Stoici
La conoscenza che D. ha della scuola stoica non è né molto vasta né abbastanza precisa. Molti pensatori importanti di questa scuola non sono neppure menzionati; è il caso di Cleante, il successore di Zenone alla direzione della scuola e conosciuto soprattutto per il suo Inno a Zeus. Crisippo (v.), la cui produzione letteraria fu molto abbondante e che è considerato il secondo fondatore della scuola stoica, viene citato una sola volta in Mn II VII 12 e tramite Cicerone (Off. III X 42).
Se D. non menziona nessuno dei principali rappresentanti del medio stoicismo (Panezio, Posidonio), ciò non vuol dire che egli non ne abbia subito l'influsso inconsciamente, attraverso la mediazione di altre opere. Per quanto riguarda l'epoca imperiale D. neppure cita i nomi di Marco Aurelio o di Epitteto; la sua informazione si limita a una conoscenza piuttosto superficiale dell'opera e del pensiero di Seneca.
Gli Stoici: D., parlando degli S. in generale, li pone sullo stesso piano degli Epicurei e dei Peripatetici, simbolizzandoli nelle tre donne che si dirigono al sepolcro di Cristo (Cv IV XXII 15 Per queste tre donne si possono intendere le tre sette de la vita attiva, cioè li Epicurei, li Stoici e li Peripatetici).
Ciò vuol dire che tutti questi filosofi, gli Epicurei come pure gli S., aspirano alla verità del Vangelo. La loro dottrina è una specie di praeparatio evangelica. Parlando delle tre virtù teologali (fede, speranza e carità), D. rileva che con esse ci si eleva alla sapienza del Paradiso, alla filosofia delle Atene celestiali, e che, grazie alla luce della verità eterna, gli S., i Peripatetici e gli Epicurei, animati dallo stesso desiderio, tendono verso questo sapere superiore (Cv III XIV 15). La filosofia infatti, pur basandosi tutta sulla luce della ragione, è penetrata dal desiderio naturale di una sapienza superiore, la verità rivelata (cfr. Tomm. In Boethium de Trinitate II 3).
Quanto alla fondamentale questione dell'immortalità dell'anima umana, D. cerca di stabilirla appoggiandosi al desiderio esistente in ogni uomo di sopravvivere dopo la morte, desiderio che non può essere vano (Cv II VIII 11), alla divinazione attraverso i sogni (§ 13), all'insegnamento di Cristo (§ 14) e al consenso universale tra i filosofi e gli altri scrittori noti per la loro sapienza (§ 9). D. include gli S. tra i filosofi che condividono l'immortalità dell'anima, affermando (senza ulteriori precisazioni) che, come Aristotele nel suo De Anima, così pure ciascuno di essi difende rigorosamente questa dottrina (§ 9). Al riguardo D. non manca di fare una distinzione tra gli S. da una parte ed Epicuro e i suoi discepoli dall'altra: il grande rimprovero che egli muove contro questi ultimi è di avere negato l'immortalità dell'anima (If X 14-15).
Le testimonianze su questo punto sono divergenti: alcuni dicono che gli S. ammettono l'immortalità dell'anima, altri pretendono che la neghino: per certi pensatori del Portico l'anima è un πολυχρόνιον πνεῦμα (Epiphanius Adv. haer. III 36; Cic. Tusc. I XXXI 77), altri invece affermano che essa è immortale (Ippol. Philosoph. 21; Ps. Gal. Hist. phil., ediz. Kühn, XIX 255; Lact. De Vita beata XXI 9, VII 13; Tertull. De An. 54-55). Ma le due informazioni non sono contraddittorie: l'anima, dopo la morte, sopravvive ancora per un certo tempo come principio individuale prima di essere riassorbita nell'anima del mondo, di cui è una particella: essa è dunque mortale e immortale.
Zenone di Cizio: anche qui l'informazione di D. è abbastanza superficiale: egli sa che Zenone è il fondatore e il caposcuola dello stoicismo (Cv IV VI 9 primo e prencipe); il suo nome è menzionato accanto a quelli di Epicuro e di Aristotele, citati parallelamente come capi di tre scuole (XXII 4).
Zenone è citato anche accanto a Socrate, Seneca e molti altri filosofi che hanno disprezzato la vita per darsi alla sapienza (III XIV 8).
Bisogna concluderne che qui D. confonda Zenone di Cizio con Zenone di Elea? Quest'ultimo morì fra i più grandi tormenti dopo aver voluto liberare la sua città dalla tirannide. È l'opinione di P. Renucci (D. disciple..., p. 265). L'interpretazione non è ovvia: tutto dipende dal senso che si dà all'espressione disprezzaro. Zenone era un uomo austero, che consacrò tutta la vita al conseguimento della sapienza. D. riassume in qualche frase la dottrina morale di Zenone (Cv IV VI 9-10): tutta la vita umana dev'essere orientata verso l'onestà, come il fine ultimo; senza tener conto di nulla, l'uomo deve perseguire in tutte le cose la verità e la giustizia, non manifestando né gioia né dolore, e non soggiacendo ad alcuna passione. Segue poi la definizione stoica dell'onestà, quello che, sanza utilitade e sanza frutto, per sé di ragione è da laudare. È vero che per gli S. la suprema regola morale comanda di vivere in conformità alla ragione o alla natura, che non è altro che la divinità immanente; è là che risiede la verità (Logos) e la giustizia, poiché la lex naturae è la sorgente e la regola di ogni obbligo. In questa visione la soppressione delle passioni diviene necessaria, perché questi moti irrazionali si oppongono a una vita conforme alla ragione. Questo riassunto dell'etica stoica è molto sommario, ma non inesatto; i dati sembrano essere desunti dagli scritti filosofici di Cicerone (Acad. pr. II XLII, Fin. III VIII 28, XXI 71, Tusc. V XV 44, IV XVII 37). Zenone risiede nel Limbo insieme con Aristotele, Platone, Socrate e molti altri filosofi (If IV 138) che, vissuti prima del cristianesimo, non hanno adorato Dio come bisognava e non possono quindi essere ammessi in Paradiso.
Catone: secondo P. Chistoni, D. avrebbe confuso Catone il vecchio e Catone di Utica: gli argomenti avanzati per appoggiare questa tesi furono in seguito rifiutati da N. Vaccaluzzo, F. d'Ovidio ed E. Proto. Un riferimento a Catone il Vecchio s'incontra in Cv IV XXVIII 6 (Cic. Senect. XXIII 83), mentre il Catone di cui si parla più volte nel Convivio e che gioca un ruolo così importante nella Commedia non è altro che Catone di Utica: questi è considerato da D. come un rappresentante eminente del pensiero stoico (Cv IV VI 10).
Infatti le fonti del Catone dantesco non sono affatto cristiane: esse sono innanzi tutto Cicerone, Seneca e Lucano. L'ammirazione provata da D. rispetto a Catone è tale che egli preferisce manifestarla non già a parole ma col silenzio (IV V 16). Ispirandosi a Lucano (Phars. IX 255) e a Seneca (Ep. LXVII 13), D. nello stesso passo parla del sacratissimo petto di Catone; questa espressione prende un particolare rilievo se interpretata in chiave stoica, secondo cui la ragione è una particella della divinità immanente (Sen. Ep. LXVI 12 " in corpus humanum pars divini spiritus mersa "). Marzia, dapprima moglie di Catone, si separò da lui per sposare Ortensio; dopo la morte di questo, ritornò a Catone. Agli occhi di D. quest'episodio significa il ritorno della nobile anima a Dio, all'inizio della vecchiaia: nessun uomo terreno è più degno di Catone di essere il simbolo di Dio (Cv IV XXVIII 15). Traducendo nella sua viti il cosmopolitismo stoico, Catone si crede nato non per sé stesso, ma per la sua patria e per il mondo intero (XXVII 3). Fuggendo l'oppressione della tirannia, quest'eroe della libertà scelse l'esilio in Africa (III V 12; If XIV 15); persino il suo suicidio non è un ostacolo all'ammirazione di D.: non significa forse che, da stoico convinto, ha preferito la libertà alla vita e a ogni altro valore terreno? (Pg I 70-72; Mn II V 15; Cicerone Off. I XXXI 112). È la ragione per la quale, paradossalmente, Catone è stato scelto come custode del Purgatorio. Il luogo dove le anime vengono purificate, prima di entrare nella gloria del Paradiso, è dunque custodito da un pagano, uno stoico suicida, davanti al quale, per ordine di Virgilio, D. piega rispettosamente le ginocchia (Pg I 51).
Seneca: sebbene in D. il nome di Seneca e riferimenti a suoi scritti s'incontrino più volte, non si può concludere per una conoscenza approfondita del suo pensiero. Seneca è menzionato accanto a Zenone e a Socrate come colui che ha disprezzato la vita per darsi alla sapienza (Cv III XIV 8). Parlando degli uomini ‛ illustri ', D. cerca di precisare che quest'epiteto indica un uomo che è illuminato da una qualche potenza e che illumina gli altri di giustizia e di carità, ovvero uno che, essendo stato eccellentemente istruito, istruisce a sua volta in maniera eccellente; e presenta due esempi: Seneca e Numa Pompilio (VE I XVII 2).
Discendendo agl'Inferi, D. incontra Seneca morale nel Limbo, nel castello dei pagani illustri; il suo nome è citato accanto a quelli di Orfeo, Lino e Cicerone (If IV 141).
L'espressione Seneca morale è stata scelta per distinguere il filosofo dall'autore delle tragedie (v. SENECA, Lucio Anneo). Tra gli scritti autentici di Seneca, D. cita: De Beneficiis II 1 (Cv I VIII 16), Nat. quae. I 1 (Cv II XIII 22) e le Lettere a Lucilio, soprattutto XVII e XX (Cv IV XII 8). Una delle citazioni di Seneca non ha un riscontro letterale nei suoi scritti (XII 11). Appoggiandosi a una lunga tradizione, D. attribuisce a Seneca due opere non autentiche, il De quattuor Virtutibus o Formula honestae vitae (Cv III VIII 12, Mn II V 3) e il De Remediis fortuitorum (Ep III 8). La prima di queste opere è stata conosciuta sotto il nome di Martino di Braga (v.), che neppure è il vero autore non avendone scritto che il prologo; il contenuto è improntato all'opera apocrifa anteriore: De Copia verborum. Notiamo che il Petrarca, meglio informato, non fa la stessa confusione (Epist. rerum senilium II 4). È assai probabile che D. si sia ispirato ai florilegi di Seneca: il testo " risus tuus erit sine cachinno " s'incontra come un estratto del De quattuor Virtutibus nei florilegi del XV secolo; v. anche STOICISMO.
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