STEFANO V
Nato in data sconosciuta da un non meglio identificato Adriano, era comunque membro di una nobile famiglia romana originaria della "regio" della "Via Lata". S. venne educato da Zaccaria, vescovo di Anagni e bibliotecario della Sede apostolica dopo la morte del più celebre Anastasio, con il quale aveva legami di parentela. Durante il pontificato di Adriano II entrò a far parte del "patriarchium"; fu nominato prima suddiacono e poi diacono e infine Marino I, che secondo il biografo del Liber pontificalis era legato a S. da un forte affetto, lo promosse cardinale presbitero del titolo dei SS. Quattro Coronati. Fu eletto pontefice nel settembre dell'885, subito dopo la morte di Adriano III. Quest'ultimo, lasciando Roma poco prima di morire, aveva affidato il governo dell'Urbe al "missus" imperiale, il vescovo di Pavia Giovanni che, non appena venne a conoscenza della morte del pontefice, riunì clero e popolo romano per provvedere all'elezione del suo successore. Nel Liber pontificalis si narra che S. venne eletto all'unanimità: clero, aristocrazia e vescovo di Pavia concordarono subito sulla persona e S. fu eletto e consacrato senza neanche attendere l'approvazione dell'imperatore Carlo il Grosso. Forse la presenza e la partecipazione del "missus" imperiale Giovanni aveva fatto trascurare la richiesta dell'approvazione imperiale. Questo era già successo con Adriano III e, se in quella occasione la vicenda non aveva avuto conseguenze, questa volta l'imperatore aveva protestato vivacemente inviando a Roma l'arcicancelliere Liutvardo, vescovo di Vercelli. Questi aveva l'incarico di procedere alla deposizione di S., a suo avviso illegittimamente consacrato. Accadde però che Liutvardo, visti gli atti e constatata l'unanimità, approvò l'elezione ed esortò l'imperatore a riconoscere la legittimità del pontefice (Annales Fuldenses, Auctore Meginhardo, ad a. 885). Il nuovo papa avrebbe trovato saccheggiato il Palazzo Lateranense, secondo l'uso già diffuso di spogliare delle loro ricchezze le case dei vescovi alla loro morte, ed avrebbe dovuto rivolgersi al padre per ottenere il denaro necessario a riparare i danni (Le Liber pontificalis, p. 193). S. si trovò immediatamente alle prese con i due problemi più urgenti che da anni preoccupavano Roma: la presenza saracena nel Sud dell'Italia e le aggressioni di Guido III, duca di Spoleto. A tal fine fece nuovamente appello all'imperatore che, nella primavera dell'886, scese in Italia per la sesta e ultima volta. A Pavia però Carlo fu raggiunto dalla notizia che i Normanni avevano assediato Parigi e si trovò costretto ad abbandonare in gran fretta la penisola per tornare al di là delle Alpi e ad affidare il compito di risolvere le diverse questioni aperte all'arcicancelliere Liutvardo. È noto che soltanto un anno dopo (a Tribur, nel novembre dell'887) l'imperatore venne deposto. S. si trovò così costretto a dover mediare proprio con Guido di Spoleto che, nel frattempo, nella speranza di farsi perdonare la ribellione dell'883 (v. Marino I), aveva mosso guerra contro i Saraceni distruggendo le loro basi tra Gaeta e il Garigliano (885). Il duca spoletino, benché avesse ottenuto di farsi proclama-re re a Langres, non era riuscito ad avere la meglio su Eude, conte di Parigi. Non gli rimase allora altro che tornare in Italia per tentare contro Berengario quello che non era andato a buon fine in Francia (il marchese del Friuli, dopo la scomparsa di Carlo il Grosso, si era proclamato re d'Italia ed era stato incoronato nell'888 a Pavia dal vescovo di Milano, Anselmo). Le milizie di Guido si scontrarono con quelle di Berengario per la prima volta presso Brescia (889); sui reali accadimenti le fonti forniscono informazioni contrastanti: Liutprando (Antapodosis I, 18-9) sostiene che Berengario venne battuto ben due volte, prima sulla Trebbia e poi presso Brescia; Erchemper- to, invece (Historia Langobardorum Beneventanorum, p. 264), narra di una iniziale vittoria di Berengario presso Brescia e di un successivo scontro sulla Trebbia che avrebbe inflitto perdite ingenti a entrambe le parti ma che alla fine vide vincitore Guido. Quest'ultimo, in breve tempo, divenne signore di Milano, di Pavia e di tutta l'Italia a sud del Po e grazie anche al sostegno - pare - dei Franchi occidentali (aveva legami di parentela con Folco, successore di Incmaro quale arcivescovo di Reims) e dei vescovi dell'Italia settentrionale venne proclamato (e non incoronato, come Berengario) re d'Italia a Pavia (16 febbraio 889). È chiaro che la preoccupante situazione di instabilità e di frammentarietà politica e territoriale che si era venuta a creare dopo la scomparsa di Carlo il Grosso poneva la Chiesa in una situazione critica. L'assenza oramai di un referente esterno forte e la presenza sempre più ingombrante della casa di Spoleto segnarono fortemente i primi anni di pontificato di Stefano V. Una "sconcertante inconsistenza" caratterizzò, sin dai travagliati inizi berengariani e guideschi, "la breve stagione del regno italico indipendente" (G. Arnaldi, Berengario I, in D.B.I., IX, pp. 1-26); ad aggravare poi la situazione vi erano fattori economici: cattivi raccolti, minacce di gravi carestie, il Laterano saccheggiato e nell'impossibilità di fornire vettovaglie di scorta. Scartata l'ipotesi di rivolgersi all'imperatore bizantino, che a stento riusciva a garantire i propri possessi, a S. non rimase che cercare aiuto presso Arnolfo di Carinzia, nipote di Carlo il Grosso e figlio naturale di Carlomanno, che era stato riconosciuto re dai Franchi orientali. A questi il pontefice fece indirettamente appello nell'890, scrivendo una lettera al duca dei Moravi, Svatopluk, che in suo nome pregò il re di Germania di venire "a Roma per visitare il santuario di S. Pietro e riprendere il Regno d'Italia di cui i cattivi cristiani si sono impadroniti e che i pagani minacciano" (Annales Fuldenses, Continuatio Ratisbonensis, ad a. 890). Arnolfo, tuttavia, non soltanto non era stato in grado di mantenere l'unità dell'Impero franco (aveva riconosciuto come re in Francia Eude conte di Parigi; in Provenza, Ludovico il Cieco figlio di Bosone; nel Giura, Rodolfo, figlio di Corrado conte di Auxerre, e in Italia Berengario, marchese del Friuli) ma, al momento, era duramente impegnato a risolvere problemi interni al suo stesso Regno (la presenza minacciosa dei Normanni e dei Moravi). Falliti sia l'appello ad Arnolfo sia quello all'imperatore bizantino, il papa si trovò costretto a incoronare imperatore Guido, nel frattempo giunto a Roma, il 21 febbraio dell'891. L'anno seguente il successore Formoso dovette compiere la medesima cerimonia per consacrare coimperatore Lamberto, figlio di Guido. La casa di Spoleto riuscì dunque ad ottenere non solo la sovranità sul "Regnum Italicum", ma anche il titolo imperiale. Durante questi primi anni di pontificato S. aveva ricevuto la risposta di Basilio I alla sinodica di Adriano III, giunta a Roma quando ormai quest'ultimo era morto: l'imperatore bizantino, da quanto si ricava dalla risposta di S., sosteneva di non aver potuto riconoscere la legittimità di Marino I dal momento che la sua elezione era contraria al XV canone del concilio di Nicea (che proibiva ai vescovi il passaggio da una sede all'altra). S. ribatté alle accuse in modo assai aspro, sostenendo in primo luogo che le calunnie contro Marino erano unicamente opera del patriarca bizantino Fozio; che l'accusa rivolta al pontefice romano poteva benissimo essere indirizzata contro lo stesso Fozio, laico e destituito d'autorità, e che Roma non voleva compromettersi con lui, certa che i rapporti tra le due città avrebbero potuto essere migliori se vi fosse stato un patriarca degno di fiducia (in M.G.H., Epistolae, VII, 2, a cura di E. Caspar-G. Laehr-W. Henze-E. Perels, 1928, p. 423). Questo gesto avrebbe potuto determinare una nuova rottura con Bisanzio ma la lettera giunse quando Basilio I era ormai morto (29 agosto 886) e suo figlio Leone VI aveva già allontanato Fozio dalla sede patriarcale sostituendolo con suo fratello Stefano, precedentemente designato dal padre al patriarcato. La giustificazione addotta per la deposizione di Fozio fu una presunta congiura capeggiata da Teodoro Santabareno, intimo confidente di Fozio, a cui avrebbe preso parte lo stesso patriarca. Si tenne un processo, Teodoro venne accecato ed esiliato, Fozio non risultò colpevole di nessuna azione politica ma la sua deposizione fu considerata scontata. In Occidente, pur politicamente sfortunato, S. riuscì ad imporre la sua autorità sui vescovi dei paesi dell'ex Impero carolingio: nell'888 chiese agli arcivescovi di Lione e di Reims, Aureliano e Folco, di procedere contro Frotario, vescovo di Bordeaux, che contrariamente ai canoni si era trasferito a Bourges: dovevano ricondurlo a Bordeaux e consacrare un suo sostituto per la sede di Bourges. Inoltre il pontefice intervenne per fermare Aureliano, arcivescovo di Lione, il quale aveva nominato vescovo di Langres il monaco Egilone, senza consultare né il clero né i fedeli; Egilone morì poco dopo e i fedeli, per timore di un nuovo intervento di Aureliano, elessero immediatamente un nuovo vescovo, Teobaldo, e chiesero a S. di consacrarlo. S., viste le resistenze di Aureliano, fu costretto a far venire Teobaldo a Roma per consacrarlo personalmente. Negli stessi anni, nei paesi germanici, l'arcivescovo di Colonia continuava a reclamare la giurisdizione metropolitana sull'episcopato di Brema, che già Niccolò I aveva unito alla provincia di Amburgo; S. incaricò Folco, arcivescovo di Reims, di riunire a Worms un sinodo (15 agosto 892) nel quale tutti i vescovi della regione avrebbero dovuto discutere la controversia e trasmettere successivamente alla Sede apostolica i risultati. Molte delle lettere del Registrum di S. testimoniano il più o meno diretto controllo da parte della Santa Sede sulle elezioni episcopali, ed inoltre lasciano intravedere l'uso sempre più diffuso di rivolgersi al pontefice romano per risolvere questioni di varia natura. S. è inoltre ricordato - o forse "etichettato" - come il responsabile della distruzione della Chiesa slava di Moravia; egli infatti si occupò della questione slava con risultati che si potrebbero definire disastrosi: Metodio "apostolo degli Slavi", arcivescovo in Pannonia e paladino dell'uso dello slavo nella liturgia (morto il 6 aprile dell'885), aveva designato suo successore il discepolo Goradz; sennonché la fazione del clero tedesco, capeggiata dal vescovo di Nitra Vichingo e sostenitrice dell'uso del latino nella liturgia, si oppose subito al nuovo vescovo. Re Svatopluk (simpatizzante della fazione pro latino) stabilì che Vichingo dovesse recarsi personalmente a Roma per esporre il caso al papa. Vichingo fu tanto abile da convincere S. che già Giovanni VIII, cinque anni prima, aveva vietato l'uso dello slavo quale lingua liturgica; che dunque Metodio era già stato dichiarato eterodosso e che i suoi discepoli stavano agendo illecitamente. Il pontefice commise due gravi errori: non si curò di ascoltare Goradz e concesse pieni poteri a Vichingo per la riorganizzazione della Chiesa morava. Il vescovo partì da Roma con una lettera del pontefice nella quale gli venivano conferiti tutti i poteri negli Stati di Svatopluk, si delegittimava l'opera di Metodio e si fissavano le direttive per la soluzione di una serie di delicati problemi. Con questo atto S. affossò completamente l'operato di Metodio. A. Lapôtre si chiede come S. abbia potuto commettere un errore tanto grave, ed arriva a ipotizzare che Vichingo avesse prodotto un falso e cioè una falsa lettera, nella quale Giovanni VIII vietava la liturgia in lingua slava. La lingua slava fu severamente vietata nella liturgia, come già avvenne per gli altri "volgari" dall'813, e al più avrebbe potuto essere usata nella predicazione, pena la scomunica e la segnalazione al re, che avrebbe poi cacciato i colpevoli dal proprio Stato (Regesta Pontificum Romanorum, nr. 3407). La conseguenza più immediata fu l'esodo dalla Moravia dei fedeli di Metodio, che trovarono ospitalità in Bulgaria. Sembra che re Svatopluk avesse imprigionato sia Goradz sia il presbitero Clemente; S., nel frattempo, aveva convocato a Roma Goradz (ibid., nr. 3406), ma di questo non si hanno più notizie, mentre di Clemente è noto che, bandito dal paese, fu accolto dal re dei Bulgari Boris che lo volle vescovo "primo fra le genti slave" (Vitae S. Clementis, Bulgariae archiepiscopus, XIV-XX). Fu dunque Boris a dare vita, grazie all'aiuto dei discepoli di Metodio, alla Chiesa nazionale bulgara. Numerose lettere del Registrum di S. si sono conservate e in buona parte sono confluite in successive raccolte di canonisti: trentuno nella Collectio Britannica (collezione canonica del sec. XI), altre nella raccolta di Deusdedit, nel Decretum di Ivo di Chartres e dodici in quello di Graziano (cfr. P. Founier-G. Le Bras, Histoire des collections canoniques en Occident, II, Paris 1932, pp. 158 ss.). S. morì il 14 settembre dell'891, dopo sei anni di pontificato, e fu sepolto nella basilica vaticana. Fonti e Bibl.: E. Dümmler, Gesta Berengarii imperatoris. Beiträge zur Geschichte Italiens im Anfange des zehnten Jahrhunderts, I-II, Halle 1871: I, pp. 363, 384; II, pp. 372, 382; Erchemperto, Historia Langobardorum Beneventanorum, 82, in M.G.H., Scriptores rerum Langobardicarum et Italicarum saec. VI-IX, a cura di G. Waitz, 1878, p. 264; Regesta Pontificum Romanorum, a cura di Ph. Jaffé-G. Wattenbach-S. Loewenfeld-F. Kaltenbrunner-P. Ewald, I, Lipsiae 1885, nrr. 3406, 3407, 3420, 3425-26, 3432, 3451, 3453, 3458, 3470, 3471; Le Liber pontificalis, a cura di L. Duches-ne, II, Paris 1892, pp. 191-98; Annales Fuldenses, in M.G.H., Scriptores rerum Germanicarum in usum scholarum, VII, a cura di Fr. Kurze, 1891: Auctore Meginhardo, ad a. 885; Continuatio Ratisbonensis, ad aa. 886, 890; Flodoardo, De Christi triumphis apud Italiam XII, in P.L., CXXXV, coll. 823 ss.; Liutprando, Antapodosis, in M.G.H., Scriptores rerum Germanicarum in usum scholarum, XLI, a cura di J. Becker, 1915³; Capitularia regum Francorum, ibid., Leges, Legum sectio II, II, a cura di A. Boretius-V. Krause, 1957, pp. 104-06; Flodoardo, Historia ecclesia Remensis, ibid., Scriptores, XXXVI, a cura di M. Stratmann, 1998, pp. 365, 367, 370. F. Dvornik, Les Slaves, Byzance et Rome, au IXe siècle, Paris 1926, pp. 286-96; Id., Le second schisme de Photius.Une mystification historique, "Byzantion", 8, 1933, pp. 425-74; P. Brezzi, Roma e l'Impero medioevale, Bologna 1947, ad indicem; L. Halphen, Charlemagne et l'empire carolingien, Paris 1949², pp. 474, 477-78; F. Dvornik, Le schisme de Photius.Histoire et légende, ivi 1950; F. Cognasso, I papi nell'età carolingia (795-888), in P. Paschini-V. 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