atti della Società ligure di storia patria, XII (1972), pp. 131-154; C. Bitossi, Il governo dei magnifici. Patriziato e politica a Genova fra Cinque e Seicento, Genova 1990, pp. 253-278; E. Grendi, I Balbi. Una famiglia genovese fra Spagna e Impero, Torino 1997, pp. 194-207, 326; G. Brunelli, Raggi, Ottaviano, in Dizionario biografico degli italiani, LXXXVI, Roma 2016, ad vocem.