BOSTICHI, Stoppa (frate Stoppa)
Scarse e poco sicure le notizie a noi note su questo poeta toscano del Trecento. Di certo appartenne alla famiglia dei Bostichi, allora una delle più importanti consorterie di Firenze; nato, ignoriamo dove, sul finire del sec. XIII, entrò, non sappiamo quando e in seguito a quali vicende, nell'Ordine degli eremitani di S. Agostino. Secondo Giovanni Sercambi, che inserì nelle sue cronache la ballata "Se la Fortuna o 'l mondo" facendola precedere da una breve notizia sul poeta, questi sarebbe stato ancora novizio quando viveva a Lucca al tempo della signoria di Castruccio Castracani (1315-1328):"homo di grande scientia", il B., "avendolo la Fortuna molto percosso, dispuose a darsi pazienzia, e fece una cosa morale, la quale volse fusse palese, acciò se ne prendesse essemplo". La composizione moraleggiante - la "cosa morale" - scritta da frate Stoppa è appunto la ballata riportata dal Sercambi; il quale afferma che il B., per farla conoscere al pubblico, la "disse cantando in su la piazza di Santo Michele in Mercato, dove si fu a udirla gran parte di Lucca". Non possediamo altri dati sicuri sulla sua vita: non documentata è l'ipotesi che nel 1347 egli fosse ancora vivo; priva di fondamento l'affermazione (cfr. Medin) che egli sia morto il 29 genn. 1415 in un convento spagnolo. Sulla base delle scarse notizie fornite dal Sercambi, possiamo solo ritenere che il B. sia fiorito nel primo trentennio del sec. XIV: questa conclusione trova conferma nel lessico e negli usi linguistici del poeta (G. Carducci).
Al B. sono attribuiti alcuni componimenti poetici gnomico-moraleggianti. A questo genere, tanto diffuso nel Medio evo, appartengono sia le due profezie "Apri le labbra mie, dolce Signore", e "Vuol la mia fantasia" - che alcuni commentatori vogliono attribuire al beato Tommasuccio da Foligno (1309-1377) -, sia il sonetto "Servire e disservir mai non si scorda", che la ballata "Se la Fortuna o 'l mondo". Rimatore più che poeta, artista dimesso e privo di una sua definita personalità, il B. fu essenzialmente scrittore dottrinale: nei suoi componimenti, infatti, egli riveste con una struttura esterna di gusto popolareggiante temi e motivi caratteristici della cultura erudita e aulica del suo tempo. I suoi scritti ebbero, ciononostante, una certa risonanza, e non solo tra i suoi contemporanei: soprattutto famosa fu la ballata "Se la Fortuna o 'l mondo", il cui successo e la cui diffusione nei secoli che vennero, anche in ambiente popolare, sono largamente testimoniati dai numerosi codici in cui è stata trascritta e dai numerosi rimaneggiamenti ai quali fu sottoposta nelle epoche successive. Convenientemente ampliata, la si ritrova ancora in un codice veneto della seconda metà del Quattrocento, il Marciano CLXXXVI cl. IX degli Italiani; ed è la più conosciuta opera del B. anche ai nostri giorni. In questo componimento, nel quale le definizioni e gli ammaestramenti morali sono inframezzati da brevi esempi desunti ora dai classici, ora dalla Bibbia, ora dai Padri della Chiesa, il B. affronta e svolge il problema della fortuna seguendo uno schema intellettualisticamente teologizzante e morale, facendo ampio sfoggio della propria erudizione sacra e profana. La ballata esprime dunque in modo adeguato le caratteristiche fondamentali del mondo artistico del frate fiorentino. La fortuna è sì, come già in Dante (cfr. Inf., VII, vv. 67-96), un'intelligenza celeste espressione della provvidenza divina, ordinata da Dio al governo degli "splendori mondani", che essa, con perfetta imparzialità, assegna o toglie al momento opportuno, senza che l'avvedutezza umana possa schermirsene; ma, a differenza di Dante, frate Stoppa di quegli "splendori mondani" sottolinea soprattutto il corso breve e fragile rispetto alla vita eterna, e l'incommensurabile divario qualitativo esistente tra l'intrinseca finitezza dell'uomo e l'infinita maestà di Dio. È il motivo biblico - "Vanità delle vanità", dice l'Ecclesiaste, "vanità delle vanità. Tutto è vanità. Qual vantaggio trae l'uomo da tutta la fatica in cui s'affanna sotto il sole?" (Eccl., I, 2-3) - che tanta fortuna ebbe nel Medio evo, e che fornì lo spunto ad alcuni fra i più celebri inni latini di quel periodo.
Fonti eBibl.: G. M. Crescimbeni, Istoria della volgar poesia, III, Venezia 1730, pp. 148-155; F. Trucchi, Poesie italiane inedite di dugento autori, II, Prato 1846, pp. 97 s.; G. Carducci, Rime di messer Cino da Pistoia..., Firenze 1862, pp. LIII, 264; F. Zambrini, Le opere volgari a stampa dei secc. XIII e XIV, I, Bologna 1878, col. 200; II, Supplemento..., a cura di S. Morpurgo, Bologna 1929, nn. 296, 396, 500, 569, 575, 759; A. Medin, Ballata della Fortuna, in Il Propugnatore, XXII (1889), pp. 107 n. 2, 139-144; G. Sercambi, La Cronaca, a cura di S. Bongi, Roma 1892, III, p. 274; G. Volpi, Rime di trecentisti minori, Firenze 1907, pp. 247-251; Id., Il Trecento, Milano s.d., p. 224; G. Carducci, Cantilene e ballate..., Sesto San Giovanni 1912, pp. 110 ss.; R. Ortiz, La materia epica nella lirica italiana delle origini, in Giorn. stor. della letter. ital., LXXIX (1922), p. 18; LXXX (1922), p. 277; LXXXV (1925), pp. 40 e 82; N. Sapegno, Il Trecento, Milano 1952, pp. 594, 627; Id., Poeti minori del Trecento, Milano-Napoli 1952, pp. 428 ss.; C. Muscetta-P. Rivalta, Poesia del Duecento e del Trecento, Torino 1956, pp. 710-713; G. Corsi, Rimatori del Trecento, Torino 1969, pp. 674-682; Enc. Ital., VII, p. 560, sub voce.