Storia del Regno di Napoli
Scritta in tre mesi, la Storia del Regno di Napoli esce a puntate nel 1923-1924 su «La Critica» ed è pubblicata in volume nel 1925. L’“Avvertenza” (scritta nel maggio del 1924) all’edizione in volume contiene tre preziose indicazioni per entrare nel laboratorio crociano. La prima riguarda la scelta del titolo e il suo legame diretto con l’idea di storia. Croce dichiara di voler liberare la storia politica dal «vecchio ideale della storiografia come di una sorta di poema in prosa», di non voler offrire al lettore un «maestoso racconto» onnicomprensivo di tutti i fatti accaduti nella storia di Napoli, ma «il modo in cui credo si debba, nel generale e in alcune parti, più esattamente pensare quella storia» (Storia del Regno di Napoli, a cura di G. Galasso, 1992, pp. 9-10). Egli non vuole ripetere quello che è stato fatto benissimo da altri storici: vuole invece, a partire dall’identificazione di alcuni problemi della storia di Napoli, proporne un’interpretazione. La storiografia non è, come ritiene la visione positivistica che Croce contesta, accumulazione dei fatti e delle loro rappresentazioni attraverso i documenti, ma pensiero storico.
La seconda indicazione spiega l’inserimento nell’opera delle «due monografie di storia locale», quelle su Montenerodomo e Pescasseroli, perché «in quelle storie di due minuscoli paeselli è dato vedere come in miniatura i tratti medesimi della storia generale, raccontata nella parte principale del volume» (p. 10).
Infine la terza indicazione, che decisamente smentisce i luoghi comuni su un presunto distacco apollineo del filosofo abruzzese dalla materia storica trattata, sul freddo primato della razionalità: si tratta del forte intreccio, evidenziato da Croce, tra pathos e ricerca storica. Scrive Croce: le monografie di storia locale sono la rappresentazione più «personale e familiare» del «legame d’affetto che mi stringe alle fortune di queste regioni, e che i lettori sentiranno in tutto il volume, e giudicheranno, spero, affetto non cieco» (p. 11).
La Storia del Regno di Napoli si apre con una polemica verso il giurista Enrico Cenni (1825-1903), allievo di Luigi Settembrini e rappresentante di primo piano del neoguelfismo napoletano, il quale nei suoi Studi di diritto pubblico ad occasione della contesa tra il Comune di Napoli ed i proprietari danneggiati per rifazione delle vie pubbliche (1870) esalta il primato del Regno nella vecchia Europa; ma aggiunge che la «sublime» storia napoletana verrebbe generalmente disconosciuta a causa della «setta liberale gallizzante», che avrebbe monopolizzato la libertà e il progresso, rompendo le gloriose tradizioni delle province meridionali.
Questa tesi non convince però Croce, dalle cui osservazioni critiche emerge una concezione della nazione completamente diversa rispetto a quella del giurista: questi infatti sostiene che la nazione napoletana sia fondata sulla Magna Charta di re Ferdinando I d’Aragona (detto Ferrante), Croce ritiene invece che non possa esistere una Magna Charta senza «una possente personalità nazionale» (Storia del Regno di Napoli, cit., p. 56). In questa espressione è già riscontrabile quello che sarà il tema conduttore dell’opera: la ricerca della dimensione etica e politica della storia napoletana e della presenza o assenza dei soggetti in grado di interpretarla. Scrive Croce:
Bisogna con ogni cura guardarsi dal compiere questo indebito trapasso dalla storia etica e politica alla storia economica e sociale, e pretendere di trovare in questa, nella quale non può essere, il movimento storico e la virtù nazionale che si dovrebbe invece ritrovare e mostrare nell’altra (p. 56).
Il filosofo ammira l’affetto di Cenni per la patria, il «sentimento civile», il suo essere «cattolico e napoletano, ma insieme liberale e italiano», e si pone l’obiettivo di «dare a quell’affetto il conforto di una tradizione» (p. 64).
Una nuova metodologia storiografica
Fin dalle prime pagine, la Storia del Regno di Napoli mostra una nuova metodologia storiografica, tesa a individuare in un problema storico centrale il filo conduttore e l’oggetto principale della ricerca, a indicare la sostanza vera della storia di un popolo nella sua dimensione etico-politica, a proporre la sua periodizzazione in stretta relazione con gli svolgimenti di tale dimensione. Il problema storico centrale per Croce è la relazione tra monarchia e nazione:
Nella monarchia normanno-sveva un popolo, una nazione non nacque; non ci fu nemmeno un nome unico nel quale le varie popolazioni si riconoscessero come subietto: siciliani, pugliesi, longobardi, napoletani erano tutti nomi parziali; popolani e borghesi non fecero pesare la loro propria volontà, e i feudatari solo in maniera individualistica e contraria allo stato (pp. 33-34).
E non è lecito per Croce identificare la storia della monarchia normanno-sveva con quella dell’Italia meridionale, perché si trattò di una storia «rappresentata», non «generata» dall’interno delle popolazioni meridionali. La sostanza vera della storia di un popolo non è quella economico-giuridica, ossia sociale, ma quella
etica o morale e, in alto senso, politica. Di questa propriamente e unicamente si intende parlare quando si loda la virtù di un popolo, e non dei costumi e delle leggi che gli furono trasmessi o imposti; e di costumi e leggi, altresì, ma in quanto esso li volle o li respinse, li asserì o abbatté, per un suo ideale etico e seguendo impulsi etici (p. 53).
Protagonisti di questa storia sono i gruppi dirigenti. La struttura dell’opera e la periodizzazione sono intimamente connessi sia con gli svolgimenti del problema storico al centro dell’attenzione crociana sia con l’affermato primato della storia etico-politica: il «regno» e i suoi contrasti interni dall’eredità normanno-sveva alle ragioni della perduta indipendenza alla fine del Quattrocento; il «viceregno» e la mancanza di vita politica nazionale nell’età spagnola; la «restituzione» del Regno nel periodo borbonico; dal periodo delle rivoluzioni alla fine del Regno di Napoli. A legare insieme le diverse parti è la «storia della nazione napoletana come proprio nostro assunto» (p. 83): ed è un «assunto» che viene precisandosi e articolandosi nello svolgimento dell’opera.
Il Regno di Napoli per Croce è quel che resta della monarchia normanno-sveva dopo il distacco della Sicilia in seguito alla guerra del Vespro: un Regno, dunque, nato «per mutilazione», da una disfatta. Il valore e i limiti del Regno angioino sono ben delineati dal filosofo: da un lato, la sua politica internazionale, l’alleanza con la Chiesa e il sostegno del capitale finanziario toscano; dall’altro, la malformazione genetica (la nascita «per mutilazione»), le contese dei pretendenti, la ribellione dei feudatari e il baronaggio semisovrano, «l’indebolimento della compagine politica» nell’«avvicinamento e nell’adeguamento del feudo all’allodio» (p. 91), il merum et mixtum imperium, cioè la giurisdizione criminale e civile come prerogativa della feudalità, la debolezza del tessuto urbano, la politica ecclesiastica, la dipendenza dal capitale straniero. Non solo ombre, ma anche luci: il sentimento monarchico, l’affermazione della giustizia regia, la politica a favore dei Comuni, la protezione angioina di industrie, commerci e cultura, l’elevazione di Napoli a capitale e rappresentante dell’intero Regno. Tuttavia,
a causa del suo vizio costituzionale, della sua contraddizione fondamentale, del suo baronaggio che non difendeva il sovrano e il popolo e non s’innalzava al sentimento del pubblico bene e a coscienza nazionale, il regno di Napoli non poteva resistere all’urto che gli venisse da una grande potenza, da uno dei forti stati che allora erano giunti a pienezza di formazione (p. 133).
La fine dell’indipendenza del Regno è ormai inevitabile: l’unità dell’Italia meridionale è soltanto apparente, sembra grande e forte, ma in realtà è piccola e fragile, resa ancor più vulnerabile dall’anarchia interna. Perciò
altra via non si offriva per uscire da quell’anarchia e dai pericoli dell’invasione se non di entrare come parte di un più vasto stato; e così, per logica necessità di cose, il regno di Napoli discese a viceregno (p. 136).
Il nucleo del giudizio storiografico sul rapporto tra Spagna e Italia, che nella Storia del Regno di Napoli costituisce parte integrante e, per certi versi, decisiva dell’interpretazione complessiva e unitaria della vicenda storica del Mezzogiorno d’Italia prima dell’unificazione della penisola, era venuto già delineandosi nel volume La Spagna nella vita italiana durante la Rinascenza (1915). Il più evidente degli elementi originari e originali che caratterizzano quest’opera è il riconoscimento di un comune destino di decadenza ma, al tempo stesso, una relazione fatta di scambi e intrecci assai fitti tra i due Paesi, che nega la logica dicotomica spagnolismo/antispagnolismo allora prevalente, entro la quale la Spagna era identificata con il malgoverno, con un’organica alleanza fra trono e altare che l’aveva resa braccio armato della Controriforma, con l’oppressione di tutte le libertà.
Croce aveva individuato le ragioni della decadenza italiana nella mancata formazione dello Stato, nel cambiamento della direzione economica e commerciale dal Mediterraneo verso l’Atlantico, nell’assenza di spirito etico e religioso, e aveva indicato anche quelle della decadenza spagnola: il contrasto tra l’unità monarchica, fondata sulla forza militare, e la composizione «medievale» e «feudale» della società, la mancanza di attitudini commerciali e industriali, «indispensabili alla conservazione della potenza nei tempi moderni», la religiosità superstiziosa (La Spagna, cit., 19494, pp. 257, 270).
I motivi crociani erano in parte affini, ma in altra parte distinti e distanti rispetto a quelli enunciati nella Storia della letteratura italiana da Francesco De Sanctis, il quale imperniava piuttosto il suo ragionamento sul nesso fortissimo tra il Cinquecento e il Seicento e sulla «perdita della libertà» che aveva condizionato l’evoluzione storica italiana in quei due secoli. Rispetto a De Sanctis, Croce aveva innovato profondamente la prospettiva interpretativa. La formula desanctisiana del «malgoverno papale spagnolo» era un’endiadi costitutiva di tutto il ragionamento dello storico della letteratura teso a costruire, su tali basi, uno dei miti negativi della fondazione nazionale italiana. L’antispagnolismo desanctisiano era, insomma, la rappresentazione della particolare fusione tra Spagna e Italia nei secoli della «decadenza». Niente di più distante da Croce che, nel primo nucleo del suo giudizio storiografico, pur parlando di una «decadenza che si abbracciava a una decadenza» (p. 257), aveva contestato alla radice il pregiudizio antispagnolo, ricostruendo per vie interne alle due aree i motivi del ripiegamento storico allontanandosi da qualsiasi logica moralistica di responsabilità e colpe.
I giudizi e le idee espressi in La Spagna nella vita italiana durante la Rinascenza erano nel complesso affatto presenti e scontati nella storiografia italiana ed europea sull’argomento, e costituiscono anche lo sfondo dell’opera più matura. Il capitolo della Storia del Regno di Napoli intitolato “Il viceregno e la mancanza di vita politica nazionale”, fin dal primo capoverso, offre immediatamente al lettore la percezione di un’importante novità storiografica:
Alla duplice esigenza da cui era nato, la protezione del territorio e la sottomissione del baronaggio politico e semisovrano alla sovranità dello stato, non fallì il viceregno, cioè il governo spagnuolo nell’Italia meridionale; e questo doppio ufficio storico, come spiega la sua origine, così rende ragione della sua lunga durata (p. 137).
È in primo luogo qui ribadita la revisione del giudizio storico tradizionale sul rapporto tra Spagna e Mezzogiorno d’Italia, modellato sul bipolarismo spagnolismo/antispagnolismo. La prospettiva crociana è radicalmente diversa, e lo è esattamente perché, per la prima volta, si stabiliscono i termini storici del problema, rinunziando a individuare colpe e responsabilità e formulando le risposte a una domanda implicita: come spiegare l’origine e la lunga durata del governo spagnolo nel Mezzogiorno? Le risposte costituiscono la piena storicizzazione del problema, nel senso che, se la genesi del governo spagnolo nel Mezzogiorno è riportata all’esigenza di integrare questo territorio entro un più generale processo di sviluppo e di modernizzazione dell’Europa, la lunga durata è legata al successo del «doppio ufficio storico» realizzatovi dalla Spagna: la protezione del territorio e la trasformazione del baronaggio da potenza semisovrana, capace di contestare e contrastare il potere regio, a potere sicuramente egemone dal punto di vista economico-sociale, ma fortemente ridimensionato a livello politico e non più soggetto eversivo della monarchia sovrana. Si tratta di due tra le funzioni più importanti dello Stato moderno in formazione nell’Europa del Cinquecento. Certo esse furono realizzate a Napoli dall’esterno, per così dire: ancora una volta secondo il modulo di una storia «rappresentata» e non «generata», più dipendente cioè dal contesto delle relazioni internazionali e dalla volontà delle grandi potenze che dalle forze endogene; un modulo, questo, ricorrente nella plurisecolare vicenda meridionale. Una debolezza, una fragilità che il Mezzogiorno avvertiva a fine Quattrocento.
Dunque, una discesa inevitabile che, peraltro, non cancellava – e non poteva farlo – l’autonomia di una gloriosa tradizione, di una civiltà giuridica, l’apporto di una formazione istituzionale e civile consolidatasi in un corso plurisecolare. Ancora «regno» dunque; ma, al tempo stesso, «viceregno» perché le principali realizzazioni e articolazioni dello Stato moderno furono opera della Spagna.
La bipolarità Regno/viceregno era logicamente congiunta, per Croce, alla sua profonda intuizione dell’importantissima funzione storica svolta dalla monarchia spagnola nel Mezzogiorno: la riduzione dei baroni a sudditi, con la quale la Spagna realizzò nel Regno di Napoli un relativo equilibrio fra dominio e consenso. Oggi si è inclini a scorgere nella costruzione della «via napoletana allo Stato moderno» (Musi 1991 e 2003) un processo più faticoso e tormentato di quello descritto da Croce, poiché l’egemonia spagnola dovette essere raggiunta attraverso l’attivazione di un sistema di compromessi fondato sul rispetto di obblighi, limiti, interessi reciproci, e in alcuni casi ci fu bisogno di una sorta di riconoscimento tacito, da parte della potenza monarchica, della persistenza della continuità feudale. Ma certamente la fine del «baldanzoso Medioevo» (Storia del Regno di Napoli, cit., p. 137), del tempo cioè della minacciosa potenza semisovrana dei baroni, fu realizzata attraverso la costruzione del sentimento di fedeltà al sovrano:
Facendo così di necessità virtù, o la necessità producendo, come talora accade, la relativa virtù, un nuovo sentimento si venne formando presso i baroni e, sul loro esempio e sulla loro autorità, allargando a tutte le altre classi, invece di quello individualistico che aveva dominato in passato: il sentimento della fedeltà (p. 144).
Esso consentì alla monarchia spagnola di superare le crisi più acute: la rivolta contro l’introduzione dell’Inquisizione «alla maniera di Spagna» nel 1547 e i moti di un secolo dopo. Quel sentimento contribuì sia a motivare la nobiltà nell’opera di difesa militare del Regno dai nemici esterni, sia a spingerla a partecipare alla difesa della monarchia spagnola nelle campagne militari europee, sia a favorire l’integrazione dinastica dell’aristocrazia entro il sistema imperiale spagnolo.
Il citato capitolo sul viceregno mostra una struttura logica serrata. Esso occupa praticamente un quarto dell’intero volume: a ulteriore testimonianza dell’importanza che l’autore attribuiva alla sua opera di rifondazione storica e storiografica, proprio e ancor più sul terreno dei rapporti tra Spagna e Mezzogiorno d’Italia. In realtà questo capitolo costituisce anche il centro nevralgico, la controprova principe di una tesi fondamentale sostenuta da Croce nella Storia del Regno di Napoli: lo squilibrio permanente, cioè, tra l’evoluzione di una costruzione politica relativamente realizzata e la mancanza o, per lo meno, l’insufficienza di nazione, patria. Così, nell’età del viceregno, i monarchi di Spagna diedero ai napoletani
la disciplina che viene dal fermo indirizzo politico […]. Gliela dettero monarchi stranieri che dominavano un vasto impero; e perciò, se il baronaggio napoletano per secoli non aveva difeso la patria, ma sé stesso e anzi l’interesse particolare delle singole case feudali, neanche allora difese propriamente la patria, perché una patria, uno stato autonomo, non c’era più; e c’era invece la monarchia di Spagna, della quale il regno era una provincia (p. 158).
Il diverso ritmo di sviluppo della costruzione politica e della costruzione ‛nazionale’ è riscontrato da Croce anche nell’analisi delle forze sociali. L’attenzione all’articolazione sociopolitica del territorio lo induce a rilevare lo squilibrio delle forze in campo: il baronaggio; il ceto civile che tende a convertirsi in nobiltà e non si fa partito politico; le università e le città, isolate nella loro battaglia demanialista e prive di uno strumento e di momenti di coordinamento; il popolo e la plebe. Insomma, Croce sottolinea la «riottosità o immaturità delle varie classi sociali a indirizzare le sorti del paese» (p. 186). Anche gli organi e le funzioni di rappresentanza erano, in prevalenza, cassa di risonanza di interessi individuali o di gruppo: dunque o luoghi di esaltazione della logica corporativa oppure strumenti al servizio della politica vicereale. Infatti
i parlamenti non ebbero ormai quasi altro compito che di votare i donativi, chiesti dal viceré per i bisogni della Corona, e il modo di riscuoterli e di ripartirne il peso; e, sebbene richiedessero in cambio grazie e privilegi, cioè proponessero leggi e riforme, non si vide effetto sensibile di queste richieste; e sebbene qualche voce libera talvolta si levasse in quelle assemblee, e parlasse di abusi, di oppressione dei popoli, di necessità di alleviarli, la gran maggioranza si mostrò sempre servile e acquiescente agli ordini del viceré, col quale i singoli o i caporioni trafficavano per ottenere vantaggi e favori (p. 164).
Del resto, a limitare fortemente il peso e la funzione dei parlamenti napoletani erano il basso tasso di rappresentanza delle città del Regno e la progressiva egemonia dei ceti feudali: così,
quei parlamenti del regno non sostengono il paragone, nonché con quelli inglesi, neppure con gli Stati generali della Francia, nei quali non piccola importanza ebbero i rappresentanti delle città, muniti dei cahiers che raccoglievano la voce e i voti dei popoli (p. 164).
Anche nell’altra struttura politico-rappresentativa, i Seggi, che entravano direttamente nel governo e nell’amministrazione della capitale, i viceré erano «forza dirigente e determinante» (p. 164).
L’opera del potere spagnolo a Napoli fu, per Croce, un intreccio di positività e negatività. Partendo perciò dalla premessa che «la Spagna governava il regno di Napoli come governava se stessa» (p. 190), Croce criticava, come già più volte ribadito, il pregiudizio antispagnolo, ma, al tempo stesso
la cattiva politica finanziaria ed economica, con ordinamenti, provvedimenti ed espedienti che erano quelli appunto che la nascitura scienza dell’Economia si apparecchiava a condannare, e anzi a togliere in esempi particolarmente istruttivi di quel che non si deve fare: cacciate di ebrei, privative, divieti di esportazione, dazi gravissimi e dogane interne e diritti di passo dappertutto, calmieri, alterazioni della moneta e regolamento arbitrario dei cambi, vendita di gabelle o arrendamenti, ripartizione delle imposte a rovescio della capacità contributiva e del respiro da dare alle forze dei produttori; e ogni altro ben di Dio della stessa sorta (p. 190).
La monarchia spagnola svolse un’«opera mediatrice di pace sociale» (p. 198), protesse il territorio meridionale, riuscì a svuotare il baronaggio delle sue potenzialità eversive. Ma se si ricercano «le origini della tradizione politica nell’Italia del mezzogiorno», esse non si ritrovano né «nella nobiltà feudale, che per secoli dominò e non governò la nostra storia, né nella monarchia che non poté mai convertirsi veramente in organo della coscienza nazionale» (p. 211).
Anche a livello di governo del territorio, Croce rilevava lo squilibrio nella politica spagnola, più rivolta alla capitale, alla sua espansione edilizia privata e pubblica, alle infrastrutture, che alle province, dove i viceré non riuscirono a sradicare la delinquenza
e soprattutto il banditismo o brigantaggio, quasi un’istituzione alla quale il governo stesso faceva ricorso, come al tempo della guerra del Lautrec [Odet de Foix, conte di Lautrec, 1485-1528], e più volte in altre occasioni, e sulla quale contava il duca di Guisa [Enrico II di Lorena, terzo duca di Guisa, 1614-1664] per estendere il suo potere nelle province; e di continuo vi ricorrevano i baroni che ne erano i manutengoli (p. 195).
Ma Croce, ancora una volta, non iscriveva il rilievo critico nella logica dell’antispagnolismo, né attribuiva a una presunta anomalia del Mezzogiorno d’Italia il banditismo che, anzi, «apparteneva all’Europa tutta in quei secoli» (p. 196).
Al tema dei conflitti durante l’età spagnola Croce dedica pagine ancora di straordinario interesse: da esse emergono non solo lo squilibrio tra le spinte originarie di moti che ancora una volta collegano Napoli e il Mezzogiorno all’Europa e la dinamica e gli esiti di quegli eventi, ma anche la sproporzione tra le risorse impegnate nella resistenza e i risultati concretamente ottenuti. Così fu per il fermento religioso collegato, negli anni Trenta e Quaranta del Cinquecento, a Juan de Valdés e alla predicazione di Bernardino Ochino, e per i moti napoletani contro l’introduzione dell’Inquisizione alla maniera di Spagna.
Anche il giudizio su Tommaso Aniello detto Masaniello e sulla rivolta del 1647-48 che di lui porta il nome si presenta sfaccettato. Già nell’Introduzione della Storia del Regno di Napoli appare la nota tesi su cui è stato costruito l’intero paradigma del giudizio crociano:
E quella ribellione e la conseguente guerra civile, torbida nell’origine e caotica nel suo corso, finì come finiscono i tumulti plebei senza capo né coda, con l’abbracciamento generale, per effetto dell’agitarsi a vuoto e della stanchezza, lasciando solo nei governanti una grande paura della plebe napoletana e una grande cura a tenerla buona: dell’idea originaria, germinata e coltivata nella mente del Genoino [don Giulio Genoino, collaboratore di Masaniello], nessuno si ricordò più e non fu più ripresentata e riproposta mai (p. 60).
Ma già poche righe dopo, tuttavia, Croce si interroga sul mito e sulla fortuna di Masaniello, e nel capitolo dedicato al viceregno ritorna sulla rivolta del 1647-48 mettendo soprattutto in evidenza come le cose, dopo la repressione del tumulto, non furono più come prima nel Regno di Napoli: il «tracollo del baronaggio napoletano», la considerazione della «forza della plebe e dei comuni», la revisione della politica finanziaria, la restaurazione e la nuova politica del viceré Iñigo Vélez de Guevara, conte di Oñate, sarebbero state impensabili senza i moti del 1647-48. Su questi temi, la storiografia successiva ha fornito ricostruzioni che hanno arricchito, integrato e in parte rivisto i giudizi crociani, confermandone comunque le linee generali per quanto riguarda la contraddittorietà delle posizioni interne al movimento dei rivoltosi, le cause della sconfitta della rivolta e il carattere di spartiacque che l’episodio rivestì per la futura storia del Regno di Napoli.
Per Croce, comunque, non vi erano dubbi che il risveglio civile e politico del Regno di Napoli non fosse opera dei moti del 1647-48, ma dei fermenti culturali degli ultimi decenni del Seicento. Quest’ultimo, tuttavia, restava per il filosofo il secolo dei giudizi preformati, il secolo di una letteratura che non tentava mai di «mettere in armonia le premesse con la conclusione o la conclusione con le premesse» (p. 204), che non approfondiva i fatti osservati. Napoli aveva prodotto più filosofi e meno pensatori politici: e, per giunta, Giordano Bruno, Bernardino Telesio, Tommaso Campanella avevano avuto seguaci e successori non nel Regno, ma fuori d’Italia. Inoltre anche la «nuova cultura» non si era configurata come «nuova religione civile», capace di creare una nazione. E, a conclusione della lettura del capitolo, se ne comprendeva ancor meglio e più in profondità il senso del titolo. “Il viceregno e la mancanza di vita politica nazionale” poteva così apparire una vera e propria endiadi. Ma un’endiadi inevitabile, necessaria se, come scriveva Croce nel capitolo conclusivo su “La fine del regno di Napoli”,
l’unione con la Spagna, alla fine del secolo decimoquinto, fu pur necessaria a far cessare nell’Italia meridionale l’anarchia baronale, le perpetue guerre di pretendenti e l’imminente pericolo di andare in preda ai barbari ossia ai turchi, e produsse il suo bene; analogamente necessaria fu, nel 1860, la dissoluzione del regno di Napoli, unico mezzo per conseguire una più larga e alacre vita nazionale, e per dare migliore avviamento agli stessi problemi che travagliavano l’Italia del mezzogiorno (pp. 332-33).
L’unificazione della nostra penisola fu una scelta inevitabile e positiva per il Mezzogiorno d’Italia: perché rappresentò la realizzazione di un obiettivo perseguito con determinazione e passione dalle più avanzate élites intellettuali che vedevano, già dal primo Ottocento, nell’unificazione del Paese l’unica via per costruire la patria sul fondamento della libertà; positiva perché attraverso l’integrazione nazionale il Mezzogiorno partecipò a pieno titolo al lungo e complesso processo di sviluppo dell’Europa.
Era ben presente a Croce, oltre l’analogia, la differenza sostanziale tra l’unione con la Spagna e la dissoluzione del Regno di Napoli nel 1860. La prima seguì alla perduta indipendenza, alla fine del Quattrocento, del Regno napoletano, che fu favorito nella formazione delle basi e nello sviluppo statuali, protetto militarmente contro la minaccia turca nel Mediterraneo, proprio perché integrato nella più potente formazione politica del mondo, l’impero spagnolo. La dissoluzione del Regno nel 1860 fu un’altra congiuntura necessaria. Anche in questo caso, nella visione di Croce, si trattò di una dialettica fra perdita e integrazione. Ma il saldo tra i costi e i benefici fu decisamente a favore dei secondi. Grazie all’unificazione, il Mezzogiorno non solo conquistò la possibilità di partecipare a una più larga e alacre vita nazionale, ma imboccò anche la via maestra per avviare a superamento i suoi problemi storici.
«Gli incunaboli della nuova cultura risalgono in Napoli alla seconda metà del seicento» (p. 211). Con queste parole Croce apre il capitolo dedicato alla riconquistata indipendenza del Regno con Carlo III di Borbone e al rinnovamento dei Lumi. Ma subito avverte l’esigenza di ribadire l’oggetto e lo scopo dell’opera: la ricerca delle origini della tradizione politica nell’Italia del Mezzogiorno. E proprio in relazione a quella ricerca sottolinea i segnali di novità che si esprimono nella cultura filosofica e scientifica nel tardo Seicento con Tommaso Cornelio, Giuseppe Valletta, Francesco D’Andrea, Leonardo Di Capua, per ricordare solo alcuni nomi. È a questo livello che si misura il rinnovamento: il ceto intellettuale, interpretando i valori espressi dalla nuova cultura, cerca di riempire il vuoto di una coscienza nazionale, che sono stati incapaci di esprimere sia la nobiltà feudale, ceto dominante e non governante, sia la monarchia «che non poté mai convertirsi in organo di coscienza nazionale» (p. 211).
Il filosofo rileva gli elementi di forza e quelli di debolezza dell’Illuminismo. Tra gli elementi di forza, il principio della Ragione, che spinge verso l’osservazione naturalistica ed esercita giudizi e controlli rigorosi sulla realtà di fatto. Tra gli elementi di debolezza, il dualismo di fatto e ragione e il rapporto quasi causale tra i due livelli, lo «sprezzante pessimismo verso il passato» e «il più roseo e entusiastico ottimismo verso il presente e il futuro» (p. 221): vale a dire, la visione antistoricistica della realtà. La nazione, che viene formandosi anche grazie agli intellettuali illuministi, non era «la popolazione del regno nel suo intero, ma una classe rappresentativa e intellettuale, che traeva i suoi componenti soprattutto dal cosiddetto ceto medio» (p. 236). E tuttavia «gli uomini che rifecero se stessi mercé la cultura e il pensiero, crearono a sé stessi una patria, e sono i veri e soli nostri progenitori politici» (p. 271).
Sono gli intellettuali i veri protagonisti del mutamento che si produce a Napoli tra il Sei e il Settecento. Il loro ruolo e peso risaltano ancor di più se si ricorda che sono assai smorzati gli entusiasmi di Croce per la novità politico-istituzionale rappresentata dall’ascesa al trono di Napoli di un «re proprio», Carlo III di Borbone. Si trattò di un’indipendenza elargita:
L’indipendenza si ottenne, ma non per sollevazione o altra asserzione di volontà fatta dai napoletani stessi, sì invece perché largirla piacque a coloro che amministravano il diritto pubblico di Europa, segnatamente a una donna italiana, Elisabetta Farnese, che volle che il suo figliuolo Carlo avesse un regno, e glielo fece acquistare con trattati e conquistare dalle armi di Spagna e difendere poi con l’aiuto delle stesse armi e fornì all’uopo i mezzi finanziari (pp. 243-44).
Dunque l’elemento vivo e fattivo della storia napoletana è la classe intellettuale che viene formandosi soprattutto nell’età dei Lumi:
Lo storico non deve dare il primato, nella sua considerazione, all’elemento negativo, alla massa inerte e pesante e riluttante (che esiste in ogni popolo e nell’Italia meridionale fu forse inertissima, pesantissima e oltre l’ordinario riluttante), ma all’elemento attivo, a quella classe intellettuale che rappresentava la nazione in formazione e in germe, e sol essa era veramente la nazione: a quella classe che validamente concorse all’opera rivoluzionario-riformatrice dei re napoleonici, e che si sentì anche in diritto di condannare all’abominio la memoria di un [Orazio] Nelson, venuto a proteggere quanto tra noi era di vecchio e di pessimo, e a soffocare nel sangue quanto vi era sorto di nobile e generoso (pp. 280-81).
Croce scorge il filo di continuità che lega gli «illuministi del monarcato assoluto» ai «giacobini» e riprende il giudizio di Vincenzo Cuoco sui repubblicani del 1799, la teoria dei «due popoli», l’illusione dell’alleanza tra intellettuali e Paese, ma, al tempo stesso, sottolinea l’inevitabilità della rivoluzione del 1799 perché la monarchia borbonica era stata «incapace di fondersi con la civiltà moderna» (p. 297) e aveva lacerato il rapporto con gli intellettuali. Da allora poté contare solo sul sostegno plebeo e su alleanze straniere. Il decennio napoleonico rappresentò la fine del Medioevo, l’ascesa della borghesia al governo del Regno e il deciso ingresso di Napoli nell’Europa. Con Gioacchino Murat, «re nazionale» per la sua capacità di rappresentare gli interessi della nazione napoletana e per il suo progetto, sia pur velleitario e irrealizzabile, di unificazione italiana, il Regno espresse il desiderio di libertà costituzionale e di istituzioni rappresentative. E la rivoluzione carbonara del 1820 fu «lo strascico e la chiusura della stagione murattiana» (p. 310). In essa mancò
lo spirito di una nuova generazione: coloro che la guidarono e la maneggiarono erano uomini maturi, che avevano cospirato tra il 1792 e il 1799, partecipato alla repubblica del ’99, guerreggiato e amministrato nel decennio e ora procuravano di mantenere quanto s’era acquistato non solo dal proprio paese, ma dalle proprie persone (p. 312).
Quanto al rapporto tra Mezzogiorno e Risorgimento, il giudizio di Croce è chiaro e impietoso: l’Italia meridionale non possedeva «la forza, l’autorità e la capacità di dirigere l’opera dell’unificazione» (p. 323) sia per le sue condizioni economico-sociali, sia per la sua posizione geografica, sia per la sua storia stessa. E da ultimo perché era la stessa monarchia borbonica a non poter favorire il movimento nazionale italiano
se non quando fosse stata presa dalla vertigine del cupio dissolvi; e perciò organicamente essa era un ostacolo pei patrioti e unificatori e unitari italiani e, poiché la linea della storia andava in questo senso […], la condanna della monarchia napoletana dei Borboni era una condanna politica; né le sue buone opere di altra natura avrebbero potuto mai salvarla (p. 327).
E il destino dei liberali di Napoli era quello di costituire sempre, anche nel 1848, una minoranza.
Il capitolo si chiude con una palese contraddizione. La classe intellettuale, «che fu la sola classe politica del Mezzogiorno d’Italia», e che aveva costituito l’unica spinta al rinnovamento del Regno, compì il suo ultimo atto politico: sacrificò la sua stessa identità nazionale «e poiché non era possibile far che l’Italia meridionale entrasse energicamente da sola nella nuova via nazionale», rinunziò «senza rimpianto» al Regno di Napoli, «il più antico e vasto stato d’Italia», e promosse il suo ingresso nella penisola unificata (p. 330). È importante segnalare il nodo non sciolto di una nazione, quella napoletana, che viene formandosi, secondo Croce, un secolo e mezzo prima dell’Unità grazie al suo ceto intellettuale, ma che, appena varcata la soglia del suo stato nascente, svanisce, si annulla quasi nella più grande realtà nazionale italiana. Il processo non fu indolore, non fu «senza rimpianto», come crede Croce: oltre al costo di una guerra civile tra unitari e legittimisti, lasciò una moltitudine di delusi tra chi aveva coltivato il sogno della doppia patria, quella napoletana e quella italiana, e una questione, quella meridionale, che ancora oggi è un problema aperto.
Nelle “Considerazioni finali” che concludono l’opera, Croce affronta alcune questioni, che più volte hanno trovato spazio nel testo, ma che ora sono organicamente trattate.
La prima è quella sulla «decadenza italiana». Apparentemente, Croce fa suo – con le riserve già espresse – il giudizio di De Sanctis che identifica nel Cinquecento e nel Seicento il periodo in cui la penisola si allontana dal solco della più avanzata civiltà europea. Distingue poi tre Italie: la prima, legata alla civiltà romana; la seconda, che dalla nascita dei Comuni fino al tardo Rinascimento «illuminò il mondo»; la terza, che coincide con la storia degli ultimi due secoli. Il Mezzogiorno restò pressoché estraneo alla seconda Italia: il Regno di Napoli, fin dalla sua nascita, non ebbe, e mai riuscì ad acquistarlo, un proprio principio di vita, e si caratterizzò quasi per essere «una storia che non è storia, un processo che non è processo». Nella vita bisecolare della terza Italia Napoli entrò invece a pieno titolo, anzi «precedette sovente le altre parti d’Italia, così all’inizio dell’età del razionalismo e delle riforme come in quella delle rivoluzioni, coi suoi cartesiani e illuministi, coi suoi giacobini e patrioti» (pp. 335-36). Ma questo processo di rigenerazione mentale, sociale e politica fu opera di minoranze e non ebbe riscontro nel complesso del Paese.
La seconda questione riguarda il senso dell’unità d’Italia. La storia del Regno di Napoli, in quanto «storia di una formazione politica», finisce «con l’annessione dell’Italia meridionale al resto d’Italia» (p. 344). Solo in questo luogo è adottato il termine «annessione» per indicare l’integrazione politica del Mezzogiorno nell’Italia unita: e non casualmente. La spiegazione è poco oltre, allorché Croce spiega che in un’unione si hanno sempre vantaggi e perdite reciproche; ma, al tempo stesso, in una logica di scambio tra mezzi e fini, quasi a voler giustificare l’atto di forza implicito nel concetto di annessione, egli scrive che
il guadagno totale (e non si intende solo di quello economico nel senso empirico e quantitativo, ma anche di guadagno spirituale e qualitativo) dev’essere assai superiore alle perdite particolari, se l’unione si è formata e se, invece di dissolversi o di allentarsi, dura e si rinsalda (pp. 345-46).
In quest’ottica si spiega anche la posizione di Croce sulla questione meridionale, assolutamente diversa, come ha notato Giuseppe Galasso, da quella del meridionalismo classico. Anche se il filosofo vi fa esplicito riferimento come a una questione legata alla storia e alla politica della nuova Italia, egli ritiene che essa sia completamente risolta nel problema storico-politico dell’Italia contemporanea:
La risoluzione crociana del meridionalismo in politica generale del paese si iscrive totalmente in una visione nazionale che prescinde affatto, in via di principio, dall’assunzione di problemi regionali, sia pure della dimensione di quelli meridionali, come metro della politica nazionale (Galasso 1990, 2002, p. 514).
Mezzogiorno vuol dire per Croce spazio storico, non spazio geografico materialmente e naturalisticamente determinato.
Il che ci introduce nel cuore della terza questione: il rapporto tra storia e geografia. Croce vuole confutare un errore: la sostituzione della storia degli uomini con la storia della natura, del movimento perenne della storia con l’immobilità. La storia non può essere un «fenomeno naturale», ma un «fenomeno morale», «non si spiega mercé una causa unica, quale che questa sia, e neppure mercé una molteplicità di cause, ma solo con ragioni interne, come sforzo spirituale» (Storia del Regno di Napoli, cit., p. 356). Giustino Fortunato, il quale sosteneva l’incidenza delle condizioni fisiche e naturali del territorio e della sua povertà sull’evoluzione storica del Mezzogiorno, lamentava in una lettera a Umberto Zanotti Bianco il fatto che Croce, come Gentile, non credesse alla geografia (Galasso 1990, 2002, p. 530). Da un lato Fortunato imputava a Croce un «ottimismo dottrinario»; dall’altro era la ferma convinzione crociana che «la storia autentica fosse quella della coscienza civile e morale, la storia etico-politica, e che ai fini di essa la storia di condizioni esterne, di mezzi e di forme fosse solo preparatoria e strumentale» (pp. 533-34).
Infine, la conclusione dell’opera crociana ne riprende e rilancia il tema conduttore: gli «uomini di dottrina e di pensiero» sono stati i soli interpreti della tradizione politica nel Mezzogiorno e coloro che prepararono la sua unione con l’Italia. «Benedetta sia sempre la loro memoria e si rinnovi perpetua in noi l’efficacia del loro esempio» (Storia del Regno di Napoli, cit., p. 360).
Nella seconda metà del Novecento la storiografia italiana ha discusso sia l’interpretazione complessiva della storia del Mezzogiorno proposta da Croce nella Storia del Regno di Napoli, sia ricostruzioni e giudizi relativi a specifiche fasi di quella storia.
La prima riserva critica di fondo ha riguardato la presunta assenza nell’opera crociana dell’attenzione ai fattori economici e ai rapporti sociali di produzione, derivante dal sostanziale idealismo e dal primato della concezione etico-politica. Prima Federico Chabod (1952, p. 502) e successivamente Galasso (1963, 19752, p. 24) hanno rilevato come questa critica non colga nel segno, perché i riferimenti alla storia economica e sociale del Mezzogiorno sono frequenti e tenuti nella giusta considerazione da Croce. Chabod (1952, p. 509) ha scritto che «la Storia del Regno di Napoli è la perfetta traduzione concreta dei principi esposti nel saggio sulla Storia etico-politica». Proprio l’unità e linearità della narrazione crociana hanno suscitato alcune perplessità e riserve. Tra queste, le più significative sono tre: l’assenza dal quadro crociano di una grande parte della storia meridionale; l’isolamento e l’autosufficienza della stessa parte assunta da Croce come centro del suo racconto; l’ethos del ceto intellettuale che non riesce a farsi kràtos, forza e consenso per raccogliere intorno a sé l’anima del Paese (Galasso 1963, 19752, pp. 26-27).
Il nodo centrale, che è più volte emerso nelle pagine precedenti, riguarda l’interpretazione crociana della nazione napoletana e la contraddizione, il vero e proprio paradosso, che ne caratterizza sviluppi ed esito finale. La nazione napoletana coincide, come più volte evidenziato, con l’élite intellettuale del Regno. Quando il progresso di questa nazione si fa più rapido, sulla base della consolidata realtà della classe intellettuale, l’attenzione di Croce si sposta dalla storia della nazione napoletana alla tradizione politica propria dell’Italia meridionale, la nazione napoletana si converte nel partito dei patrioti italiani del 1848. Croce non tiene conto della «complessa, pluridimensionale e contraddittoria articolazione nazionale del popolo napoletano» (Galasso 1963, 19752, p. 28). Certo nel Mezzogiorno non matura una nazione come comunità etico-politica con valori comuni, condivisi, come ordine istituzionale e unità di obiettivi, ma vive una nazione tenuta insieme dalla forza delle cose, da catalizzatori stranieri, con scarsa mediazione politica. Si tratta dunque di una vera storia nazionale, con una sua unità politica e civile che si snoda lungo tutto l’arco della vicenda del Regno, dai Normanni all’Unità italiana. Dunque questa struttura morale unitaria nel Mezzogiorno, in corso già dai primi tempi della monarchia normanna, costituisce un unico problema storico e una sola complessa periodizzazione: è lungo questa linea che viene svolgendosi la più stimolante ricerca recente sul Mezzogiorno preunitario.
F. Chabod, Croce storico, «Rivista storica italiana», 1952, 64, 4, pp. 473-530.
G. Galasso, Considerazioni intorno alla storia del Mezzogiorno d’Italia, «Rivista storica italiana», 1963, 75, 1, pp. 7-52, poi in Mezzogiorno medievale e moderno, Torino 19752, pp. 15-60.
A. Musi, La rivolta di Masaniello nella scena politica barocca, Napoli 1989.
G. Galasso, Croce e lo spirito del suo tempo, Milano 1990, Roma-Bari 2002.
A. Musi, Mezzogiorno spagnolo. La via napoletana allo Stato moderno, Napoli 1991.
Dimenticare Croce? Studi e orientamenti di storia del Mezzogiorno, a cura di A. Musi, Napoli 1991.
A. Musi, Napoli, una capitale e il suo Regno, Milano 2003.
A. Musi, Il feudalesimo nell’Europa moderna, Bologna 2007.
A. Musi, L’impero dei viceré, Bologna 2013.