IDEE, Storia delle
*La voce enciclopedica Storia delle idee è stata ripubblicata da Treccani Libri, arricchita e aggiornata da un contributo di Francesco Mores.
I fondamenti della storia delle idee. - La nozione di storia delle i. è stata introdotta in ambito filosofico e storico-culturale dagli storici e sociologi statunitensi. I testi teorici fondamentali di questo indirizzo di studi, che nel corso degli anni si è venuto configurando con una sua riconoscibile fisionomia metodologica, sono quelli − assai noti − di A. Lovejoy: l'introduzione al suo libro più importante, The great chain of being (1936), e le sue Reflections on the history of ideas, articolo introduttivo al primo numero del Journal of the History of Ideas (gennaio 1940); a questi si deve aggiungere la prefazione di P. Wiener al primo volume (1973) del Dictionary of the history of ideas. Per la trattazione di quanto segue ci si riferisce a Le Goff 1974, 1983, 1989, 1992.
Se si esamina preliminarmente e per grandi linee la diffusione dell'espressione history of ideas, si può notare subito la scarsa penetrazione di questa nozione nelle varie aree culturali nazionali. In Germania, essa è venuta a urtare con l'espressione Geistesgeschichte. In Italia, dove è stata ostacolata dall'uso tradizionale dell'espressione storia della filosofia, solo nel 1981 una rivista, Intersezioni, si è collocata sotto l'etichetta di "Storia delle idee" anche se la penetrazione del termine idea come soggetto di storia, prima dell'uscita della rivista Intersezioni, è già documentata da uno studio di T. Gregory, L'idea della natura nella scuola di Chartres, uscito nel 1952 sul Giornale critico della filosofia italiana (v. inoltre l'altro importante studio di Gregory, 1964). Nemmeno in Francia l'espressione ha avuto molto successo, eccetto che nel campo della storia della letteratura, in particolare sotto la dizione: "l'idea di". Per es., negli anni Sessanta, sono usciti sotto questa etichetta due importanti volumi dedicati al movimento delle i. nel Settecento. Si tratta della ricerca di R. Mauzi, L'idée de bonheur au XVIIIe siècle (1960), e di quella di J. Ehrard, L'idée de nature en France dans la première moitié du XVIIIe siècle (1963). Per la verità, con la dizione "l'idea di" il concetto ha, comunque, conosciuto una discreta fortuna, anche in questo caso presso gli Anglosassoni. Nel 1920, J.B. Bury pubblicava il suo classico libro The idea of progress. In questa prospettiva, oggetto di studi è stata la storia stessa specialmente nelle opere di G. Collingwood, The idea of history (1946), e, più di recente, di G. Huppert, The idea of perfect history (1970). Il termine idea è stato talvolta sostituito col termine vicino, ma non identico − perfetti sinonimi non ne esistono − di concetto; così nell'opera di I. Berlin, The concept of scientific history (1960). Il termine concetto è stato ugualmente usato nella traduzione inglese del saggio di H. Arendt, The concept of history, uscito a Londra nella sua raccolta di saggi, Between past and future (1961). Viceversa, le espressioni Geistesgeschichte, Geisteswissenschaften- "storia dello spirito", "scienze dello spirito" − hanno mantenuto a lungo il predominio nella storiografia tedesca, prima di conoscere un regresso, specialmente nei confronti della Begriffsgeschichte ("storia del concetto").
Il medievista osserva con interesse che il fenomeno delle crociate ha dato luogo a tutta una serie di studi importanti sotto il titolo "l'idea di", o intitolati con simili espressioni. Contemporaneamente, nel 1935, uscivano l'opera di C. Erdmann, Die Entstehung des Kreuzzugsgedankens, e La formation de l'idée de croisade di E. Delaruelle, punto di partenza della sua serie d'articoli scritti fra il 1941 e il 1970 e pubblicati nel 1980 col titolo L'idée de croisade au Moyen Age. Nel 1954 usciva l'importante opera postuma di P. Alphandéry, messa a punto da A. Dupront, La chrétienté et l'idée de croisade. Nel 1981 L. e J. Riley-Smith pubblicavano una raccolta di documenti intitolandola The crusades. Idea and reality, 1095-1274. Usando un altro termine, ma nella stessa prospettiva, J. Richard aveva pubblicato, nel 1969, L'esprit de la croisade, e P. Rousset avrebbe pubblicato, nel 1983, Histoire d'une idéologie. La croisade. Degno di nota è il fatto che un fenomeno essenzialmente militare, religioso e collettivo abbia dato luogo a studi che si collocano sotto l'insegna della storia delle idee. Ma in che modo Alphandéry e Dupront definiscono il tipo di storia che si esplica sotto il titolo "l'idea di crociata"? Essi scrivono: "Una storia della crociata nella realtà del suo significato e della spiritualità collettiva deve partire da un inventario delle esperienze, delle immagini e delle tradizioni insite nel subconscio collettivo dell'Occidente cristiano" (tomo i, p. 9) e inoltre intitolano uno dei loro capitoli: L'Occidente e Gerusalemme: immagini e rappresentazioni collettive. La storia di cui si tratta è dunque quella che si situa al livello delle rappresentazioni (una rivista, Representations, è stata pubblicata in seguito sotto la direzione di H. Bloch dall'università di Berkeley), storia oggi molto di moda e che accorda particolare importanza alle immagini, ossia all'immaginario, seguendo anche qui uno dei nuovi orientamenti della metodologia storica attuale. Abbiamo così un'interessante estensione della nozione d'i. che viene a integrare nella storia delle i. la storia delle immagini.
Rilevante è la penetrazione della storia delle i. nel campo della storia dell'arte. Anche qui il fenomeno si verifica soprattutto nell'ambito degli autori anglosassoni. Se l'espressione compare di rado in E. Panofsky, spesso tuttavia la si avverte, evidentemente in sottofondo, nel suo bagaglio concettuale. Ma Panofsky ha soprattutto imposto la nozione di i. con la sua celebre opera pubblicata in Germania nel 1924 negli "Studien der Bibliothek Warburg": Idea. Ein Beitrag zur Begriffsgeschichte der älteren Kunsttheorie. Si vede qui quanto presto avesse fortuna in Germania l'espressione "storia dei concetti"; più chiaramente lo si vede in R. Wittkower, soprattutto nella sua opera postuma Idea and image. Studies in the Italian Renaissance (1978), e in G. Ladner, Images and ideas in the Middle Ages. Selected studies in history and art (1983-84).
Quanto a Lovejoy, per comprendere la sua posizione teorica e metodologica, si ricorderà che egli intende l'espressione history of ideas in contrapposto a history of philosophy. Essa indica un campo più circoscritto di quello della filosofia, il campo delle i., ma, al tempo stesso, il concetto è più ampio poiché lo si ritrova anche al di fuori della filosofia, nella letteratura, nell'arte e in numerosi fenomeni storici. Nel manifesto di Lovejoy, il già citato The great chain, si possono fissare sei punti principali.
Le ''unit-ideas''. - Per Lovejoy lo studio delle i. è studio delle unità che costituiscono la storia del pensiero, da lui chiamate unit-ideas: la dottrina di un filosofo o di una scuola di pensiero è "un aggregato eterogeneo e complesso di idee-unità"; secondo Lovejoy, quindi, una dottrina si presenta come un aggregato. In questa concezione si possono distinguere due idee. In primo luogo, l'identificazione dell'i. con l'atomo; concezione che porta a una visione meccanicistica del pensiero, considerato come un'attività combinatoria di i., in contrasto con tutte le concezioni moderne della vita mentale e intellettuale; è in questo trasferimento del concetto di atomo al campo delle i. e del pensiero che si ravvisa un vero e proprio errore epistemologico. In secondo luogo, lo slittamento concettuale, altrettanto discutibile, dalla nozione di filosofia come disciplina del sapere verso quella di thought, facoltà dello spirito umano. Questo slittamento mette capo alla confusione di una disciplina con un tipo di attività mentale. Senza dubbio lo storico ha bisogno di servirsi di determinate unità di pensiero, ma gli strumenti mentali e intellettuali sono molto diversi dagli atomi di pensiero di Lovejoy.
Poiché il lavoro storico poggia sull'incrociarsi di nozioni del passato, mezzo essenziale per evitare l'anacronismo, e di nozioni attuali per beneficiare del progresso del sapere, la storia che davvero può rispondere alle esigenze cui ha tentato di dare una risposta la storia delle i. deve servirsi di due tipi di strumenti: i concetti del passato e quelli della scienza attuale. L'utilizzazione dei concetti del passato porta alla necessità di uno studio lessicale preciso in una prospettiva di lunga durata suscettibile di far cogliere le evoluzioni, i mutamenti e le rotture. Studi del genere sono stati egregiamente condotti, in Italia, nell'ambito del Lessico intellettuale europeo a proposito, per es., dei termini e dei concetti di ordo, res, spiritus, phantasia, imaginatio, idea, ratio. Questo è essenziale, per es., per il Medioevo, sia per l'importanza che quel periodo annetteva alle parole, sia per l'odierna necessità di uno studio almeno bilingue del vocabolario: termini latini e termini in volgare. Pur restando critici circa i presupposti di una storia delle i. alla Lovejoy, si può tuttavia credere alla validità di una storia dei concetti, purché i concetti siano considerati come strumenti e non come delle cose o degli esseri. La storia dei concetti che l'autore di questa voce, insieme ad altri, sostiene, e che sembra corrispondere alla Begriffsgeschichte dei Tedeschi, differisce da quella che molti storici attuali, specialmente francesi, chiamano storia concettuale. Se ne possono trovare, per es., alcune definizioni nell'articolo di P. Veyne, L'histoire conceptualisante, nel primo tomo di Faire de l'histoire (1974), di J. Le Goff e P. Nora, e nella raccolta di F. Furet, L'atelier de l'histoire (1982). Furet parla anche di storia intellettuale: "Le mie preferenze vanno a una storia intellettuale che costruisca esplicitamente i propri dati partendo da questioni concettualmente elaborate". La storia concettuale mi sembra interessante come tipo particolare d'approccio storico, che cerca il contenuto di pensiero dei fenomeni storici e si sforza di definire alcuni strumenti che permettono di pensare la storia; la ritengo invece, se non dannosa, per lo meno limitata, se privilegia l'aspetto intellettuale nella ricerca storica, e tanto più restrittiva se si ferma a questo.
Per tornare alla storia delle i. intesa come storia dei concetti, essa ha giustamente messo l'accento su termini come ordo, res, status, corpus, ecc., che escono dal campo della filosofia e che, per es., si trovano nella scienza, nel diritto, nella politica e, più ancora − come vedremo più avanti − nel vasto ambito delle mentalità. La storia delle i., intesa come storia dei concetti, è pertanto strumento fondamentale di una storia pluridisciplinare, che si sforza di spingersi oltre lo strato superiore delle élites sociali e intellettuali.
Processi di pensiero. - Per Lovejoy, dato che le i. hanno degli effetti, esse introducono una dinamica nella storia del pensiero che induce lo storico a interessarsi dei processes of thought. È in gioco qui una nozione, molto feconda, come quella di process, che non solo comporta uno studio dinamico, evolutivo, uno studio cioè dei mutamenti e delle innovazioni nella storia, ma che, a somiglianza del modo in cui la nozione di "genesi" viene a sostituire quella di "origine", deve eliminare dall'ambito storico ogni concezione di effetto automatico per sostituirla con quella di sviluppo costruttivo.
Per richiamarci in modo sommario a tre esempi tratti dalla concezione medievale, ricorderemo come il concetto antico di iustitia nell'Alto Medioevo regredisca fino alla nozione materiale di diritto di giustizia, di ammenda, di tributo da pagare per un'azione giudiziaria, e in seguito si arricchisca fino a diventare un ideale religioso, l'attributo essenziale del principe, uno strumento di potere. Ancora, l'evoluzione in senso riduttivo del concetto di pax che, scaturito da un'i. escatologica, quella dello stato perfetto della fine del mondo, evolve via via verso il fenomeno storico del movimento di pace, poi verso l'espressione giuridica ''la pace di Dio'', e infine verso la definizione della pace come un semplice stato di assenza di guerra. Nell'evoluzione del concetto di ordo, infine, si può rilevare in particolare il processo storico che, nel corso dell'Alto Medioevo, porta a stabilire la concezione degli ordines, come tre ordini dell'attività classificatoria del pensiero e della descrizione della società. L'utilizzazione di questa nozione di process of thought deve scostarsi tuttavia da due concezioni che parimenti impoveriscono l'analisi storica: da un lato quella di un determinismo che farebbe derivare effetti necessari, in modo ineluttabile, dalle medesime cause; dall'altro quella, ugualmente riduttiva, di un evoluzionismo lineare, che negherebbe le possibilità di ritorno all'indietro, di scarto e di alternativa dell'evoluzione storica.
Cinque ''tipi'' di idee. - Lovejoy definisce cinque principali tipi d'i. che rientrano propriamente nella storia delle idee.
Gli ''abiti mentali inconsci'': questa nozione di abiti mentali inconsapevoli sembra molto produttiva. Essa ci porta alla storia delle mentalità, di cui parleremo oltre, che rappresenta un arricchimento innegabile della nozione di storia delle i., divenuta, nonostante i suoi pericoli, una branca della storia in senso pieno, e che non è più riconducibile nell'ambito ristretto di una storia delle i. tradizionale e nemmeno di una storia intellettuale. Questa concezione permette anche di stabilire un nesso tra la storia delle i. e la nozione di habitus di cui specialmente Panofsky e P. Bourdieu hanno messo in rilievo l'aspetto interessante. Questa nozione, inoltre, si indirizza verso l'ambito dell'inconscio e molti sono gli storici che pensano alla ricchezza di risultati che ne deriverebbe se si trovassero i metodi e gli strumenti intellettuali capaci di introdurre uno studio dell'inconscio e forme di psicanalisi nella problematica storica, anche se con la dovuta cautela. Del pari, questa nozione permetterebbe di affrontare meglio lo studio storico di quelle che Lovejoy chiama ''categorie o particolari tipi di produzione d'immagini''. S'intravede quanto questo procedimento potrebbe contribuire a una storia dell'immaginario, che sta diventando anch'essa una branca autonoma della storia. E sarebbe non meno stimolante, oltre che utile, che la storia delle i. potesse avviare a una storia dell'irrazionale e che questo diventasse oggetto di una ricerca storica aperta e più ampia, che non si fondi essenzialmente, come finora, sulla razionalità delle idee.
Motivi dialettici: Lovejoy sottolinea la tendenza delle i. al generico e al vago. Egli nota che spesso nelle riflessioni di un individuo, di una scuola, di una generazione, c'è un motivo dominante, che egli chiama dialectical per via della sua capacità di comparire nei più diversi orientamenti di pensiero. Si tratta forse di qualcosa che si avvicina a ciò che i Tedeschi chiamano Zeitgeist? In questo caso, si tratterebbe di un concetto di portata limitata, proprio perché troppo vago e in genere incapace di rendere veramente la nota dominante, supposto che esista, del pensiero di un'epoca.
Tendenza al ''pathos metafisico'': Lovejoy si riferisce, con ciò, a un'altra tendenza del pensiero, la tendenza all'oscurità e all'esoterismo, e si sofferma in particolare sulla tendenza a ritenere prodigioso tutto ciò che sfugge alla conoscenza: omne ignotum pro mirifico. Egli pensa che vi siano due orientamenti naturali del pensiero: il primo, dipendente dall'inerzia, porta alla considerazione di i. eterne e immobili, il che egli chiama pathos dell'eterno; l'altro è il fascino dell'unità, del numero uno, dei concetti unificanti, che egli chiama pathos monistico. Lovejoy scorge in queste considerazioni la principale influenza dello spirito filosofico sulla storia. Quest'influenza è più psichica che scientifica, il che gli fa dire che "non è in primo luogo in quanto scienza che la filosofia ha agito come fattore storico". Ma non è detto che la disciplina storica possa rivolgersi, supposto che esistano, a i. eterne, immobili, moniste. Oggi specialmente la tendenza della riflessione umana, dell'etica sociale e dello spirito storico a contatto con l'etnologia, è portata a riconoscere e a studiare il relativismo e il pluralismo nell'evoluzione storica in genere e nella storia intellettuale e culturale in particolare.
Semantica filosofica: con questa espressione Lovejoy intende designare "lo studio delle parole e delle frasi consacrate di un periodo o movimento", ossia i concetti-chiave, le parole colte. Lovejoy sottolinea inoltre che le parole che piacciono sono spesso ambigue e pensa che il fascino esercitato nel corso dei secoli dalla parola natura sia il miglior esempio di questa capacità di esercitare seduzione, propria dei termini ambigui. In ciò, effettivamente, va riconosciuto un oggetto particolare ma interessante della storia intellettuale. Non bisogna limitarlo allo studio delle parole o anche delle frasi che siano solo parole d'ordine, segni di riconoscimento, ma va esteso al complesso delle mode culturali, tanto nel loro contenuto come nel lessico.
Archetipi o tipi ideali?: secondo Lovejoy ci sono delle i. riconducibili a un principio presente in tutte le filosofie che più hanno inciso sulle scuole di pensiero europee a partire dall'antichità, come, per es., l'i. che ha ispirato il titolo della sua opera maggiore, The great chain of being, la "grande catena dell'essere". Quest'affermazione può lasciare perplessi. Forse non sussistono Leitmotives del genere. Può nascere il sospetto che una tale concezione si riporti a quella degli archetipi, che nessuno storico può accettare. Oppure queste i. sarebbero riconducibili alla nozione d'Idealtypus proposta da M. Weber nei suoi Gesammelte Aufsätze zur Wissenschaftslehre (1922), come concetto limite (Grenz-Begriff), che aiuta lo studioso riunendo una molteplicità di fenomeni dati isolatamente, ma che è puramente ideale e che lo stesso Weber ha definito un'"utopia", e quindi non molto utile per lo storico delle idee. In linea di massima, lo storico della lunga durata prova un senso d'inquietudine davanti all'eccessiva continuità che sembra caratterizzare la storia delle i., se non in via di principio, per lo meno nella formulazione che ne ha dato il suo principale fondatore e teorico.
Specialmente attraverso la nozione di "pathos metafisico" Lovejoy ha richiamato l'attenzione sulla necessità di non limitare la storia delle i. alla storia delle i. chiare. Egli, molto opportunamente, suggerisce anche di proporre allo storico delle i. la storia delle i. confuse e persino delle i. erronee. L'errore, e persino il falso, sono degli oggetti storici veri; tuttavia lo storico non deve lasciarsi sommergere da un relativismo storicistico; deve ricordare che il sapere e la scienza ricevono la spinta dal desiderio di verità e che la storia delle i. è, in certo modo, la storia dei progressi della verità, della conoscenza certa. Dopo Lovejoy l'importanza delle i. ''imprecise'' è stata vieppiù sottolineata. Vi ha insistito P. Rossi: "Nessuno storico delle idee condivide più le tesi di Lovejoy relative al carattere ''atomico'' delle idee. Nessuno... si servirebbe più della sua metafora della storia delle idee come una sorta di ''chimica intellettuale'' che ha il compito di rintracciare e determinare gli elementi costitutivi o fondamentali della vita intellettuale che caratterizza le varie epoche o che le attraversa, per così dire, verticalmente. Mi pare che nella storia delle idee che è posteriore all'opera di Lovejoy e che in qualche modo si richiama al suo insegnamento sia stato fortemente accentuato il riconoscimento della ''ambiguità'' delle idee. Ritengo anche che, soprattutto in questi ultimi decenni [il testo è del 1987], siano stati mostrati il rilievo, l'importanza e la fecondità di quelli che Yehuda Elkana ha chiamato i ''pensieri imprecisi''. Che operano con forza, come lo stesso Elkana ci ha fatto vedere a proposito della nozione di Kraft, anche nella storia della scienza che un tempo era considerata una specie di santuario o luogo esclusivo dei concetti chiari e distinti..." (v. intervento al Dibattito in appendice al volume Storia delle idee, 1989, p. 178). Elkana ha usato la nozione di "concetti vaghi" a proposito di Kraft in The discovery of the conservation of energy (1974, pp. 137-38).
Il mondo delle i., continua giustamente Rossi, che segue qui Lovejoy, non è un mondo semplice di monadi dai contorni ben definiti, ma un universo d'ambiguità e di polivalenza, e lo storico delle i. deve avere "il gusto di curiosare in angoli fuori mano". Commentando ciò che Lovejoy intendeva per "pathos metafisico" E. Gombrich ha richiamato l'attenzione sull'importanza di conferire alle i., talvolta a prezzo della chiarezza e precisione, una carica emozionale valendosi di parole che creano una "emotional exaltation" (in Idea, 1990, pp. 419-20). E ricorda che il celebre teorico inglese delle i. estetiche e politiche del Settecento, E. Burke, nella sua opera Philosophical inquiry into the origin of our ideas of the Sublime and Beautiful (1756), studiando i rapporti tra le i. e le parole sosteneva che le parole possono essere efficaci anche se non evocano nessuna i. chiara e persino se non evocano nessuna idea. Quest'appello alla necessaria elasticità della nozione d'i., all'obbligo per lo storico delle i. di distinguere tra teorie e idee e di considerare le i. incarnate in forme storiche concrete anziché come astrazioni, va tenuto senz'altro presente. In questa prospettiva ci si può spingere più oltre cercando di estendere la storia delle i. a oggetti che interessano l'etnologo e l'antropologo più che lo storico. J. Rykwert lo ha suggerito: "c'è tutta una storia delle idee, che sono state trasmesse non dalla parola scritta ma attraverso gesti e rituali e che − poiché si tratta talora di idee esoteriche − sono ora avvolte nel silenzio... questo sembra implicare un nuovo tipo di storia degli oggetti" (v. intervento al Dibattito, in appendice al volume Storia delle idee, 1989, p. 189).
Storia delle idee e multidisciplinarità. - Secondo Lovejoy "la medesima idea compare spesso, e talvolta notevolmente camuffata, nei settori più diversi del mondo intellettuale". Questo interessante rilievo porta a studiare, da un lato, la forma di un'idea in un certo settore intellettuale da un punto di vista multidisciplinare; dall'altro, il passaggio di una medesima i. ai diversi campi intellettuali. Lovejoy dà il suggestivo esempio del paesaggista e del filosofo. Il paesaggista, nel modellare il paesaggio, si trova a un tempo davanti all'i. di natura e all'i. di ordine, d'origine filosofica. I due concetti, potendo trovarsi in opposizione, possono portare, com'è accaduto nel Sei e Settecento, sia ai giardini alla francese, dove domina l'i. di ordine, sia ai parchi all'inglese che ricercano la natura, ma una natura di carattere ideologico più che non naturale in senso proprio. Nel movimento e nell'evoluzione di questi concetti multidisciplinari si può notare il ruolo importante, sempre più sentito da noi, del gusto. Storici tanto diversi come M. Foucault, P. Veyne o P. Brown hanno cercato d'introdurre nella storia le nozioni di gusto, di stile, d'intreccio. I movimenti più interessanti di i. appartengono senza dubbio al campo della letteratura e al suo contenuto di pensiero. Lovejoy asserisce che "l'interesse della storia della letteratura si fonda in larga parte sul riferimento a un movimento di idee". Spetta agli storici della letteratura l'esame di questa concezione, forse un po' troppo riduttiva nei confronti della letteratura.
La storia delle idee avvia alla storia comparata. − È questo uno dei suoi aspetti più interessanti, purché si prenda l'espressione "storia comparata" nel suo significato più ampio, mentre Lovejoy tende a restringerlo allo studio della letteratura comparata. La storia delle i. così concepita ha certamente il vantaggio di portare a una suddivisione della storia secondo periodi, anziché per paesi, razze o lingue. Ma può anche riposare su una doppia illusione: che ci sia in essa un relativo sincronismo, mentre, come qualunque campo storico, comporta molti scarti nell'evoluzione dei concetti e delle mentalità; che esista un uomo astratto, presupposto, questo, irto di pericoli. L'antropologia sociale può costituire un rimedio per questo tipo di storia delle idee. J. Starobinski ha giustamente considerato il comparativismo una "vocazione" tipica della storia delle i.: "Lo storico delle idee è animato da una vocazione comparativista, che desidera conciliare con la completa padronanza (che secondo lui in questo campo è fondamentale) di una tecnica irreprensibile. Un buon libro di storia delle idee deve essere a un tempo ambizioso e minuzioso" (v. intervento al Dibattito in appendice al volume Storia delle idee, 1989, p. 172).
In questa necessaria ambizione della storia delle i. si annida l'interesse a oltrepassare dei limiti troppo ristretti, ad acquistare, secondo l'espressione di Starobinski, una "mobilità che oltrepassa le frontiere", a scoprire "inaspettate intersezioni", delle "interfacce", come dicono i fisici, i chimici e gl'informatici. Sempre secondo Starobinski, "la storia delle idee vive proprio dell'assenza di un limite troppo stretto che taluno, ancora oggi, potrebbe esser tentato di rimproverarle" (ibid., p. 171).
Storia delle idee e livelli di pensiero. − Secondo Lovejoy, la storia delle i. più che alle dottrine e alle opinioni di un piccolo numero di profondi pensatori e di grandi scrittori si interessa al pensiero collettivo di vasti strati di persone e ai pensatori e scrittori di livello modesto o inferiore. Questa asserzione propone l'importante e delicato problema dell'atteggiamento dello storico di fronte all'aspetto quantitativo e qualitativo della storia culturale e intellettuale. La nozione di mentalità (v. oltre) si presenta come un rimedio ai pericoli di un prevalere dell'aspetto quantitativo e al pericolo opposto di legare la nozione di storia delle i. a un livello, ormai svalutato, dipendente dal rango sociale. La storia delle mentalità è quella delle i. correnti, quasi automatiche, istintive, presenti in tutti gli strati sociali di una stessa società. Nella storia delle i. c'è un punto particolarmente importante che è lo studio dell'introduzione di i. nuove. Lovejoy insiste sul carattere psicologico dei processi di mutamento del gusto, ma si può osservare che la psicologia collettiva è diversa da quella individuale. Giusta, invece, la sua insistenza sul grave pericolo che corre la storia delle i. quando lo storico si spinge a parlare di cose appartenenti a campi di cui non possiede competenza specifica.
Il programma di Wiener. - P. Wiener, nella sua prefazione al primo volume del Dictionary of the history of ideas (1973), definisce così le suddivisioni della storia delle i.: 1) storia delle i. concernenti l'ordine esterno della natura in quanto è studiata dalle scienze fisiche e biologiche, idea presente anche nell'uso comune, nella letteratura d'immaginazione (imagery), nei miti sulla natura, nella speculazione metafisica; 2) storia delle i. sulla natura umana, come le troviamo nell'antropologia, nella psicologia, nella religione e nella filosofia, e anche nella letteratura e nel senso comune; 3) storia delle i. come le troviamo nella letteratura e nelle arti, nelle teorie estetiche e nella critica letteraria; 4) storia delle i. e degli atteggiamenti nei confronti della storia, della storiografia e della critica storica; 5) sviluppo storico delle i. e delle istituzioni economiche, giuridiche e politiche, ideologie e correnti di i. in questi campi; 6) storia delle i. religiose e filosofiche; 7) storia delle matematiche, della logica e della linguistica formali e delle i. metodologiche.
È con gran difficoltà, com'è evidente, che la storia delle i. può far fronte da sola ai problemi del vasto campo d'indagine collocato sotto la sua etichetta. Wiener è costretto a mettere insieme i., atteggiamenti, sviluppi storici, ideologie, movimenti, e via discorrendo, perché si rende ben conto dell'eterogeneità di ciò che rientra sotto l'espressione in questione. A livello analitico la storia delle i. interessa tutte le discipline, tutte le categorie del sapere. Ma non può limitarsi a questa giustapposizione di storie particolari. In tutte le discipline che rientrano nella storia delle i. bisogna studiare non solo le i. per se stesse, ma il loro rapporto con l'ideologia, la loro presenza nell'ambito delle istituzioni e dei movimenti, la loro evoluzione storica, i tipi di rappresentazioni cui danno luogo al di fuori della loro disciplina specifica. Ma c'è di più: esse devono collegarsi in uno studio transdisciplinare relativo alle migrazioni, alle relazioni, alle combinazioni di i. da un campo all'altro del sapere, all'interno di una organizzazione della scienza, della ricerca e dell'insegnamento, di un ambiente pedagogico o sociale. L'i. della gerarchia, derivata dalla teologia dionisiana, invase nel Medioevo tutti i campi del pensiero e dell'organizzazione sociale e politica. Le i. d'ordine, di ragione, d'esperienza, di relatività, in epoche diverse, si sono estese al complesso delle attività spirituali e di quelle scientifiche.
La fecondità del programma di Wiener sta nell'aver messo l'accento sull'interdisciplinarità e sulle relazioni interculturali (cross-cultural relations). Egli si muove in tre direzioni su cui è opportuno insistere:
a) la formazione di campi semantici: è ciò che accade, per es., nel Medioevo, con l'elaborazione di un pensiero nobiliare intorno ai termini domus e sanguis. Dal senso concreto di casa-abitazione l'i. di casa si sviluppa verso il senso astratto di complesso di persone che si suppone vivano nella stessa casa: famiglia, dinastia. Del pari, l'i. di sangue da liquido concreto si trasforma in i. astratta di legame tra persone di una stessa famiglia, di uno stesso popolo, di una stessa ''razza'', allorché si verificherà un'evoluzione del termine in senso razzista, come succede, per es., nella Spagna del Quattrocento con la cacciata degli ebrei, dei musulmani, dei marrani;
b) l'importanza dello sviluppo della storiografia sotto la forma di storia della storia che diventa, se non una disciplina in senso pieno, per lo meno un campo relativamente autonomo e particolarmente importante della storia; di essa, semplificando, si potrebbe dire che è la storia dell'i. della storia;
c) l'importanza della letteratura d'immaginazione che si sviluppa sempre più nel senso di una storia dell'immaginario. Anche prima di trattarne in particolare questa può essere indicata come una delle principali vie d'una storia delle i. aperte, in conformità della definizione che ne dava G. Bachelard in L'air et les songes (1943): "il vocabolo fondamentale che corrisponde all'immaginazione non è immagine, ma immaginario. La validità di un'immagine si misura dall'estensione del suo alone immaginario. Grazie all'immaginario l'immaginazione è essenzialmente aperta, evasiva. È nella vita psichica umana l'esperienza stessa dell'apertura, l'esperienza stessa della novità".
Wiener ricorda infine giustamente una delle idee più notevoli di Lovejoy: "Le idee sono le cose che più trasmigrano al mondo" (Ideas are the most migratory things in the world). La conclusione del suo programma è questa: "Il fine di questi studi è di aiutare a stabilire un senso di unità dello spirito umano e delle sue manifestazioni culturali in un mondo di specializzazione e alienazione in continua crescita". Ma a ciò si potrebbe obiettare che si può essere portati ad ammettere più la diversità dello spirito umano che la sua unità e che il concetto di natura umana che ne costituisce il sottofondo è confuso e insidioso. E, se è innegabile che viviamo in una fase di rapida specializzazione e alienazione, si tratta solo di un momento storico dell'evoluzione delle nostre società, non di una fase irreversibile, tanto più che questa evoluzione sembra subire sempre di più l'influenza equilibratrice di un'aspirazione alla cultura generale e a uno sviluppo del senso del relativismo storico.
La storia intellettuale. - L'espressione ''storia delle i.'' è stata usata, e si usa ancora, in concorrenza con un certo numero di espressioni diverse. Nel caso della Francia si potrebbero forse distinguere due tendenze: una tendenza tradizionale, orientata al frazionamento degli approcci, e che propone una molteplicità di storie specifiche delle i.: storia della filosofia, storia della letteratura, storia delle scienze, ecc.; un'altra tendenza orientata verso una categoria più generale, la cui ricerca ha subìto l'impronta degli storici delle Annales, pur estendendosi molto al di là di questo ambiente, e che ha assunto parecchie etichette diverse: psicologia storica, storia socio-culturale, storia delle mentalità, e, più di recente, storia intellettuale.
R. Darnton in un suo saggio apparso nel volume The past before us (1980) ha proposto quattro categorie di ricerche: la storia delle i. che tratta dei sistemi di i.; la storia intellettuale propriamente detta che si occupa delle correnti di i.; la storia sociale delle i. che concerne soprattutto le condizioni di produzione e di diffusione delle i.; la storia culturale nel senso antropologico del termine.
In linea di massima, l'espressione che si presenta come la più nuova e feconda è quella di storia intellettuale. Questa espressione e la concezione che ad essa corrisponde hanno fatto la loro comparsa, come la storia delle i., in ambiente anglosassone e, più in particolare, statunitense. Uno dei fondatori della new history, J.H. Robinson, ha avuto una parte importante nell'elaborazione di questo concetto. Nel 1903 pubblicò An introduction to the history of Western Europe, e il volume miscellaneo in suo onore, del 1929, s'intitolava Essays in intellectual history. Ma quello che si ritiene il capolavoro della storia intellettuale è l'opera di P. Miller, The New England mind: the Seventeenth Century (1939). Dopo la guerra sono da ricordare gli articoli particolarmente importanti di J. Higham: The rise of American intellectual history, uscito in The American Historical Review nel 1951, e Intellectual history and its neighbours, pubblicato nel 1954 in The Journal of the History of Ideas. Merita infine particolare menzione lo studio di F. Gilbert, Intellectual history: its aims and methods, uscito in Daedalus nel 1970. Tra questi interessanti articoli programmatici, quello di Higham del 1954 contiene la distinzione fra una storia interna e una storia esterna delle idee. Ma com'è possibile capire la nascita, la genesi e l'evoluzione delle i. restando all'interno di queste, quasi fossero mosse da un motore interno o, programmate all'origine da una specie di computer, obbedissero come organismi viventi a una legge di crescita e d'invecchiamento? Pertanto, se per comprendere la storia delle i. esse vanno ricollocate nel contesto a cui sono legate, uno studio separato di tale contesto non può dar ragione dell'evolversi delle i. stesse.
Per tentar di evitare tanto la riduzione della storia delle i. all'analisi di due o tre sistemi principali per secolo, quanto lo sparpagliarsi delle i. stesse in un pullulare di dettagli individuali, I. Berlin (Against the current. Essays in the history of ideas, 1980) ha proposto di costruire dei modelli sintetici entro cui raggruppare dei complessi di i. fra loro imparentate, per es., quelle di Illuminismo e Antilluminismo. Ma si tratta di un metodo che non sfugge né alla rigidezza dei modelli né al rischio di un completo aggrovigliarsi delle i.: o il modello è troppo stretto, e non si sa chi e cosa farvi rientrare, oppure è troppo confuso, e ci può star dentro tutto.
La nozione di storia intellettuale, pur restando ancora oggi soprattutto anglosassone e statunitense, ha tuttavia di recente esercitato una forte spinta in campo storiografico specialmente in Francia. Se ne possono offrire due esempi: la recente metamorfosi, nel 1986, della vecchia e benemerita Revue de Synthèse di H. Berr in una rivista sempre edita dal Centre International de Synthèse, ma con un orientamento decisamente rinnovato verso la nozione di storia intellettuale e, per altro verso, l'articolo di R. Chartier, Intellectuelle (Histoire), uscito nel 1986 nel Dictionnaire des sciences historiques, diretto da A. Burguière.
Chartier si rifà soprattutto a tre posizioni: quelle di N. Elias, M. de Certeau, P. Bourdieu. Egli comincia col ricordare tre nozioni fondamentali che hanno permesso il decollo della storia intellettuale. La prima è quella di outillage mental ("attrezzatura mentale"), nozione nella sostanza già proposta prima della seconda guerra mondiale da L. Febvre e che si fonda sull'idea che le maniere di pensare di un'epoca dipendono dagli strumenti mentali (lessico, concetti, rappresentazioni) propri dell'epoca stessa. Il che significa tra l'altro che i pensieri più innovativi dipendono dai limiti imposti dal materiale di cui al momento si dispone nel campo delle idee. È noto che Febvre ha messo in luce la quantità di concezioni proprie della tradizione medievale contenute nella religione di Rabelais, spirito ardito e innovatore. Tutti gli storici della scienza osservano che i progressi della scienza nel Medioevo furono ostacolati dalla scarsa strumentazione matematica di cui si disponeva; questo porta a individuare freni ideologici e nodi scorsoi, verbali e intellettuali. La seconda nozione su cui Chartier si sofferma è quella di habitus, derivata da Panofsky e ripresa da Bourdieu. Si tratta di abitudini mentali, di schemi interiorizzati di cui non si ha coscienza, che sono stati inculcati in differenti ambiti sociali e che si ritrovano in contesti molto diversi
La terza nozione deriva da Elias ed è la nozione di Prozess "che mira ad articolare le trasformazioni parallele o deviate delle funzioni sociali, delle forme politiche, delle strutture psicologiche e delle formulazioni concettuali". Questa nozione è completata da quella di figurazione, che sta a indicare ciascuna delle forme storiche che risultano da questo Prozess. È partendo da queste nozioni preparatorie che si è costruita la storia intellettuale che tenta di far stare insieme i. e mentalità, pensiero e sensibilità, l'individuale e il collettivo, l'intellettuale e il culturale.
Ricorderemo qui di seguito, sempre sulla scia di Chartier, cinque fra i principali temi di discussione ancora aperti, che si sono intrecciati attorno alla nozione di storia intellettuale.
Aporia dell'analisi interna e del contesto: si tratta di un'aporia che la storia intellettuale deve superare considerando, come dice C.E. Schorske (Fin-de-siècle Vienna. Politics and culture, 1981), "che lo spazio d'analisi della storia intellettuale è sempre a due dimensioni, una orizzontale e diacronica che inscrive ogni produzione nella storia specifica del genere o del sapere a cui appartiene; l'altra verticale e sincronica, che la mette in relazione con le altre produzioni ad essa contemporanee, e quindi col complessivo campo sociale dove tutte sono prodotte".
Storia intellettuale e storia culturale non sono in contrasto: con questa affermazione Chartier ritiene di superare la contrapposizione, secondo lui mal posta, tra cultura dotta e cultura popolare, ma la relativa assimilazione che egli opera fra il contenuto delle due espressioni non pare veramente dar ragione della realtà culturale. La nozione di cultura popolare è una nozione che sembra resistente sia dal punto di vista delle categorie di pensiero che da quello delle realtà storiche concrete. Se è vero che nel pensiero popolare si trova un vero e proprio sistema intellettuale, va anche detto che un tale sistema è in larga parte una costruzione realizzata dalla storia intellettuale. Il "pensiero popolare" non è un "pensiero selvaggio" nel senso che a questa espressione ha dato Lévi-Strauss.
Contrapposizione produzione-ricezione: Chartier rifiuta anche una concezione troppo semplicistica dell'opposizione tra produzione e ricezione delle idee. Egli ricorda che Certeau ha indicato nel consumoricezione un'altra forma di produzione, e giustamente sottolinea che la produzione delle i. non è puramente creativa e che la ricezione non è puramente passiva. La realtà è un ciclo continuo di produzionericezione. Per es., nel caso degli exempla del Medioevo c'è un ciclo del tipo: cultura dotta, passaggio nella cultura popolare, ritorno nella cultura dotta dell'elemento impregnato di cultura popolare, e via di seguito.
Qui va sottolineata l'importanza dei centri di produzione delle idee. L'esistenza di questi centri mette in luce la funzione di un potere intellettuale nella storia. Nel Medioevo con il costituirsi delle università si formò un centro di produzione di i. che era a un tempo un centro di potere: lo Studium. H. Grundman ha messo efficacemente in rilievo il fatto che nell'Occidente cristiano, dal secolo 13° in poi, ci sono tre centri e tre forme di potere: il Regnum, il Sacerdotium e lo Studium. Questi centri di produzione d'i. rientrano sia nell'ambito del potere ecclesiastico, per es. il monastero, la scuola cattedrale, la curia romana, sia di quello laico, ossia essenzialmente il palazzo. Ma anche la città si presenta come un centro molto importante di produzione di i.: essa dà origine a un tipo di specialista delle i., di professionista del pensiero, l'universitario. Comunque, la storia intellettuale comporta ugualmente, più della storia delle i., la necessità di fare una storia degli uomini che producono, utilizzano, diffondono le idee. La storia intellettuale deve inoltre studiare gli stocks di i., quali appunto sono le biblioteche, i lessici, i dizionari, le enciclopedie, come pure gli individui che presso i popoli senza cultura scritta sono gli specialisti della memoria e del sapere. Giustamente è stato detto che, in certe società, un vecchio che muore è una biblioteca che sparisce.
La storia intellettuale non si occupa di oggetti ma di figure: per Chartier la storia intellettuale è una storia di costellazioni mobili, effimere, discontinue. Essa non deve cadere nella trappola della continuità delle parole. In una tale concezione c'è molto di vero, ma non si deve credere che la continuità sia sempre dalla parte delle parole e la discontinuità dal lato della pratica. È raro che il mutamento della pratica non si accompagni a un mutamento delle parole.
La storia intellettuale non è una disciplina: i motivi che spingono Chartier a chiudere la storia intellettuale in un recinto paragonabile a quello della storia delle i. sono comprensibili, anche se forse bisognerebbe abbandonare la concezione di disciplina chiusa; a questo punto ritroverebbe la sua legittimità e il suo carattere operativo la nozione di campo disciplinare. Non si può negare che anche la storia, come è per l'insieme dell'attività scientifica, abbia bisogno di campi disciplinari e che la storia intellettuale possa e debba essere uno di questi. Nella realtà storica e umana che studiamo appare inevitabile dover ritagliare delle etichette corrispondenti a settori che veniamo costituendo e che rappresentano altrettanti strumenti mentali che ci permettono di pensare questa realtà. Certamente molte espressioni, se diamo loro un significato e un contenuto pertinenti, possono essere accettabili; tuttavia la nozione di storia delle i., che è stata pur così feconda, sembra aver fatto il suo tempo dal momento che si richiama a unità, ad atomi, mentre nelle scienze umane e sociali abbiamo a che fare con oggetti, con pratiche complesse e, come dice Chartier, mobili (forse si potrebbe dire scomponibili e ricomponibili).
La storia intellettuale deve esser considerata come il campo centrale nel quale si studiano l'interdisciplinarità, i transferts di nozioni, i processi di pensiero che interessano in modo specifico, a un estremo, la storia delle mentalità, all'altro la storia dei valori e, marginalmente, la storia delle scienze, quella dell'arte, quella della letteratura, ecc. Anche se la categoria ''storia intellettuale'' sembra fare dei continui progressi a spese della tradizionale nozione di ''storia delle i.'', molti fatti stanno tuttavia a testimoniare che molto ancora c'è da fare per sostituire la concezione ristretta di storia delle i. con quella più estensiva e aperta di storia intellettuale. Un'apertura che non esclude la delimitazione di un territorio e di una problematica − senza cui la storia intellettuale rischierebbe di perdersi nella storia culturale- dalla quale va distinta in quanto pare escludere specialmente la storia degli oggetti che, invece, è essenziale per la storia culturale.
La storia delle mentalità. - "Mentalità mi piace. È in un modo come questo che si lanciano parole nuove", diceva M. Proust. La storia intellettuale prolungando, arricchendo, rinnovando nel suo contenuto e nella sua problematica la storia delle i., costituisce un campo coerente della storia. Può tuttavia essere utile considerarla a confronto con la storia delle mentalità mettendola sia in contrasto quanto in correlazione con essa. Non c'è dubbio, come ha scritto J. Revel, che fu L. Febvre, uno dei maggiori pionieri della storia delle mentalità, a fondarne il programma "su una critica sistematica della storia delle idee com'era trattata nelle facoltà di lettere". A questa storia delle i. Febvre rimprovera di chiudersi in discussioni astratte, atemporali, e di sovrapporre al passato delle griglie di lettura anacronistiche, in particolare perché si ostina a falsare la realtà psicologica di quel passato facendo appello a categorie scolastiche troppo generiche, come, per es., Rinascimento, Umanesimo o Riforma. Febvre non si sarebbe mai stancato di denunciare "quelli che, dandosi a ripensare per conto proprio dei sistemi talvolta vecchi di parecchi secoli − senza la minima preoccupazione di metterne in rilievo il rapporto con le altre manifestazioni dell'epoca in cui nacquero − si trovano a fare esattamente il contrario di ciò che un metodo storico esige. E che, davanti a questo generarsi di concetti da intelligenze disincarnate, concetti che vivono poi di vita propria al di fuori del tempo e dello spazio, annodano strane catene dagli anelli a un tempo irreali e chiusi". A una storia che pretenderebbe di attenersi alle sole i., e accettare le opere culturali per ciò che vogliono far credere di essere, paga di pensare in termini di creazione, di filiazione e d'influenza, Febvre contrappone dunque il progetto di un'altra storia, che collocherebbe le i., le opere e i comportamenti in seno alle condizioni sociali entro le quali fanno la loro comparsa.
Nel 1990, allorché la storia delle mentalità è entrata in conflitto in primo luogo con certe scuole storiche, si è detto: "La storia delle mentalità è oggi così generalmente accettata che perfino gli storici inglesi talvolta vi fanno riferimento" (S. Reynolds). Pur imponendosi, la storia delle mentalità non ha tuttavia sostituito la storia delle i.; essa si è installata su un ampio territorio in simbiosi con la storia intellettuale, ma mantenendosene distinta. Per lo storico d'oggi ''mentalità'' rappresenta ancora qualcosa di nuovo e, al tempo stesso, di già decaduto. Ci si chiede se l'espressione corrisponda a una realtà scientifica, se vi sia in essa una coerenza concettuale, se sia epistemologicamente operativa. Affermatasi per moda, sembra già passata di moda.
Una storia-crocevia. - Ciò che anzitutto attrae della storia delle mentalità è proprio la sua imprecisione, la sua tendenza a indicare i residui dell'analisi storica, l'elemento vago della storia, che cercheremo qui di seguito di esemplificare.
Dal 1095 in poi individui e masse, nella cristianità occidentale, si mettono in moto e partecipano alla grande avventura della crociata. Sviluppo demografico e sovrapopolazione iniziale, avidità mercantile delle città italiane e politica del papato desideroso di ricomporre contro gli infedeli l'unità di una cristianità in disaccordo, non bastano a spiegare tutto, e forse ciò che resta senza spiegazione è proprio l'essenziale. C'è bisogno del fascino della Gerusalemme terrestre, copia della celeste, della spinta delle immagini della mentalità collettiva accumulate intorno a essa. "Che cos'è la crociata senza una certa mentalità religiosa?" (Alphandéry e Dupront).
Che cos'è il feudalesimo? Delle istituzioni, un sistema di produzione, un sistema sociale, un tipo di organizzazione militare? G. Duby risponde che bisogna spingersi più oltre, "prolungare la storia economica con quella delle mentalità", tener conto anche della "concezione feudale del servizio". Il feudalesimo? "Una mentalità medievale" (in Annales, 1958).
Dopo il Cinquecento in Occidente si sviluppa una nuova società: la società capitalistica. Prodotto di un nuovo sistema di produzione, risultato dell'economia monetaria, costruzione della borghesia? Senza dubbio, ma anche risultato di un nuovo atteggiamento verso il lavoro e verso il danaro, di una mentalità che, da Weber in poi, si collega all'etica protestante (Über die protestantische Ethik und den Geist des Kapitalismus, 1904-05).
M. Bloch, sforzandosi di delineare la mentalità religiosa del Medioevo, vi riscontra "una quantità di credenze e di pratiche... a volte ereditate da magie millenarie, a volte nate, in epoca relativamente recente, in seno a una civiltà ancora pervasa da una grande fecondità mitica" (La société féodale, 1939). Lo storico delle mentalità si avvicinerà dunque all'etnologo, mirando come lui a raggiungere il livello più stabile di società, il più vicino all'immobilità. Per riprendere le parole di E. Labrousse: "Il sociale è in ritardo rispetto all'economico, e il mentale è in ritardo rispetto al sociale". K.V. Thomas, studiando a sua volta la mentalità religiosa degli uomini del Medioevo e del Rinascimento (Religion and the decline of magic), applica apertamente un metodo etnologico, che si ispira soprattutto a E.E. Evans-Pritchard. Dallo studio dei riti, delle pratiche cerimoniali, l'etnologo risale alle credenze, ai sistemi di valori. È così che gli storici del Medioevo, dopo M. Bloch, P.E. Schramm, E. Kantorovicz, B. Guénée, scoprono attraverso le consacrazioni, le guarigioni miracolose, le insegne del potere, gli ingressi dei re, una mistica monarchica, una mentalità politica e rinnovano così la storia politica del Medioevo. Gli antichi specialisti di agiografia s'interessavano al santo, i moderni si preoccupano della santità, dei suoi fondamenti nello spirito dei fedeli, della psicologia dei creduli, della mentalità dell'agiografo. In tal modo l'antropologia religiosa fa subire alla storia religiosa una conversione radicale di metodo.
Vicino all'etnologo, lo storico delle mentalità deve anche corredarsi di cognizioni sociologiche. Di primo acchito, il suo oggetto è il collettivo. La mentalità di un individuo storico, fosse pure un grand'uomo, è proprio ciò che egli ha in comune con gli altri uomini del suo tempo. Prendiamo, per es., Carlo v di Francia. Tutti gli storici lo lodano per il suo senso dell'economia, dell'amministrazione dello stato; è il re saggio, lettore di Aristotele, che procede al risanamento delle finanze del regno, che fa agli Inglesi una guerra di logoramento, che riesce a tenerli a bada, che calcola con estrema precisione. Nel 1380, sul suo letto di morte, abolisce una parte delle imposte, il focatico. E gli storici stanno a interrogarsi, a cercare dietro al gesto sconcertante del re o un pensiero politico difficile da scoprire, o un momento d'aberrazione di una persona non più lucida di mente. Ma perché non accettare semplicemente ciò che si credeva nel Trecento: che il re ha avuto paura della morte e che non ha voluto comparire in giudizio gravato dall'odio dei suoi sudditi? Che il re, all'ultimo istante, lascia che la sua mentalità prenda il sopravvento sulla sua politica, e che la credenza comune trionfi su un'ideologia politica personale?
Lo storico delle mentalità ha molto in comune soprattutto con lo psicologo sociale. Per ambedue sono essenziali le nozioni di comportamento o di atteggiamento. Due campi rendono manifesto questo reciproco richiamo tra storia delle mentalità e psicologia sociale: lo sviluppo degli studi sulla criminalità, sugli emarginati, sui traviati nelle epoche passate e lo sviluppo parallelo dei sondaggi d'opinione e delle analisi storiche di comportamenti elettorali. Ma la storia delle mentalità non è caratterizzata solo dai suoi punti di contatto con le altre scienze umane e dall'emergere di un campo respinto dalla storia tradizionale, essa è anche il punto di convergenza di esigenze opposte che la dinamica propria della ricerca storica attuale costringe al dialogo. Si colloca al punto di congiunzione dell'individuale col collettivo, del tempo lungo col quotidiano, dell'inconscio con l'intenzionale, dello strutturale col congiunturale, del marginale col generale.
Il livello della storia delle mentalità è quello del quotidiano e dell'automatico, ed è ciò che sfugge nei soggetti individuali della storia perché rivela il contenuto impersonale del loro pensiero, ciò che hanno in comune Cesare e l'ultimo dei suoi legionari, san Luigi e il contadino delle sue terre, Cristoforo Colombo e il marinaio delle sue caravelle. La storia delle mentalità sta alla storia delle i. come la storia della cultura materiale sta alla storia economica. La reazione degli uomini del Trecento alla peste come castigo divino si nutre della lezione secolare e inconsapevole dei pensatori cristiani da sant'Agostino a san Tommaso d'Aquino, e si esplica attraverso il sistema di equazione malattia=peccato, messo a punto dai chierici dell'Alto Medioevo; ma trascura tutte le articolazioni logiche, tutte le sottigliezze del ragionamento, per mantenere solo la rozza matrice dell'idea. Così l'utensile dell'uso quotidiano, le vesti del povero, derivano da modelli prestigiosi, frutto dei movimenti superficiali dell'economia, della moda e del gusto. È lì che si coglie lo stile di un'epoca, nel profondo del quotidiano.
Il discorso degli uomini, qualunque sia il tono in cui viene pronunciato, quello della convinzione, dell'emozione, dell'enfasi, il più delle volte si riduce a un insieme di i. bell'e fatte, di luoghi comuni, di vecchiumi intellettuali, a un eteroclito scarico di relitti di culture e di mentalità di origini ed epoche diverse. Di qui il metodo che la storia delle mentalità impone allo storico: in primo luogo una ricerca archeologica degli strati e dei frammenti di archeopsicologia − nel senso in cui A. Varagnac parla di ''archeociviltà'' −, in secondo luogo, dato che questi relitti sono raggruppati secondo una coerenza mentale se non logica, gli impone la decifrazione dei sistemi psichici simili a quella ridotta attività dell'intelletto (bricolage intellectuel) che, secondo C. Lévi-Strauss, caratterizza il pensiero dei selvaggi. Quindi ciò che sembra privo di radici, nato dall'improvvisazione e dal riflesso, gesti meccanici, parole dette senza pensarci su, viene di lontano e attesta la lunga risonanza dei sistemi di pensiero.
La storia delle mentalità costringe lo storico a interessarsi più da vicino ad alcuni fenomeni essenziali del suo campo di studio: le eredità, le perdite, le rotture (di dove, da chi, da quando l'origine di quest'atteggiamento mentale, quest'espressione, questo gesto?); le tradizioni, cioè le maniere in cui si riproducono mentalmente le società, le deviazioni, prodotto del fatto che le menti tardano ad adattarsi al cambiamento e al variare della velocità di evoluzione dei diversi settori della storia. Siamo in presenza di un campo di analisi privilegiato da cui muovere la critica delle concezioni lineari del mestiere di storico. Ciò che si rende visibile è l'operare dell'inerzia, forza storica capitale, che riguarda più lo spirito che la materia perché questa spesso ha più prontezza di quello. Gli uomini si servono delle macchine che inventano mantenendo la mentalità che avevano prima che ci fossero le macchine, gli automobilisti hanno un lessico da cavallerizzi, gli operai delle officine dell'Ottocento mantengono la mentalità dei padri e dei nonni contadini. La mentalità è la più lenta nel mutamento: storia delle mentalità significa storia della lentezza nella storia.
Punti di riferimento per la storia della genesi della storia delle mentalità. - La storia delle mentalità deriva dall'aggettivo mentale che si riferisce allo spirito e viene dal latino mens; ma il termine latino mentalis, che nel latino classico non c'è, appartiene al vocabolario della Scolastica medievale, e i cinque secoli che separano la comparsa di mentale (metà del Trecento) da quella di mentalità (metà dell'Ottocento) indicano che il sostantivo risponde ad altre esigenze, appartiene a circostanze diverse da quelle proprie dell'aggettivo. Il francese non deriva direttamente mentalité da mental, ma lo prende dall'inglese che già dal Seicento aveva derivato mentality da mental.
La mentalità è figlia della filosofia inglese del Seicento. La parola indica l'aspetto della psiche collettiva, il particolare modo ''di pensare e di sentire'' di un popolo, di un certo gruppo di persone, ecc. Ma in inglese il termine resta confinato al linguaggio tecnico della filosofia, mentre in francese diventa ben presto d'uso corrente. La nozione che metterà capo al concetto e al termine di mentalità sembra compaia nel Seicento nel campo scientifico e più particolarmente nel campo di una nuova concezione della storia. Essa ispira a Voltaire l'idea dell'Essai sur les moeurs et l'esprit des nations (1754), dove si avverte l'inizio di un prolungamento dell'inglese mind. Quando la parola compare − secondo il dizionario Robert nel 1842 − ha un senso vicino a quello di mentality, ossia della "qualità di ciò che è mentale". Ma M.P.E. Littré, nel 1877, si riferisce a una frase presa dalla filosofia positivista di H. Stupuy, dove la parola ha già il senso più ampio ma ancora ''dotto'' di "forma dello spirito" poiché − caso o riferimento non fortuito all'epoca illuministica? − vi si parla del "mutamento di mentalità" dovuto agli enciclopedisti. Poi, verso il 1900, Proust sottolineerà la novità di un termine che si adatta alle sue indagini psicologiche, e la parola assume il suo senso corrente. È il succedaneo popolare della parola tedesca Weltanschauung, "visione del mondo", di un universo mentale al tempo stesso stereotipato e caotico.
I due fondatori delle Annales, L. Febvre e M. Bloch, hanno avuto una parte particolarmente importante nell'elaborazione della storia delle mentalità. La parte principale pare sia stata quella di L. Febvre. In primo luogo, come si è detto, con l'invenzione della nozione di outillage mental ("attrezzatura mentale"), la cui funzione è al centro di tutta la sua opera. Riprendo qui la definizione che di questa nozione ha dato J. Revel (colloquio di Mosca, 1989) e secondo il quale "l'outillage mental di una civiltà o di un'epoca è costituito dal complesso delle categorie di percezione, di concettualizzazione, di espressione e d'azione che strutturano l'esperienza, tanto intellettuale come collettiva: definizione manifestamente empirica, aperta, ma che in ogni caso va molto al di là di ciò che oggi si direbbe un sistema di rappresentazioni, poiché include la lingua, gli affetti e anche le tecniche".
Bloch, nei due grandi libri che, rispettivamente, aprono e chiudono la sua opera, tragicamente interrotta dalla Resistenza e dalla morte nel 1944 (Les rois thaumaturges, 1924; La société féodale, 1939), privilegia nella storia delle mentalità l'aspetto sociologico, mentre Febvre era orientato verso quello psicologico. Quando Bloch parla delle "maniere di sentire e di pensare" degli uomini del Medioevo si spinge più oltre, mettendosi "per la via di una storia antropologica" e mostrandosi "più attento alla differenziazione sociale dei comportamenti culturali". A ragione Revel segnala anche un libro a carattere pionieristico "rimasto isolato nell'opera del suo autore": La grande peur de 1789, di G. Lefebvre (1932), "storia esemplare di una clamorosa falsa notizia, alle soglie della Rivoluzione francese del 1789".
Prima di procedere oltre nell'analisi della storia delle mentalità è importante sgombrare il campo da due questioni pregiudiziali.
La prima consiste nel dubbio che potrebbe nascere dalla constatazione che la nozione di mentalità, praticamente, non esercita alcuna funzione in psicologia; che essa non fa parte del vocabolario tecnico dello psicologo. L'indagine di Ph. Besnard sulla frequenza del termine ''mentalità'' negl'indici delle bibliografie psicologiche ha dimostrato che il termine, raro nei Psycological abstracts fra il 1927 e il 1943, sembra oggi caduto in disuso nel linguaggio psicologico. Come potrebbe la storia psicologica (o piuttosto la storia delle psicologie collettive) far uso proficuo di un termine la cui nozione è rifiutata dalla psicologia?
La storia delle scienze abbonda di esempi di transferts di nozioni e di concetti. Un termine, un concetto, comparso in un campo dove presto perde vigore, trapiantato in un campo vicino, vi prospera e prolifica. Perché la mentalità non potrebbe riscuotere in storia il successo che le è mancato in psicologia? E la stessa psicologia, che attraverso la linguistica e lo strutturalismo ha visto il rilancio della fortuna della Gestalt, non potrebbe scoprire col tempo il buon uso che può fare della mentalità? Comunque risulta chiaro che nel campo scientifico è l'espressione e la pratica della histoire des mentalités che ha salvato il termine, e che proprio il suo uso in francese ha reintrodotto la parola in inglese e l'ha trasferita al tedesco, allo spagnolo, all'italiano (mentality, Mentalität, mentalidad, mentalità). La nuova scuola francese ha assicurato − caso eccezionale − il successo della parola, dell'espressione e del tipo di indagine. I tre ''teorici'' francesi della storia delle mentalità sono G. Duby (1961), R. Mandrou (1968) e J. Le Goff (1974).
La seconda questione pregiudiziale è quella che rischia di far gravare sulla storia delle mentalità la tendenza peggiorativa del termine. Certo Lévy-Bruhl affermava, per es., che non c'era differenza di natura tra la mentalità dei primitivi e quella delle società evolute, ma, fin dal principio, aveva creato un clima sfavorevole alla nozione di mentalità scrivendo nel 1911 Les fonctions mentales dans les sociétés inférieures. La mentalità sembra rivelarsi di preferenza nel campo dell'irrazionale e dello stravagante. Di qui la proliferazione di studi − alcuni dei quali notevoli − sulla stregoneria, sull'eresia, sul millenarismo; di qui, una volta fissata l'attenzione su sentimenti comuni o su gruppi sociali integrati, la scelta da parte dello storico delle mentalità di temi limite (atteggiamenti nei confronti del miracolo o della morte) o di gruppi sociali esordienti (i mercanti nella società feudale).
Pratica della storia delle mentalità e suoi tranelli. - Uomo di mestiere, lo storico comincia col cercare i materiali di cui servirsi. Dove sono quelli della storia delle mentalità? Fare storia delle mentalità significa anzitutto operare una determinata lettura di qualsiasi documento. Per lo storico delle mentalità tutto costituisce fonte. Prendiamo un documento di natura amministrativa e fiscale, un registro di entrate regie del Due o del Trecento. Quali sono le sue rubriche, quale visione riflettono del potere e dell'amministrazione? Quale atteggiamento di fronte al numero rivelano i procedimenti di computo? Consideriamo l'arredo di una tomba del 7° secolo: oggetti di parure (spillone, anello, fibbia di cintura), monete d'argento (e una di queste, di piccolo formato, posta in bocca al morto al momento dell'inumazione), armi (ascia, spada, lancia, gran coltello) e un pacchetto di arnesi (martelli, pinze, sgorbie, bulini, lime, cesoie, ecc.). Questi riti funerari ci informano delle credenze (la moneta in bocca riporta al rito pagano dell'obolo a Caronte, il traghettatore dell'aldilà), dell'atteggiamento della società merovingia nei confronti di un artigiano circondato di un prestigio quasi sacro: il fabbro orafo (che è anche un guerriero), professionista della fucina e della spada.
Questa lettura dei documenti riguarderà in primo luogo soprattutto le parti tradizionali, quasi automatiche, dei testi e delle carte importanti: formule e preamboli che dicono le motivazioni, vere o apparenti; topoi che costituiscono l'ossatura delle mentalità. Senza andare a finire nella storia delle mentalità, E.R. Curtius aveva avvertito l'importanza di questo fondamento di base, non solo della letteratura, come pensava lui, ma della mentalità di un'epoca: "Se la retorica fa all'uomo moderno l'impressione di un fantasma che fa le boccacce, come pretendere di destare il suo interesse per la topica, di cui appena conosce il nome perfino lo specialista di letteratura, che evita deliberatamente gli strati sotterranei − ma, ahimé, anche le fondamenta − della letteratura europea?" (Europäische Literatur und lateinisches Mittelalter, 1948). Ahimé, appunto, per ciò che è sfuggito a questo brillante specialista, amante della qualità ma che non si decide a occuparsi del quantitativo culturale, di cui lo storico delle mentalità va a caccia. Questo meccanico discorso delle formule d'obbligo, dove sembra si parli per non dir nulla, dove s'invoca a torto e a traverso, in certe epoche Dio e il diavolo, in altre la pioggia e il bel tempo, è il canto profondo delle mentalità, il tessuto connettivo dello spirito delle società.
La storia delle mentalità ha comunque le sue fonti privilegiate che più e meglio di altre svolgono la funzione d'introdurre alla psicologia collettiva delle società. Farne l'inventario è uno dei primi compiti dello storico delle mentalità. In primo luogo, i documenti che testimoniano di quei sentimenti, di quei comportamenti parossistici o marginali che, per lo scarto che rappresentano, informano della mentalità comune. Un'altra categoria è costituita dai documenti letterari e artistici. Storia non dei fenomeni nella loro oggettività, ma della rappresentazione dei medesimi, la storia delle mentalità si nutre naturalmente dei documenti dell'immaginario. Huizinga, nel suo celebre Autunno del Medioevo (1919), ha dimostrato quale contributo (ed è qui la forza e la debolezza del suo libro) può dare alla conoscenza della sensibilità e della mentalità di un'epoca l'utilizzazione dei testi letterari. Letteratura e arte, tuttavia, sono portatrici di forme e di temi di un passato che non è necessariamente quello della coscienza collettiva. Gli eccessi degli storici tradizionali delle i. e delle forme, per i quali queste si generano per una specie di partenogenesi che ignora il contesto extraletterario e artistico della loro comparsa, non devono occultarci il fatto che le opere letterarie e artistiche obbediscono a codici più o meno dipendenti dal loro ambiente coevo.
Bisogna badare a non separare l'analisi delle mentalità dallo studio dei suoi luoghi e mezzi di produzione. Febvre, grande precursore in questo genere di ricerche, ha offerto l'esempio d'inventari di ciò che chiamava outillage mental: vocabolario, sintassi, luoghi comuni, concezioni dello spazio e del tempo, quadri logici. I filologi hanno notato che quando l'Alto Medioevo procedette alla liquidazione delle strutture del latino classico, le congiunzioni con funzione di coordinazione subirono una sconcertante evoluzione. Ma questo dipende dal fatto che le articolazioni logiche del discorso parlato o scritto cambiano radicalmente: autem, ergo, igitur, e le altre congiunzioni entrano in un nuovo sistema di pensiero caratterizzato da nessi diversi.
Le mentalità, pur non essendone distaccate, hanno con le strutture sociali rapporti complessi. Esiste, per ogni società, una mentalità dominante oppure esistono parecchie mentalità per ciascuna delle epoche che la storia distingue nel suo evolversi? Concetti come ''uomo del Medioevo'' o ''del Rinascimento'' sono stati additati da Febvre come un'astrazione priva di realtà storica. La storia delle mentalità ancora ai suoi esordi si aggrappa ad astrazioni appena più concrete, legate alle eredità culturali, alla stratificazione sociale, alla periodizzazione.
Altrettanto scabroso è cogliere le trasformazioni delle mentalità. Quand'è che una certa mentalità vien meno, quand'è che ne compare una nuova? In un campo come questo, dove gli usi resistono e perdurano, non è facile rendersi conto dell'innovazione. È qui che lo studio dei topoi è chiamato a offrire un contributo decisivo. Quand'è che un luogo comune fa la sua comparsa o sparisce, e, cosa più difficile da determinarsi ma non meno importante, quand'è che si riduce a una sopravvivenza, a un morto vivente, situazione peraltro che non dura a lungo perché la storia fa presto a liquidare i suoi cadaveri?
La storia delle mentalità, apprezzata e praticata soprattutto dagli storici francesi partecipi dello spirito delle Annales, ha avuto largo seguito in tutte le scuole storiche del mondo. Ha ispirato importanti libri di storia, come quelli dell'italiano C. Ginzburg (I Benandanti, 1965; Il formaggio e i vermi, 1976); dell'inglese K.V. Thomas (Religion and the decline of magic, 1971; Man and the natural world, 1983); o dell'americana N. Zemon Davis (Society and culture in early-modern France, 1975). Si è infiltrata nella storiografia tedesca, respingendo o rinnovando la tradizionale Geistesgeschichte o la nozione di Zeitgeist. A questo proposito F. Graus ha fatto bene il punto: la storia delle mentalità non può essere assimilata alla vecchia Geistesgeschichte o alla moderna Ideologieforschung; è al tempo stesso qualcosa di più e qualcosa di meno e, soprattutto, ha un'altra ''ottica''. La storiografia tedesca delle mentalità è stata soprattutto sviluppata dai gruppi di ricerca delle università di Würzburg, attorno a R. Sprandel (Mentalitäten und Systeme, 1972), e di Basilea attorno a Graus (Mentalitäten im Mittelalter) e a G.P. Marchal. Il primo ha lanciato un "Nationalfondsprojekt" sul tema "Mentalitätengeschichte des Hoch- und Spätmittelalters", il secondo ha diretto un seminario sulla "Mentalitätengeschichte" e ha messo in luce l'importanza della storia delle mentalità per il rinnovamento di un vecchio tema storiografico: quello dei miti fondatori. A questi due centri si può aggiungere quello di Stoccarda che, attorno ad A. Nitschke, si è dedicato alla storia del ''comportamento'', considerato come una sorta di mentalità in azione (Verhaltung).
Un ulteriore sviluppo della storia della mentalità nella storiografia tedesca è quello verificatosi a contatto con un nuovo tipo di storia, molto in voga in Germania: la storia del quotidiano (Alltagsgeschichte). L'articolo Mentalität compreso in una raccolta di studi storici (Ideologie und Herrschaft im Mittelalters, 1982) e dovuto al grande medievalista G. Tellenbach, dopo un primo articolo del 1974, ha sanzionato, in modo equilibrato, l'integrazione del nuovo campo storiografico nella scienza storica tedesca. Un impulso notevole alla sua penetrazione è inoltre venuto dal grande sociologo W. Lepenies, che ha attribuito una funzione centrale alla storia delle mentalità nel quadro dell'''antropologia storica''.
In Gran Bretagna, dove la storia delle mentalità ha incontrato una lunga resistenza, uno storico che spesso si è presentato come un pioniere, P. Burke, ha valorizzato quelli che ha chiamato "i punti forti e i punti deboli" della storia delle mentalità (1987), alla quale riconosce tre principali caratteristiche: l'accento posto sulla preminenza dei punti di vista collettivi rispetto a quelli individuali; la ricerca delle impressioni non formulate e inconsapevoli, dei comportamenti della ragion pratica e del pensiero quotidiano accanto alla tradizionale considerazione del pensiero cosciente e delle teorie elaborate; l'interesse non solo per i contenuti di pensiero, ma anche per la struttura dei significati, per le categorie, per le metafore e i simboli, per il modo in cui la gente pensava, e non solo per ciò che pensava. Burke ha inoltre additato in Huizinga un pioniere della storia delle mentalità, della storia della vita quotidiana e dell'antropologia storica nell'arte (quale sarà elaborata da A. Warburg) per l'utilizzazione dell'espressione "forme di pensiero" (Denkformen) che gli permise di proporre il passaggio dal Medioevo al Rinascimento come successione di due ''mentalità'' diverse, quella simbolica e quella causale.
Nella storiografia italiana o italianistica, da A. Sapori a Ch. Bec, l'interesse per una storia delle mentalità si è particolarmente e per tempo rivolto alla psicologia del mercante e ai suoi atteggiamenti di fronte al danaro, alla religione, alla cultura. Di recente P. Zambelli, illustrando la plasticità della storia delle mentalità, la sua capacità di combinarsi con altri tipi di storia, comprese le forme più tradizionali, ha dimostrato che solo una collaborazione fra storia delle mentalità, antropologia storica e storia della filosofia permette di capire gli atteggiamenti dei filosofi e degli inquisitori di fronte alla magia in Italia dal Trecento al Seicento (L'ambigua natura della magia, 1991).
Una situazione curiosa si riscontra negli storici marxisti e nelle scuole storiografiche marxiste o vicine al marxismo. Da un lato la maggioranza di questi storici, in cui un dogmatico spirito materialista sembra combinarsi con metodi positivistici tradizionali, pare abbia inteso la storia delle i. come una nuova forma d'idealismo e come una problematica rivale. Una minoranza, invece, ha accolto molto positivamente la storia delle mentalità, a condizione, beninteso, che sia una storia ''sociale''. Il rappresentante più notevole di questa tendenza è lo storico francese M. Vovelle. Per altro verso, gli storici dell'Europa ex comunista, liberati dal peso del marxismo dogmatico, si rivolgono alla storia delle mentalità come a una storia sociale concreta, aperta, multiforme, che non significhi un semplice ritorno a una storia tradizionale premarxista. È vero, d'altra parte, che, anche prima, quanti fra gli storici avevano potuto e saputo mantenere dei contatti con la storiografia occidentale e conservare la loro indipendenza di pensiero avevano partecipato all'elaborazione della storia delle mentalità; ricordiamo, per es., il caso del polacco B. Geremek e, soprattutto, quello del sovietico A. Gurevič, il cui importante libro su Le categorie della cultura medievale (1972), in seguito tradotto in tedesco, italiano e francese, può essere considerato uno dei capolavori della storia delle mentalità.
Accanto a questa diffusione multiforme, la storia delle mentalità sta andando soggetta, proprio nella storiografia francese dov'è nata, a una riflessione critica sulla sua natura e il suo uso sotto l'impulso delle reazioni metodologiche e del vario impiego di essa da parte degli storici francesi e stranieri.
Così A. Boureau, in un articolo comparso sulle Annales (1989), ha formulato alcune Propositions pour une histoire restreinte des mentalités, in cui ha tra l'altro osservato che "lo studio del collettivo non può pretendere di stabilire una ''causalità'' che rientri nell'ambito della sola storia delle generalità; per causalità si deve piuttosto intendere un'implicazione discorsiva, un complesso di condizioni trascendentali, storicamente mobili, senza cui all'agente storico sarebbe precluso il nuovo linguaggio dell'avvenimento". Le Goff, in un articolo del 1974, ha sottolineato il carattere ''ambiguo'' della storia delle mentalità e messo in guardia soprattutto contro un uso spurio di questo metodo storico, condannato da Boureau, che consiste nel ricorrere alla nozione di mentalità come principio generale di causalità e, inoltre, contro il rischio "di perdere la propria identità per voler moltiplicare all'eccesso gli oggetti e le relative vie d'accesso", per riprendere una recente formulazione di J. Revel.
Nata in gran parte come reazione allo strapotere della storia economica, la storia delle mentalità non deve rappresentare né la rinascita di uno spiritualismo superato − che si nasconderebbe, per es., sotto le vaghe apparenze di un'indefinibile psiche (o psyché) collettiva − né lo sforzo di sopravvivenza di un marxismo volgare che in essa cercherebbe la definizione a buon mercato di sovrastrutture nate meccanicamente dalle infrastrutture socioeconomiche. La mentalità non è un fenomeno riflesso. Non si può fare storia delle mentalità senza uno stretto collegamento con la storia dei sistemi culturali, dei sistemi di credenze, di valori, d'equipaggiamento intellettuale entro i quali si sono formate, hanno vissuto, si sono evolute. Solo così, d'altra parte, potranno risultare efficaci le lezioni provenienti dal contributo che l'etnologia dà alla storia.
Questo legame con la storia della cultura deve permettere alla storia delle mentalità di sfuggire ad altri tranelli epistemologici. Legata ai gesti, ai comportamenti, agli atteggiamenti − grazie ai quali essa si articola sulla falsariga della psicologia, su una frontiera su cui un giorno psicologi e storici dovranno pure incontrarsi e collaborare −, la storia delle mentalità non deve tuttavia rimanere impigliata in un comportamentismo che la ridurrebbe ad automatismi privi di riferimento a sistemi di pensiero, e che eliminerebbe uno degli aspetti più importanti della sua problematica: la parte e l'intensità che il cosciente e la presa di coscienza hanno in questa storia.
Eminentemente collettiva, la mentalità sembra sottrarsi alle vicissitudini delle lotte sociali. Tuttavia staccarla dalle strutture e dalla dinamica sociali sarebbe un grossolano errore: delle tensioni e delle lotte sociali essa è al contrario un elemento fondamentale. La storia sociale è costellata di miti (sangue blu, colletti bianchi, ecc.) dove si rivela la parte svolta dalle mentalità in una storia che non è né unanime né immobile. Accanto alle mentalità comuni ci sono delle mentalità di classe: resta da studiare il loro ruolo.
Storia delle mentalità e storia delle scienze. - Per concludere questo cenno sui rapporti tra storia intellettuale (storia delle i.) e storia delle mentalità, tratteremo qui i problemi che possono porsi tra un campo particolare e la storia intellettuale, tra storia delle scienze e storia delle mentalità. Nel 1983 il Centre International de Synthèse ha organizzato a Parigi un incontro tra storici delle scienze e storici delle mentalità (cfr. il numero speciale della Revue de Synthèse, lugliodicembre 1983): gli uni e gli altri si sono rivelati ignari dei rispettivi lavori e delle rispettive problematiche e, più ancora, hanno mostrato la reciproca diffidenza da cui erano animati, affermando tuttavia un'intenzione, più o meno decisa, di dialogo e di collaborazione.
Che cosa rimproverano gli storici delle scienze agli storici delle mentalità? Prima di tutto, di usare un concetto vago, quello di mentalità, che sembra per di più in contrasto con la natura e gli obiettivi della storia delle scienze; in secondo luogo di ignorare la specificità di questa e di volerle far dire ciò che non può né vuole enunciare. Al che va detto, tuttavia, che è proprio il carattere vago di questa nozione e del suo campo d'applicazione che sta all'origine della sua nascita e che costituisce gran parte della sua efficacia. Proprio il fatto di trovare che al di là (o al di qua) di tutte le prospettive storiche e in seno a tutti gli oggetti della storia resta qualcosa di non spiegato e di inesplicabile, ove non si ricorra a una nozione che fa intervenire le motivazioni irreprimibili degli attori individuali e collettivi della storia, è ciò che ha spinto all'invenzione di un nuovo campo storico; e questo è vero anche nel campo della storia delle scienze e delle i. scientifiche. Si può trovare un'intesa su una definizione abbastanza precisa del concetto di mentalità, quando essa sia distinta da nozioni vicine come sensibilità, comportamento, ideologia; se non si tien conto di queste distinzioni è giustificata l'irritazione che desta il vagabondare di certi storici che intendono in modo indebito il concetto di mentalità.
Una mentalità è un complesso di i. bell'e fatte che gl'individui esprimono spontaneamente in un dato ambiente di una data epoca. Bisogna insistere sulla nozione di complesso che fa della mentalità un vero e proprio sistema. Un sistema, tuttavia, che spesso è pieno d'incoerenze, di contraddizioni, di eterogeneità dovute alla diversità degli strati storici che hanno contribuito a formarlo (successione di eredità culturali e ideologiche) e alla pluralità delle sue fonti, le quali, più che dalla scuola, sono costituite dagli ambienti che hanno esercitato la loro influenza per assorbimento inconscio: famiglia, luoghi pubblici, tradizioni orali e scritte, ecc. Già qui troviamo uno dei caratteri essenziali delle mentalità che sconcertano gli storici delle scienze: l'apparente incoerenza dal punto di vista del pensiero razionale. Un dato, questo, che deve essere accettato perché il lato originale delle mentalità sta proprio in questo.
La cultura, che oltrepassa il campo tradizionale della civiltà, comprende tutte le tradizioni non ''naturali'' di una società, incluse le tradizioni materiali, mentre invece la mentalità è confinata nel mondo delle i. e persino dei giudizi e della loro espressione. La cultura, benché spesso interiorizzata, non si traduce nelle stesse abitudini e negli stessi automatismi della mentalità. È utilizzata dagli uomini che ne sono impregnati con un margine di libertà, di personalizzazione che nella mentalità non c'è. Sotto la sua diversità non manifesta le incoerenze delle mentalità: possiede sempre una certa unità fatta di tradizioni acquisite attraverso autentici processi formativi, anziché per ricezione passiva.
Il secondo grande rimprovero rivolto dagli storici delle scienze agli storici delle mentalità è il disprezzo che questi avrebbero per la storia delle scienze e la loro ignoranza in proposito. Qui ci troviamo di fronte a qualcosa di molto più importante. Tuttavia, per cominciare, va messa in rilievo una confusione che sembra viziare i lavori di molti storici della scienza: la confusione tra la scienza (o le scienze) e la storia delle scienze. Mentre le scienze hanno finalità loro proprie, la storia delle scienze, pur dovendo essere adattata al suo oggetto, resta essenzialmente in ogni caso una componente della storia alla cui complessiva evoluzione deve conformarsi. Anche se la scienza si propone di raggiungere una verità indipendente dalla struttura della società, dalle istituzioni e dalle credenze, essa tuttavia resta, non solo nella sua pratica, ma anche nella sua natura, sottoposta all'influenza di queste realtà storiche da cui parzialmente dipende. Questioni come il posto degli scienziati nella società, l'esistenza o la mancanza di scuole, l'esistenza di società scientifiche, di accademie, ecc., il peso della religione o dell'ideologia sulla pratica sociale, ivi compresa la pratica scientifica, devono essere studiate dagli storici delle scienze e integrate nella loro spiegazione storica; d'altra parte, però, se una storia delle scienze privilegiasse l'ambiente sociale, le istituzioni, l'ideologia, sarebbe una storia delle scienze riduttiva, incompleta e, più semplicemente, fallita.
Del pari, gli storici delle mentalità non devono ridurre la storia delle scienze alla storia delle influenze delle mentalità scientifiche. Devono anche, e soprattutto, rispettare la specificità dell'oggetto di questo tipo di storia. Gli storici generali, e gli storici delle mentalità in particolare, troppo spesso vogliono far dire a un certo tipo di documenti o di fenomeni storici cose per le quali non erano stati prodotti. Come le opere letterarie o le opere d'arte non sono fatte per dare alla storia informazioni immediate sulla società, ma le offrono solo attraverso la natura e la funzione che sono loro proprie, in quanto cioè produzioni dell'immaginario, così le realizzazioni scientifiche non possono dare queste informazioni se non attraverso quegli intenti di conoscenza razionale e sperimentale, di conquista della verità, propri della scienza. Quanto all'ignoranza della storia delle scienze da parte degli storici delle mentalità, si tratta di un caso particolare e particolarmente delicato della difficoltà che hanno gli storici generali a capire le teorie e le nozioni troppo specialistiche della storia delle i. (nel campo scientifico come, per es., nel campo filosofico o linguistico), in quanto richiedono una formazione specifica particolare e approfondita. Nel caso in questione, gli storici delle mentalità devono imparare quanto più possono delle scienze, la cui storia vogliono ravvicinare alla loro, e gli storici delle scienze devono essere disposti a insegnare ciò che è necessario agli storici delle mentalità per intendere in modo pertinente ciò che vi è di legittimo nel loro proposito di arricchire la storia della scienza e la loro propria storia.
Anche se il principale sforzo spetta agli storici delle mentalità, gli storici delle scienze devono da parte loro rendere il dialogo possibile, non solo accettando il concetto di mentalità, ma mettendosi volonterosamente alla portata degli storici delle mentalità. In primo luogo attraverso un lavoro esplicativo, ma anche costituendo una storia delle scienze aperta e non rinchiusa sul suo oggetto. Ciò che ha esercitato un'azione repulsiva sugli storici delle mentalità nei confronti della storia delle scienze è il procedimento che riduce quest'ultima a una storia di scoperte e di sistemi che si susseguono senza spiegazione e che sembrano addirittura autogenerarsi. Un tale tipo di storia autonoma delle scienze, che somiglia a una certa storia disincarnata delle i., a una Geistesgeschichte ormai superata, non può che chiudere la porta al dialogo. Come esempio di un tipo di storia delle scienze ben accetto agli specialisti di questo campo e ai medici che riflettono sulla storia della medicina, e che soddisfa peraltro gli storici in genere e specialmente gli storici delle mentalità, si possono citare i lavori di M.D. Grmek e, in particolare, la sua opera Les maladies à l'aube de la civilisation occidentale (1983).
Un altro aspetto che va esaminato più da vicino è il posto che l'immaginario ha in questi due tipi di storia. L'immaginario scientifico è naturalmente appassionante in entrambi, ma non bisogna decidere unilateralmente dell'anteriorità del reale o dell'immaginario (altra realtà) nella cultura scientifica di un'epoca. G. Beaujouan ricorda che, nel Cinquecento, gli esseri mostruosi realmente esistenti sarebbero all'origine di una parte almeno dell'immaginario dei mostri. Per il Medioevo, ciò che preesiste abitualmente non è una realtà ma un fantasma derivato peraltro molto spesso da una lontana origine dotta, ''scientifica'': fantasmi che, al momento in cui si colgono in pieno Medioevo (secoli 11°-12°), possono provenire, nel mondo dei chierici, dalla lettura di Plinio il Vecchio, Solino, Isidoro di Siviglia, ma che, per la ''massa'', sono l'eco deformata e ignorata del Physiologus volgarizzato dalle sculture, dalle prediche, dai racconti, il prodotto cioè di quello che è diventato un mostruoso ''mentale''. Se in proposito si ricordano le influenze della scienza sul sapere popolare, sulle mentalità, bisogna rendersi conto che il ciclo delle influenze reciproche tra due tipi di sapere (peraltro spesso non ancora definito) è molto complesso e che non è possibile studiarlo se non nella lunga durata. Nella lunga sequenza medievale ciò che si può osservare, all'ingrosso, è l'esistenza di una tradizione scientifica antica diventata elemento di un sapere ''popolare'', di una mentalità che ha conquistato la sua autonomia e che nei secoli 12° e 13° peserà sul movimento propriamente scientifico; questo, a sua volta, alimenterà una certa mentalità immaginaria comune, che il Rinascimento tenderà a separare di nuovo, ma più rigidamente, in sapere scientifico e sapere volgare.
Un'altra questione, che si pone come falso problema, è quella dell'inclinazione che la storia delle mentalità avrebbe verso la psicanalisi, mentre la storia delle scienze la rifiuterebbe per interessarsi solo al cosciente. Una prima constatazione è che, se è indubbiamente vero che tanto la storia delle scienze quanto quella delle mentalità avrebbero interesse a ricorrere anche (non soprattutto, beninteso) alla psicanalisi, è altrettanto vero che la difficoltà che ha quest'ultima di costruire una psicanalisi del collettivo, ne ha determinato di fatto l'esclusione dal campo di utilizzazione della maggior parte degli storici delle mentalità. A servirsene è stato quasi il solo A. Dupront, con pochi discepoli, e non è certo la parte migliore della sua opera, per altri aspetti pioneristica e feconda. Di fatto, la storia delle mentalità non ha bisogno, ora come ora, della psicanalisi; non è dunque il caso di agitare questo fantasma.
Il punto di vista scientifico gioca senza dubbio un grande ruolo nelle mentalità. Esso è stato sempre un elemento importante del discorso sulle mentalità. Dalla teoria dei quattro elementi o dei quattro umori alla relatività, alle onde, agli atomi, ecc., il riferimento scientifico (il più delle volte fatto prescindendo da una vera conoscenza dei fatti e da una pertinente utilizzazione) ha sempre tradito il proposito dei sistemi di mentalità di trovare il sostegno di nozioni scientifiche capaci d'impressionare gl'interlocutori. Ciò che, dunque, occorre conoscere sono i rapporti esistenti tra le realtà scientifiche vere e le allusioni imbastardite di cui si fa veicolo il discorso delle mentalità, per poi misurare il peso e l'evoluzione di questa componente delle mentalità; non va dimenticato che, com'è stato riconosciuto da alcuni storici delle scienze, anche le scienze sono ''produttrici di mentalità''. In proposito si dovrà approfondire il senso della distinzione tra la ''scienza'' e le ''scienze''.
Gli storici delle scienze riconoscono che ci sono delle ''ideologie scientifiche'' la cui natura e funzione, sopprimendo il marchio ideologico, risulterebbero chiare nei confronti delle ''mentalità scientifiche''. Ci sono teorie scientifiche che, per un pezzo, ''vanno da sé'' e poi crollano; lo studio di tali ''svolte di mentalità'' offrirebbe dei chiarimenti su questi importanti fenomeni della storia delle scienze. In ogni settore del sapere si trova una mentalità ''comune''. A. Vauchez (La sainteté en Occident aux derniers siecles du Moyen Age d'après le procès de canonisation, 1981) ha dimostrato che i più grandi teologi, nel Medioevo, manifestano nei confronti del miracolo la stessa mentalità degl'ignoranti. Sarebbe interessante cercare nella storia delle scienze questo tipo di credenza comune sia agli scienziati che al volgo. Se anche nella scienza ha un suo ruolo il simbolismo, ecco allora un tema di ricerca diacronica da compiere in collaborazione con gli specialisti di storia delle mentalità simboliche. In linea di massima, importerebbe cercare e studiare tutti gli elementi irrazionali, affettivi, immaginari, collettivi, presenti nella storia delle scienze. Nella scienza, infatti, vi è più e altro che il dato scientifico, e quest'elemento diverso può trovare notevole chiarificazione nella storia delle mentalità.
La storia dei valori: mentalità, ideologia, utopia. - Al di là della storia intellettuale e delle mentalità c'è la storia dei valori. Se si ammette che storia intellettuale e storia delle mentalità costituiscono i nuovi terreni su cui sviluppare la nuova storia delle i., bisogna completare quest'affermazione con qualche aggiunta indispensabile. La prima è che la storia delle i. deve rimanere parte della storia intellettuale; ma poiché la storia intellettuale ha fatto suo quanto vi è di fecondo in quella sorta di imprecisione e di andamento vagante delle i., contemporaneamente alla contestualizzazione di esse bisognerebbe conferire alla storia delle i. una forma più rigorosa, da un lato mantenendo alle i. la loro flessibilità storica, ma dall'altro sistemandole saldamente in rapporto alle teorie, ai concetti, alle nozioni derivanti dal lavoro di organizzazione, razionalizzazione e chiarificazione operato dal pensiero. Così pure, appare necessario tener ben distinti entro i rispettivi campi della storia intellettuale e delle mentalità alcuni settori incentrati su nozioni specifiche come ideologia, utopia, immaginario, valore. Infine, senza rifiutare scambi e sconfinamenti utili, storia intellettuale e storia delle mentalità devono guardarsi dalla pretesa di predominio da parte di due tipi di storia, l'uno tradizionale, l'altro recente: la storia della filosofia e la storia della cultura.
Oggi la storia delle ideologie è tanto più di moda in quanto, dopo aver fortemente subito l'impronta del pensiero marxista, il concetto di ideologia viene in genere applicato al marxismo stesso. Sull'evoluzione storica del concetto di ideologia un buono studio si può trovare nell'opera classica del sociologo tedesco di origine ungherese, K. Mannheim, Ideologie und Utopie (1929).
Il termine ideologia, come sottolinea Mannheim, "non implicava dapprima nessun giudizio di valore nei confronti delle diverse sfere della realtà, poiché in origine indicava soltanto la teoria delle idee". All'epoca della Rivoluzione francese un gruppo di filosofi francesi che, fedele alla tradizione di Condillac, "rifiutava la metafisica e cercava di fondare le scienze della cultura su basi antropologiche e psicologiche", sembrava essersi posto come programma questa elaborazione della teoria delle idee. Ma Napoleone, trovando che questo gruppo di filosofi si opponeva alle sue ambizioni imperialistiche, diede loro, sprezzantemente, l'etichetta di ''ideologi''. Così la parola assunse un significato spregiativo, quasi sinonimo di dottrinario, ma con maggiore insistenza sull'irrealismo di teorie e di i. indifferenti alla condotta e all'attività pratica. Hegel fece raggiungere alla nozione d'ideologia uno stadio superiore collocandola in una prospettiva storica. Uno stadio ultimo fu raggiunto con Marx, la cui teoria "fu la prima a operare la fusione della concezione particolare con la concezione totale dell'ideologia". L'analisi ideologica diventò un'arma "per smascherare i motivi nascosti degli avversari". L'ideologia divenne il pensiero inconscio dei politici borghesi che agivano in funzione della loro posizione e dei loro interessi di classe camuffandoli sotto una veste ''ideologica''. Questo significato spregiativo, che indica l'ampollosità e l'irrealismo interessato dei pensatori e dei politici, sussiste tuttora ma accompagnato da un nuovo senso ''neutro'' di ideologia. In particolare coi sociologi tedeschi delle i., Weber, Sombart, Troelsch, la teoria dell'ideologia è diventata la sociologia della conoscenza. L'ideologia, in tal modo si è liberata da una svalutazione del suo carattere normativo, trovandosi definita soprattutto come un sistema di interrelazioni tra le i., e "tra il punto di vista intellettuale e la posizione sociale" senza che intervenga la concezione marxista dell'ideologia come ''falsa coscienza''. Questa nuova concezione dell'ideologia come sistema di conoscenza ha potuto, secondo Mannheim, portare sia al relazionismo che al relativismo. Questi due sistemi legavano l'ideologia alla storia e hanno dunque favorito la costituzione di una storia della ideologia, nel primo caso, delle ideologie nel secondo.
In questa prospettiva Mannheim distinse utopia e ideologia, come nozioni che non hanno la stessa concezione del superamento della realtà da parte del pensiero. Così fu portato a parlare di mentalità utopica e a definire quattro forme successive di questa nella storia dell'Occidente moderno: il millenarismo orgiastico degli anabattisti, l'idea umanitario-liberale, l'idea conservatrice e l'utopia socialcomunista.
In prospettive del tutto diverse, uno storico delle religioni, G. Dumézil, e un sociologo antropologo, L. Dumont, hanno proposto due concezioni neutre, ma positive, dell'ideologia, molto interessanti per lo storico delle i., della storia intellettuale e delle mentalità.
Dumézil ha individuato un'ideologia indoeuropea, di cui gli storici hanno riscontrato un'analoga funzione strutturante in Occidente, nel Medioevo e nell'età moderna. Secondo questa ideologia le società storiche, eredi del pensiero indoeuropeo, eredità staccata da un supporto storico etnico, hanno accordato una particolare importanza al principio della triplice funzionalità, cioè a un pensiero che suddivide le i. e le loro eventuali incarnazioni (per es., sociali) secondo tre funzioni: la prima sacra, la seconda guerriera, la terza economica. Più in generale Dumézil ha dato dell'ideologia le seguenti definizioni: "Ma tutti questi elementi (mitologia, teologia, letteratura sacra, organizzazione sacerdotale) sono subordinati a qualcosa di più profondo, che li orienta, li raggruppa, li unifica, e che, nonostante la parola sia usata con altri significati, propongo di chiamare ideologia, ossia una concezione e una valutazione delle grandi forze che animano il mondo e la società, e dei loro rapporti" (Rituels indo-européens à Rome, 1954, p. 7); "Chiamo ''ideologia'' l'inventario delle idee direttrici che guidano la riflessione e la condotta di una società e che, beninteso, non implicano una qualsivoglia organizzazione particolare dei cervelli" (L'oubli de l'homme et l'honneur des dieux, 1985, p. 312).
Quanto a Dumont, egli ha studiato, in contrapposizione all'ideologia indiana delle caste (Homo hierarchicus, 1967), l'ideologia moderna delle nazioni, in particolare l'ideologia tedesca, confrontandola con l'ideologia francese (Homo aequalis, i, 1977; ii, 1991), e sforzandosi soprattutto d'individuare in ciascuna nazione una "ideologia dominante", o anche una "ideologia di base", un'i. formata dalla storia e generatrice d'identità collettiva.
J. Le Goff definisce l'ideologico come ciò che è "investito da una concezione del mondo, che tende a imporre alla rappresentazione un senso che sovverte tanto il ''reale'' materiale quanto quell'altro reale che è l'immaginario. Solo per un atto di forza effettuato in rapporto al ''reale'', costretto a entrare in un quadro concettuale predisposto, l'ideologico ha una certa parentela con l'immaginario".
"Quando i chierici del Medioevo simboleggiano la struttura della società terrena con l'immagine delle due spade, del temporale e dello spirituale, del potere regio e del potere pontificio, non ''descrivono'' la società, ma le impongono un'immagine destinata a separare chiaramente chierici e laici e a stabilire una gerarchia fra di loro, perché la spada spirituale è superiore alla spada temporale. Quando questi medesimi chierici mettono in evidenza nei comportamenti umani sette peccati capitali, non realizzano una descrizione dei cattivi comportamenti, ma costruiscono uno strumento adatto a combattere i vizi in nome dell'ideologia cristiana" (L'imaginaire médiéval,1985, pp. ii-iii).
Ciò che, al di là della ''storia intellettuale'' e della ''storia delle mentalità'', Le Goff cerca di presentare è una storia delle forme di pensiero che, nella storia delle i. astratte, delle condizioni neutre della vita intellettuale, degli aspetti fluttuanti delle mentalità, introduca un peso normativo, una spinta dinamica. Più delle nozioni d'ideologico, d'immaginario, d'utopico, quella che sembra dover dare alla storia intellettuale e delle mentalità la loro carica affettiva e sublimante, portandole a compimento in una storia del desiderio, è la nozione di ''valore''.
Dalla storia delle idee alla storia dei valori. - Accanto a una nuova storia politica come storia del potere, che integra la storia del simbolico e dell'immaginario, tutta una metodologia storica rinnovata si sta costruendo sulle rovine della storia delle i., ormai inadeguata ai progressi della problematica storica. In essa, oltre i due orientamenti di cui si è parlato − una storia intellettuale, che è quella delle pratiche sociali del pensiero, e una storia delle mentalità, che è quella dell'automatico e del collettivo nel campo mentale − un terzo orientamento si sta delineando, quello di una storia dei valori, che è quella dei nuclei valorizzati del pensiero e delle mentalità.
Una società non può vivere senza obiettivi e neppure senza sogni. La storia di questi sogni è la storia dell'immaginario. La storia di questi obiettivi è la storia dei valori, che include il qualitativo che sta dentro la storia degli individui e delle società.
La nozione di valori sostituisce quella di idee-forza che, elaborata dalla filosofia alla fine dell'Ottocento, risulta troppo legata alla scienza di quell'epoca e a una concezione di forza oggi superata in fisica. La nozione di valore conserva in sé la preoccupazione d'introdurre nella storia una ''dinamica'', inserisce in essa il ''desiderio'', restituisce alle società del passato la loro ''etica''. Ispirata largamente alla storia delle rappresentazioni, essa aiuta a strutturare una storia in grado di misurare l'impatto sull'evoluzione delle società tanto dell'economico quanto del filosofico, del culturale e del politico, e ciò attraverso la mediazione di valori come il gusto o il disprezzo del profitto, il fascino del razionale o dell'irrazionale, la ricerca del bello o dell'utile, il senso dell'ordine e della gerarchia o dell'uguaglianza; essa riesce ad animare questi sistemi storici di valori facendo ricorso a una storia come quella della sensibilità, di cui Febvre è stato, con Bloch, il grande iniziatore nella storiografia moderna.
Per far questo, i mutamenti di valori devono essere ricollocati in una concezione concreta della durata storica che nessuno ha definito meglio di Bloch: la letteratura "quasi senza scampo, si tira dietro un gran numero di temi ereditati da meccanismi formali appresi nei luoghi di lavoro, da antiche convenzioni estetiche, che sono altrettante cause di ritardo. ''A una medesima data'', scrive con sagacia H. Focillon, ''il politico, l'economico, l'artistico non occupano − meglio sarebbe dire, non occupano necessariamente − la stessa posizione sulle rispettive curve''. Ma è proprio da queste deviazioni che la vita sociale trae il suo ritmo quasi sempre sottoposto a contrasti" (Apologie pour l'histoire, 19747, pp. 128-29). Variabilità, plasticità, deviazioni, contraddistinguono dunque le serie di cui si compone la storia, ma, talvolta, con l'accelerazione dovuta alla presa di coscienza, si assiste al raccogliersi di queste serie in un fascio: "Lo storico non esce mai dal tempo; ma, per un'oscillazione necessaria,... in esso considera ora le grandi ondate di fenomeni collegati tra loro che attaversano da parte a parte la durata, ora il momento umano in cui queste correnti si stringono nel nodo possente delle coscienze" (ibid., p. 130).
Vorrei proporre la formazione di uno di questi ''nodi'' nell'evoluzione storica di cui parla Bloch, partendo dalla nozione di valore da un lato, e, dall'altro, da una concezione elastica della periodizzazione che esponga la genesi di un fenomeno nel corso di circa un secolo, senza fissare il punto di partenza e di arrivo sulla base di un secolo aritmetico. Credo che tra la metà del secolo 12° e la metà del 13° (la datazione è molto approssimativa) sia riscontrabile un profondo mutamento in un decisivo complesso di valori della società cristiana occidentale. Questa svolta cruciale ritengo che si verifichi per effetto della presa di coscienza, in moltissimi uomini e donne di questo periodo, del grande progresso della cristianità (soprattutto, all'incirca, dopo l'anno Mille), progresso che continuerà, in media, secondo le regioni della cristianità, fin verso la metà del Duecento. Poiché questo progresso si manifestò, con maggiore o minore intensità e con variazioni cronologiche, a seconda dei luoghi e degli ambienti, nel complesso dei campi che costituiscono la vita delle società (tecnologico, economico, sociale, intellettuale, artistico, religioso, politico), questi valori riguardano tutti i suddetti campi, che mi pare costituiscano un sistema storico strutturato, ma che vanno analizzati al di fuori di qualunque schema, foriero solo di sterilità, basato sui concetti d'infrastruttura e di sovrastruttura. Soggetti come sono a un'interazione complessa, questo o quel campo possono, nel corso di questo comune mutamento, trovarsi vicendevolmente ad assumere la più importante funzione di acceleratore. Questa funzione toccherà volta a volta alla spinta cittadina, alla rivoluzione agricola, all'incremento demografico, alla comparsa della Scolastica e degli ordini mendicanti, alla nascita dello Stato, alle trasformazioni del mondo cittadino, alla comparsa di nuove categorie sociali cittadine, ma sempre in interazione.
Questo studio sul mutamento dei valori deve essere incentrato su tre assi d'indagine: quello dell'attrezzatura (outillage) culturale e mentale con la comparsa delle i. (e delle pratiche) di crescita progressiva e di contabilità, gli sconfinamenti degli uomini nel regno riservato a Dio, le trasformazioni dell'outillage intellettuale; quello degli atteggiamenti verso la realtà terrena, in particolare verso la vita, il corpo, la terra e la storia; quello dei sistemi di valori e di rappresentazione, con la distinzione tra clericale e laico, spirituale e temporale, sacro e profano.
A conclusione, è opportuno precisare due punti: il ricorso a una storia dei valori non è un ritorno camuffato alle nozioni di Weltanschauung e di Zeitgeist (''concezione del mondo'' e ''spirito dei tempi''), comparse nel pensiero e nella storiografia tedesca nel corso dell'Ottocento. La nozione di valore non ha nulla di misterioso; essa si determina all'interno di una metodologia storica precisa e razionale. Con quei concetti illusori e superati ha in comune soltanto il fatto di mirare alla totalità, ma a una totalità strutturata.
Uno studio dei mutamenti di valori nella storia dell'Occidente sembra dominato da un'ideologia del senso della storia. Se può sembrare che in questa storia, dal 10° al 19° secolo, pur attraverso numerose crisi, in particolare quella dei secoli 14° e 15°, vi sia stato un lungo trend, all'insegna delle nozioni di crescita e poi di progresso, incarnate in una progressiva conversione verso il mondo terrestre, basterebbe la crisi del progresso nel Novecento, già segnalata negli anni Trenta da G. Friedmann, per annientare l'idea di un progresso storico lineare, sia pure nella sola storia occidentale. La storia dei valori è quella di una via contrassegnata da moti di progresso e regresso, dalla diversità, dalle deviazioni. Essa lascia supporre che, nonostante il peso delle strutture storiche e della tirannia degli eventi, l'uomo, in quanto individuo e in quanto membro di una società, possa, con l'aiuto dei valori che egli determina con una presa di coscienza, influire sul corso della storia e sul proprio destino. Con la storia dei valori, sia la storia intellettuale che la storia delle mentalità trovano il loro sbocco nell'impegno e nell'azione.
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