storia della linguistica italiana
L’Italia può vantare il maggior trattato di linguistica dell’Europa medievale, il De vulgari eloquentia di ➔ Dante Alighieri, scritto in latino per definire i caratteri del volgare illustre, in cui, per giungere al tema squisitamente letterario, suo obiettivo finale (ma l’opera è interrotta al secondo libro), Dante affrontò molte questioni di linguistica e di dialettologia. Per la verità, c’è chi ancora esita a definire linguistica le idee di un autore le cui teorie si ispirano a princìpi diversi dalla glottologia otto-novecentesca; tuttavia, se per linguistica si intende la riflessione sulla lingua, sulle sue funzioni, sulla sua utilità, sulla sua genesi, ai fini di una presa di coscienza delle potenzialità di uno strumento peculiare dell’uomo (in ciò distinto dagli animali bruti), necessario alla vita di relazione e alla cultura, allora, senza dubbio, il De vulgari eloquentia è opera somma di linguistica. In effetti, anche il volume complessivo sulla linguistica in Italia di Ramat, Niederehe & Koerner (1986) prende le mosse di lì.
Purtroppo, però, il De vulgari eloquentia non influì sulla cultura del suo tempo, né in Italia né altrove; anzi ebbe scarsissima diffusione, come dimostra il fatto che ci è giunto attraverso tre soli codici manoscritti, contro le centinaia che hanno tramandato il testo della Commedia. Il De vulgari eloquentia, appena menzionato da ➔ Giovanni Boccaccio, cominciò a essere considerato solo nel Cinquecento, nelle polemiche sulla ➔ questione della lingua, divulgato nella traduzione di ➔ Gian Giorgio Trissino (fatta circolare sotto il nome di Giovanbattista Doria). L’edizione princeps del testo latino fu allestita nel 1577, a Parigi, dal fuoruscito fiorentino Jacopo Corbinelli, ma destò scarso interesse.
Il De vulgari eloquentia si caratterizza per una visione completa dei problemi linguistici, fondata prima di tutto sulla Bibbia, con riferimenti a s. Tommaso, s. Agostino e all’Ars poetica di Orazio. Dante discute dapprima temi quali la comunicazione degli angeli e degli animali: ciò gli è utile per definire la specificità umana del linguaggio, perché angeli e animali, agli estremi opposti, non ne abbisognano. Il linguaggio nacque con Adamo (non con la prima donna, come si potrebbe credere leggendo la Bibbia), che si rivolse per la prima volta a Dio dicendo El (termine ebraico per «Dio»). La lingua adamitica era unica e indivisa. La pluralità dei linguaggi è risultato della confusione babelica, in cui sta l’origine del popolamento del mondo da parte di genti ormai diverse, ceppi etnici divisi per differenza di idioma. Esaurite tali questioni generali, Dante restringe il quadro d’osservazione all’Europa, poi si concentra sull’obiettivo primario della sua indagine, l’Italia, dove si parla il volgare del «sì», di cui riconosce la parentela con francese e provenzale (visibile in parole come dio, cielo, amore, cuore, ecc.). Al latino, per contro, così come nel De regimine principum di Egidio Colonna romano (contemporaneo di Dante), non è attribuito il carattere di lingua naturale: è considerato «grammatica», in quanto dotato di artificialità e inalterabilità (cfr. Mengaldo in Alighieri 1968: LV-LIX).
Per valutare l’originalità del pensiero dantesco sulla lingua, basti il paragone con alcuni capitoli di famose opere come quelle di Isidoro di Siviglia e di Rabano Mauro. Nelle enciclopedie o summae medievali è infatti presente la trattazione, sulla base della Bibbia, dell’origine delle lingue. Isidoro, nel libro IX degli Etymologiarum libri, parla della confusione babelica ed elenca popoli, razze e idiomi, prima di passare alle liste di vocaboli classificati nei vari settori dell’attività umana. La trattazione sfocia nello studio dell’etimologia, la quale fa conoscere non solo l’origine delle parole, ma soprattutto il loro significato recondito: nulla del genere nel trattatello di Dante. Analogo l’impianto del De rerum naturis di Rabano Mauro, dove, nel libro XVI, De linguis gentium, è trattato come in Isidoro il tema delle lingue, a partire dalla confusione babelica. Il quadro dei movimenti di popoli tracciato da Dante è tuttavia molto più mosso, più affascinante, più drammatico. L’episodio della Torre di Babele è rivisitato in maniera personale. Nella confusio linguarum la lingua più rozza tocca a quelli che, come gli architetti, nella costruzione della Torre erano addetti a un’attività più nobile, e la divisione avviene in base al mestiere: scalpellini, architetti, e via di questo passo, attività per attività. Dante raggiunge poi una singolare modernità (con alcune intuizioni folgoranti) nell’esame dei volgari italiani, quando riconosce che le lingue mutano nello spazio e nel tempo, e che l’unità linguistica non si realizza nemmeno in una stessa città, visto che a Bologna gli abitanti di Strada Maggiore parlano in modo diverso dagli abitanti di Borgo San Felice. Quanto alla rappresentazione spaziale del dato linguistico, la valutazione dei volgari italiani (14 le varietà principali individuate da Dante) segue la loro collocazione geografica, alla destra e alla sinistra dell’Appennino, come chi guardi da nord, spalle alle Alpi. Vari riscontri sono possibili per questa descrizione dell’Italia, con autori quali Lucano, Brunetto Latini, Fazio degli Uberti, ma il più interessante è quello con la descrizione di Pomponio Mela (I sec.), nel De chorographia II (suggerito già da Zingarelli 1903). Dante procede mediante caratterizzazioni acute, spesso molto soggettive, non per questo meno efficaci. Pronuncia fra l’altro la condanna delle parlate di confine, come quelle di Trento, Torino e Alessandria, ma esclude ogni valore della parlata di Roma e anche di quella toscana, spregiando l’idioma fiorentino. Il discorso, da descrizione geopolitica dell’Italia (è il primo quadro dell’Italia dialettale che ci sia stato tramandato), volge verso lo sbocco retorico e letterario. A Dante preme infatti stabilire i caratteri della lingua sovraregionale per la poesia di stile elevato, un volgare che non si identifica in alcuna delle parlate italiane, ma trova validi precedenti nell’opera dei poeti della corte di Federico II (➔ Scuola poetica siciliana) e di Guinizelli, un volgare comunque molto diverso da quello ‘misto’ che poi sarebbe stato proprio della Commedia. Ciò spiega, fra l’altro, come mai una parola condannata senza appello nel De vulgari eloquentia, quale il fiorentinismo popolare introcque per «intanto», sia poi usata nel poema (Inf. XX, 130). Lo spostamento del discorso, dai temi relativi ai principi basilari della comunicazione fino al linguaggio poetico, dimostra che linguistica e poetica sono in Dante strettamente legate, e che anzi non gli è possibile immaginare la fondazione di una nuova letteratura in volgare senza risolvere preliminarmente i problemi linguistici. Dunque la linguistica dantesca precede e condiziona la produzione letteraria, obiettivo finale dell’operazione.
Ricorrono molti concetti assolutamente estranei alla linguistica moderna, funzionali alla ricerca dantesca del volgare illustre poetico: così l’idea che le parole siano divisibili in classi, in base al loro carattere, al suono più o meno aspro, e che queste classi predeterminino l’orizzonte dell’impiego (una tale concezione del lessico si ritrova in ➔ Pietro Bembo); così l’idea che l’uso letterario sia la più alta palestra di promozione del volgare (anche questa è una concezione destinata a durare a lungo). Non vanno trascurate le pagine iniziali del trattato, in cui Dante spiega che il volgare è la lingua naturale, necessaria a tutti, anche alle donne e ai bambini. Dante è cosciente della novità della propria impresa: afferma che nessuno ha mai trattato la dottrina della volgare eloquenza, la quale risulta dunque nuova, legata a un implicito progetto di allargamento del pubblico.
Quest’intento è presente già nel Convivio, scritto in toscano (non in latino), in cui il volgare è celebrato come il sole nuovo destinato a splendere al posto del vecchio sole, il latino, destinato invece a tramontare. La fiducia di Dante nella nuova lingua era dunque assoluta, e ciò spiega l’intensità della speculazione teorica in vista del suo sviluppo. La teoria poteva trovare immediata e necessaria applicazione pratica per eliminare le forme di volgare difettose, cioè i volgari impuri, rustici, o per far piazza pulita delle cattive realizzazioni letterarie, come quelle di Cielo d’Alcamo o di Guittone d’Arezzo.
L’isolamento della trattazione dantesca, che rimase priva di interlocutori, fece sì che la linguistica italiana fosse rifondata ex novo dagli umanisti del Quattrocento (➔ Umanesimo e Rinascimento, lingua dell’), su basi diverse da quelle che erano state proprie del De vulgari eloquentia. Il punto fondamentale fu l’origine del volgare dal latino, vista come frutto di un imbarbarimento, di una caduta, e collegata alla crisi della civiltà classica.
In Biondo Flavio, ma anche in Guarino Veronese, Francesco Filelfo, poi in ➔ Leon Battista Alberti, si trovano le radici di quella che possiamo definire la teoria della catastrofe o della corruzione, poi presentata con ampiezza da Pietro Bembo nelle Prose della volgar lingua. Secondo questa teoria, l’italiano si era formato durante la crisi finale dell’impero di Roma, per la mescolanza di idiomi verificatasi a causa del cattivo apprendimento del latino da parte dei barbari giunti in Italia, oltre che per l’influenza negativa delle lingue barbare sui popoli sottomessi. Il volgare, dunque, era il frutto difettoso di eventi traumatici. Si trattava di vedere se e per quale via avrebbe potuto rimontare la china e lavare la macchia della propria nascita.
Sull’origine del volgare si rifletté nel 1435, in occasione di un dibattito svoltosi a Firenze nell’anticamera di papa Eugenio IV tra il Biondo e Leonardo Bruni (cfr. Tavoni 1984). Per Biondo, l’imbarbarimento del latino aveva come causa la conquista di Roma da parte di Goti e Vandali. Dopo la venuta di questi barbari, tutti (omnes) erano caduti nella condizione di parlanti inquinati e si era sviluppata una lingua mixta. Le invasioni barbariche, dunque, assumevano la funzione che nella teoria di Dante era stata propria della confusione babelica, perché da esse dipendeva il principio della variabilità, rispetto alla stabilità del latino, che era stato lingua pura. La variabilità e la mescolanza erano assunte come principi negativi, come già in Dante, ma diversa era la spiegazione del mutamento, ora attribuito a un repentino rivolgimento del quadro storico, non a punizione divina. L’orizzonte di riferimento si era del resto ristretto al latino e al volgare da esso derivato, escludendo le spiegazioni universalistiche di Dante. Più tardi, nell’Italia illustrata, lo stesso Biondo mutò in parte opinione, attribuendo la causa della trasformazione linguistica non a Goti e Vandali, ma ai Longobardi (cfr. Costa 1977). L’interesse di Biondo non andava tuttavia al volgare di per sé, quanto al latino e alla caduta di Roma. Bruni invece vedeva l’origine del volgare nel livello linguistico basso del latino popolare, allontanandosi dunque da quella che abbiamo definito la teoria della catastrofe, la quale richiede un intervento esterno dirompente. Le due teorie opposte, di Biondo e di Bruni, restarono in qualche modo una costante nel dibattito durato secoli sull’origine della lingua volgare. I due modelli sono di fatto due archetipi: Bembo, Sperone Speroni e molti altri attribuirono il passaggio al volgare a una rottura traumatica, talora diluendo il processo in fasi successive e ammettendo così una certa gradualità al cambiamento (come fece Ludovico Castelvetro); però si ripresentarono, seppure in posizione minoritaria, teorie che attribuivano la trasformazione a tendenze latenti già nel latino popolare, anche prima che le invasioni barbariche potessero esercitare la loro influenza negativa. Quest’ultima tesi si ritrova in Celso Cittadini e più tardi in Scipione Maffei. Nel contempo, l’idea di corruzione della lingua venne rivista in nome del principio aristotelico della generazione, che ➔ Benedetto Varchi, nell’Ercolano, applicò alla trasformazione linguistica. Del resto Varchi non guardò più alla varietà linguistica come a una condanna o a un difetto, ma come a una caratteristica naturale e positiva.
L’origine latina del volgare fu contestata solo dal fiorentino Pierfrancesco Giambullari, nel Gello. Questi negava che il volgare fosse un latino corrotto, e vi riconosceva invece una lingua composta da etrusco, greco, latino, tedesco, francese e altro ancora. Il concetto di lingua mista perdeva così il carattere negativo che gli era stato attribuito dagli umanisti. La tesi di Giambullari era indubbiamente isolata e stravagante, soprattutto per il riferimento all’arameo, che stava (a suo parere) dietro l’etrusco (data la supposta provenienza degli etruschi dalla Palestina). Però questa teoria aveva anche potenzialità notevoli: allentava il rapporto di dipendenza tra volgare e latino, sminuiva l’importanza delle invasioni barbariche, rimuoveva l’idea umanistica di caduta, spostava indietro nel tempo la formazione del volgare, lo radicava nel contesto dell’area geografica toscana, per il richiamo agli etruschi. La teoria etrusco-aramea non fu accolta nemmeno a Firenze, e non vi prestarono fede noti intellettuali locali quali Vincenzio Borghini. Si trovano però tracce del riferimento alle antichità etrusche, in forma più moderata, in altri autori non fiorentini, per es. nel senese Claudio Tolomei (nel Cesano), secondo il quale il volgare si doveva alle incursioni di Unni, Goti e Longobardi che avevano corrotto la lingua parlata in Italia, ma il toscano era anche nato da una corruzione più antica, prodottasi nel contatto tra il latino e l’etrusco.
Questa è sembrata un’anticipazione dei concetti moderni di ➔ sostrato e superstrato, ma non si deve calcare troppo sulle anticipazioni, perché altrimenti si rischia di interpretare le teorie linguistiche del passato sulla base degli esiti raggiunti secoli dopo. Meglio, dunque, non farsi guidare dal finalismo, e interpretare i dibattiti di ogni epoca seguendone la logica interna. Girolamo Muzio, per es., svolse una tesi che rovesciava il senso della vecchia teoria della catastrofe: se la lingua era nata dalla mescolanza del latino con la parlata dei Longobardi, ciò significava che il volgare italiano veniva dai luoghi in cui questi si erano stabiliti, cioè dal Nord Italia. I toscani avevano abbellito la lingua, ma il luogo di origine era altrove. Si guardò con maggior favore alle tesi di Muzio nelle regioni italiane che avevano un complesso di inferiorità rispetto alla Toscana, per es. in Piemonte, dove Anastasio Germonio, un avversario del volgare, nelle Pomeridianae sessiones (1579), pur combattendo l’italiano, entrò nella questione della lingua, sottolineando che il volgare non poteva dirsi fiorentino, in quanto derivava ex omni Italia («da tutta l’Italia»), visto che i barbari erano stati ovunque. Le discussioni storico-linguistiche, dunque, si intrecciarono con la questione della lingua ed entrarono tra gli elementi della polemica pro o contro il toscano. Varchi, per es., nell’Ercolano, esaminò le tesi di Muzio, rivendicando alla Toscana, con un ragionamento in verità assai debole e capzioso, una dose di barbarie analoga a quella delle regioni del Nord (cfr. Marazzini 1989: 31-34). Le discussioni sulla questione della lingua nascondono dunque sovente questioni linguistiche funzionali alla discussione in corso; non si tratta soltanto di argomenti relativi all’origine del volgare, anche se questo è uno dei temi centrali. In altri casi emerse l’attenzione al parlato (così nell’Ercolano di Varchi), o la classificazione delle parole in base alle loro qualità sonore (così in Bembo, ma un’idea del genere, come si è visto, era già in Dante). Nelle discussioni tra Varchi e Castelvetro fu inoltre sviluppata (in polemica reciproca) una vera e propria classificazione tipologica, sulla base di una serie di caratteristiche tra le quali l’origine dal latino non aveva peso: contava piuttosto che le lingue fossero vive o morte, nobili o non nobili, analoghe o diverse tra loro, con o senza tradizione letteraria, autoctone o venute da fuori, straniere o locali, naturali o artificiali (cfr. Marazzini 1997).
Quanto allo studio dello sviluppo storico, Celso Cittadini fu attento all’evoluzione del latino e per questo riesumò le età della lingua latina che trovava in Isidoro di Siviglia, quindi elaborò una teoria secondo la quale alcuni elementi del volgare erano già presenti nei documenti latini arcaici. Le invasioni barbariche, in questo caso, apparivano poco influenti ai fini del cambiamento, che trovava spiegazione nella dinamica del latino considerata di per sé stessa. Cittadini studiò le fonti non letterarie, convinto che i documenti epigrafici potessero dare maggiori garanzie, e fossero assai utili per la storia della lingua.
Nel Seicento fu realizzato il primo dizionario etimologico dell’italiano, frutto del lavoro di Gilles Ménage, che aveva già creato uno strumento analogo per il francese (➔ lessicografia). Il successo dello studioso francese tagliò in parte la strada alla ricerca etimologica condotta in Italia, che pure ebbe esiti interessanti, con Angelo Monosini, con Ascanio Persio e soprattutto con Ottavio Ferrari, a sua volta autore di un dizionario etimologico dell’italiano compilato in latino (Origines linguae italicae, Padova 1676). Ma a Firenze, la città che, con la pubblicazione del Vocabolario degli Accademici della Crusca del 1612 (➔ accademie nella storia della lingua), aveva raggiunto i massimi risultati nella lessicografia, gli studi etimologici coltivati da Carlo Dati e da Francesco Redi non ebbero sbocco autonomo, proprio a causa del successo di Ménage. Le indagini etimologiche trovarono un valido continuatore, nel XVIII secolo, in ➔ Ludovico Antonio Muratori, nella XXXIII dissertazione delle Antiquitates Italicae Medii Aevi, dedicata a De origine italicarum vocum. A differenza di Maffei, Muratori riconosceva la massima importanza, per la formazione del volgare, all’elemento germanico.
Il tema dell’origine della lingua italiana fu dibattuto nel Settecento in saggi di alta qualità, fra i quali eccelle un’altra dissertazione delle Antiquitates muratoriane, la XXXII, De origine linguae italicae (➔ Settecento, lingua del). Le tesi di Maffei, invece, furono esposte ne La Verona illustrata. Vanno anche considerati i saggi di Giusto Fontanini, nella prefazione alla terza edizione (1726) della Biblioteca dell’eloquenza italiana, libro che è in sostanza una bibliografia di scrittori, ma nella prima parte «tratta dell’origine, e del processo dell’Italiana favella» (come avverte il frontespizio). Fontanini usò l’appellativo di romanze per le lingue italiana, spagnola e francese, e, al fine di studiare l’origine dell’italiano, auspicò l’esame delle carte alto-medievali, ciò che nessuno fece meglio di Muratori. La filologia, coltivata da studiosi di storia, si fece alleata della linguistica. Si prestò allora molta attenzione ai Giuramenti di Strasburgo (primo documento del francese, allora interpretato come lingua romana). Muratori cercò analoghi documenti per l’area italiana, e infatti riconobbe le tracce del volgare ‘parlato’ nel latino traballante delle carte notarili, ma gli sfuggì il Placito capuano, che pure era già edito (l’aveva pubblicato nel 1733-1734 il padre E. Gattola, riconoscendovi i primi balbettamenti della lingua italiana). Si allargava dunque l’interesse filologico e critico per i più antichi documenti, anche per quelli letterari: nel 1777 fu pubblicato il Ritmo laurenziano, nel 1791 il Ritmo cassinese (➔ origini, lingua delle). Ireneo Affò diede spazio alla poesia volgare di ➔ san Francesco d’Assisi, nel quadro della caccia agli antichi documenti poetici dell’italiano, in una gara in cui si sforzava di andare il più indietro possibile per attenuare il primato dei poeti provenzali, riconosciuto a suo tempo da Bembo e poi da Muratori e da Giovan Mario Crescimbeni. Si manifestava dunque un interesse per la lingua delle origini da parte dei cultori di studi letterari, dopo che le maggiori acquisizioni erano venute dagli storici, quali Muratori, Maffei e anche Saverio Bettinelli: nel Risorgimento d’Italia dopo il Mille (1775) Bettinelli inserì una monografia sulla Lingua, con un abbozzo di classificazione dei dialetti italiani in quattro sezioni, in base al loro ‘genio’ ispiratore. Sui dialetti si soffermarono vari studiosi nel corso dell’Ottocento: Carlo Denina nella Clef des langues (Berlino 1804), il tedesco Karl Ludwig Fernow (1808), autore anche di una grammatica italiana in tedesco, il geografo Adriano Balbi e poi Francesco Cherubini (che seguì il tedesco Johann Christoph Adelung), Bernardino Biondelli e infine ➔ Graziadio Isaia Ascoli, fondatore della moderna dialettologia. Quanto agli esiti settecenteschi, va rilevato il limite insito nella considerazione della storia linguistica italiana da parte dei letterati. Mentre per Dante e Bembo lo studio della lingua era preliminare alla fondazione della letteratura, condizionava la scelta del modello retorico a cui ci si doveva attenere e aveva dunque valore fondante, negli autori delle storie letterarie, come Crescimbeni, Francesco Saverio Quadrio, Gerolamo Tiraboschi, si realizzò una marginalizzazione della materia linguistica. Per Tiraboschi, addirittura, l’unità del quadro letterario non è garantita dalla lingua, ma dallo spazio geografico, tanto è vero che il primo volume della sua vasta opera tratta degli autori greci, latini e persino etruschi.
Il tema della lingua era presente anche negli studi relativi alle cosiddette origini italiche, che ebbero largo corso tra Settecento e Ottocento con eruditi quali Mario Guarnacci (Origini italiche, 1767) e Stanislao Bardetti (Della lingua dei primi abitatori d’Italia, 1772). Nelle loro tesi stravaganti venne attribuita speciale funzione ad alcuni popoli italici più o meno mitizzati. Guarnacci assegnava all’etrusco la funzione di lingua-madre, un po’ come aveva fatto Giambullari, e infatti lo immaginava derivato dall’ebraico. Bardetti invece pretendeva che il latino fosse derivato dalla lingua «ligustica circumpadana» degli aborigeni.
Una posizione particolare spetta alla teoria linguistica di ➔ Giambattista Vico, incrocio tra gli interessi letterari e l’attenzione per il remoto passato dell’umanità. Si tratta di una teoria controversa, perché è stata valutata molto positivamente sia al tempo dell’idealismo crociano sia anche in seguito, mentre Mounin (1968: 128) ne ha sottolineato piuttosto i limiti, rilevandone l’arretratezza e la marginalità (cfr. Simone 1990: 358-363). Vico si differenzia radicalmente dalla filologia positiva di Maffei e Muratori, e applica la nozione di lingua a sistemi di segni estranei al linguaggio articolato: ai miti, alla storia biblica, alle favole antiche, alle simbologie araldiche e numismatiche. La filosofia della storia di Vico svolge la tesi delle tre età, degli Dei, degli Eroi e degli Uomini, ognuna caratterizzata da un diverso linguaggio, ma il linguaggio articolato riguarda solo la terza di queste età, mentre le prime due si esprimono in sostanza attraverso un sistema semiotico non verbale (azioni, gesti, simboli). Vico si interessa anche dei geroglifici, non solo quelli egiziani ma anche quelli messicani e cinesi (tale ritiene infatti la scrittura cinese). La curiosità per le lingue esotiche – utilizzate come elemento di riflessione, per quello che di esse si conosceva allora – è caratteristica della cultura del Settecento: la si ritrova nelle relazioni e negli studi dei missionari, e ve n’è un cenno persino in un filosofo razionalista come ➔ Melchiorre Cesarotti, che fa riferimento alla lingua degli indiani d’America, divisa in modo tale da non costituire la lingua di un popolo, ma con in comune «molto linguaggio di azione» (il medesimo linguaggio che Vico aveva attribuito all’età degli Eroi). Siamo qui al confine tra la linguistica e la filosofia.
Nel Settecento occupa una posizione di rilievo un altro testo ‘filosofico’ di marca razionalista e sensista, ben diverso da quello di Vico, il Saggio sulla filosofia delle lingue appunto di Cesarotti, la cui speculazione trova un punto di forza nella distinzione tra «genio grammaticale» e «genio retorico», cioè tra gli elementi che oggi diremmo strutturali della lingua (i quali non possono mutare) e quelli che invece si adattano alle trasformazioni senza danno per il sistema. Il contributo più notevole e più noto di Cesarotti riguarda dunque il funzionamento e la natura della lingua, con l’applicazione di queste idee al problema della purezza dell’italiano. Meno noto è invece il consenso che egli diede alle teorie del Traité de la formation méchanique des langues (1765) di Charles De Brosses, apprezzato e utilizzato anche da Denina. La Clef des langues di Denina è a sua volta un libro importante del paleocomparatismo, uno dei pochi che entri a buon diritto tra gli studi europei di tale genere, anteriori alla nascita della linguistica scientifica comparativa. L’opera di Denina si svolse però prevalentemente presso l’Accademia di Berlino. È comunque utile allargare il quadro all’attività degli italiani all’estero e agli stranieri che operarono in Italia: lo spagnolo Lorenzo Hervás y Panduro pubblicò in Romagna, dove si era rifugiato dopo la cacciata dei gesuiti dalla Spagna, la prima stesura del Catalogo delle lingue conosciute (1784), in cui confluiva il patrimonio delle conoscenze dei missionari, patrimonio depositato anche nelle pubblicazioni della tipografia romana di Propaganda Fide e negli studi usciti in Italia di fra’ Paolino da San Bartolomeo (il carmelitano austriaco J.Ph. Wessdin). Fra’ Paolino fu pioniere nello studio del sanscrito e ne riconobbe la parentela con le lingue germaniche e con il latino. Siamo ai margini della linguistica italiana, trattandosi di autori i quali si occupavano di lingue lontane ed esotiche, ma la conoscenza di queste forme di paleocomparatismo evita il rischio di un esclusivo riferimento al solo William Jones e all’Accademia di Calcutta (giustamente Morpurgo Davies 1996: 103 ha parlato a questo proposito di una «agiografia tradizionale»).
Anche ➔ Giacomo Leopardi ricavò alcune notizie sul sanscrito da un giornale di Cesena che faceva riferimento proprio a Paolino da San Bartolomeo, e le appuntò nello Zibaldone, libro ricchissimo di notazioni linguistiche sull’italiano, sul francese, sul latino, sul greco (cfr. Gensini 1984). Vi si trovano osservazioni di grande importanza sulla distinzione tra parole e termini, sugli ➔ europeismi lessicali e su molti altri argomenti relativi all’italiano, alle lingue moderne, alle lingue antiche. La cultura linguistica di Leopardi era comunque frutto di una visione personale, non sempre aggiornata. Nulla egli conobbe della nuova linguistica europea dei fratelli August Wilhelm e Friedrich Schlegel. Inoltre bisogna tener conto del fatto che lo Zibaldone fu pubblicato solamente nel 1898-1900, e dunque non poté incidere sui contemporanei, che nulla ne seppero.
All’inizio del XIX secolo la discussione linguistica fu segnata dal dibattito sulla lessicografia legato alla Proposta di alcune correzioni ed aggiunte al Vocabolario della Crusca, la serie di volumi ideata e diretta da ➔ Vincenzo Monti per combattere le idee puristiche e cruscanti nella questione della lingua. La Proposta offrì spazio anche alle origini dell’italiano.
Se ne fece interprete Raffaello Perticari in due saggi del 1817 e del 1820. Per quanto il valore della filologia perticariana non sia molto grande, i suoi studi esercitarono una forte influenza. Del resto la Proposta di Monti fu al centro della riflessione linguistica, come si ricava anche dai periodici del tempo: ne parlarono i romantici (Ludovico di Breme, sul Conciliatore) e i classicisti (nella Biblioteca italiana). Le opinioni di Perticari divennero patrimonio condiviso: ne ritroviamo l’eco in ➔ Ugo Foscolo (autore delle Epoche della lingua italiana) e in Leopardi. Perticari aveva posto al centro della riflessione il De vulgari eloquentia dantesco, che acquisì allora una centralità ancora maggiore di quanta ne avesse avuta nelle dispute cinquecentesche.
Secondo Perticari, la lingua rustica romana, corrispettivo plebeo del latino ‘alto’, nata con le invasioni barbariche, si era trasformata nella lingua romana o romanza, sostanzialmente rappresentata dal testo dei Giuramenti di Strasburgo. La lingua romana era stata omogenea dovunque, e solo in seguito si era suddivisa in limosino, provenzale, italico, vallone, catalano. Il concetto di lingua romana comune non era nuovo, essendo già presente in Charles Dufresne Du Cange e in Fontanini. Perticari si rifaceva dunque a una vecchia tradizione consolidata. Nel secondo saggio, quello del 1820, ebbe però modo di trarre frutto dal lavoro del francese François-Just-Marie Raynou-ard, uno dei fondatori della romanistica, autore dello Choix des poésies des troubadours. Raynouard aveva identificato il romano comune nel provenzale. Perticari, invece, intendeva mostrarne la somiglianza con le antiche testimonianze di volgare in area italiana, allo scopo di sostenere l’anteriorità della lingua comune in Italia.
A parte questa gara ‘nazionale’, i due studiosi concordavano nell’immaginare che fosse esistita una lingua comune intermedia, da collocare tra il latino popolare e le divisioni moderne dell’area romanza. La tesi di Perticari sulla lingua comune fu quindi condivisa da studiosi importanti, come il citato Raynouard, e non ebbe veri oppositori fino alla condanna da parte di August Wilhelm Schlegel, che recensì negativamente lo Choix nel 1818. Le critiche a Perticari avanzate da ➔ Niccolò Tommaseo nel Perticari confutato da Dante (1825) sono di altro tono: il tema propriamente storico non viene nemmeno affrontato, e il dibattito, condotto brillantemente per aforismi, riconduce alla questione della lingua, in quanto verte sul ruolo del toscano e sui pregi della lingua parlata e popolare. Il nome di Schlegel, menzionato per la critica alla teoria della lingua romana intermedia, invita a considerare lo sviluppo della nuova linguistica scientifica e comparativa (alla quale Tommaseo rimase sempre estraneo, così come ➔ Alessandro Manzoni, autore di un più volte rimaneggiato trattato Della lingua italiana), che diede i suoi frutti anche in Italia, seppure con un certo ritardo (uno dei primi a citare la distinzione di Schlegel tra le lingue senza struttura grammaticale, ad affissi e flessive, è il lessicografo Giuseppe Grassi, negli appunti inediti della progettata e non realizzata Storia della lingua italiana).
Il padre-fondatore della linguistica scientifica italiana fu ➔ Graziadio Isaia Ascoli, che diede vita a una vera scuola. Ricoprì la cattedra di grammatica comparata e lingue orientali a Milano, nel 1861, presso l’Accademia scientifico-letteraria (cfr. il profilo che ne tracciò Timpanaro nel 1972, ora in Timpanaro 2005: 225-258). Milano fu la capitale della linguistica italiana nel periodo che va dalla Proposta di Monti a Carlo Cattaneo, Bernardino Biondelli e Ascoli (cfr. Ancillotti 1983: 217). La fase immediatamente precedente al magistero di Ascoli viene definita come la stagione della linguistica preascoliana (cfr. Santamaria 1981). Vi si collocano autori che, pur con minor rigore e metodo, si occuparono di linguistica e dialetti, anche nella prospettiva della nascente indoeuropeistica, di cui si cominciava ad avere qualche informazione: Cattaneo fu autore di un saggio sul nesso tra italiano e valacco (1837) e poi pubblicò sul «Politecnico», nel 1842, Sul principio istorico delle lingue europee (in occasione dell’uscita dell’Atlante linguistico d’Europa di Biondelli). Anche Biondelli (che fu poi collega di Ascoli nella milanese Accademia scientifico-letteraria, dove insegnò archeologia e numismatica) scrisse sul «Politecnico», la rivista di Cattaneo, occupandosi, oltre che dello Studio comparativo delle lingue (1839), in maniera specifica dell’Origine e sviluppo della lingua italiana (1840). L’opera più notevole di Biondelli, assieme agli Studi sulle lingue furbesche (1846) dedicati ai gerghi dei malandrini e dei girovaghi (➔ gergo), è tuttavia il Saggio sui dialetti gallo-italici, uscito nel 1853, con descrizioni dei vari dialetti settentrionali condotte su basi fonetiche e morfologiche, con l’aggiunta di schemi grammaticali, di piccoli lessici regionali e di un’antologia di testi. Sono dettagliatamente esaminati (nelle loro varietà) i dialetti lombardi, emiliani e piemontesi, ma non ancora quelli liguri, che furono annessi al gruppo gallo-italico da Ascoli (cfr. Timpanaro 19692, Santamaria 1981 e Benincà 1994). La dicitura gallo-italico era stata introdotta da Ottavio Mazzoni-Toselli in un poco noto dizionario dei celtismi uscito nel 1831, ma si diffuse e dura tutt’oggi appunto grazie a Biondelli, oltre che ad Ascoli, che la utilizzò nella descrizione dell’Italia dialettale per l’Encyclopaedia Britannica (1880), poi pubblicata anche sull’«Archivio glottologico italiano» (vol. VIII, 1882), la rivista da lui fondata nel 1873, inaugurata con un Proemio molto polemico nei confronti della soluzione manzoniana alla questione della lingua.
La descrizione di Ascoli dei dialetti italiani è considerata la prima davvero scientifica. Vi entrano fra l’altro le aree che lo stesso Ascoli aveva individuato e definito, cioè la franco-provenzale e la ladina, in aggiunta a quelle già note. Ad Ascoli si deve la formulazione dei concetti di ➔ isoglossa e di ➔ sostrato, quest’ultimo applicato fruttuosamente alla definizione dell’area italiana settentrionale ‘celtica’, secondo un principio che fu poi trasportato anche nel campo degli studi sul folklore e adattato da Costantino Nigra alla spiegazione della presenza del canto popolare epico-lirico del Nord Italia.
I lavori di Ascoli e la sua attività come direttore dell’«Archivio glottologico italiano» stimolarono l’esplorazione sistematica dell’Italia linguistica, soprattutto delle varietà dialettali, con studi puntuali non solo in riferimento all’uso contemporaneo, ma anche al dialetto antico e agli antichi documenti. Si sviluppò con rinnovato rigore la fruttuosa alleanza tra filologia e linguistica. Basti pensare che gli antichi documenti dell’italiano furono scoperti e studiati in massima parte a cavallo dei due secoli: la Carta picena nel 1878, la Formula di confessione umbra nel 1880, la Testimonianza di Travale nel 1907, la Carta osimana nel 1908, la Postilla amiatina nel 1909, la Carta fabrianese nel 1912, l’Indovinello veronese nel 1924. Al 1916 risale la ricchissima Crestomazia italiana dei primi secoli di Ernesto Monaci, che raccoglieva i documenti noti e i testi letterari ed extraletterari fino al Duecento, con in appendice un prospetto grammaticale e un dizionario, strumenti preziosi per lo studio della lingua antica. Nel 1890 uscì l’edizione tedesca della grammatica storica della lingua italiana di Wilhelm Meyer-Lübke, che fu poi tradotta e adattata per gli italiani da Matteo Bartoli e Giacomo Braun (1927). Un’altra grammatica storica dell’italiano fu realizzata da Meyer-Lübke con Francesco D’Ovidio (1906).
I materiali raccolti con fervore di studi dall’attivissima cultura positivista divennero dunque via via più ricchi, mentre la linguistica si affermava come disciplina descrittiva e non normativa (come invece era stata per secoli). Si moltiplicarono studi specifici, tecnicamente irreprensibili, alla maniera di Carlo Salvioni (di cui Michele Scherillo, come ricorda Contini 1972: 330, diceva che i lavori, così spesso orientati sull’area lombarda, non solo rurale, ma anche della città di Milano, erano affini più alle «matematiche» che alla letteratura), ma non si arrivò a una compiuta sintesi della storia linguistica italiana, benché un’opera del genere fosse stata vagheggiata già all’inizio dell’Ottocento, quando Pietro Giordani aveva abbozzato una Storia dello spirito pubblico d’Italia per 600 anni considerato nelle vicende della lingua (1809-1811) e Giuseppe Grassi aveva posto mano a una vera e propria Storia della lingua italiana, senza riuscire a portarla a termine.
Nella prima metà dell’Ottocento mancava ancora la documentazione sufficiente, mentre nella seconda metà del XIX secolo e all’inizio del XX la mole del materiale a disposizione divenne fin troppa. Lo studio della lingua antica aveva avuto uno sviluppo straordinario, e anzi finì per allontanare gli studiosi da una visione armonica della storia della lingua nazionale, in cui le fasi più moderne trovassero il debito spazio. Non si arrivò alla storia della lingua italiana, intesa come sintesi unitaria, fino a quando non si sviluppò l’interesse per la lingua contemporanea, il che avvenne con i lavori di Bruno Migliorini. La cultura linguistica del positivismo (glottologia e filologia romanza, ormai saldamente insediate nello spazio accademico, con le loro specificità professionali universalmente riconosciute) procedette per la sua strada. L’eredità di Ascoli fu assunta dalla sua scuola: Salvioni, Pier Gabriele Goidànich e Clemente Merlo. I lavori di Salvioni, in particolare, recentemente ristampati in una grande e completa edizione, si caratterizzano per il pregio del rigore di metodo e tecnica, ma mostrano scarso interesse per ogni formulazione teorica.
La linguistica italiana, però, era ora costretta al confronto con il pensiero idealistico, che portò alla divisione tra neogrammatici e neolinguisti. I primi furono fiduciosi nelle leggi fonetiche e nelle procedure tecniche che garantivano la legittimità del lavoro scientifico, in una dimensione asettica e via via isolata dal contesto della cultura del tempo. I secondi furono aperti alle istanze dell’idealismo, furono disposti a concedere attenzione all’individuo creatore e protagonista dell’atto di parola, dunque non badarono solo al sistema della lingua astratto e collettivo. Tra i neolinguisti vi furono i rappresentanti della scuola torinese, Matteo Bartoli, Benvenuto Terracini, e Giulio Bertoni.
Bartoli elaborò un’originale linguistica spaziale, che, sotto l’influenza del metodo geografico di Jules Gilliéron (che in Italia veniva coniugato con ➔ Benedetto Croce; Contini 1989: 376 ha parlato a questo proposito di una fisionomia tipica di certa linguistica italiana della prima metà del XX secolo, «non scevra di ibridismi»), spiegava le trasformazioni linguistiche nell’area della Romània in base alla distribuzione geografico-spaziale delle forme, e identificava le caratteristiche specifiche dell’area italiana nella Romània. Alla scuola di Bartoli studiò Antonio Gramsci, prima di dedicarsi integralmente alla politica. Dall’insegnamento linguistico ricavò nozioni che applicò largamente in altri campi (così il concetto di egemonia), e perfezionò una coscienza della lingua mediante la quale ragionò in modo nuovo sul rapporto tra le classi popolari e l’italiano e sulla questione della lingua. La tematica linguistica è presente nei Quaderni dal carcere, in particolare nei quaderni 21 (1934-1945) e 29 (1935), ma l’opera fu conosciuta solo nel dopoguerra, quando influenzò notevolmente i linguisti più attenti alle dinamiche sociali, come Tullio De Mauro. Terracini si occupò di dialetti, di cultura popolare, di linguaggio letterario, sviluppando l’attenzione all’individuo parlante, così come richiedeva la filosofia idealistica, ma allo stesso tempo collocando il parlante in una rete di rapporti con la tradizione, nella quale si manifestavano i vincoli del sistema, che tuttavia non era inteso come una prigione: il parlante, anzi, compie le proprie scelte proprio in riferimento al sistema con cui si deve confrontare.
L’attenzione per l’individuo, piuttosto che per il sistema della lingua considerato in astratto, quasi che le lingue fossero organismi organici, viventi di vita autonoma, era il risultato del pensiero idealistico, che condizionò la linguistica. Anzi, l’Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale, il capolavoro di Croce, tentò di sostituire l’estetica alla linguistica, annullando l’autonomia di quest’ultima. L’unica vera linguistica finiva per essere, nella prospettiva crociana, quella che coglieva l’atto unico e irripetibile della creazione linguistica individuale. Il sistema della lingua veniva dissolto, la socialità dell’atto linguistico non aveva più alcun significato. Nessun linguista accetterebbe una simile riduzione, ma nessuno andò allo scontro frontale con un filosofo autorevole come Croce, il quale, del resto, fu assai più tollerante dei crociani usciti dalla sua scuola. Ne è esempio la Storia della grammatica italiana di Ciro Trabalza, pubblicata nel 1908, che faceva esibizione di crocianesimo (presentandosi come la storia della dissoluzione della pseudo-scienza grammaticale), ma che fu ugualmente condannata da diversi crociani, e difesa da Croce stesso (➔ grammatica).
Nel 1937-1938 Migliorini andò a ricoprire la prima cattedra di storia della lingua italiana, a Firenze, grazie al favore di Giacomo Devoto e del ministro Bottai. In altre città italiane si stavano affidando incarichi di insegnamento della medesima disciplina, che andarono ad Alfredo Schiaffini (a Roma), allievo di Ernesto Giacomo Parodi, e a Terracini (a Torino), allievo di Bartoli. Nel 1939 fu fondata a Firenze la rivista «Lingua nostra». Cominciò una stagione nuova per la linguistica italiana, ora disciplina accademica. Gli interessi degli studiosi si estesero al di là del periodo delle origini, al di là dei dialetti e delle leggi fonetiche. La lingua moderna fu considerata degna di attenzione. Migliorini sperò persino che il linguista assumesse un compito di controllo della lingua nazionale, attraverso quella che egli chiamava la glottotecnica (➔ neopurismo). Ci si avviava a una stagione di studi che doveva portare alla realizzazione della storia linguistica nazionale come opera autonoma, analoga a quella di altri paesi, per es., la Francia (ma da noi non si ebbe mai un’opera della mole di quella francese di Ferdinand Brunot). Questo strumento ancora mancava, nonostante la tradizione linguistica italiana si caratterizzasse (e ancora oggi si caratterizzi) per una vocazione naturale allo storicismo, riconoscibile negli studiosi più diversi, da Vittore Pisani a Devoto, Giovanni Nencioni e Antonino Pagliaro (cfr. Ancillotti 1983). Contini (1989: 372-373) ha osservato che la grammatica storica e anche l’atlante linguistico dell’area italiana sono giunti da studiosi di lingua tedesca (Meyer-Lübke, Karl Jaberg e Jacob Jud), ma che la storia della lingua italiana, pur con un po’ di ritardo, è stata realizzata da italiani: il merito prima di tutto è di Schiaffini e Migliorini, a cui si deve aggiungere ovviamente Devoto. Al 1950 risale la prima edizione dei Momenti di storia della lingua italiana di Schiaffini. Nel 1953 (anno della seconda edizione ampliata dei Momenti dello Schiaffini), Devoto pubblicò il Profilo di storia linguistica italiana. Nel 1960, infine, in coincidenza del millenario del Placito capuano, Migliorini pubblicò (dopo un prima breve prova uscita nel 1948) la sua Storia della lingua italiana, di mole maggiore, ricchissima di dati, pragmaticamente risolta in essi, articolata per secoli, poco propensa alla discussione dei fondamenti teorici, ai quali per contro Devoto si era dedicato nei Fondamenti della linguistica (1951), un libro che si colloca a metà strada tra la sua storia della lingua latina (Storia della lingua di Roma, 1940) e il successivo Profilo di storia linguistica italiana del 1953.
Sulla copertina dei Fondamenti era impressa la seguente massima: «La storia di una lingua è la storia di una civiltà». Il Profilo di Devoto è costruito attorno all’idea della lingua intesa come istituto. Terracini, invece, aveva auspicato una storia linguistica fondata sul rapporto d’ossequio e di ribellione alla tradizione, in continua alternativa fra compattezza e disgregazione del sistema. Devoto rispondeva che lo storico doveva delimitare geometricamente «tratti essenziali», e non poteva perdersi dietro scelte individuali e sfumature. Del resto Terracini, pur dichiarando di ammirare la storia della lingua francese di Karl Vossler, non scrisse mai una storia della lingua nazionale. Nel 1963 uscì la Storia linguistica dell’Italia unita di De Mauro, ricca di dati statistici e caratterizzata da un forte impegno civile, con un’attenzione nuova al ruolo delle classi popolari. Da allora le storie della lingua italiana si sono moltiplicate in varie forme, anche come strumenti per la didattica universitaria, in unione alla storia del latino (Devoto), in dimensione regionale (L’italiano nelle Regioni, 19921 e 19942, sotto la direzione di Francesco Bruni), per secoli (Storia della lingua italiana, 1989-2003, 10 voll., anch’essa sotto la direzione di Bruni), in forma di monografie per temi e problemi (Storia della lingua italiana, 1993-1994, 3 voll., sotto la direzione di Luca Serianni e Pietro Trifone). Predominante è stata la realizzazione di queste impegnative opere per mezzo di équipe di studiosi, mentre è cresciuto il peso e il numero di insegnamenti della disciplina nelle università. Si sono anche moltiplicati gli strumenti con cui lavora lo specialista di linguistica italiana, dalla grammatica storica (quella di Gerhard Rohlfs, attenta ai dialetti, e quella di Pavao Tekavčić, strutturale), ai dizionari etimologici (DEI, Dizionario etimologico italiano, 1950-1957; DELI, Dizionario etimologico della lingua italiana, 1979-1988 e 1999; LEI, Lessico etimologico italiano, 1979 e segg.), agli atlanti linguistici, alle grammatiche descrittive, alle concordanze tradizionali ed elettroniche, ai dizionari della lingua antica (il TLIO, Tesoro della lingua italiana delle origini), ai dizionari generali e della lingua letteraria, alla raccolta di documenti antichi (terreno in cui si sono distinti Arrigo Castellani e Alfredo Stussi, ai quali si deve un rinnovato legame tra storia della lingua e filologia) e al repertorio completo delle discussioni sulla questione della lingua (Maurizio Vitale).
La linguistica italiana ha ricevuto negli ordinamenti universitari del 2000 una definizione che può essere utilmente assunta, per quanto di origine burocratica: essa indica come oggetto della disciplina la lingua e i dialetti dell’area italiana, con riferimento a tutte le strutture del linguaggio, alle tradizioni testuali e stilistiche, agli assetti geolinguistici, alla didattica. Va da sé che la linguistica italiana ha fatto i conti con tutte le varie tendenze e scuole della linguistica (strutturalismo, generativismo, linguistica variazionale e sociolinguistica), mantenendo tuttavia una sua specificità nel legame con la filologia e anche con la stilistica, per la consuetudine con il linguaggio letterario (così nei lavori di Terracini, Devoto, Pier Vincenzo Mengaldo, Gian Luigi Beccaria). Le competenze previste in questo vasto quadro possono essere individuate anche mediante gli argomenti in cui si articolano bibliografie specializzate come quelle di Muljačić (1971 e 1991).
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Benincà, Paola (1994), Linguistica e dialettologia italiana, in Lepschy 1990-1994, vol. 3º, pp. 525-644.
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