STEFANO
– Patrizio e duca di Roma di lingua greca, visse nell’VIII secolo, al tempo di papa Zaccaria (741-752), come attesta la notizia biografica (redatta probabilmente all’epoca) del Liber pontificalis, l’unica fonte che lo menzioni.
È conosciuto anche per un sigillo di piombo con (in greco) il suo nome, il titolo e una invocazione a Dio (trovato a Blera nel 1882). È attribuito a lui, senza certezze – reca infatti la sola dizione (in greco) «S. patrizio e duca», senza riferimento topografico –, un altro sigillo conservato nei Musei Vaticani.
Dell’origine di Stefano, così come dell’inizio della sua carica, non si sa nulla. La sua attività è ben documentata per gli anni 739 e 743: il suo governo si colloca nel contesto della crescente autonomia del Papato, in una congiuntura nella quale l’indebolimento di Bisanzio gli lasciava spazio nel gioco delle relazioni internazionali, di fronte a Longobardi e Franchi.
L’ufficio ducale a Roma, attestato dalla fine del VI secolo, comportava non solo il comando di una guarnigione, ma anche (almeno in via di principio) l’autorità sui funzionari laici; era subordinato all’esarca di Ravenna. Stefano successe probabilmente al duca Teodoto (zio del futuro papa Adriano I: 772-795, Le Liber pontificalis, a cura di L. Duchesne, 1955, 97, 2), che aveva il titolo di console. Stefano fu il primo duca ad avere il titolo di patrizio, a riprova di una crescente importanza di questa qualifica nella gerarchia delle cariche: ciò la dice lunga sulla posizione via via acquisita dal duca rispetto alle autorità centrali bizantine (più per la debolezza dell’esarca ravennate, premuto dai Longobardi, che per una volontà attiva di concorrenza da parte del duca di Roma).
Si è ipotizzato anche che la nomina di un patrizio potesse essere un segnale di buona volontà da parte dell’Impero nei confronti di Roma e del papa, visto che Gregorio III (731-741), ad onta della sua dichiarata opposizione all’iconoclasmo, aveva pur sempre rivolto un appello perché si venisse in aiuto dell’esarca e si liberasse Ravenna, occupata dai Longobardi.
Stefano è ricordato per la prima volta in occasione del conflitto fra il duca di Spoleto Trasmondo e re Liutprando (739). Nel corso della guerra contro i Bizantini, Trasmondo aveva occupato il castello di Gallese (sulla destra del Tevere, al confine nord del Ducato di Roma), minacciando così Roma e ostacolando le comunicazioni con Ravenna. Gregorio III, che era in buoni rapporti con Trasmondo, ottenne la restituzione del castello all’Impero, grazie al pagamento di un riscatto. Ma secondo il Liber pontificalis, la reintegrazione di Gallese nel Ducato era fatta sì a beneficio della sancta respublica, cioè l’impero (Le Liber pontificalis, cit., 92,5) ma anche dell’exercitus romanus (92, 15), ovvero della comunità politica cittadina, diventata via via «città-esercito» (Capo, 2009). In tal modo essa risulta non soltanto in possesso di prerogative pubbliche, ma anche di un embrione di potere territoriale. In altre parole, il Ducato di Roma si muoveva autonomamente, e al suo interno il potere del duca, quello del papa (al quale il biografo attribuisce nel suo insieme la negoziazione) e quello dell’esercito tendevano a presentarsi come un tutt’uno.
Il riavvicinamento fra il duca di Spoleto e Roma (garantito da un pactum), così come le similari misure di rappacificazione nei confronti di Benevento, era avvenuto senza che Trasmondo consultasse il re e costituiva un ostacolo all’azione di Liutprando nella regione. Per ripristinare la propria autorità, il re intervenne subito militarmente, e Trasmondo riparò a Roma sotto la protezione di Stefano, oltre che del papa e di tutto l’exercitus romanus, che rifiutarono di consegnarlo (così Le Liber pontificalis, cit., 93, 2): ancora una volta, la menzione congiunta dei tre attori politici esprime la convergenza d’interessi e l’autonomia di fatto del Ducato romano. Inutile fu l’assedio di Roma e il saccheggio delle campagne circostanti da parte di Liutprando.
L’episodio ebbe due conseguenze. Da un lato, Gregorio III chiese il soccorso dei Franchi, indirizzandosi al maestro di palazzo Carlo Martello, e fu una svolta nelle relazioni internazionali: si introduceva un cuneo nelle relazioni sino ad allora privilegiate tra Franchi e Longobardi. Dall’altro lato, Liutprando lasciò nei castelli di Amelia, Orte, Bomarzo e Blera, appartenenti al Ducato di Roma, guarnigioni longobarde, in grado di ostacolare fortemente le comunicazioni tra Roma, la Tuscia e Ravenna (agosto 739).
Subito Stefano, con l’esercito del Ducato romano – in cambio dell’impegno che Trasmondo assunse di fronte al papa, a Stefano e ai Romani di aiutarli a recuperare i quattro castelli – sostenne il tentativo di Trasmondo di riprendere possesso del Ducato di Spoleto; ma dopo l’eliminazione del duca Ilderico (dicembre 739) Trasmondo non mantenne le promesse.
Si ignora però il ruolo di Stefano nella fase successiva, e non è nota la sua presenza, nella primavera del 742, a Terni, quando il re stipulò alla presenza di papa Zaccaria una pace ventennale con il ducatus Romanus.
La morte di Gregorio III (28 novembre) e l’immediata elezione di Zaccaria (3 dicembre 739) avevano infatti provocato un rovesciamento delle alleanze. Zaccaria ottenne da Liutprando la restituzione dei castelli, ma assicurò il sostegno militare romano per una nuova spedizione contro il duca di Spoleto, alla fine sottomesso.
Il silenzio del Liber pontificalis su Stefano, e l’insistenza del biografo nel presentare Zaccaria come il solo che rientrò a Roma con la «palma della vittoria», fa pensare che Stefano non fosse presente, ma prove certe non ce ne sono.
Il ritrovamento del sigillo di Stefano a Blera, ove i rappresentanti di Liutprando accompagnarono il papa in occasione della ricognizione dei castelli restituiti, potrebbe del resto suggerire un ruolo più attivo.
Alcuni mesi più tardi papa Zaccaria – sollecitato dall’esarca, dall’arcivescovo e dal popolo di Ravenna (si noti la perfetta corrispondenza con la formula adottata per designare la comunità politica romana) a intercedere presso Liutprando che si accingeva ad assediare la città – decise di recarsi personalmente a Pavia, e lasciò il governo della città a Stefano (Le Liber pontificalis, cit., 93,12: «relicta Romana urbe iamdicto Stephano patricio et duci ad gubernandum»). La formula adottata dal redattore del Liber ha lasciato pensare ad alcuni commentatori che Stefano si trovasse in una posizione subordinata rispetto al papa, del quale sarebbe stato per un tempo limitato il delegato, ma questa intrepretazione sembra esagerata. Ciò che risulta dall’insieme del racconto è una stretta collaborazione fra i poteri cittadini, sorretta da un gruppo aristocratico ben integrato (lo prova anche la parentela fra il predecessore di Stefano, Teodoto, e papa Adriano I).
È vero peraltro che in questo momento la capacità dell’Impero bizantino di intervenire in Italia era pari a zero, e dunque la collaborazione fra i poteri cittadini fece pendere la bilancia, fatalmente, dalla parte del vescovo di Roma (che del resto maneggiava in modo magistrale il lessico della politica e le sue sottili ambiguità).
Stefano è detto quondam patricius et dux all’inizio della biografia di papa Zaccaria: dunque era già morto, o quanto meno aveva abbandonato la carica, verso il 750.
Suo successore fu Eustathios (Eustachio), attivo tra il 752 e il 756: non si sa nulla della posizione che egli occupò nella gerarchia delle cariche, ma di fatto può essere considerato l’ultimo duca bizantino di Roma.
Fonti e Bibl.: Le Liber pontificalis, a cura di L. Duchesne, I, Paris 1955, pp. 426, 429.
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