Storia letteraria del Trecento - Introduzione
Lo storico della letteratura che, dallo studio e dalla descrizione dei documenti della civiltà letteraria del secolo XIII, passa a quelli dell'età immediatamente successiva, ha l'impressione di assistere a un'improvvisa dilatazione e complicazione dell'oggetto della sua indagine. Il quale, di tanto prima tendeva a raccogliersi e coordinarsi in alcuni temi essenziali e coerenti nel loro svolgimento e nei loro rapporti, altrettanto ora sembra ramificarsi in una molteplicità di direzioni divergenti e contraddittorie, in una varietà, che è ricchezza e confusione insieme, di atteggiamenti e di sollecitazioni discordanti. Per quanto possono valere siffatti schemi di distinzione e periodizzazione (nei quali permane sempre, come è chiaro, un largo margine di arbitrio e di empirismo e di opportunità didascalica), non par possibile negare a quell'impressione confusa, ma immediata e non legata a una visione preconcetta, una certa sostanza di validità e verità. E del resto il tenerla presente nel corso dello studio non potrà risolversi in un danno e in un impedimento, sì piuttosto in un vantaggio e in uno stimolo; in quanto gioverà, se non altro, a eliminare il pericolo, non mai abbastanza deprecato, di una sintesi frettolosa, e porterà a dar rilievo assai più alle diversità e ai contrasti dei contenuti e delle forme, alla ricchezza sempre imprevedibile e incoercibile di una situazione culturale, che non agli spunti che anche questa, come ogni altra, può offrire a chi si proponga di inquadrarla in una visione unitaria, sia pure a costo di sacrificare e deformare troppi elementi di fatto, magari secondari, ma non perciò meno reali e vitali, che si ribellano al suo sforzo sistematico.
È ben certo intanto che, a paragone del secolo precedente, nel Trecento appunto il ritmo dell'attività culturale e del suo interno modificarsi e stratificarsi si accelera e sembra sostituire a un lento e organico e coerente processo di acquisizione e di raffinamento dei temi sentimentali e dei moduli espressivi, un andamento rapido e spezzato, per via di bruschi trapassi e di improvvise svolte. La presenza stessa di alcune grandi personalità, che sottolinea vistosamente, nel giro di poche generazioni, il contrasto talora violento delle posizioni mentali, degli interessi dottrinali, delle poetiche, del gusto e della sensibilità; mentre sembra incarnare quasi simbolicamente il mutato ritmo della vita culturale, lascia intravvedere la vastità e l'importanza delle esperienze minori e collaterali, infinitamente ramificate, che quella presenza è ben lungi dall'esaurire e riassumere in se stessa, anche se da esse attinge la sua sostanza e la ragione dei suoi contrasti, e su di esse reagisce a sua volta arricchendole e variandole di continuo.
Dante, Boccaccio, Petrarca: tre mondi poetici, tre momenti della storia culturale e del progresso estetico, così profondamente diversi fra di loro e per certi rispetti addirittura antitetici, che si succedono e si sovrappongono in un così breve corso di anni, e nel quadro di una medesima civiltà, che essi contribuiscono a fondare e a caratterizzare con il loro genio, collocandola d'un tratto al vertice della cultura e letteratura di tutta l'Europa e attribuendole un compito di direzione e di guida. E intorno a queste figure di primo piano, una pullulante fioritura di ingegni e di opere, variamente distribuiti in tutti i gradi del sapere e della consapevolezza tecnica, dai più alti ai più bassi: segno di una straordinaria vivacità e irrequietezza diffusa, e anche (fatto nuovo, e che non si verifica in ugual misura in nessun altro momento della nostra storia) di una tendenza espansiva e divulgativa che fiorisce in innumerevoli documenti di letteratura popolare e semipopolare.
Non è possibile intendere e valutare appieno questa trama di vicende, se non ci si rende conto che in essa si rispecchia, si matura e si risolve, la crisi della civiltà medievale, nel momento in cui si spezzano le robuste strutture ideologiche che l'avevano sorretta per secoli, si affievolisce il prestigio delle istituzioni universali su cui aveva lungamente poggiato l'assetto della cristianità, l'unità morale e civile dell'Europa comincia a frantumarsi in una molteplicità di ordinamenti particolari, in una pluralità di esperienze non più collaboranti ma divergenti. Non è un caso che nell'Italia proprio la crisi dell'ideologia medievale si faccia prima e più che altrove cosciente, e che qui si pongano le premesse del rinnovamento culturale; perché nell'Italia appunto erano confluite e assurte alla loro più esplicita e moderna manifestazione, nell'età comunale, le forze che da varie parti tendevano a disgregare quella compatta architettura di idee e di costumi e di ordini sociali e politici, e se nell'opera di un italiano la concezione scolastica e gerarchica della vita aveva raggiunto la sua espressione più alta e comprensiva, di lì anche, con la fortuna del movimento francescano, era partita la spinta a un sovvertimento, su basi mistiche e fideistiche, di quella concezione.
Di qui l'importanza del Trecento italiano, e il nodo di problemi storici e culturali che in esso si accentra. La cui intelligenza piena comporta da un lato di comprendere il significato e la vastità della crisi che s'è detto, dall'altro il travaglio che si adopera a fondare gli incunaboli di una visione nuova della realtà, e la lotta tra l'antico e il nuovo, fra un'ideologia compatta e sperimentata e un'altra appena incipiente e ancora informe, che si attua in ogni aspetto e si riflette in ciascuno dei protagonisti e dei minori rappresentanti e fin delle comparse di questa età di transizione. Comporta insomma la necessità di affrontare e valutare quel fenomeno complesso e bifronte, che si identifica nel trapasso dal medioevo all'umanesimo, e al quale si riconnette non a caso, nella secolare tradizione storiografica, soprattutto per quanto si riferisce all'Italia, un'alterna vicenda di definizioni contrastanti: ora disposte a ritrovare nel primo umanesimo le premesse e i fondamenti della grande lezione rinascimentale e della sua funzione europea, a riconoscerne cioè il compito essenzialmente progressivo; ora invece, specialmente nella critica ottocentesca e romantica, portate a puntualizzare in esso l'inizio e il sintomo di una involuzione profonda della società italiana e l'espressione, se non proprio la causa, del mancato sviluppo di una cultura nazionale autonoma.
La chiave per un'interpretazione più persuasiva dell'umanesimo, che superi questa polarità di definizioni entrambe arbitrarie o unilaterali e risolva in un nesso dialettico questo contrasto di valutazioni polemiche, sta forse appunto in uno studio più approfondito ed attento del Trecento italiano, che ne illumini le interne contraddizioni sul piano culturale e civile e si renda capace di coglierne tutti gli aspetti attivi e passivi, le novità e le sopravvivenze del passato, l'apertura intellettuale e la fragilità delle basi sociali e politiche. Perché è ben certo che proprio nell'Italia del secolo XIV si elabora primamente il volto della moderna civiltà, che si maturerà, dapprima nella scia dell'arte e del pensiero italiano, poi in modi diversi ed autonomi, nei tre secoli successivi, fino a chiarirsi nell'aperta razionalità dell'Europa illuministica; ma è altrettanto certo che questa scoperta di una nuova prospettiva culturale ed umana viene a coincidere, da noi, con l'esaurirsi di un promettente rigoglio di vita civile e reca con sé il germe di quella dolorosa scissione, che si rivelerà, dentro e dopo lo splendore del Rinascimento, caratteristica della nostra storia, tra la coscienza politica e la vita intellettuale e morale, fra il cittadino e lo scrittore.
Se è vero che tutto il movimento umanistico-rinascimentale, considerato nel suo complesso, può interpretarsi come un momento di profonda crisi nella storia della civiltà europea, la travagliosa gestazione di un nuovo assetto economico-politico e di una nuova coscienza ideologica, maturati sulla rovina delle istituzioni universali e dell'ordinamento gerarchico del medioevo cristiano e feudale e sulla lenta e fatale erosione della sintesi scolastica, incapace ormai di accogliere e sistemare nella sua robusta trama concettuale un ampliato e complicato orizzonte di interessi mentali e di esperienze vitali; e se è vero che di questo travaglio toccò all'Italia anzitutto di sopportare sulle sue spalle il peso, di valutarne primamente l'importanza e la vastità e di segnare le grandi linee del processo in corso, fino ad uscirne esausta nella fase conclusiva della sua maturazione; è indubbio che nel Trecento appunto, e in Italia, è da cogliere il punto iniziale di quella crisi, il suo affiorare dalle oscure viscere della storia alla luce della coscienza e prender consapevolezza di sé e tentare di tradurre il nuovo sentimento della vita in appropriati schemi culturali. Non meno certo è il fatto che il trasferirsi della crisi su un piano intellettuale, onde essa viene assunta e sublimata in un ciclo di geniali soluzioni prevalentemente poetiche e letterarie, si accompagna fin d'allora con una visione eccessivamente orgogliosa e abnorme della funzione autonoma della cultura, la quale tende a sovrapporsi all'esperienza comune e a distanziarla in una condizione d'inferiorità, anziché assimilarsi ad essa e permearla in tutte le sue parti e le sue stratificazioni, a scindersi cioè dalla realtà sociale, e prelude insomma a quello che sarà l'orgoglio, e il limite, della nostra civiltà rinascimentale nel XV e XVI secolo: la convinzione, e l'illusione, «mai forse come allora viva, … che un fatto culturale, gli studia humanitatis, le humanae litterae, potesse, da solo, trasformare, riplasmare e dominare tutta la vita dell'uomo» (Garin).
Solo rendendosi conto della novità, dell'immensa capacità creativa, di questo sforzo culturale, e al tempo stesso della sua tendenza ad erigersi in valore autonomo e a dissociarsi dall'esperienza quotidiana in una sprezzante orgogliosa solitudine, fino a creare una sorta di abisso fra la libertà, la spregiudicatezza e la raffinatezza delle proprie conquiste intellettuali e le condizioni reali della società civile, fino ad illudersi di poterla guidare e indirizzare senza partecipare con umiltà al suo travaglio e investirsi delle sue miserie e delle sue contraddizioni, s'intende, da un lato, l'enorme influsso che le potenti personalità di Dante, del Petrarca, del Boccaccio, come poi quelle dei grandi filologi del Quattrocento, e quindi dell'Ariosto, del Machiavelli, di Galileo, dovevano esercitare nel corso della civiltà europea intenta a svincolarsi dalle forme medievali e a foggiare il suo volto moderno; ma anche si spiega, d'altro canto, come la novità di quelle conquiste dovesse attendere a maturare appieno i suoi frutti solo quando e dove esse giunsero a mettere le radici in un terreno diverso, a moltiplicare la loro efficacia volgarizzandosi e compromettendosi con le esigenze di un processo storico concreto.
A chi si rifiuti di considerarlo in questa larga prospettiva storica, temporale e spaziale, il panorama della cultura trecentesca si presenta singolarmente caotico, e si accentua, fino a riuscire incomprensibile, il contrasto fra le grandi sintesi dottrinali-poetiche, di portata universale e di risonanza europea, e il fermentare contraddittorio e molteplice delle esperienze minori, dominate da un senso di irrequietudine e di angoscia, in cui si riflette il profondo turbamento di una realtà sociale in crisi. Perché proprio in quegli anni il processo storico della civiltà occidentale attinge un momento cruciale della sua evoluzione, quello in cui il corso, che era stato fin allora relativamente unitario e concorde, della civitas Christiana tende, senza rinunziare a svolgere un patrimonio tradizionale di cultura comune, a scindersi in una molteplicità di ordini politici e di culture nazionali distinte. E, a seconda che lo si guardi sullo sfondo della generale civiltà europea ovvero nella prospettiva particolare della storia italiana, il secolo XIV si presenta, di volta in volta, come il crogiuolo in cui si maturano in embrione le concezioni dell'umanesimo e le premesse del mondo moderno, oppure come il nodo in cui converge e s'ingorga la vivacissima, ma altrettanto effimera, esperienza anticipatrice delle borghesie comunali e si prepara la decadenza e l'involuzione dei nostri ordini politici e, in ultima istanza, della nostra stessa funzione culturale.
Intanto è tipico del secolo l'intrecciarsi e il mescolarsi, in ogni campo d'esperienza, di elementi antichi e nuovi, di atteggiamenti medievali e umanistici, mentre il nuovo affiora in spunti ancora informi e parziali e il vecchio si regge con la forza di una tradizione plurisecolare. La rapida ascesa dei ceti cittadini e borghesi, il formarsi e il prosperare delle nuove formazioni statali particolaristiche, comuni e signorie, creano le condizioni di una diversa concezione della vita politica; trasformano in senso moderno e mondano gli strumenti stessi dell'azione; dissolvono le rigide strutture economiche e giuridiche del sistema feudale; corrodono i severi rapporti di distinzione e subordinazione fra le classi sociali e fra i due ordini del clero e del laicato; danno rilievo ai valori effettivi che, nel seno delle singole comunità, operano al di fuori e spesso in contrasto con le gerarchie teoricamente riconosciute, l'incessante e sempre più intenso modificarsi dei rapporti di egemonia: intelligenza, astuzia, intraprendenza, potenza di sùbiti e vasti guadagni, spregiudicatezza nella scelta dei mezzi di lotta e di conquista, sempre più spesso arbitrari e violenti. All'interno degli stati si svolge una lotta senza quartiere, in cui, mentre si affievoliscono e si estenuano i grandi princìpi ideali, prendono sempre più campo le ragioni concrete del predominio economico e delle forze politiche reali; all'esterno, cresce un desiderio d'espansione e di potenza, che ha anch'esso le sue radici in mere ragioni di vitalità, di esuberanza e di prestigio: all'ampliamento territoriale, che può giungere fino all'ambizione di costituire grossi stati regionali e pluriregionali, s'accompagna il tentativo di attuare un livellamento politico e fiscale delle varie città soggette, dei diversi ceti nell'ambito delle città, delle popolazioni cittadine e del contado. Ma intanto le lacerazioni profonde che incrinano la vitalità dei comuni, l'asprezza dei conflitti di classe, di parte e di famiglie, le persecuzioni, gli eccidi, gli esilii, creano un senso di stanchezza, un desiderio di ordine e di pace, che promuove e accelera l'evolversi degli ordinamenti giuridici verso forme di dominio accentrato e potenzialmente egualitario, e apre la strada alle signorie e ai principati. D'altra parte l'esperienza dei regimi autoritari suscita, in forme nuove e più gravi, il terrore dell'oppressione e dell'arbitrio, la polemica, così viva e diffusa per tutto il secolo, contro i pericoli della tirannide. Il quadro della vita politica nel suo complesso si presenta con caratteristiche di estrema anarchia, frenata ma non vinta da mezzi di spietata repressione. Manca ai comuni come alle signorie un fondamento ideale di legittimità, si dissolve il senso della giustizia, dell'ordine, di una stabile e armoniosa convivenza civile. Donde il ricorrere, che da ogni parte insorge e si fa voce accorata ed ansiosa sulle bocche degli esuli, degli oppressi, dei perseguitati, agli antichi ideali e alle istituzioni universali, in cui sembra incarnarsi un principio superiore dì autorità, capace di imporsi alle forze scatenate in contrasto e di arginare la dilagante anarchia. Esautorati in parte, obliterati e non di rado scherniti di fatto nell'asprezza della lotta politica, questi istituti universali, Chiesa e Impero, restano pure le sole forze in cui sopravviva un principio ideale, i simboli superstiti di un'esigenza di giustizia e di pace, dell'ordine cristiano minacciato e pressoché distrutto dalle insorgenti cupidigie e corruttele particolari.
Questo contrasto fra un'esperienza tutta nuova e moderna, ma ancora caotica, di motivi sociali e politici, e la sopravvivenza degli schemi e delle idee direttive di un ordine tradizionale, si riflette anche nelle manifestazioni, ricche e contraddittorie, del pensiero giuridico-istituzionale del tempo, dove gli spunti di una dottrina che si sforza di accogliere e sistemare i dati della mutata esperienza s'inquadrano tuttora e affiorano faticosamente attraverso le forme e i procedimenti di una tematica apparentemente antiquata, in cui campeggiano pur sempre i concetti della Chiesa e dell'Impero e dei loro rapporti reciproci di coordinazione o di subordinazione. Nelle polemiche vivacissime sorte in margine al conflitto tra Bonifacio Vili e il re di Francia, poi in quelle non meno aspre degli anni di Ludovico il Bavaro, attraverso un contesto di argomentazioni medievali, si fa strada, sia pure in forme germinali e inconsapevoli, il problema dell'antitesi fra Stato e Chiesa, e quindi dei limiti dell'autonomia e della sovranità dello stato, nonché dei rapporti fra la politica e la morale; e mentre in Dante e negli altri teorici ghibellini, l'idea del sovrano si arricchisce di un significato ideale e si afferma, sia pure con qualche esitazione, la pienezza di un'autorità assolutamente valida nella sua sfera terrestre e temporale, nei libri dei partigiani della Chiesa si esprime efficacemente l'esigenza del ricorso a una norma superiore di moralità, che regoli e affreni e componga il contrasto dei meri rapporti di forza e di potenza, risolvendo il gioco delle passioni umane e della realtà sociale nell'ambito di una concezione trascendente della missione assegnata all'uomo singolo. Anche la formula, che si viene elaborando a poco a poco in seno alle scuole dei giuristi, da Cino da Pistoia e da Oldrado da Ponte a Bartolo da Sassoferrato, e in cui si esprime il principio moderno dello stato indipendente e sovrano nel proprio ambito, in quanto esercita di fatto la pienezza dei poteri nei riguardi dei suoi sudditi («civitas superiorem de facto non recognoscens habet in se ipsa imperium»), è assai meno rivoluzionaria di quanto non appaia a prima vista, perché non infirma esplicitamente la superiore potestà degli istituti universali e non tocca propriamente il postulato filosofico e religioso dell'«ordinario ad unum». E cosi l'altra formula, che trova in Dante la sua espressione più risoluta, della distinzione e della reciproca autonomia delle due sfere del temporale e dello spirituale, dell'Impero e della Chiesa, della felicità terrena e della beatitudine celeste, dell'ambito filosofico e di quello teologico, rimane incerta e inceppata, tutta avvolta in una trama di distinzioni cautelose, e si risolve alfine nella riserva d'una relativa subordinazione dell'autorità terrena e della filosofia rispetto alla potestà spirituale e alla teologia. D'altra parte, mentre sul fondamento del naturalismo aristotelico e della glossa al Corpus iuris, acquistano vigore le tesi assolutistiche destinate a prevalere sul terreno pratico e a informare le strutture degli stati e dello stesso ordinamento ecclesiastico; resta viva, accanto ad esse e contro di esse, la concezione agostiniana non mai esplicitamente ripudiata dagli scolastici dell'origine convenzionale dello stato - predisposto a fungere da rimedio all'infermità della natura umana, corrotta dopo la colpa originale-; e tale concezione assolve al compito di contrapporre alla minaccia del dispotismo e all'eccesso del potere individuale il sentimento della giustizia cristiana e dei limiti imposti all'autorità politica dal carattere stesso strumentale della sua funzione. Nell'ambito di questa dottrina si muove la vasta letteratura contro le male arti dei tiranni, dal De regimine principimi di Egidio Colonna fino al De tyranno dell'umanista Coluccio Salutati; e ad essa si riallaccia anche l'opera più ricca di fermenti nuovi e la più suggestiva del pensiero politico trecentesco, il Defensor pacis di Marsilio da Padova, nato intorno al 1326 in ambiente averroistico (e non senza l'influsso, e forse la collaborazione diretta, di Giovanni di Jandun). Vi si afferma che la potestà legislativa risiede nell'«universitas civium» e si esprime secondo il criterio della maggioranza numerica, onde al popolo spetta di indirizzare, frenare e, quando sia necessario, destituire il sovrano, cui ha affidato in base a un contratto il governo; analogamente, nella Chiesa, la sovranità ha la sua base nell' « universitas fidelium », rappresentata dal concilio ecumenico, e nel papa solo in forma indiretta e controllata: dottrine gravide, senza dubbio, di presentimenti e di suggestioni future, ma che per ora non evadono dal quadro dell'universalismo tradizionale (e, in concreto, trovano il loro posto proprio nell'atmosfera arroventata delle polemiche ghibelline ai tempi di Ludovico il Bavaro).
Se poi dal terreno particolare delle dottrine giuridico-politiche risaliamo alla generale concezione della vita, è ben certo che la poderosa struttura del pensiero scolastico, giunta pur testé nelle grandi summae alla pienezza della sua elaborazione, comincia appunto nel Trecento a incrinarsi sotto la spinta delle ragioni critiche che insorgono ad assalirla nei suoi aspetti particolari e nel suo complesso, dall'interno e dall'esterno. L'averroismo, che esaspera la rigidità e l'immobilità del naturalismo aristotelico, tende a distruggere l'autonomia dell'individuo ed annulla l'equilibrio dialettico istituito dalla filosofia cristiana fra l'uomo, con la sua personalità e la sua libertà morale, il mondo e la divinità. Il nominalismo di Guglielmo di Occam e dei suoi numerosi seguaci spezza i fondamenti del sistema, frantuma la gerarchia delle essenze e dissolve il complesso in una molteplicità infinita di esistenze distinte ed autonome, e finisce col dissociare la fede dalla ragione e col contrapporle. L'umanesimo nascente, infine, lavorando non più dall'interno a scalzare le basi del pensiero sistematico, bensì contrastando ad esso dal di fuori e avversandolo radicalmente, proclama la vanità della laboriosa analisi dialettica, sostituisce alla speculazione astratta la realtà della coscienza, alla filosofia la psicologia e la filologia, all'unità del sistema la molteplicità e la varietà delle indagini concrete e delle esperienze storiche. Se le due prime correnti segnano la decadenza della scolastica e preparano in qualche modo, ma soprattutto negativamente, gli sviluppi del naturalismo e dell'empirismo rinascimentale; l'umanesimo è per essenza la voce della filosofia nuova, che fa centro sul concetto dell'uomo e sulle regole del suo concreto operare. Tutte e tre queste tendenze sono tuttavia ancora troppo deboli per imprimere all'architettura della filosofia tradizionale un colpo decisivo: averroisti e nominalisti si muovono ancora nel quadro della concezione aristotelico-cristiana e si esprimono nel gergo degli elaborati procedimenti sillogistici ; mentre gli umanisti svolgono la loro protesta su un piano piuttosto sentimentale che logico, per via di miti poetici e di affermazioni eloquenti più che non elaborando un nuovo linguaggio filosofico e un sistema coerente di concetti. Sì che, anche in questo campo, il nuovo non riesce ad avere un deciso sopravvento sull'antico, accanto agli spunti e ai presentimenti di una cultura moderna resiste, e assolve la sua funzione non ancora esaurita, la concezione tradizionale.
Solo nella letteratura, per ora, le contraddizioni e le intrinseche perplessità della cultura trecentesca possono trovare una loro espressione, interamente valida nel suo ambito e tanto più intensa quanto più esplode in modi discontinui, contrastanti, multiformi: nella letteratura che elabora i miti e le forme sintetiche di una civiltà percorsa da fremiti profondi di rinnovamento, e con Dante esprime la coscienza della crisi morale, e in Petrarca afferma l'esigenza di una cultura più umana e più duttile, e in Boccaccio si piega ad osservare la sostanza pullulante e pittoresca della nuova realtà mondana; e anche nella letteratura dei minori, che in vario modo ci fornisce i documenti, sempre parziali e frammentari, della crisi che fermenta in questo «autunno del medioevo», mentre già germogliano i primi virgulti di una civiltà nuova.