Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Con una tensione realistica capace di cogliere la tragicità dei fatti quotidiani, Stendhal, maestro della scrittura discontinua e teorico dell’effimero, è un grande anticipatore dei modelli narrativi novecenteschi.
A caccia della felicità
Marie-Henri Beyle (Stendhal è lo pseudonimo con cui lo scrittore si firma a partire dal 1817) nasce a Grenoble nel 1783 da Chérubin Beyle, avvocato, e da Henriette Gagnon, figlia di un medico di formazione illuminista. Dopo la nascita di Pauline, la sorella prediletta, e di Zénaïde, "la spia", alla quarta gravidanza la giovane Henriette muore di parto lasciandolo orfano a sette anni: “Mia madre era una donna incantevole e io ero innamorato di mia madre”, scriverà Stendhal nell’autobiografia Vita di Henri Brulard; e con sconcertante sincerità così continua: “Volevo coprire mia madre di baci, e non volevo che ci fossero abiti”. Forse per risarcirsi di quella gioia perduta – “Con lei finì tutta la gioia della mia infanzia” –, egli imposta la sua vita in termini di "caccia alla felicità", inseguendo una giubilazione amorosa che di rado gli viene concessa e che più spesso egli incontra scrivendo i suoi romanzi, ascoltando la musica di Mozart, contemplando un quadro o un paesaggio.
Fuggito a Parigi dalla natia Grenoble e da un padre detestato per le sue idee conservatrici, nel 1800 Beyle lascia presto gli studi e la capitale per seguire i cugini, ispettori al seguito di Napoleone, che resterà sempre al centro della sua mitologia personale. Attraversa la Svizzera e approda a Milano, dove vive fino al 1802: è il primo dei molti soggiorni in Italia, che presto diventa la sua patria d’elezione e in cui egli passerà, viaggiando da un capo all’altro della penisola, circa un terzo della vita (“Qui giace Arrigo Beyle, milanese, visse, scrisse, amò…” fu l’epitaffio, in italiano, da lui composto per la propria tomba). La musica, il Teatro alla Scala e la giovane Angela Pietragrua, di cui s’innamora alla follia senza osare dichiararsi, gli regalano momenti entusiasmanti ma anche profonde solitudini: “In quegli anni ero di una sensibilità eccessiva, eppure volevo passare per un libertino, quando ero proprio l’opposto: troppo emotivo, timido, fiero, ignorato da tutti. Se avessi avuto un amico che mi avesse buttato tra le braccia di una donna, per la felicità sarei diventato perfino affascinante: non dico d’aspetto o nel modo di fare, ma nel cuore”, annota nel suo Diario questo giovane notoriamente brutto, che Angela chiamava "il cinese" e che avrebbe voluto nascere "biondo, alto e snello come un tedesco". A risarcirlo in questa "caccia alla felicità" finora deludente provvederà più tardi l’immaginario romanzesco: nei mondi paralleli in cui si muoveranno i suoi giovani eroi maschili, tutti bellissimi, la volontà compensativa è infatti ben riconoscibile.
Azione, viaggio, scrittura
Rientrato a Parigi dall’Italia, Beyle chiarisce i termini della propria ricerca: all’opposto del senso di sconfitta e di perdita (il cosiddetto mal du siècle) comune a molti giovani di allora, influenzati dalla moda romantica, la sua idea di "felicità" è strettamente connessa all’azione (da cui la passione del viaggio), e a una scrittura prevalentemente introspettiva. Ostile allo stile, bello ma artefatto, del romantico Chateaubriand, Beyle si indirizza verso una frase concisa e naturale, attenta a cogliere i movimenti del cuore e a far parlare un’emozione sempre vigilata dal controllo razionale. A tale scopo studia la filosofia della percezione di Destutt de Tracy e, per analizzarsi, scrive diari, lettere, progetti autobiografici – spesso accompagnati da disegni utili a ricostruire lo "spazio" del ricordo –, ma anche testi teatrali e abbozzi di racconti. Intanto si dedica all’educazione intellettuale della sorella Pauline, cui invia lettere ricche di inediti consigli, come per esempio questo: “La prima volta che ti capiterà di dire: ’Mi annoio’, guardati bene dentro per capire cosa ti sta succedendo. È da lì che bisogna cominciare quando ci si vuole conoscere davvero”. Lavora per un anno in una ditta di liquori a Marsiglia, dove vive con un’attrice, poi per lui ricomincia l’età dei viaggi: rifiutato nell’esercito napoleonico, nel 1805 parte ugualmente con la Grande Armata al seguito del cugino; in Germania assiste alla battaglia di Jena, dove la scarsa prontezza di riflessi dei grandi ufficiali napoleonici gli insinua un primo disinganno circa l’eroismo militare. Dal 1806 al 1808 è a Brunswick, dove studia la lingua e la filosofia tedesche; nel 1809, con la carica di uditore, è a Strasburgo, Vienna, Linz.
Il ritorno in Italia
Nel 1810 torna a Parigi, dove vive al di sopra dei suoi mezzi (per questo aspirante dandy l’assegno paterno non sarà mai sufficiente); poi, senza alcuna nomina, scende in Italia in veste di turista: a Milano, oltre alle gioie musicali da assaporare alla Scala, c’è la tarda conquista di Angela, un evento che questo incurabile grafomane, sempre pronto a cogliere al volo l’emozione e a fermarla in scrittura, celebra a modo suo, scrivendone la data sulle bretelle. Ma Angela è di partenza, e quell’amore tanto atteso durerà pochi giorni.
Dopo tre anni italiani, vissuti tra Bologna, Firenze, Roma, Napoli, segue Napoleone in Russia come uditore: assiste alla disfatta francese e ritorna in Francia attraverso Danzica, Berlino, Brunswick (“Sto bene. Ho solo gli abiti che ho indosso. Ma la cosa più bella è che sono magro!”, scrive alla sorella durante la ritirata di Russia). Trascorre qualche mese a Parigi vivendo con una certa larghezza di mezzi, ma presto cede al richiamo di Milano, dove resta fino al dicembre del 1814. Con la caduta di Napoleone, nel marzo 1815, il suo posto di uditore è soppresso: rimasto senza lavoro, invece di "tirarsi un colpo in testa" (un proposito presto accantonato), decide di stabilirsi a Milano, dove vive per sette anni nella più stretta economia. Ed è precisamente a Milano che comincia a scrivere e pubblicare i primi saggi: le Vite di Haydn, Mozart e Metastasio (Vies de Haydn, Mozart et Métastase, 1815), la Vita di Rossini (Vie de Rossini, 1823), la Storia della Pittura in Italia (Histoire de la Peinture en Italie, 1817), dove con pseudonimi diversi – L.A.C. Bombet e M.B.A.A. – saccheggia testi italiani poco noti, ravvivandoli però con frequenti guizzi d’impressioni originali sull’arte e la pittura italiana, così emotivamente vicine alla sua idea di felicità. All’insegna dell’Italia è anche la prima opera pubblicata con lo pseudonimo di "M. de Stendhal", Roma, Napoli, Firenze (Rome, Naples et Florence, 1817), e che si apre così: “Berlino, 2 settembre 1816. Apro la lettera che mi accorda un congedo di quattro mesi. Salti di gioia, batticuore. Possibile che sia ancora così pazzo a ventisei anni? Finalmente rivedrò la mia bella Italia!”. Per la critica alla situazione italiana successiva al Congresso di Vienna, il testo è politico ma al tempo stesso felicemente "turistico": l’autore evoca luoghi visti e luoghi non visti, punteggiando la narrazione di divertenti aneddoti italiani raccolti nei salotti o nel corso del viaggio; malgrado il titolo, è sempre Milano la città del cuore, dove la musica e l’amore gli regalano un "piacere" sublime ("altrove si trovano solo delle copie", egli scrive. Sospettato di carbonarismo, nel 1821 è allontanato dalla polizia austriaca e torna a Parigi; si reca due volte a Londra, poi nel 1827 riprende la via dell’Italia (Firenze, Bologna, Ferrara, Venezia), ma a Milano viene nuovamente instradato per la Francia.
Gli amori
La sua intensa vita sentimentale è costellata di amori quasi sempre unilaterali: dopo Mélanie Guibert e Angela Pietragrua, corteggia invano Matilde Dembowsky Viscontini – "Métilde", ispiratrice di finissime analisi sul cuore umano raccolte nel saggio Sull’amore –, poi Alberthe de Rubempré, la contessa Curial, l’italiana Giulia Rinieri e molte altre. In un’epoca come quella romantica, in cui la figura del letterato celebre (Byron, Chateaubriand) era ovunque sinonimo di irresistibile conquistatore, nelle pagine autobiografiche Stendhal per orrore dell’ipocrisia elenca candidamente i propri "fiaschi": "Passo per un uomo pieno di spirito, insensibile, addirittura libertino, e invece vedo che sono sempre stati gli amori infelici ad occuparmi. Ho amato perdutamente madame Kubly, mademoiselle de Griesheim, madame de Dipholtz, Métilde, e non le ho mai avute, e molti di questi amori sono durati anche quattro anni". Alla felicità che in amore gli sfugge, Stendhal sostituisce il desiderio di studiarsi, per il piacere di osservare su di sé e di trasferire in scrittura – con una serietà sempre vigilata dalla più sottile autoironia – i sintomi emotivi della malattia chiamata amore. “Eppure il piacere che mi hanno dato le mie vittorie, come le chiamavo allora con la testa piena di cose militari, non era nemmeno la metà in confronto alla pena infinita causatami dalle sconfitte. Che io abbia un carattere triste? ... A quel punto, non sapendo cosa rispondere, mi sono messo ad ammirare le sublimi rovine di Roma…” (Vita di Henry Brulard).
Ancora segnato dalla passione infelice per Métilde, nel dicembre 1819 compone Sull’amore (De l’amour, pubblicato nel 1823), "un libro scritto a matita, negli intervalli di lucidità". L’opera si propone di analizzare in modo sistematico il sentimento amoroso, suddiviso in quattro varianti: l’amore-passione, l’amore-capriccio, l’amore fisico e l’amore di vanità. Ma l’intento classificatorio cede presto il passo alla dimensione intima (il testo è alla prima persona) e al piacere di raccontare episodi, esperienze e disavventure sentimentali vissute da personaggi che quasi sempre fungono da ’doppi’ narrativi dell’autore. "In amore godiamo solo delle illusioni che sappiamo crearci", scrive Stendhal nell’introdurre la sua teoria dell’innamoramento come "cristallizzazione": un qualsiasi ramoscello lasciato nelle miniere di sale di Salisburgo presto si copre di lucenti cristalli che lo trasformano in un oggetto straordinario; analogamente l’immaginazione dell’amante vede nell’essere amato ogni bellezza e perfezione, e così facendo – proprio come avviene al ramoscello – lo trasfigura: in una parola lo "cristallizza".
Gli anni dei romanzi
Nello stesso anno escono in libreria una Vita di Rossini (Vie de Rossini, 1823) e il Racine e Shakespeare (Racine et Shakespeare, I parte 1823, II parte 1825), un brillante manifesto in difesa del romanticismo in teatro: rifiutando l’idea del "bello" immutabile e universale, Stendhal difende la modernità di Shakespeare – ai suoi occhi un autore già "romantico" – contrapposta all’inattualità del teatro di Racine, autore sublime ma imprigionato in una rete di regole formali improponibili nell’Ottocento. Poi, a quarantaquattro anni, compone e pubblica il suo primo romanzo, Armance (1827), che passa quasi inosservato: la vicenda di Octave, un bel giovane aristocratico a disagio nel tempo postnapoleonico in cui è costretto a vivere, è già un preludio ai futuri capolavori. Dopo la pubblicazione delle Passeggiate romane (Promenades dans Rome, 1829), a Parigi da un episodio di cronaca nera ricava l’idea per un nuovo romanzo, e in una mansarda della rue Richelieu vive qualche mese di felicità scrivendo Il rosso e il nero (Le Rouge et le Noir), che esce nel 1830 salutato unicamente dalle lodi di Balzac. Nello stesso anno è nominato console francese a Trieste, poi a Civitavecchia (1830), dove si annoia a morte e da cui fugge spesso per recarsi a Roma; lì, in un archivio privato, copia dei vecchi manoscritti cinquecenteschi che gli offriranno lo spunto per le Cronache italiane (Chroniques italiennes, postume), una raccolta di novelle ad alto contenuto emotivo ambientate nel Rinascimento italiano. Durante un breve soggiorno parigino redige, in soli cinquantatré giorni, La Certosa di Parma (La Chartreuse de Parme). Pubblicato nel 1839, il romanzo, definito da "un capolavoro dove il sublime deflagra da un capitolo all’altro", porta alla più felice espressività quella "naturalezza" raggiunta da Stendhal dopo un lungo tirocinio alla scrittura.
Tornato a Civitavecchia, comincia Lamiel e Suora Scolastica, due narrazioni che resteranno interrotte. Ripresosi a fatica da un ictus, nel novembre 1841 decide di tornare a Parigi, dove muore il 22 marzo 1842, a 59 anni, in seguito a un secondo ictus che lo colpisce mentre cammina per strada. (“Credo che non si sia niente di male a morire in mezzo a una strada, quando non lo si fa apposta”, aveva scritto). È sepolto a Parigi nel cimitero di Montmartre.
Stendhal
Julien all’inizio del suo viaggio
Il rosso e il nero
Mentre la signora de Rênal era in preda ai più crudeli tormenti della passione in cui il caso l’aveva scagliata, Julien proseguiva allegramente il suo cammino tra le maggiori bellezze degli scenari montani. Doveva attraversare la grande catena a nord di Vergy. Il sentiero che stava seguendo, e che si elevava a poco a poco in mezzo ai grandi faggeti, prosegue in una serie interminabile di zig-zag lungo i pendii della montagna, che chiude a nord la valle del Doubs. Ben presto gli sguardi di Julien, passando sopra le alture meno elevate che costeggiano la valle del Doubs a sud, si spinsero verso le fertili vallate della Borgogna e del Beaujolais. Nonostante l’insensibilità della sua anima ambiziosa per questo genere di bellezza, Julien non poteva far a meno, ogni tanto, di fermarsi per contemplare quello spettacolo così vasto e imponente.
Infine egli toccò la sommità della montagna; bisognava passare di là, seguendo quel sentiero traverso, per raggiungere la vallata solitaria dove abitava il suo amico, il giovane mercante di legname Fouqué. Julien non aveva alcuna fretta di vedere lui né qualsiasi altro essere umano. Nascosto come un uccello da preda in mezzo alle nude rocce che coronano l’alta montagna, poteva scorgere da molto lontano chiunque si fosse avvicinato. Scoprì una piccola grotta che si apriva sul pendio quasi verticale di una delle rocce. Si mise a correre, e poco dopo era nel rifugio. "Qui", disse, con occhi che brillavano di gioia, "gli uomini non potrebbero mai farmi del male". Gli spuntò l’idea di concedersi il piacere - altrove tanto pericoloso per lui - di scrivere i suoi pensieri. Una pietra quadrata gli servì da leggio. La sua penna volava: egli non vedeva niente di quello che gli era intorno. Alla fine si accorse che il sole stava coricandosi dietro le montagne lontane del Beaujolais.
"Perché non potrei passare qui la notte?" pensò. "Ho da mangiare, e sono libero!" Al suono di quelle grandi parole la sua anima si esaltò: la sua ipocrisia gli impediva di essere libero anche a casa di Fouqué. Con la testa appoggiata alle mani, Julien restò in quella grotta, più felice di quanto lo fosse mai stato in vita sua, agitato dalle fantasticherie e dalla sua gioia di libertà. Senza accorgersene, vide spegnersi l’uno dopo l’altro tutti i raggi del crepuscolo. In mezzo a quella immensa oscurità, la sua anima si perdeva nella contemplazione di ciò che immaginava di trovare un giorno a Parigi. Prima di tutto una donna molto più bella e d’intelligenza assai più elevata di tutte le donne che aveva potuto conoscere in provincia. Amava con passione, era amato. Se talvolta si separava da lei, era per andare a coprirsi di gloria e per meritare ancora di più il suo amore.
Stendhal, Il rosso e il nero, trad. di M. Lavagetto, Milano, Garzanti, 1968
Stendhal
Fabrizio osserva Clelia dalla cella
La certosa di Parma
La stessa sera ebbe una grande idea: cominciò a bucare lo schermo di legno con la croce di ferro del rosario che viene distribuito a tutti i prigionieri al loro ingresso in prigione. "Che sia un’imprudenza?" si era chiesto prima di cominciare. "I falegnami mi hanno detto che domani torneranno per verniciare... cosa diranno se trovano il legno della finestra bucato? Ma, se non rischio, domani non la vedo e per colpa mia starei un giorno senza vederla... proprio adesso, che ci siamo lasciati tanto male!" L’imprudenza di Fabrizio fu ricompensata; dopo quindici ore di lavoro la vide; per colmo di felicità, Clelia, credendo di non essere vista, rimase a lungo immobile a fissare l’immenso schermo di legno; e Fabrizio ebbe tutto il tempo di leggere nei suoi occhi la più tenera pietà. Verso la fine, dimenticò addirittura di curare i suoi uccelli, e rimase dei minuti interi a contemplare la finestra. Era molto agitata, pensava alla duchessa; il suo grande dolore le aveva ispirato tanta compassione, eppure adesso cominciava quasi ad odiarla. Non sapeva spiegarsi la profonda tristezza che provava, e si arrabbiava con se stessa. Due o tre volte, per l’impazienza, Fabrizio fu tentato di battere sulle assi; non gli sembrava completa, la sua felicità, senza poterle segnalare che anche lui la vedeva. "Ma se sapesse che posso seguire così facilmente ogni suo gesto", pensava "timida e riservata com’è, scomparirebbe dalla mia vista in un baleno".
Il giorno dopo fu molto più felice (basta un niente a regalare gioia, se si ama!): lei stava guardando malinconicamente lo schermo di legno, e lui riuscì a far passare un pezzetto di fil di ferro nell’apertura praticata con la croce; le fece dei segni, che lei capì; o almeno capì che volevano dire: "Sono qui e la vedo".
Nei giorni seguenti le cose non andarono altrettanto bene. Fabrizio voleva togliere dal grande schermo un pezzetto di legno grande come una mano, da poter rimettere quando voleva; gli avrebbe permesso di vedere e di essere visto, cioè di parlare, perlomeno a gesti, di quello che stava succedendo nel suo cuore. Ma poco dopo capì che il rumore della minuscola sega, ricavata alla meglio incidendo la molla dell’orologio con la croce del rosario, insospettiva Grillo, che adesso passava lunghe ore nella sua camera. In compenso, la severità di Clelia diminuiva con l’aumentare delle difficoltà materiali che gli impedivano qualsiasi comunicazione. O almeno così gli pareva di capire; si era accorto che adesso non stava più a occhi bassi o a guardare gli uccelli quando lui cercava di segnalarle la sua presenza con il pezzettino di ferro; ebbe anche la gioia di vedere che ogni giorno, quando battevano le undici e tre quarti, Clelia arrivava nella voliera. Pensò perfino, con un po’ di presunzione, di essere lui la causa di tanta puntualità. Perché? Un’idea simile può sembrare senza senso, ma chi ama sa distinguere sfumature invisibili agli altri, e ne trae conseguenze infinite. Per esempio, da quando Clelia non vedeva più il prigioniero, appena entrava nella voliera, subito alzava gli occhi verso la sua finestra.
Stendhal, La certosa di Parma, Milano, Mondadori, 1979
Dell’incompiutezza
L’opera di Stendhal è all’insegna dell’incompiutezza: iniziato nel 1834, Lucien Leuwen, oggi ritenuto uno tra i più affascinanti romanzi politici dell’Ottocento, non viene portato a termine; innumerevoli i racconti interrotti a poche pagine dall’inizio. E incompiuti sono anche i testi autobiografici – La vita di Henri Brulard (Vie de Henri Brulard, postumo, 1890) e i Ricordi d’egotismo (Souvenirs d’egotisme, cominciati nel 1832 e usciti postumi nel 1892); al centro di questi testi è un ego che in apparenza si concede totalmente a chi legge in termini di verità, ma che al fondo di continuo mette in atto sottili strategie di mascheramento e d’escamotage: è il cosiddetto "egotismo" stendhaliano, gioco sottile di complicità e mimetismo col lettore che fa di Stendhal uno degli scrittori più empatici e insieme più sfuggenti della letteratura moderna: "Non sarò mai dove credete di trovarmi", è uno dei suoi tanti, maliziosi avvertimenti. Alla sua morte, colui che Paul Valéry ha definito l’unico romanziere "intelligente" dell’Ottocento, lascia un corpus di opere ignorate dalla maggior parte dei contemporanei. Un’incomprensione, questa, che Stendhal aveva ben previsto quando volle dedicare La Certosa di Parma ai suoi rari lettori, agli "happy few" che il tempo ha prodigiosamente moltiplicato. “Essere letto nel 1935 o nel 2050" – aveva scritto – "sarà per me come vincere il primo premio alla lotteria”.
La realtà: uno specchio in movimento
Nemico del lirismo romantico alla Chateaubriand, ammiratore – ma non emulo – di Balzac e in cerca di una propria cifra espressiva, Stendhal giunge al romanzo dopo vent’anni trascorsi a viaggiare, osservare, leggere, esercitarsi alla scrittura. Nessun progetto totalizzante lo spinge a scrivere, se non la volontà di conoscersi e di andare con laica ostinazione controcorrente: in una società in cui i giovani si costruivano dolosamente un’identità (letteraria) sul modello dei funesti eroi romantici, Stendhal si lancia invece, giovanissimo, alla "caccia della felicità", un’espressione-chiave nella sua esistenza come nel suo universo romanzesco. Osserva Auerbach che basta ripensare alla vita di Stendhal – una vita itinerante, senza linearità né punti fissi – per vedervi il riflesso di un sentimento già moderno di non-appartenenza, di diversità e transitorietà rispetto al mondo postnapoleonico in cui, poco più che trentenne, egli è costretto a muoversi. Nonostante lo smacco personale – in termini professionali e sentimentali – è di nuovo alla "caccia alla felicità" che Stendhal indirizza i maggiori eroi dei suoi romanzi, Julien Sorel e Fabrice del Dongo; ma il primo sceglie la rivolta e la caduta, l’altro un’ascetica rinuncia al mondo; così, al termine del loro viaggio, entrambi stringono in pugno soltanto un piccolo tesoro – inestimabile per l’avvenire del romanzo occidentale – composto di un pulviscolo di sensazioni intense e rapidissime, e di un persistente sapore di disincanto.
Più sottile di quella balzachiana è la lettura del reale in Stendhal: dettagli, allusioni, gesti dicono spesso più di una lunga descrizione d’ambiente – o meglio, dicono cose diverse. Se lo "specchio" utilizzato da Balzac per narrare la sua realtà è un oggetto immobile, su cui passano lente le immagini di un mondo meticolosamente riprodotto, quello stendhaliano è invece itinerante e in continuo movimento: "Il romanzo è uno specchio che corre lungo la strada", scrive Stendhal per sottolineare l’importanza da lui attribuita alla sintesi descrittiva, raccolta nel dettaglio psicologico illuminante, nel "piccolo dato vero", velocemente isolato dall’intelligenza narrante e capace di restituire, dinamicamente e con un minimo di parole, il colore di un’epoca, la chiave di una personalità, la piega di un sentimento.
Il rosso e il nero (1830)
Benché detestata e rifiutata, la realtà storica postnapoleonica diviene al tempo stesso un oggetto d’analisi ravvicinata, impietosa e acutissima, di cui si trovano ampi segni nei diari e negli appunti sparsi, e che poi confluisce nell’universo romanzesco: il contesto storico è infatti il maggiore antagonista di Julien Sorel, protagonista de Il rosso e il nero, un giovane dotato di un temperamento diseguale, tumultuoso e inattendibile. Stagione per Stendhal d’ipocrisia e di noia, che esclude da alte cariche chiunque manchi di conveniente nascita, l’età della Restaurazione – in particolare la fase immediatamente precedente alla rivoluzione di luglio del 1830 – è scelta a cornice "negativa" fin nelle prime pagine, ove subito si accende il conflitto di classe, fondamentale nel romanzo. Julien Sorel, giovanissimo e povero provinciale, cresciuto nel culto di Napoleone ma nato dopo, si confronta con la società "alta" e, per riuscire a farvi parte, impara presto l’arte indispensabile, cioè quella di fingere. È bello e delicato nei tratti come una fanciulla, ma quando si impone di conquistare la sua dolce padrona, la trentenne signora de Rênal, studia le mosse con la determinazione di un ufficiale napoleonico alla vigilia di una battaglia; trema però di timidezza nell’istante in cui deve mettere in atto il suo piano e prendere nel buio la mano della signora, alla presenza del marito ignaro. Impetuoso e cinico, ingenuo e calcolatore, fiero e ambizioso, assetato d’amore ma incapace di riconoscerlo, Julien si distacca da figure affini, per esempio dal Rastignac balzachiano, protagonista di Papà Goriot: per quest’ultimo il mondo femminile costituisce essenzialmente uno strumento d’ascesa sociale, di cui servirsi con controllo e freddezza; in Julien del Rosso e il nero, invece, un simile comportamento si rivela soprattutto intenzionale. La sua personalità complessa e instabile spesso lo rende straordinariamente ricettivo verso le donne delle classi superiori, e più che mai sensibile a certi piccoli richiami che lo inebriano: la bella mano della signora de Rênal, la morbidezza del suo braccio e l’eleganza dell’abito gli parlano il linguaggio seduttivo di un mondo cui questo eroe si sente per indole destinato. Vulnerabile di fronte alle sottili attrattive della femminilità borghese, egli però non esita a dar prova di durezza con la medesima signora de Rênal: benché amato da lei, la abbandona per correre verso una nuova "caccia alla felicità" a Parigi, dove sogna di conquistare la gloria personale e l’amore.
Giunto nella capitale come segretario del marchese de La Mole, gli sarà facile misurare la portata della noia endemica che domina i salotti aristocratici. Come è tipico dello Stendhal romanziere, invece di dar voce diretta al proprio dissenso, egli si affida a piccoli dettagli rivelatori, ad allusioni marginali che restituiscono con incisività il volto dell’epoca. Ma proprio quando Julien sta perfezionando a fianco di Mathilde de la Mole, la giovanissima figlia del marchese, le modalità di un’ascesa sociale che poco ha a che vedere col sentimento, le carte si confondono e con un gesto degno del più passionale révolté, Julien torna in provincia, compra una pistola, si precipita in chiesa e lì spara su Madame de Rênal, l’unica donna che poco dopo, in carcere, egli comprende di avere realmente amato. Sale sul patibolo senza paura, accettando la ghigliottina con una paradossale e tutta stendhaliana sensazione di sollievo nel vedere salva, con la morte, la sua idea di libertà.
La Certosa di Parma (1839)
Il respiro narrativo di uno Stendhal in stato di grazia, che improvvisa e detta il romanzo al proprio scrivano senza schemi prefissati, si coniuga ne La Certosa di Parma con una felicità di stile e d’invenzione rimaste leggendarie. È un’opera amara e aerea, consapevole e lieve, veloce nel ritmo e insieme contemplativa: quasi uno spartito mozartiano tradotto in romanzo.
Fabrice del Dongo fa il suo ingresso all’insegna dell’entusiasmo e della libertà; è giovane, bello, italiano, aristocratico, traboccante di ideali eroici, e inoltre ha la fortuna di vivere in un tempo che batte ancora le ore del trionfo napoleonico; eppure la sua parabola mirabolante e il suo vitalistico inseguimento della felicità appaiono, come già in Julien, insidiati dalla malinconia e dallo smacco, segno di una crisi che lascia a Fabrice, al termine del romanzo, una vaga coscienza del vissuto e un sentimento di non appartenenza al proprio tempo.
Ancor più di Julien, Fabrice è chiamato a rappresentare la coscienza stendhaliana della Storia intesa come un insieme di dati instabili, precari e incomprensibili (non si dimentichi che lo scrittore è stato testimone di quattro diversi regimi politici). Su questa perdita di certezze si fonda l’articolazione politica del romanzo, dove il futuro scivola nell’indistinto, o nell’universo delle profezie, e il passato sfiora la confusione. Così, la Certosa in cui alla fine Fabrice si rifugia per morire, lontano dagli occhi del lettore, è uno spazio introvabile, nascosto "nei boschi vicino al Po". Ugualmente, le indimenticabili pagine sulla battaglia di Waterloo – descritta unicamente attraverso gli occhi di Fabrice e con cui si apre la sua iniziazione in negativo al mondo – parlano di un grande evento storico che si riduce a un insieme di immagini imprecise, sfuggenti: tra spari e fumo, Fabrice non vede la battaglia, non capisce di parteciparvi e neppure riconosce Napoleone, il suo mito, quando questi gli passa accanto al galoppo.
A distanza di tempo, Fabrice continuerà a domandarsi: "Ho davvero partecipato alla battaglia? E se sì, era davvero la battaglia di Waterloo?"; ma questa riflessione viene continuamente interrotta da un nuovo avvenimento, anche insignificante – nella Certosa il quotidiano pullula dei fatti insignificanti di cui si compone la Storia – che distrae il protagonista e gli impedisce di veder chiaro in quanto sta accadendo o è già accaduto. Immerso nel flusso dell’avventura che costituisce la sua realtà presente, egli non trova il tempo per tornare su quello che gli sta più a cuore; solo quando, dopo mille peripezie, viene imprigionato e condotto nella cittadella di Parma, tra quelle mura che lo separano dal mondo Fabrice per la prima volta assapora una felicità sconosciuta, che presto diventa amore per Clelia, la figlia del governatore della prigione. La felicità si traduce allora in un gioco di prospettive, dissonanze, comunicazioni spezzate e trasmesse a distanza: altrettanti misteriosi segni del codice amoroso stendhaliano che uniscono intimamente i due amanti pur lontani. ("Non voglio fuggire" – scrive Fabrice alla zia, che lo incita ad evadere – "Voglio morire qui"). Nello svolgere lo splendido tema della claustrazione amorosa il romanzo raggiunge il più alto diapason emotivo, dopo il quale tutto sembra oscurarsi fino a confondersi con l’ombra dei boschi della Certosa, luogo finale del silenzio.
Inversa a quella dei "romanzi di formazione", in cui l’eroe si realizza e si identifica, la parabola di Fabrice – da adolescente appassionato e superficiale a uomo della solitudine e della rinuncia – può leggersi già come un’anticipazione del modo di raccontare novecentesco. Disperso nelle proprie emozioni e in un mondo che gli resta nel complesso indecifrabile, Fabrice in principio sceglie di vivere intensamente, poi, si dissolve strada facendo, senza pentimenti.