stolto
Vocabolo presente, nelle forme aggettivale o sostantivata (che qui si trattano insieme), in tutte le opere volgari di D., eccetto la Vita Nuova (dove però s'incontra l'avverbio ‛ stoltamente ': v.). Con la vocale prostetica è adoperato una volta anche nel Fiore.
In pochi casi l'idea d'ignoranza e di pochezza mentale espressa dalla parola è notificata più che altro come un dato oggettivo: Cv II X 10 Meglio sarebbe a li miseri grandi, matti, stolti e viziosi, essere in basso stato, ché né in mondo né dopo la vita sarebbero tanto infamati; Pd XVIII 102 nel percuoter d'i ciocchi arsi / surgono innumerabili faville, / onde li stolti sogliono augurarsi: dalla quantità delle faville prodotte da un tizzone percosso si traevano superstiziosamente degli auspici circa la quantità di beni che si sarebbero posseduti; anche Fiore CLXIII 11 La femina de' aver amici molti, / e di ciascun sì de' prender su' agio, / e far sì ch'uon gli tenga per istolti. Più spesso l'uso di s. è caratterizzato da una carica polemica più o meno forte (accentuata in più casi dalla posizione in rima del vocabolo - cinque volte su sette occorrenze in versi -, oppure dall'uso della forma superlativa): in questo senso esso può dirsi un vocabolo-chiave del linguaggio polemico dantesco (e andranno allora considerati anche i casi di uso latino rinvenibili nella Monarchia). Così in Pg XXVI 119 lascia dir li stolti / che quel di Lemosì credon ch'avanzi, esso esprime riprovazione aristocratica nei confronti di un'opinione letteraria tanto diffusa quanto malfondata (e la polemica contro Giraldo da Borneill - quel di Lemosì -, in quanto richiama subito dopo per affinità quella contro Guittone, coinvolge uno degli aspetti fondamentali del sistema letterario dantesco).
In Rime XCVI 11 Donna non ci ha ch'Amor le venga al volto, / né omo ancora che per lui sospiri; / e chi 'l facesse qua sarebbe stolto, l'aggettivo qualifica invece, con un'inversione dei punti di vista, i cultori d'Amore (in quanto principio di nobiltà) nell'opinione volgare di coloro che lo ignorano. Ma più spesso nel vocabolo si esprime la condanna di un'ignoranza sconsiderata e presuntuosa che finisce col distorcere le verità elementari dell'intelletto e della fede; e allora la stoltezza, come osservava il Tommaseo, tende a presentarsi anche come vizio morale, secondo un'accezione caratteristica della letteratura biblica (dove son detti s. segnatamente i peccatori): Cv II VIII 8 Dico che intra tutte le bestialitadi quella è stoltissima, vilissima e dannosissima, chi crede dopo questa vita non essere altra vita (si noti, oltre alla violenza della forma superlativa, la progressione incalzante dei tre aggettivi: " stoltissima, perché contro l'uso saggio della ragione; vilissima, perché pareggia l'uomo alle bestie; dannosissima, per i suoi brutti effetti nell'ordine morale e religioso e civile ", Busnelli-Vandelli); IV V 9 oh stoltissime e vilissime bestiuole che a guisa d'uomo voi pascete, che presummete contra nostra fede parlare... (per cui cfr. Pd XIX 85 Oh terreni animali! oh menti grosse!); Pd XIII 127 sì fé Sabellio e Arrio e quelli stolti / che furon come spade a le Scritture / in render torti li diritti volti. Vedi inoltre V 68 (s. fu Agamennone, onde pianse Efigenia il suo bel volto) e XIII 115. In V 58 l'aggettivo è riferito alla permutanza, cioè all'inconsiderata e arbitraria sostituzione della materia di un voto.