Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
La produzione storico-critica ottocentesca è assai ampia ed eterogenea e raggiunge in non pochi casi esiti di valore assoluto. Confrontarsi con i classici del XIX secolo costituisce per il lettore contemporaneo un’esperienza di indubbio interesse e sicura utilità.
Storia, critica, teoria
Nel tentativo di tratteggiare le tappe fondamentali della riflessione storiografica e critica ottocentesca, non si può prescindere dal fortunato genere letterario della storia della letteratura. Con questo termine si intende un’opera che, in maniera più o meno particolareggiata e seguendo un ordine cronologico, si sforza di ricostruire lo sviluppo di una o diverse civiltà letterarie in un determinato periodo di tempo. Non si possono comunque trascurare le storie che si limitano a tracciare l’evoluzione, o meglio, le metamorfosi di un unico genere letterario.
Mentre in passato aveva prevalso l’erudizione e l’aneddotica (basti pensare alle pur encomiabili fatiche del Crescimbeni o del Tiraboschi), nell’Ottocento le storie letterarie divengono panorami diacronici in cui la documentazione sull’autore, i testi e i contesti sono strumentali alla valutazione critica: non a caso nel XIX secolo il critico letterario diventa in tutta Europa una figura autonoma, in grado di mantenersi esercitando esclusivamente un’attività di ricerca e riflessione su testi antichi o moderni.
Italia
Della Storia letteraria d’Italia, che Ugo Foscolo progetta con zelo entusiasta, ci rimangono soprattutto i Saggi sul Petrarca (1823), gli articoli su Dante, Tasso e alcuni poeti suoi contemporanei, nonché le ampie introduzioni alle sue edizioni della Commedia (1825) e del Decameron (1825). Benché colme di sterile erudizione e sovente condizionate dall’estetica neoclassica, le sue pagine critiche, oltre a rivelare una pur asistematica acribia filologica, presentano talune idee non prive di interesse: il lettore di Dubos, Gravina, Diderot, Rousseau e specialmente di Vico e di Herder elabora una vera e propria filosofia della poesia, in base alla quale con il progredire della civiltà la fantasia diviene sempre più debole, pigra e di conseguenza incapace di creare versi autenticamente ispirati.
Ugo Foscolo
Epoche della lingua italiana
Sulla lingua italiana. Discorsi sei
Era Giovanni Boccaccio dotato dalla natura di facondia a descrivere minutamente e con maravigliosa proprietà ed esattezza ogni cosa. Mancava al tutto di quella fantasia pittrice, la quale condensando pensieri, affetti ed immagini, li fa scoppiare impetuosamente con modi di dire sdegnosi d’ogni ragione rettorica. Però in tanti suoi libri di versi e rime pare spesso poeta nell’invenzione, e non mai nello stile; di che i fondatori dell’Accademia della Crusca atterrita come di cosa fuor di natura, esclamavano che il Boccaccio, che sorpassò tutti gli scrittori nelle sue Novelle, non ha mai potuto comporre una stanza in rime degna del nome di poesia. Del resto questa sua prodigalità di parole sceltissime, e sinonimi accumulati e i significati purissimi, schietti per lo più di metafore, e vaghi di vezzi nella giuntura delle frasi giovano a lasciar osservare tutti gli elementi della sua prosa: e scemasi alquanto la somma difficoltà di scevrare le leggi certe grammaticali dalle arbitrarie de’ retori; e la materia perpetua della lingua, dalle forme mutabili dello stile. Fra quante opere abbiamo del Boccaccio, la più luminosa di stile e di pensieri a noi pare la Vita di Dante: e la sua lunga Lettera a Pino de’ Rossi a confortarlo nell’esilio è caldissima d’eloquenza signorile; onde i vocaboli corrono meno lenti e più gravi d’idee che nelle Novelle. Le tante macchie di lingua scoperte dagli Accademici in que’ due volumetti, sono invisibili a noi, colpa forse del non saperle discernere. Forse anche dispiacquero perché paiono in lingua piuttosto italiana che fiorentina; e sono meno ricchi di parole non necessarie, più rigorosi nella sintassi, e meno vezzosi di quelle grazie, le quali, per essere più dell’autore che della lingua, non furono imitate mai che non paressero smancerie. Loderemo dunque ogni superfluità di parole in quanto il Decamerone somministra maggior numero d’osservazioni grammaticali; e tanto più quanto la qualità diversa di cento novelle, e la varietà degli umani caratteri che vi sono descritti porsero occasioni all’autore di applicare ogni colore e ogni studio alla lingua, e farla parlare a principî ed a matrone e a furfanti e a fantesche e a tonsurati ed a vergini, ed a chi no? onde in questo il Boccaccio è scrittore unico forse.
Ugo Foscolo, Saggi di letteratura italiana, a cura di C. Foligno, Firenze, Le Monnier, 1958
Antitetiche sono le posizioni di Paolo Emiliani Giudici e di Cesare Cantù, i quali realizzano due storie letterarie che, per motivi diversi, sono apparse al nostro secolo discutibili e tutt’altro che eccelse: se il primo non riesce a fondere armonicamente educazione classicistica e senso romantico della storia, il secondo non riesce – come del resto in altri suoi lavori – a liberarsi da un moralismo pedante e sovente ingiusto.
Amore sincero per la patria e generoso impegno etico-politico accomunano invece Luigi Settembrini e Francesco De Sanctis, che realizzano senza dubbio le ricostruzioni più intense e suggestive del divenire delle lettere italiane dalle origini al loro tempo. Nelle Lezioni di letteratura italiana (1866-1872) Settembrini, patriota di forte spirito anticlericale, rappresenta la storia dell’intera cultura patria come una lotta perpetua tra forze laico-progressiste e forze cattoliche e reazionarie.
Nata come manuale a uso dei licei, la Storia della letteratura (1870-1871) costituisce il capolavoro della critica italiana ottocentesca: in essa il De Sanctis, rielaborando in proprio il pensiero vichiano e hegeliano, delinea vivacemente lo "svolgimento" dello "spirito nazionale" del suo Paese, che si esprime in manifestazioni civili, politiche, letterarie, filosofiche e artistiche. Memorabili rimangono i suoi ritratti di Dante, Petrarca, Boccaccio, Ariosto e Machiavelli. Già la prosa del Decameron, a suo parere, manifesta i sintomi di quella decadenza civile e morale dell’Italia che culmina nelle stravaganze barocche e nella vacua poesia arcadica; da tale crisi di valori la letteratura esce pienamente soltanto grazie ai capolavori di Manzoni e di Leopardi.
Francesco De Sanctis
La letteratura in Italia dopo la sua nascita
Storia della letteratura italiana
Il secolo sorto con tendenze ontologiche e ideali avea posto esso medesimo il principio della sua dissoluzione: l’idea vivente, calata nel reale. Nel suo cammino il senso del reale si va sempre più sviluppando, e le scienze positive prendono il di sopra, cacciando di nido tutte le costruzioni ideali e sistematiche. I nuovi dogmi perdono il credito. Rimane intatta la critica. Ricomincia il lavoro paziente dell’analisi. Ritorna a splendere sull’orizzonte intellettuale Galileo accompagnato con Vico. La rivoluzione arrestata e sistemata in organismi provvisori ripiglia la sua libertà, si riannoda all’Ottantanove, tira le conseguenze. Comparisce il socialismo nell’ordine politico, il positivismo nell’ordine intellettuale. Il verbo non è più solo Libertà, ma Giustizia, la parte fatta a tutti gli elementi reali dell’esistenza, la democrazia non solo giuridica ma effettiva. La letteratura si va anche essa trasformando. Rigetta le classi, le distinzioni, i privilegi. Il brutto sta accanto al bello, o, per dir meglio, non c’è più né bello, né brutto, non ideale, e non reale, non infinito, e non finito. L’idea non si stacca, non soprastà al contenuto. Il contenuto non si spicca dalla forma. Non ci è che una cosa, il vivente. Dal seno dell’idealismo comparisce il realismo nella scienza, nell’arte, nella storia. E’ un’ultima eliminazione di elementi fantastici, mistici, metafisici e rettorici. La nuova letteratura, rifatta la coscienza, acquistata una vita interiore, emancipata da involucri classici e romantici, eco della vita contemporanea universale e nazionale, come filosofia, come storia, come arte, come critica, intenta a realizzare sempre più il suo contenuto, si chiama oggi ed è la letteratura moderna.
L’Italia, costretta a lottare tutto un secolo per acquistare l’indipendenza e le istituzioni liberali, rimasta in un cerchio d’idee e di sentimenti troppo uniforme e generale, subordinato a’ suoi fini politici, assiste ora al disfacimento di tutto quel sistema teologico-metafisico-politico, che ha dato quello che le potea dare. (...)
Diresti che proprio appunto, quando s’è formata l’Italia, si sia sformato il mondo intellettuale e politico da cui è nata. Parrebbe una dissoluzione, se non si disegnasse in modo vago ancora ma visibile un nuovo orizzonte. Una forza instancabile ci sospinge, e, appena quietate certe aspirazioni, si affacciano le altre.
L’Italia è stata finora avviluppata come di una sfera brillante, la sfera della libertà e della nazionalità, e n’è nata una filosofia e una letteratura, la quale ha la sua leva fuori di lei, ancorché intorno a lei. Ora si dee guardare in seno, dee cercare se stessa; la sfera dee svilupparsi e concretarsi come sua vita interiore. L’ipocrisia religiosa, la prevalenza della necessità politiche, le abitudini accademiche, i lunghi ozi, le reminiscenze d’una servitù e abbiezione di parecchi secoli, gl’impulsi estranei soprapposti al suo libero sviluppo, hanno creata una coscienza artificiale e vacillante, le tolgono ogni raccoglimento, ogn’intimità. La sua vita è ancora esteriore e superficiale. Dee cercare se stessa, con vista chiara, sgombra da ogni velo e da ogni involucro, guardando alla cosa effettuale, con lo spirito di Galileo, di Machiavelli. In questa ricerca degli elementi reali della sua esistenza, lo spirito italiano rifarà la sua coltura, ristaurerà il suo mondo morale, rinfrescherà le sue impressioni, troverà nella sua intimità nuove fonti d’ispirazione, la donna, la famiglia, la natura, l’amore, la libertà, la patria, la scienza, la virtù, non come idee brillanti, viste nello spazio, che gli girino intorno, ma come oggetti concreti e familiari, divenuti il suo contenuto.
Una letteratura simile suppone una seria preparazione di studi originali e diretti in tutt’i rami dello scibile, guidati da una critica libera da preconcetti e paziente esploratrice, e suppone pure una vita nazionale, pubblica e privata, lungamente sviluppata. Guardare in noi, ne’ nostri costumi, nelle nostre idee, ne’ nostri pregiudizi, nelle nostre qualità buone e cattive, convertire il mondo moderno in mondo nostro, studiandolo assimilandocelo e trasformandolo, "esplorare il proprio petto" secondo il motto testamentario di Giacomo Leopardi, questa è la propedeutica alla letteratura nazionale moderna, della quale compariscono presso di noi piccoli indizi con vaste ombre. Abbiamo il romanzo storico, ci manca la storia e il romanzo. E ci manca il dramma. Da Giuseppe Giusti non è uscita ancora la commedia. E da Leopardi non è uscita ancora la lirica. Ci incalza ancora l’accademia, l’arcadia, il classicismo e il romanticismo. Continua l’enfasi e la rettorica, argomento di poca serietà di studi e di vita. Viviamo molto sul nostro passato e del lavoro altrui. Non ci è vita nostra e lavoro nostro. E da’ nostri vanti s’intravede la coscienza della nostra inferiorità. Il grande lavoro del secolo decimonono è al suo termine. Assistiamo ad una nuova fermentazione d’idee, nunzia di una nuova formazione. Già vediamo in questo secolo disegnarsi il nuovo secolo. E questa volta non dobbiamo trovarci alla coda, non a’ secondi posti.
Francesco De Sanctis, Storia della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 1975
Nella seconda metà del secolo fiorisce la cosiddetta "scuola storica" che – aliena dall’impressionismo quanto da aspirazioni a inquadrature sistematiche della civiltà letteraria nazionale – cerca di studiare le fonti dei classici, di realizzare edizioni critiche ineccepibili e di scandagliare i contesti in cui le opere sono state prodotte. Fra i suoi maggiori esponenti trova sicuramente posto Giosuè Carducci, che compone, fra l’altro, diversi studi monografici (su Dante, Parini, Foscolo ecc.) e magniloquenti discorsi intorno alla letteratura medievale.
Francia
Tensione illuministica verso il progresso e la libertà e un appassionato sentire proprio del romanticismo si avvertono chiaramente nelle due maggiori opere storico-critiche di Madame de Staël: mentre nella Letteratura considerata nei suoi rapporti con le istituzioni sociali (1800) la scrittrice tratteggia una storia delle lettere dall’antichità fino ai suoi giorni, in cui non si stanca di celebrare ideali cosmopoliti e liberali, nella Germania (1814) si concentra sulla cultura tedesca, di cui descrive con sentito entusiasmo la ricchezza, la vitalità e l’importanza per il miglioramento delle condizioni dell’umanità.
Personalità alquanto eclettica – è storico, economista, ideologo e critico – Jean-Charles-Léonard Simonde de Sismondi ha modo di confrontarsi con alcune delle personalità e degli ambienti culturali più vivaci del primo Ottocento. Nella Letteratura del Mezzogiorno d’Europa (1813) egli considera il patrimonio letterario arabo, provenzale, francese, italiano, spagnolo e portoghese, concentrandosi soprattutto su testi, contesti e autori medievali. La parte meno deludente di questa compilazione, non di rado incompleta e costruita su fonti secondarie, è quella riservata alla letteratura italiana: pur amando Dante e Ariosto, Sismondi preferisce il Tasso, nella cui poesia classico e romantico trovano un mirabile equilibrio.
Mentre sono discutibili le considerazioni critiche del classicheggiante Chateaubriand che, nel Genio del cristianesimo (1802) paragona la tragedia greca con quella raciniana e in vecchiaia compone un Saggio sulla letteratura inglese (1836) tutt’altro che riuscito, non sono da sottovalutare il magistero di Claude Fauriel (profondo conoscitore delle lettere provenzali e italiane del Medioevo), Abel François Villemain, Jean-Jacques Ampère e Philarète Chasles: oltre a scandagliare con rigore filologico la letteratura dall’antichità ai loro giorni, essi sono fra i primi a teorizzare e praticare la comparazione fra le diverse civiltà letterarie.
François-René de Chateaubriand
L’eloquenza morale è nata col Vangelo
Genio del cristianesimo
Il Cristianesimo fornisce tali prove della sua eccellenza, che quando si crede di aver ormai solo un argomento da trattare, se ne presenta subito un altro sotto la penna. Parlavamo dei filosofi, ed ecco che gli oratori vengono a chiederci se ci siamo dimenticati di loro. Noi ragioniamo sul Cristianesimo nelle scienze e nella storia, e il Cristianesimo ci impone di far vedere al mondo i maggiori effetti noti dell’eloquenza. I moderni devono alla religione cattolica quell’arte del discorso che, mancando alla nostra letteratura, avrebbe dato all’antico genio un’indiscussa superiorità. Ecco uno dei grandi trionfi del nostro culto; e checché si possa dire in lode di Cicerone e di Demostene, Massillon e Bossuet possono indubbiamente esser paragonati a loro.
Gli antichi ebbero solo l’eloquenza giudiziaria e politica: l’eloquenza morale, ovvero l’eloquenza di ogni tempo, di ogni governo, di ogni paese; non è apparsa sulla terra che con il Vangelo. Cicerone difende un cliente; Demostene combatte un avversario o cerca di ravvivare l’amore per la patria in un popolo degenerato: l’uno e l’altro sanno solo far presa sulle passioni, e pongono le loro speranze di successo nel turbamento che gettano nei cuori. L’eloquenza del pergamo ha cercato la sua vittoria in una sfera più elevata. È combattendo e moti dell’animo che essa pretende di conquistarla; è placando le passioni che vuol farsi ascoltare. Dio e la carità, ecco il suo testo, sempre uguale, sempre inesauribile. Non gli occorrono né gli intrighi di un partito, né le emozioni popolari, né grandi circostanze per brillare: nella pace più profonda, sulla tomba del cittadino più oscuro, troverà i suoi moti più sublimi; saprà suscitare interesse per una virtù ignorata; farà colare lagrime per un uomo di cui non si è mai sentito parlare. Incapace di timore e d’ingiustizia, insegna ai re, ma senza insultarli; consola il povero, ma senza lusingare i suoi vizi. La politica e gli affari umani non le sono ignoti; ma mentre questi, che costituivano i primi motivi dell’eloquenza antica, non sono per essa che ragioni secondarie, essa li vede dalle altezze dalle quali domina, come un’aquila scorge, dall’alto di una montagna, gli oggetti in basso, nella pianura. Quel che distingue l’eloquenza cristiana dall’eloquenza dei Greci e dei Romani, è quella tristezza evangelica che ne costituisce l’anima, secondo La Bruyère, quella maestosa malinconia della quale si nutrisce. Si leggono una volta, due volte forse, le Verrine e le Catilinarie di Cicerone, l’Orazione per la Corona e le Filippiche di Demostene; ma si meditano incessantemente, si sfogliano notte e giorno le Oraisons funèbres di Bossuet e i Sermons di Bourdaloue e di Massilon. I discorsi degli oratori cristiani sono dei libri, quelli degli oratori antichi solo dei discorsi. Con quale gusto meraviglioso i santi dottori riflettono sulle vanità del mondo! "Tutta la nostra vita, – dicono, – è solo un’ebrezza di un giorno, e voi consumate la vostra giornata alla ricerca delle più folli illusioni. Sarete al colmo dei vostri voti, realizzerete i vostri desideri, diventerete re, imperatore, padrone della terra: un istante dopo, la morte cancellerà questi niente con il vostro niente".
Questa specie di meditazioni, così serie, così solenni, così naturalmente portate fino al sublime, fu del tutto ignota agli oratori dell’antichità. I pagani si consumavano alla ricerca delle ombre della vita; non sapevano che la vera vita comincia dopo la morte. La religione cristiana è stata la sola a gettare le fondamenta di questa grande scuola del sepolcro, ove s’istruisce l’apostolo del Vangelo: essa non permette più che l’uomo prodighi, come il saccente della Grecia, l’immortale pensiero dell’uomo in cose transitorie.
Del resto, è la religione che, in tutti i secoli e in tutti i paesi, fu la fonte dell’eloquenza. Se Demostene e Cicerone furono grandi oratori, furono innanzitutto religiosi. I membri della Convenzione, invece, hanno avuto solo talenti monchi e pezzi di eloquenza, perché attaccavano la fede dei loro padri, e interdicevano così le ispirazioni del cuore.
F.-R. de Chateaubriand, Genio del cristianesimo, a cura di G. Nicoletti, Torino, UTET, 1971
Ostile a un romanticismo che non riesce a comprendere è invece Désiré Nisard, erudito professore il cui amore per le lettere del Seicento classico è evidente, fra l’altro, nella Storia della letteratura (1844-1861).
Charles-Augustin de Sainte-Beuve è forse il maggior critico letterario del secolo: nonostante alcune pur vistose cadute di tono (si pensi, ad esempio, alle sue senili aspirazioni scientistiche), egli elabora gradualmente un metodo attento alla biografia e alla storia, al "fisico" e al "morale" degli scrittori, alle idee e alle forme, ai testi e ai contesti, che applica poi brillantemente grazie a una sensibilità davvero straordinaria. Storico dotato di una vasta e varia cultura, Sainte-Beuve si sforza di riabilitare la poesia e il teatro rinascimentali – di cui mostra le affinità con la rivoluzione romantica – si cimenta con meticolosa finezza nell’analisi di quel milieu di Port-Royal cui dedica ben vent’anni di studio e cerca di considerare con disincantata lucidità il "fenomeno" Chateaubriand. A questi tre argomenti consacra le sue opere più ampie e impegnative. I Ritratti e le Conversazioni del lunedì, raccolte di saggi e articoli sulla letteratura e la cultura antica e moderna, costituiscono, ancora oggi, un patrimonio pressoché imprescindibile per ogni lettore che desideri un dialogo non superficiale con gli scrittori francesi.
Profondamente influenzato dall’hegelismo e soprattutto dalla filosofia positivista (teoria dei condizionamenti derivanti da ambiente, razza e momento; teoria della facoltà dominante), Hippolyte Taine compone anche un’ampia Storia della letteratura inglese (1864), in cui applica in modo piuttosto meccanico le sue teorie.
Ferdinand Brunetière, dotto e solido studioso della letteratura francese e comparata, direttore della "Revue des deux mondes" e conferenziere ufficiale dell’École Normale Supérieure, viene oggi ricordato specialmente per il tentativo di applicare le istanze dell’evoluzionismo ai generi letterari e per la sua decisa conversione al cattolicesimo. Fra i suoi scritti sono da menzionare L’evoluzione della critica dal Rinascimento ai nostri giorni (1890), il fortunato Manuale di letteratura francese (1898) e la Storia della letteratura francese classica (1905-1919). Lontanissima da tale approccio metodologico è la critica impressionistica di Jules Lemaître che, nei Contemporanei, delinea accattivanti profili degli autori del suo tempo.
Al tramonto del secolo si afferma una critica universitaria di stampo schiettamente scientifico e storicistico, di cui Gustave Lanson è senz’altro il maggior esponente. Docente alla Sorbonne e poi direttore della prestigiosa École Normale Supérieure, Lanson è autore di una fondamentale Storia della letteratura francese (1894) che, oltre a riunire una messe assai cospicua di informazioni sulle poetiche, gli scrittori e le opere, presenta numerosi giudizi fondamentali e ancor oggi convincenti. Notevoli sono inoltre le sue monografie su Corneille, Boileau e Montaigne, nonché un fortunato manuale bibliografico (1909-1914).
Inghilterra
Al grande interesse per la letteratura nazionale del passato riscontrabile nell’Inghilterra della prima metà del secolo non corrisponde tuttavia un’adeguata fioritura della storiografia letteraria: gli scritti puramente eruditi di storici quali Cambers, Henry Hallam, Collier e Dunlop non brillano infatti per originalità, acume psicologico o sensibilità stilistica.
Quantunque viziata da greve moralismo e classicismo accademico, la monumentale Storia della poesia inglese (1895-1910) di William John Courthope fornisce un efficace quadro sulla circolazione delle idee nella poesia britannica. Attratto dai rapporti fra letteratura e politica, Courthope non riesce peraltro ad armonizzare il piano della critica con quello della storia.
Con i suoi sette volumi, il Rinascimento in Italia (1875-1886) di John Addington Symonds rappresenta la più vasta esposizione ottocentesca della letteratura italiana composta in lingua inglese: la materia è organizzata in una serie di saggi ben documentati e piacevoli che si ispirano a più riprese alle sintesi di De Sanctis e di Carducci.
Lettore instancabile, la penna agile e disinvolta, George Saintsbury pubblica nell’Ottocento alcune delle sue opere principali: Breve storia della letteratura francese (1882), Storia della letteratura elisabettiana (1887), Storia della letteratura dell’Ottocento (1896), Breve storia della letteratura inglese (1898). Nemico di ogni intransigenza classicistica, questo critico prolifico ed eclettico propugna un impressionismo quanto mai aperto alle più diverse manifestazioni del bello. Ciò che comunque risulta più interessante e attuale nella produzione critica inglese dell’Ottocento è rappresentato dai saggi monografici di illustri scrittori e storici: si pensi alle pagine di Coleridge su Shakespeare, che pur sono state bersaglio di numerosi attacchi, ai contributi di Hazlitt e di Lamb sul teatro elisabettiano e shakespeariano, ai saggi di Carlyle dedicati – tra gli altri – a Dante, Johnson, Rousseau, Schiller e Goethe, agli apprezzati studi di Maccaulay su Milton e Machiavelli, alle opere di Arnold sulle letterature antiche e sulla Bibbia, nonché alle sottili, eleganti osservazioni di Pater su Platone, Pico e Du Bellay.
Germania, Danimarca, Russia
L’opera storico-letteraria di maggiore respiro prodotta nell’ambito del primo romanticismo tedesco è la Storia della letteratura antica e moderna (1815) di Friedrich Schlegel, che nel 1798 ha già composto una Storia della poesia dei greci e dei romani. In essa lo scrittore prende in esame la letteratura universale dall’antichità all’Ottocento e fornisce numerosi giudizi ponderati e convincenti: i suoi autori prediletti sono Shakespeare, Cervantes, Camões, Bossuet (si è convertito al cattolicesimo nel 1808) e Rousseau.
Valutazioni critiche tutt’altro che improvvisate e superficiali si trovano anche in alcune opere del fratello August Wilhelm Schlegel, che apprezza il genio di Omero, Sofocle, Properzio e Shakespeare ed esprime invece riserve, non sempre argomentate e persuasive, in merito alla poesia di Virgilio, Lucrezio, Molière, Milton, Schiller e Goethe.
Anche due celebri poeti, Uhland ed Eichendorff, si occupano di storia letteraria: il primo, uomo di profonda cultura, scandaglia meticolosamente la letteratura medievale (saghe, Minnesänger), applicando una metodologia filologicamente sicura, mentre l’altro è autore di diversi studi, il più impegnativo dei quali è una discutibile Storia della letteratura poetica della Germania (1857), nella quale esamina le lettere tedesche dal suo punto di vista di cattolico aperto e tollerante.
Redatta in uno stile vigoroso e accattivante è la Storia della letteratura poetica nazionale dei tedeschi (1835-1842) di Georg Gottfried Gervinus, professore a Gottinga fino al 1837 e fervido liberale. Gervinus si sofferma particolarmente sui rapporti fra letteratura e società; loda l’azione innovativa di Friedrich e August Wilhelm Schlegel che hanno reinventato, a suo avviso, la storia letteraria e minimizza, per contro, gli esiti del romanticismo che considera un movimento reazionario, cattolicheggiante e non impegnato sul piano etico-civile: specialmente lo Sturm und Drang, Hölderlin, Ernest Theodor Amadeus Hoffmann e Jean Paul vengono valutati con severità e freddezza. Nonostante la viva ammirazione che prova per Goethe e Schiller, Gervinus non esita a evidenziare quelli che ritiene i difetti e le cadute di tono delle loro opere.
La Storia si segnala inoltre per impegno, dottrina e talento narrativo, qualità che la rendono di gran lunga superiore alle Storie coeve del Laube e del Mundt.
Uno dei testi più notevoli della storiografia letteraria europea è poi la Storia della letteratura del XVIII secolo (1856-1870), in sei volumi, di Hermann Hettner: il primo affronta la letteratura inglese, il secondo quella francese e gli altri quattro, senz’altro i più riusciti, esaminano criticamente la storia letteraria tedesca. Anche se i suoi giudizi talora non persuadono, è innegabile che Hettner sia assai abile nell’analisi dei testi e nella ricostruzione degli ambienti culturali in cui essi sono stati prodotti. Egli ribadisce con energia la rilevanza e la vitalità del fenomeno dell’Illuminismo francese in una Germania tardo-ottocentesca che tende ancora a denigrarlo senza conoscerlo.
Wilhelm Scherer, influenzato dal determinismo tainiano e dal positivismo, concepisce la storia letteraria di un Paese come l’inventario dei valori nazionali che devono fungere da modello tanto per l’arte quanto per l’etica. Di fatto la sua Storia della letteratura tedesca (1883) appare per molti versi deludente e decisamente inferiore alle trattazioni di alcuni suoi predecessori.
Rudolf Haym, biografo dotato di un non comune rigore scientifico e di un’ottima preparazione storico-filosofica, ci ha lasciato ritratti particolareggiati di Wilhelm Humboldt, di Hegel, dei romantici della prima generazione e di Herder.
Le Correnti principali della letteratura del XIX secolo (1872-1890) del danese Georg Brandes rappresentano un vasto affresco storico in sei volumi delle letterature francese, inglese e tedesca nella prima metà dell’Ottocento. Questo liberale fautore dell’Illuminismo e del progresso si esprime in maniera fortemente negativa nei confronti del romanticismo tedesco e non apprezza troppo nemmeno i laghisti inglesi, mentre ama Shelley, Byron e tutti i maggiori romantici francesi. Il suo Kierkegaard (1877) è il primo consistente studio dedicato al grande pensatore danese: grazie ad esso, l’avventura esistenziale del filosofo e qualche elemento del suo pensiero superano gli angusti confini della Danimarca.
Mentre critici militanti e rivoluzionari, quali Belinskij, Cerniacevskij, Dobrolyubov e Pisarev, propugnano nei loro scritti ideali liberali, socialisti e anticlericali, la critica universitaria russa si cimenta in meticolose indagini storiche e filologiche: l’opera più incisiva e fortunata realizzata in quest’ambito è la Storia della letteratura russa dalle origini a Gogol’ (1898-1899) di Alexander Nikolaevic Pypin, la cui metodologia presenta punti comuni con quelle di Taine e Brandes.