Storia operaia di Porto Marghera
«Industrializzare Venezia significa per essi [i socialisti] iniziare una nuova epoca. Più forze di produzione il capitalismo evoca, più forze di ribellione intorno a sé suscita e prepara. Quando a Venezia le ciminiere contenderanno la gloria del cielo alle cupole e ai campanili e lo stridore delle sirene interromperà i silenzi inerti della laguna, il socialismo avrà qui il più vero cominciamento»(1): così il socialista Ciancani scriveva nel 1914 su «Il Secolo Nuovo», a proposito del progetto Bottenighi intravisto come «il sol dell’avvenir». Con non minor irrealismo, il sindaco Filippo Grimani, clerico-moderato in politica, asseriva nel 1918 — nel momento dell’avvio della costruzione di Marghera — che «per Venezia l’ora della decisione era scoccata; o rimanere ciò che essa era, colla sola industria del forestiere e con le poche altre che a questa faceano corona, o trasformarsi sotto il benefico influsso di altre e più potenti fonti di prosperità, quali solo la grande industria può offrire»(2). Entrambi cattivi profeti: ammesso che fosse «cominciamento», a Porto Marghera si palesò solo e in parte sul finire degli anni Sessanta, mentre l’«industria del forestiere» continuava a imperversare su Venezia, sia quando le «ciminiere» contendevano «la gloria del cielo», sia quando — da metà degli anni Settanta — si spegnevano una a una. Per dire che la relazione di Marghera con Venezia — nonostante i molti progetti delle amministrazioni pubbliche e dei grandi gruppi economico-finanziari — mai fu relazione filiale o, comunque, integrazione virtuosa o, come prevedeva Giuseppe Volpi, «avvenire mercantile sicuro»(3).
Di più. Se nel marzo 1905 — nel pieno del dibattito apertosi col secolo nuovo sul destino industriale di Venezia — in una conferenza al Circolo socialista veneziano, il dottor Ferruccio Fiorioli della Lena affermava che «l’unica ragione in apparenza seria finora opposta in nome dell’Igiene al nuovo o rinnovato ponte, all’espansione del Porto ai Bottenighi, e allo sviluppo conseguente di Venezia Nova è quella della Malaria»(4), bisogna riscontrare che mezzo secolo dopo — a Porto Marghera costruita su quelle barene dei Bottenighi — non di malaria si muore, ma di Cvm, il cancerogeno cloruro di vinile monomero.
Per dire — in definitiva — che, attraverso il secolo, la storia della «Venezia Nôva» in terraferma è andata divaricandosi e assai intricandosi, per risolversi alla fine — nel vortice della globalizzazione — in un museo di contaminata archeologia industriale. Il prezzo pagato, oltre che economico-industriale, è stato ed è soprattutto umano e di identità sociale, come testimoniano, prima, un operaio che ha lavorato alla Montecatini-Fertilizzanti negli anni Trenta — «lavoravo da morire […] i gas si spandevano dappertutto […] spanti dalle macchine e dalle tubazioni […] quasi quarant’anni ho penato là dentro […] tutto a mano, con sgalmare e zoccoli»(5) — e, dopo, la figlia di un operaio del Petrolchimico, morto nel 1987 per «tumore osseo con metastasi diffuse»: «Mi pare di vederlo come se fosse adesso, mio padre, che torna dalla fabbrica con quell’odore acre sulla pelle. Io e mio fratello gli dicevamo: papà hai ancora l’odore della fabbrica, sei ancora radioattivo […]. Lui si era già fatto una doccia in reparto, la rifaceva a casa, ma l’odore si sentiva ancora. Così mio padre ci guardava e diceva: se non ci foste voi bambini, io in fabbrica non ci andrei, piuttosto farei il barbone»(6).
Quei «primi operai», negli anni Venti e Trenta, accorrevano a frotte a Marghera, non da Venezia, ma dalle campagne sul raggio dei 30 km della bicicletta: nonostante la dura vita di fabbrica, non si può non intravedere in loro l’aspirazione di riscatto dalla condizione originaria di contadino povero. Le generazioni che seguono pure provengono dalle campagne, anche se da condizioni materiali e sociali diverse, con più istruzione e meno fame alle spalle. Ma nell’ultima fase della loro vita lavorativa, e spesso anche nel suo pieno, si sono trovate di fronte al prepensionamento o alla cassa integrazione o ai dubbi/tentazioni dell’incentivo al licenziamento volontario: sospinti violentemente fuori, il più delle volte all’improvviso, da quelle relazioni sociali interne — di fabbrica, di reparto e di gruppo omogeneo — temprate dalle lotte degli anni Sessanta e Settanta su cui si era forgiata una forte identità operaia che, per non pochi aspetti, ha fatto scuola in Italia.
Per sottolineare ancora come sia stato lungo e complesso questo itinerario della formazione operaia di Marghera, dalla sua origine a quello che si può già definire come il suo punto d’arrivo. Oramai il porto industriale di Marghera pensato da Piero Foscari e realizzato da Volpi, tutto con il denaro pubblico, ma solo per il profitto dei privati, e che ha pur avuto una fase di intenso sviluppo che si pensava potesse continuare all’infinito — negli anni Sessanta si è persino progettata una terza zona su oltre 3.000 ettari, imperniata su un centro siderurgico — non ha più futuro: soprattutto perché, sotto i colpi della globalizzazione, è diventato strategicamente obsoleto, compreso il ciclo petrolchimico, ma anche perché, comunque, e come la storia ha reso palese e persino i processi giudiziari in corso stanno dimostrando, si è rivelato strutturalmente incompatibile con i silenzi tutt’altro che «inerti» della laguna e con l’esile struttura urbana dell’insula veneziana. Non è una disputa ideologica o la salvezza del mito — non la «difesa sacrosanta ma antistorica della laguna»(7) come pretende Wladimiro Dorigo — ma una rilevazione obiettiva.
Le ricerche svolte finora hanno definito le caratteristiche prevalenti della prima forza lavoro di Porto Marghera come proletariato fluttuante: un proletariato contadino dai «cento mestieri», segnato da un alto grado di instabilità incrociata con una forte fluttuazione e diversificazione della sua origine sociale, attirato sin dai primordi dei lavori di bonifica e trasformazione dei Bottenighi e dell’edificazione del porto industriale di base per passare poi, senza soluzione di continuità, al lavoro di fabbrica. Solo alla Breda — il cantiere navale che esige livelli di professionalità — tra il 1924 e il 1928, come risulta dai libri matricola, il 21,8% della manodopera proviene dal centro storico di Venezia, mentre il 43,8 dall’area urbana di terraferma e il 19,6 dall’area del Brenta-Dese(8). Ma nelle altre fabbriche — come informa l’economista-statistico del tempo in un’indagine del 1932 su tutti gli operai occupati a Marghera — il 90% proviene dall’area del Brenta-Dese(9) nel cui paesaggio sociale ed economico si staglia la povera o poverissima famiglia contadina, prevalentemente fittavola, in una microazienda di circa un ettaro e mezzo in cui debbono vivere 18-20 persone in età lavorativa e «spesso in una capanna primitiva, antigienica, col tetto di paglia. I familiari vivono promiscuamente, spesso cinque o sei per stanza. La stalla non esiste: se v’era un tempo, ora è stata trasformata in abitazione»(10).
Condizioni del tutto favorevoli per gli industriali che, contro le stesse procedure vigenti sul collocamento, reclutano su vasta scala questo tipo di lavoratori nelle campagne — come dichiarano in un documento della loro associazione fascista, nel dicembre 1930 — al fine di disporre del «cenerentolo dei campi» che «s’adatta anche volentieri ai lavori più faticosi»(11). Del resto sono le caratteristiche stesse degli impianti modernissimi, ad alta composizione organica di capitale, i cui processi produttivi sono strutturati su tecnologie e modalità organizzative del tutto nuove — la Montecatini-Fertilizzanti, ad esempio, si presenta come un modello del ciclo produttivo basato su impianti automatici a ciclo continuo e sulla meccanizzazione delle attività ausiliari, modello «che doveva poi guidare l’intero sviluppo degli insediamenti chimici di base a Porto Marghera»(12) —, a richiamare forza lavoro dequalificata. In altri termini, controllo e marcia degli impianti, e relativa manutenzione, vengono affidati a pochi operai specializzati, mentre il resto delle mansioni semplici e ripetitive — e di fatica fisica — viene appunto affidato a lavoratori senza qualifica. Inoltre, non solo manodopera dequalificata, ma stagionale (per esempio nel settore fertilizzanti in relazione al ciclo agricolo o negli impianti elettrometallurgici in relazione alla disponibilità di energia), o per periodi più o meno lunghi, comunque a termine (in relazione all’andamento dei mercati), o con grande mobilità nel passaggio da una fabbrica all’altra per molteplici motivi personali o di relazione o altro, o, infine, saltuaria o addirittura occasionale.
Questi processi di precarietà/flessibilità/mobilità sono favoriti dalla pesantezza e nocività delle lavorazioni. Del suo lavoro alla Montecatini — la «più schifosa delle fabbriche […] dove più si faticava e meno si era pagati»(13) — così testimonia «Giovanni, figlio di un piccolo fittavolo povero e pieno di debiti»: «[…] io non ci badavo mica tanto alla fabbrica perché lì c’era poca salute […] perché io, io pensavo alla salute […] pensavo di starci un pezzo ma poi scappavo […] ce ne sono andati tanti là, ma sono tutti morti»(14). Naturalmente vi sono anche le fabbriche in cui è presente una forza lavoro «relativamente stabile» e nel contempo, almeno in parte, più qualificata — come all’Ilva(15) o, nella seconda metà degli anni Trenta, alla Sava Allumina(16) — e che tende progressivamente a identificarsi nel ruolo produttivo e, col tempo, ad assumere una certa fisionomia politico-sociale, ma sempre in percentuale ridotta rispetto al totale.
Si è parlato di decollo «dolce» per Marghera, ma è difficile affermarlo in toto e con sicurezza. In parte importante lo è stato indubbiamente perché «si inserì nell’ambiente locale senza eccessivi strappi»(17) — al contrario di quanto avverrà con la rottura e la trasformazione violenta del territorio nella fase di industrializzazione del Veneto nel secondo dopoguerra —, ma non è stato certamente «dolce» per migliaia di contadini poveri che, spinti dalla miseria e dalla disoccupazione di quegli anni, si sono trovati di colpo a vivere il lavoro e il regime di fabbrica come un «inferno» o una «prigione»: «Lo spezzettamento della soda era manuale, con l’ausilio di mazze di ferro, frammenti di soda venivano scagliati ovunque, persino negli stivali. Era manuale anche il trasporto delle ceneri di pirite […]. Le pulizie e la picchettatura delle scorie da caldaie e cisterne richiedeva che l’operaio vi penetrasse con la testa e il tronco […] gli operai riportano ustioni ai piedi per aver camminato con le scarpe rotte sui pavimenti cosparsi di acido solforico semplicemente in seguito alla manovra di valvole […]»(18), e così via, ché le testimonianze sono infinite. Come quella — ossessiva — di Luigi: «No gò goduo un’ostia, gnente, altro che gnente […] laorare, sempre laorare»(19).
Nel complesso, dunque, una forza lavoro di prevalente origine contadino-povera, frammentata, di giovane età soprattutto negli anni Venti per aumentare progressivamente in quelli successivi, che resta legata alla famiglia di origine con funzione di forte integrazione di reddito — anche se il salario, soprattutto nei primi anni Venti, è a livelli molto bassi — e quindi di assorbimento dei costi di riproduzione sociale, e che presenta doti di flessibilità, affidabilità e sottomissione in fabbrica perché storicamente interiorizzate per tradizione e modi di vita. In definitiva — priva com’è di punti di aggregazione — senza identità definita, senza tradizioni rivendicative e senza la cultura conflittuale del lavoro salariato. Entra in fabbrica praticamente quando il fascismo è già al potere e sta modellando lo Stato corporativo — il sindacato di classe e le organizzazioni politiche operaie già fuorilegge —, quando cioè gli industriali esercitano il comando assoluto sulla forza lavoro di cui il sindacato fascista del tutto burocratizzato e subordinato diventa funzione.
In un simile contesto di composizione di classe — in cui combinazione e intreccio di qualità tecnica della forza lavoro, cultura del lavoro, formazione sociale, identità storica si compiono ai livelli imposti dai fattori materiali e organizzativi della produzione — è del tutto spiegabile, a differenza di quanto avviene nelle altre aree industriali del paese e in particolare nel triangolo dove la lotta operaia ha accumulato un patrimonio di esperienza e di esiti vissuti, che l’opposizione operaia al fascismo tardi molto a coagularsi e manifestarsi in modo significativo. Non che manchi qualche iniziativa, anche di lotta in forma di sciopero, ma manca l’azione collettiva e la direzione di marcia. Da tutti i ricercatori sono citati gli scioperi della Breda nel 1924 e 1925, ma sono scioperi in una fabbrica dove è maggiormente presente una manodopera più professionalizzata e di cui una parte, forse il nucleo decisivo per lo sciopero, proviene da Venezia, e in particolare dall’Arsenale dove vi era stata l’occupazione delle Acciaierie Navali(20) nel «settembre rosso» del 1920. Si deve inoltre aggiungere che sono scioperi che si attuano prima del 1926, cioè prima delle leggi eccezionali. Ben altro significato di rottura assumono o potrebbero assumere agitazioni e lotte dopo il 1926. Per Marghera si ha un’unica segnalazione che viene dall’archivio Secchia secondo cui il 27 marzo 1927 vi è stato uno sciopero ancora una volta alla Breda durante il quale «viene arrestata la commissione interna»(21), ma senza ulteriori precisazioni. Dovranno passare sette anni perché si possa riscontrare qualche iniziativa sintomatica di nuovo alla Breda i cui operai rifiutano «di accettare la riduzione del 7 per cento» del salario cui segue la serrata per quindici giorni, e, per la prima volta, alla Sava Alluminio dove i due terzi degli operai pure rifiutano «di ritirare la busta paga con il salario ridotto»(22).
La condizione di lavoro in tutta Marghera è pesante e totale il controllo sociale. Ne fa fede un «accordo» stipulato il 31 ottobre 1934 alla Vetrocoke «in merito allo scarico dei nostri vapori […] a cottimo pieno» con l’«Unione provinciale fascista lavoratori industriali»: il testo è stato reperito durante la catalogazione del Fondo Filcea-Cgil nell’archivio storico dell’Istituto veneziano per la storia della Resistenza. Un testo — inviato dalla direzione al sindacato in forma di diktat — che si commenta da solo nella precisa definizione dell’organizzazione del lavoro cui deve provvedere il sindacato, su disposizione della direzione, e del corrispettivo salariale in base al numero di ore di lavoro dei singoli (rilevate dal sindacato ma conteggiate dalla direzione): «Voi [il sindacato] disporrete perché il lavoro di stiva e alle tramoggie dell’impianto Bleinchert, sia condotto con mezzi tali, non solo da ultimare il lavoro stesso prima della scadenza delle ore di stallia, ma anche con notevole anticipo su queste […] il personale dovrà essere tutto di buona scelta, beneviso dalla Direzione dello Stabilimento, permanentemente sorvegliato dai capi-squadra […]. Il lavoro […] sarà retribuito con un compenso di L. 0.42 (centesimi quarantadue) la tonnellata»(23), cui seguono le tariffe di cottimo per scaricatori, manovratori e capiservizio. Il testo di questo «accordo» — uno pressoché analogo ne seguirà nell’agosto 1938(24) — esplicita nella scrittura stessa una diatesi del comando, rovesciata rispetto all’accezione del termine in quanto rende percepibile la subordinazione del sindacato dettata dalla condizione storica.
Pur dentro una tale strozzatura, qualcosa comincia a muoversi faticosamente. Come osserva Vittorio Foa nella bella ricerca sul movimento operaio inglese del primo anteguerra, «il conflitto non esiste solo quando diventa aperto e visibile: esso esiste anche nelle fasi di pace e di collaborazione sociale, vive nella resistenza capillare e quotidiana, come lenta accumulazione di rifiuto»(25). Sarà proprio così anche a Porto Marghera. Infatti uno dei primi riscontri lo si deve a Francesco Piva, che non a caso ha analizzato con accuratezza le «duemila punizioni registrate variamente motivate» (multe e sospensioni dal lavoro) a 370 operai dell’Ilva tra il 1933 e il 1944 proprio nell’ottica della «lenta accumulazione di rifiuto»: la sua conclusione è che nel loro insieme costituiscono indubbiamente una spia dei modi con cui gli operai «sanno trovare compensazioni e spazi di autonomia dallo stato di deprivazione e coercizione»(26).
Tenuto conto della ristrettezza delle fonti disponibili sinora — in gran parte le relazioni dei questori, di parte fascista — e dando per scontato che non ogni iniziativa antifascista sia stata in qualche modo registrata, non mancano primi segnali di resistenza e di opposizione che tendono a moltiplicarsi man mano che si arriva al periodo bellico: segnali di modesta portata come «le scritte antifasciste» in una fabbrica di Marghera che si moltiplicano con una certa rapidità o i vari tipi di insulti che non pochi operai — per la questura sempre «in stato di ubriachezza» — riversano su fascismo, duce, gerarchi e altri della serie(27) o, ancora, la diffusione di volantini come testimonia un operaio entrato in Breda nel 1933, a 18 anni: «In fabbrica, si era in genere antifascisti, anche se di organizzazione vera e propria non si poteva parlare […]. Mi ricordo però che nel 1935, quando scoppiò la guerra di Etiopia, un giorno mi venne consegnato un pacchetto di volantini: mi si disse di affiggerli, tra mezzogiorno e l’una, in tutta la fabbrica. Mentre i compagni erano a mangiare, feci tranquillamente tutto il lavoro. Il volantino diceva che non occorreva andare in Africa per avere la terra, si poteva averla anche da noi, bastava prenderla ai latifondisti»(28). Segnali, tutti questi, piuttosto limitati rispetto a una situazione che tende ad aggravarsi per «il progressivo, continuo, aumento dei generi di prima necessità» e «la esiguità delle paghe, non corrispondenti al costo della vita»(29).
Questa crescente «esiguità delle paghe», in una fase in cui Porto Marghera è in pieno sviluppo, funzionale com’è alla produzione bellica sin da metà degli anni Trenta, arriva al punto di far scrivere al questore — in forma meno burocratica del solito e coprendosi con la garanzia che non vi sono «espressioni di insofferenza da reprimere» — che «tali famiglie [quelle operaie di Porto Marghera] sbarcano alla meglio il lunario, in condizioni assolutamente miserande, arrotondando il bilancio con l’aiuto delle opere-assistenziali […]. Tutto ciò è maggiormente sentito per la generica convinzione penetrata in queste masse operaie dei lucri ottenuti dai gruppi industriali in dipendenza dello stato di guerra». Le «efficienti migliorie economiche con una certa larghezza»(30), richieste a conclusione del rapporto, vengono concesse sette mesi dopo senza «larghezza», sotto forma di «premio di operosità» a tutte le categorie e qualifiche, pari a «18 giorni di salario», il che lascia insoddisfatti, secondo un informatore dell’O.V.R.A. (Opera Vigilanza Repressione Antifascista), gli operai «perché avrebbero preferito un aumento continuato»(31); a dire che le «migliorie economiche» — pur in quella situazione di stretta salariale — non bastano più, non solo per la loro inadeguatezza ma anche perché ormai cominciano a proporsi domande sulle «alte classi industriali», sui fini della guerra e quindi ad entrare nel campo della politica. Tale dinamica è tanto accelerata che nel mese successivo lo stesso questore esprime preoccupazione per «lo spirito pubblico degli operai della zona industriale di Porto Marghera in numero di circa 22.000», affermando che «l’elemento operaio, quasi totalitariamente, è permeato da profonde ed elaborate convinzioni sovversive ed antifasciste, fluide bensì, in mancanza di un centro organizzatore, ma vivaci e pericolose che tendono a sboccare in un’assidua propaganda verbale»(32).
Questo riferimento alla «propaganda verbale» deve evidentemente riferirsi alla recente scoperta da parte della polizia della «prima cellula sovversiva» all’Ilva il cui capo viene individuato nell’operaio ventiquattrenne Umberto De Bei che — «imbevuto di idee di rivendicazioni della classe operaia contro il capitalismo» — si è inventato la trascrizione «a matita su cinque fogliettini di carta rigata da quaderno», con il ricalco per farne «più copie», di un «libello […] di pretta stampa comunista» da distribuire per «rianimare […] gli spiriti depressi» dei suoi compagni di reparto, «facendolo passare per il discorso di Stalin pronunciato in occasione del 1° maggio». Un gesto che a De Bei costa la condanna a otto anni di carcere da parte del Tribunale speciale(33). Non sarà certo un caso se poi, nella Resistenza, diventerà commissario della brigata «E. Ferretto» e, nel dopoguerra, sindacalista, comunista e consigliere comunale di Venezia. Reintegrato all’Ilva, è nuovamente licenziato nel 1953 per rappresaglia politica(34) e, l’anno successivo, anche arrestato per aver diffuso fuori dei cancelli dell’Ilva materiale della F.I.O.M. (Federazione Italiana Operai Metallurgici)(35) e condannato per direttissima dal pretore di Mestre a 5 giorni di reclusione e a 5.000 lire di multa, con l’aggravante della recidiva(36) per la condanna inflittagli dal Tribunale speciale. Comunque, gesto del tutto spontaneo, quello di De Bei, non collegato a qualche organizzazione antifascista — o a quella socialista dei Serrati, Musatti, Li Causi o, dal 1921, comunista dei Borine, Longobardi, che, soprattutto a Venezia, hanno lasciato il segno — ma che rivela la lenta maturazione di nuovi fermenti di opposizione politica e sociale che, se ancora a livello semplificato e non organizzato di azione militante, si formano spontaneamente nell’esperienza quotidiana, appunto «come lenta accumulazione di rifiuto».
Se il 26 e il 27 marzo 1942 — contro talune «riduzioni annonarie» — «si venne creando un generale movimento di protesta in tutto il quartiere» di Castello, a Venezia, che nel pomeriggio si allarga «nel popolare quartiere di Cannaregio»(37), come in altre zone della provincia, a Marghera, che si sappia, continuano solo il volantinaggio e le scritte. Una in particolare — «in un angolo di una sala di lavoro» della Vetrocoke, in gesso su una tavolozza di ferro — dal contenuto nuovo e combattivo: «Operai facciamo sciopero bianco o aumento di salario — d’accordo»(38). È un passo avanti ma non prelude a quegli scioperi del marzo 1943 che, se altrove, come nel triangolo industriale — «i primi di questo genere nell’Europa fascista»(39) —, hanno segnato una svolta nella ricomposizione dell’opposizione operaia, a Marghera non si sono avuti(40). I primi scioperi accertati — ammessi dal questore, dal prefetto e dal «Gazzettino» — si riscontrano invece nei primi dieci giorni del dicembre 1943 e su questioni salariali: la loro forza è tale che le autorità fanno quello che il prefetto chiama un «accordo sindacale», in realtà la concessione di una «indennità di carovita» che poi un nuovo «accordo» tramuta in un aumento del 30% dei salari(41). In particolare, va segnalato — anche in relazione ai precedenti citati — che ancora una volta viene fatto un nuovo «accordo» alla Vetrocoke per gli scaricatori del carbone(42): evidenti risposte alle ormai sempre più insistenti richieste salariali.
Siamo così di fronte — dopo l’8 settembre — al primo, decisivo innesco rivendicativo-politico, ossia al momento in cui l’opposizione operaia, dal basso, comincia a massificarsi e a darsi una prima struttura organizzata e, dunque, al compimento di un atto di rottura di una certa stagnazione effettivamente esistente nel contesto veneziano. Infatti va ricordato che, subito dopo l’occupazione di Venezia da parte dei tedeschi, l’iniziativa politica è stata presa dai fascisti: il loro federale, Eugenio Montesi, ha proposto, in un’assemblea convocata in Municipio il 29 settembre e a cui incredibilmente partecipano i rappresentanti delle forze politiche antifasciste che alla fine esprimono persino il proprio consenso, di collaborare sulla base dell’«osservanza delle norme emanate dall’autorità italiana e dalla autorità occupante», con l’invito particolare a dare «cure attentissime e continue» alle condizioni di lavoro degli operai per la «tranquillità del lavoro»(43). La reazione è immediata e duplice: da una parte, i fascisti dimissionano subito lo stesso Montesi e, dall’altra, il P.C.I. (Partito Comunista Italiano) invia a Venezia un suo «rappresentante» con la direttiva di iniziare «immediatamente» e condurre «a fondo con tutti i mezzi possibili» (44) la lotta contro fascisti e tedeschi.
Appunto, questi primi scioperi in dicembre avviano di fatto anche a Venezia quella che — riferendosi più in generale alla Resistenza nel suo complesso — Claudio Pavone ha chiamato «un’esperienza di disobbedienza di massa»(45): il primo passo nella socializzazione politica della classe operaia di Porto Marghera. Non che prima nulla esistesse, non che prima soprattutto il partito comunista – ma anche altre forze politiche, come il partito d’azione e il partito socialista — non avesse tentato, anche a prezzo di non pochi e pesanti sacrifici dei suoi militanti, una presenza politica e un’iniziativa, ma d’ora in avanti entreranno in campo nuove forze sia sul piano politico che su quello di classe. Tanto è vero che la successiva scadenza di lotta si articola addirittura in due ondate di scioperi che investono, in misura diversa, le fabbriche, precedute dalla diffusione di un diluvio di volantini — nel marzo 1944 (Vetrocoke, S. Marco, Ilva, Termoelettrica, Breda) e il 1° maggio (Vetrocoke, Breda, Azotati, Sirma, Ina, Ilva, Sava Nuova e Vecchia, Piombo e Zinco, Ceneri) — che, a loro volta, si collocano all’interno di un movimento di lotta che sta investendo tutta l’Italia occupata, a conferma dell’«inesorabile disgregazione del tentativo compiuto dai fascisti di restaurare un regime che ottenesse un consenso ampio e diffuso»(46).
Va detto esplicitamente che è lo stesso partito comunista a riconoscere che lo sciopero in alcune province, fra cui Venezia, «è riuscito parzialmente»(47), ma, se indubbiamente è un limite, nel contempo conferma, appunto, la dinamica in crescita del movimento di lotta proprio a Marghera dove, come abbiamo visto, si è partiti da zero. Crescita peraltro difficile, ché deve fare i conti, da un lato, con tutti i problemi organizzativi della clandestinità in una zona strategica e sorvegliatissima da tedeschi e fascisti come quella di Marghera e, dall’altro, con la ferocia di un nemico che risponde prima di tutto con la rappresaglia sui civili. E l’estate del 1944 è stata terribile in Veneto, con gli spietati rastrellamenti sul Grappa e in Cansiglio e, a Venezia, con le rappresaglie che hanno pesato sulla città e messo in crisi per molti aspetti la Resistenza stessa tanto che — è il duro, ma non ingiustificato commento di Giorgio Amendola nel suo famoso Rapporto dal Veneto — «dopo le rappresaglie tutti d’accordo, compagni e CL [Comitato di Liberazione], hanno deciso di sospendere azioni per evitare nuove reazioni»(48). E passerà un certo tempo prima di interrompere questa «sospensione».
Infatti — salvo quella che è passata alla storia della Resistenza veneziana come la «beffa del Goldoni»(49) — non ci sono segnalazioni di azioni partigiane di un certo rilievo negli archivi o nella stampa clandestina nei lunghi mesi successivi sino alla Liberazione, anche per ragioni obiettive: i bombardamenti alleati della zona industriale, oltre a colpire gli stabilimenti, mettono in crisi rifornimenti e trasporti tanto che — come informa, in una relazione personale a Mussolini, il sottosegretario all’Interno Giorgio Pini — «nella zona di Mestre Marghera, molto martoriata dai bombardamenti, è ancora in efficienza solo il 25 per cento delle fabbriche. Scarseggiano le materie prime soprattutto il carbone, sicché si prevede una prossima disoccupazione aggravata dal fatto che gli operai non vogliono andare in Germania»(50). Ma, nonostante tutto, anche per il precipitare della crisi che investe i nazisti su tutti i fronti di guerra, per la presenza diffusa dell’azione partigiana, per il clima politico che i C.L.N. (Comitati di Liberazione Nazionale) riescono a indurre, per l’iniziativa delle forze politiche e in particolare del partito comunista proprio nelle fabbriche, anche a Marghera funziona quello che Foa ha chiamato «il fiume carsico dell’antifascismo»(51). Tanto che «lo sciopero generale insurrezionale» proclamato dal C.L.N. di Venezia alle ore 23 del 27 aprile 1945(52) a Marghera si svolge con il coinvolgimento totale delle fabbriche in uno con la difesa degli impianti. Anche a Porto Marghera lo sciopero insurrezionale realizza il più alto livello di massa: ma, diversamente dalle altre aree industriali, questo sciopero più che conclusione di una fase storica segna l’entrata nel campo della lotta rivendicativa e politica di una nuova classe operaia che avrà riflessi importanti nel corso degli anni Cinquanta e Sessanta.
Lo sciopero insurrezionale termina alle ore 24 del 2 maggio(53) — cinque giorni di «felicità pubblica»(54) — cui segue, l’8 maggio, la ricostituzione della «Camera del Lavoro di Città e Provincia, aderente alla Cgil»(55), unitaria in base al «patto confederale di Roma», che lancia subito un appello a «fare uno sforzo poderoso per avviarsi, sia pur lentamente, ma con passo sicuro, verso la ricostruzione»(56) mentre la prima assemblea degli industriali si terrà prudentemente solo il 18 settembre(57).
A introiettare, per provarla, questa conquistata libertà — su contenuti di classe — fa da supporto neanche un mese e mezzo dopo, il 18 giugno, il primo sciopero generale per «immediati aumenti salariali adeguati all’attuale costo della vita»(58) con la prima manifestazione di lotta in piazza S. Marco. È la prima volta che tanti lavoratori — 20.000 — si mettono insieme volontariamente: effettivamente «iniziazione personale e collettiva, che […] può comprendere anche un senso di alba del mondo e di ricominciamento generale»(59). Il fatto che la rivendicazione salariale si ponga ancora, dati i tempi, su un terreno prefordiano, di sussistenza — perché così è anche il sindacato — in nulla scalfisce questo «ricominciamento» a livello di massa. È sciopero che nasce dal basso ma che resta all’interno del rigoroso impegno della C.G.I.L. (Confederazione Generale Italiana del Lavoro) di «accettazione, da parte dei lavoratori, dei sacrifici necessari per una politica di ricostruzione»(60). Ad un mese di distanza, il 18 luglio, segue un secondo sciopero generale(61) — questa volta di pretto carattere politico, a segnare sul campo il nesso forte tra rivendicazione e politica — in difesa del ruolo e dei poteri del C.L.N. contestati di fatto dal comando alleato, con in più la richiesta di applicazione a Venezia dell’accordo interconfederale sulla contingenza(62) raggiunto a Milano pochi giorni prima. Ancora più grande la manifestazione in piazza S. Marco per la partecipazione di 50.000 lavoratori provenienti da tutta la provincia(63): una sorta di nuovo e forte viatico per il futuro delle lotte e del movimento sia sul piano salariale — la paga della prima quindicina del settembre 1945 dell’operaio qualificato della Breda, Antonio Scatto, con indennità e trattenute di norma, ammonta a lire 1.680,50, pari a 25,10 orarie(64), neanche il 50% del potere d’acquisto prebellico — che su quello occupazionale, ché migliaia di disoccupati premono ai cancelli delle fabbriche.
Infatti, a ruota, il 7 novembre è la volta del terzo sciopero generale dell’industria, questa volta nazionale, anticipato a Marghera dagli scioperi spontanei di Breda e Ilva, per la vertenza sulla perequazione delle retribuzioni che viene conclusa il 24 novembre: è un «concordato»(65) che, se introduce un principio di scala mobile, ripristina anche il cottimo abolito nei giorni della Liberazione perché «esoso strumento di controllo padronale sul lavoro operaio»(66) e codifica soprattutto la fissazione dal centro dei salari e dei loro differenziali che, se nell’immediato dopoguerra ha una funzione solidaristica e perequativa — assicurare in tutto il paese e in tutte le categorie i trattamenti minimi, data la grande miseria materiale e sociale —, nella fase successiva si trasforma in un rigido vincolo proprio sul piano salariale. In realtà questo «concordato» finisce col configurarsi come un pilastro della centralizzazione contrattuale e salariale del dopoguerra in perfetta combinazione — l’altro ingranaggio dello stesso meccanismo di controllo sul lavoro — con il concordato sullo «sblocco dei licenziamenti»(67) del gennaio 1946.
Comunque sono scioperi che lasciano il segno per la loro riuscita e durante i quali operai e lavoratori si ritrovano in grandi manifestazioni che innervano un’Italia ancora affamata, oltre che di cibo, di libertà e di democrazia, ma che — nonostante la fortissima spinta di base — non sfondano sul piano salariale (la paga) e sociale (la richiesta di lavoro) non perché sono ristabiliti i vecchi rapporti di forza, ma per autoresponsabilità del sindacato nella funzione di garante del comportamento operaio e, quindi, di valido contraente del governo di solidarietà nazionale. Nel contempo, subito dopo la Liberazione, man mano vengono elette in ogni fabbrica le commissioni interne, gli organismi unitari che per statuto non hanno poteri di contrattazione nel luogo di lavoro, ma solo di controllo dell’applicazione dei contratti e della legislazione sociale: se nell’immediato danno forte rappresentanza e visibilità ai lavoratori e funzionano come strumenti di organizzazione interna di fabbrica, nella fase successiva finiscono per agire da impedimento alla presenza del sindacato in fabbrica, determinando così quella che diventerà la sua estraniazione dai processi di ristrutturazione e di riconversione produttiva e di riorganizzazione del lavoro proprio nella rapida fase della ricostruzione e del riavvio degli impianti. Estraniazione che è poi alla base del mancato controllo dei nuovi processi di sviluppo e della limitata, e spesso errata, analisi del ciclo da parte del sindacato stesso e della sinistra.
La situazione di Marghera, alla Liberazione, «appare buona, in quanto i danni agli edifici e macchinari non sono tanto gravi né estesi; in parte sono già stati riparati e in parte lo possono essere tra breve»(68). Problemi che via via, nonostante le molte difficoltà, sono risolti: non solo riprende presto la produzione in prima zona, ma con i primi anni Cinquanta prende corpo la seconda zona industriale — con gli stessi metodi usati per la prima da Volpi tanto da far dire a Dorigo che si è di fronte ad «una burla […] per il pubblico che paga, e per il pubblico interesse che ne resterà colpito. Un altro affarone per i padroni del vapore»(69) — imperniata sulla nuova industria chimica, che si strutturerà sul primo Petrolchimico, e sull’espansione dell’alluminio, dei refrattari, ecc. Esattamente il contrario di quanto si verifica a Venezia ove, anno dopo anno, le fabbriche storiche che ne avevano fatto a cavallo del secolo una città industriale insulare — l’Arsenale, lo Stucky, il Cotonificio, la Junghans, la Gaggio, i C.n.o.m.v. (Cantieri Navali Officine Meccaniche di Venezia) della Giudecca, la Herion, le Conterie e Cristallerie di Murano e molte altre — a una a una chiudono tutte, privando del lavoro migliaia di operai professionalizzati che finiscono magari, come Sergio Fantinelli, operaio specializzato e segretario della commissione interna dell’Arsenale, a vendere i biglietti della lotteria ai piedi del ponte dei Sospiri. Marghera, invece, vede crescere, e di molto, l’occupazione sino a raggiungere e superare il tetto dei 40.000 addetti a metà degli anni Settanta quando si colloca fra i primi porti industriali di base del Mediterraneo con produzioni e tecnologie avanzate e, comunque, «essenzialmente [come] un polo internazionale del capitale chimico»(70).
Quella fine degli anni Quaranta e i primi anni Cinquanta — la fase della ricostruzione e della riconversione/ristrutturazione di Marghera che precede e prepara quella dello sviluppo — è emblematizzata nell’aspra, ma perdente lotta salariale, stretta in quello che Foa chiama criticamente lo «schema salariale centrale»(71) del sindacato, e nella lotta in difesa del cantiere Breda in un contesto politico di duro scontro culminato nella sconfitta della sinistra il 18 aprile 1948 ed esploso con lo sciopero generale contro l’attentato a Togliatti, il 14 luglio dello stesso anno — altro snodo della ricomposizione politica a Marghera — con il seguito, a opera della futura C.I.S.L. (Confederazione Italiana Sindacati Lavoratori), della rottura dell’unità sindacale. È la stessa Confindustria veneziana a riconoscere che a Marghera sono «persistenti»(72) le agitazioni per aumenti salariali che, in realtà, vanno collocate in un contesto di rincorsa del costo della vita in continua crescita e sempre col fiato corto, tanto da essere sempre più divaricante dalla curva della produttività: sono agitazioni che investono tutta l’Italia del Nord e che mostrano molecolarmente — è il filo del nostro discorso — il superamento della originaria diversità di Marghera nella ricomposizione sociale e politica. Ma sono anche agitazioni — a cominciare dalle lunghe e combattute lotte contrattuali, in particolare i chimici che la concludono nel settembre 1947(73) e i metallurgici che conquistano il loro primo contratto postliberazione nel giugno 1948(74) e dovranno aspettare otto anni per conquistarne il rinnovo, nel giugno 1956(75) — che si basano su richieste generalizzate, indifferenziate e perequative che finiscono, in definitiva, per livellare al minimo: ma così non tengono il passo con le ristrutturazioni e gli incrementi di produttività che ne derivano. Di qui la crisi e la sconfitta della vertenza del conglobamento del 1954 che anche a Marghera segna un punto di arretramento. Per sottolineare anche i nodi duri di cui è intriso quel processo di ricomposizione.
Nodo duro è anche la Breda. Così ricorda in una testimonianza scritta Berto Cornaglia, allora uno dei capi della commissione interna: «Improvvisamente, senza giustificazione alcuna [il commissario di pubblica sicurezza] fa suonare dal trombettiere la carica. Dalle camionette scendono poliziotti e carabinieri in assetto di guerra e cominciano a bastonare i lavoratori […] lanciano decine di bombe lacrimogene e qualcuno comincia a sparare in aria»(76). Poi sparano ad altezza d’uomo e 2 operai sono feriti gravemente e 5 meno: sui muri di cinta del cantiere «sono stati contati oltre 250 colpi di mitra». Gli indumenti insanguinati saranno portati in corteo e mostrati «da un balcone dell’Ala Napoleonica»(77) in piazza S. Marco. È il momento culminante della lunga vertenza Breda — fatta di incontri, trattative, salari non pagati, scioperi di fabbrica e generali, occupazioni di fabbrica, manifestazioni esterne, sottoscrizioni popolari di viveri (per il funzionamento della mensa) e di soldi (acquisto materiali per continuare i lavori di allestimento durante l’occupazione del cantiere) e con il pieno coinvolgimento del Comune di Venezia e del sindaco Gianquinto — nata ancora nel 1948 con la richiesta da parte della direzione di 180 licenziamenti e che si intreccia nel tempo con analoghe richieste di licenziamenti, sospensioni, riduzioni di orario in altre fabbriche e contro cui insorgono accanite resistenze che la Confindustria veneziana biasima come «preordinate azioni extrasindacali»(78), come se il sindacato non dovesse occuparsene: circa 500 licenziamenti all’Ina(79), 150 alla Sava Allumina(80), 7 alle Riserie, forte riduzione di orario alla S. Marco e così via(81).
Il prezzo a conclusione della vertenza Breda è durissimo: 800 operai e 150 impiegati licenziati. Ma quella lotta, quelle manifestazioni, quello sciopero generale «veramente totale» — «per poter cenare e trovare una camera mi è stato necessario avere l’autorizzazione della Camera del lavoro»(82) racconta Giovanni Roveda, segretario generale della F.I.O.M., precipitatosi a Venezia — rimangono come lotta simbolo della Marghera di quegli anni.
Anche se il sindacato e la sinistra lo pensano — è in questo contesto che, per combattere la disoccupazione di massa, Giuseppe Di Vittorio lancia il celebre «Piano del lavoro» della C.G.I.L.(83), in funzione di «supplenza di un capitalismo manchevole»(84) — queste richieste di licenziamento non sono motivate da crisi produttive e, quindi, da necessità di ridimensionamento o di chiusura, ma dalla esigenza delle direzioni aziendali — sotto la guida delle grandi concentrazioni industriali e in conseguenza prima della ‘frustata’ della politica deflattiva einaudiana della fine del 1947 e poi della ‘svolta’ della politica economica dell’autunno 1949, quando gli «ambienti industriali ed economici» pongono l’accento «sui problemi della produttività e della competitività»(85) — di creare le condizioni per attuare quelle ristrutturazioni e riorganizzazioni produttive che Bruno Trentin poi qualificherà come «selvagge»(86), possibili solo con il recupero del controllo della forza lavoro, con la riconquista cioè del potere padronale in fabbrica messo in discussione dalla lotta di Liberazione, e come innesco della nuova fase di sviluppo. E così sarà, sui due versanti della stretta del lavoro e dell’innovazione del processo produttivo.
È il tempo, infatti, da un lato, dell’incremento dei contratti a termine — a Marghera passano dai 297 del 1949 ai 1.841 del 1951 —, della crescente funzionalità delle imprese di appalto nelle grandi produzioni con oltre 3.000 dipendenti sottopagati e fluttuanti, della intensificazione dei ritmi di lavoro e della disciplina che si trasforma in intensificazione dello sfruttamento del lavoro vivo a un livello tale che gli infortuni sul lavoro, sempre a Marghera e secondo i dati I.N.A.I.L. (Istituto Nazionale per l’Assicurazione contro gli Infortuni sul Lavoro), salgono dagli 8.201 del 1950 agli 11.032 del 1951, fra cui i mortali da 19 a 26; dall’altro vi si accompagnano le modificazioni delle basi stesse della produttività, vale a dire della composizione organica del capitale in uno con l’innovazione tecnologica, da cui il mutamento del rapporto uomo-macchina: «il mezzo di lavoro si contrappone all’operaio durante lo stesso processo lavorativo quale capitale, quale lavoro morto che domina e succhia la forza-lavoro vivente»(87).
È questa la contraddizione che vivono nel contempo l’organizzazione e la classe: l’organizzazione perché non sa leggere correttamente i processi sia nella valenza economicosociale che in quella politica e quindi in forte ritardo nell’iniziativa rivendicativa; la classe perché — introiettando tale limite — non trova, o non è in grado di darsi, lo strumento per romperlo. Il culmine della crisi è nella citata sconfitta sul conglobamento — che resta tale anche se C.I.S.L. e U.I.L. (Unione Italiana del Lavoro) firmano un accordo separato(88) che Di Vittorio denuncia come «miserabile elemosina»(89) — e ancor più, nella primavera dell’anno successivo, con la sconfitta della C.G.I.L. nelle elezioni delle commissioni interne alla Fiat quando la F.I.O.M. scende dal 63 al 36%. Nel 1957 declinerà addirittura al 21,1%: lo slogan con cui la F.I.O.M. è andata a queste elezioni — «Guardate fuori dai cancelli della fabbrica!»(90) — testifica lo smarrimento di fronte a quelli che per l’organizzazione sono i misteri della fabbrica fordista-taylorista e nel vedere la salvezza — condizione di lavoro e identità — fuori del rapporto produttivo.
È un sofferto Di Vittorio a porre, neanche un mese dopo, la questione al direttivo della C.G.I.L.: «ci siamo illusi di racchiudere la realtà entro i nostri schemi, ma la realtà è stata più forte di noi e il nostro schema è saltato in aria»(91). Testimonia Foa, conoscendolo bene e giudicandolo un «uomo affascinante», che Di Vittorio «non capiva la fabbrica, non conosceva l’industria; la sentiva, ma non la conosceva nei suoi termini precisi»(92). Appunto, Di Vittorio l’ha sentita e fatta propria — la fabbrica — nel momento della crisi con il linguaggio dell’autocritica, tanto che il direttivo confederale attua la ‘svolta’ adottando un’impostazione che finalmente tiene conto «dei mutamenti avvenuti nell’organizzazione tecnica e nella struttura dei salari e dell’instaurazione di nuovi metodi scientifici di controllo e di oppressione contro i lavoratori»(93). Può sembrare un’impostazione ancora generica, e per una parte del sindacato resta tale, ma per l’altra parte essa ha un preciso e concreto significato: la condizione di lavoro. L’obiettivo diventa quello di un’analisi di questa condizione di lavoro che emerge dalla nuova organizzazione produttiva meccanizzata — simbolizzata da Mirafiori — e dalla conseguente nuova stratificazione del lavoro — l’operaio-massa che va configurandosi — e della finalizzazione del ruolo del sindacato alla ricostruzione di un potere di controllo e di contrattazione su tali processi. Sarà un lavoro lento e difficile prima che gli operai conquistino «durevolmente il diritto di costruirsi il loro sindacato unitario in fabbrica e di avanzare rivendicazioni»(94), anche se poi nella successiva fase postfordista lo riperderanno sotto l’incalzare di quella che Aldo Schiavone chiama la «rivoluzione capitalistica»(95) di fine secolo.
A Porto Marghera, però, la C.G.I.L. non solo non vive una crisi simile, ma viene confermata maggioritaria in tutte le grandi fabbriche della prima zona: nel 1956 è all’87% alla Sava Alluminio(96), all’82 alla Sava Allumina(97), al 78 alla Vetrocoke e al 58 alla Azotati(98), all’81 alle Leghe Leggere(99), all’80 all’Ilva(100), al 74 alla Sirma(101), al 53 alla Fertilizzanti(102) e così via, come risulta dai giornali o dai verbali di scrutinio negli archivi, risultati ben diversi da quelli della Fiat. Il prefetto, ancora nell’ottobre 1949, aveva spiegato che «nella maggior parte degli stabilimenti [di Marghera] manca la figura dell’imprenditore; sono Società Anonime con sede centrale altrove […] questo ha reso più laborioso quel processo di assestamento interno e di sistemazione soprattutto disciplinare, delle maestranze, che è ancora in corso e che incontra in alcuni settori delle difficoltà […]. Regolando la mia azione con quella dell’Associazione Industriali si è fatta però parecchia strada su questa via»(103). Anche se quest’azione combinata del prefetto con l’Associazione industriali ha avuto certamente i suoi effetti, tale analisi sembra parziale, ché la spiegazione va ricercata in altra motivazione. Essenzialmente perché Marghera è un’area d’industria di base, di prima trasformazione, non manifatturiera, e con una diversa stratificazione della forza lavoro in gran parte dequalificata per cui il sindacato è ancora in formazione, senza radici consolidate, e perciò sollecitato in vario modo a porsi i problemi delle rivendicazioni non solo salariali e delle stesse trasformazioni.
È una sperimentazione iniziata ancora nel 1951 con la conferenza di produzione della Sava come sede conclusiva di una indagine collettiva di quei lavoratori sul loro «lavoro pesante, sporco e spesso causa di malattie», come denuncia nel suo intervento l’operaio Giorgio Armellin, in altri termini «sulla fabbrica, su come lavorano, su cosa e quanto producono», da cui deducono la possibilità non solo «di lottare per l’aumento salariale indicato dalla Cgil», ma anche di «difendere i lavoratori stagionali e a termine perché vi sono tutte le condizioni per il permanere in fabbrica di questi lavoratori»(104). Prima di quella della Sava, vi era stata la conferenza di produzione alla Montecatini con l’analisi critica delle condizioni di lavoro — «la mancanza di adeguata protezione davanti alle macchine, di maschere e impermeabili, scarsa utilizzazione degli impianti»(105), come riferisce nella relazione Ruggero Bollini, membro del consiglio di gestione aziendale — e altre ne seguiranno, a segnare l’attenzione sulla condizione di lavoro come leva per l’accrescimento dei processi di ricomposizione. È il consiglio generale delle leghe e dei sindacati provinciale di Venezia a decidere, il 4 novembre 1951, l’intensificazione del movimento delle conferenze di produzione appunto «per la conoscenza concreta della situazione produttiva di ogni azienda e dei superprofitti degli industriali e dei grandi agrari»(106). E infatti a questa ricerca seguono movimenti di lotta su rivendicazioni salariali maturate nei processi interni delle singole fabbriche — S. Marco, Leghe Leggere, Sava Allumina, Ilva, Vetrocoke, Azotati, Breda — sino a sfociare nello sciopero generale di Marghera nel marzo 1952 su richieste di miglioramento salariale presentate alla Confindustria veneziana e a cui partecipano 25 fabbriche all’89% e con una «imponente»(107) manifestazione a Mestre. Altri risultati in salario sono riportati, altri ne seguiranno, ma si è già dentro quell’imbuto che porterà alla sconfitta del conglobamento: sono, queste, citazioni mirate a evidenziare il filo della socializzazione operaia a Marghera che, per quanto grandi siano le difficoltà e dura la repressione padronale, non sarà mai spezzato. Non è molto vero, perciò, che «il panorama politico sociale degli anni ’50 a Porto Marghera» sia solo «chiesa, fabbrica, casa»(108).
Come l’esperienza del movimento operaio spesso indica, nella sconfitta ci sono anche i germi della ripresa, pur se lunga nel tempo e complessa nella tematizzazione. Germi che si ritrovano, per un verso, in quel filo di dualismo rivendicativo-contrattuale di base, in quel riprodursi continuo di domanda di potere e di salario all’interno del rapporto di produzione che costituisce il terreno del nuovo corso sindacale avviato così criticamente da Di Vittorio e, per l’altro verso, nelle «nuove tecniche»(109) che inducono quella che Romano Alquati definisce, analizzando la Fiat, come l’«eliminazione tecnica degli anziani operai di mestiere», determinata appunto dalla tecnologia e dalla conseguente modifica dei sistemi di lavorazione, sostituiti dalla prima entrata in fabbrica di una nuova forza lavoro di primo impiego che sempre Alquati vede come «cera vergine»(110) proprio perché priva di cultura urbana e di ogni esperienza politica e quindi potenzialmente integrabile, anche per il suo approccio strumentale al lavoro. È quello che accade anche a Marghera, soprattutto nelle nuove fabbriche chimiche della seconda zona, tutte in continua espansione e in forte sviluppo tecnico e dove tuttavia — se per accedere «contano le aderenze politiche e religiose»(111) come quella di padre Evaristo Borsato, il «cappellano del lavoro» di Marghera — entra una nuova leva di giovani lavoratori, in gran parte provenienti sempre dalle campagne, anche se non più solo nel raggio della bicicletta, ma più acculturati e in un contesto, nonostante tutto, di maggiore socializzazione politica, per cui — provata sulla pelle la vita di fabbrica — non tardano a entrare nel sindacato e, più avanti, nel reticolo dei movimenti.
Il periodo che va dalla crisi del 1955 alla rottura del blocco salariale del 1963, con il contratto/svolta dei metalmeccanici, è segnato anche a Marghera dall’intreccio contraddittorio tra ricerca innovativa dell’organizzazione, sempre densa di tensioni e anche di ambiguità, e quella che appare essenzialmente come caduta o passività del movimento, anche se non manca l’iniziativa rivendicativa.
La ricerca innovativa — essenziale per Marghera — si impernia in quella che, pubblicandola, «Rassegna Sindacale» definisce come «relazione esemplare» della Camera del lavoro di Venezia: dall’esperienza delle lotte della Sava si deduce, «senza possibilità di dubbio», la «validità generale» dell’azione a livello aziendale non solo nella grande fabbrica meccanica di serie dove è la macchina a predeterminare i ritmi, ma anche nella grande fabbrica di Marghera dove esiste appunto «una sempre più razionale organizzazione aziendale, la quale, di per se stessa, e tanto più quando si tratta di industria a flusso continuo (chimica, raffinerie di petrolio, ecc.), ha lo scopo e la possibilità di aumentare lo sforzo del lavoratore, predeterminandone egualmente il ritmo e la intensità della sua prestazione». È da ciò che deriva, in primo luogo, la necessità «di riuscire a contrattare in queste aziende tutti gli elementi del rapporto di lavoro» e, in secondo luogo, di saper cogliere la presenza del «nesso di interdipendenza, la relazione di necessità che intercorre tra la rivendicazione di contrattare tutti gli elementi del rapporto di lavoro e la conoscenza […] della organizzazione aziendale del lavoro e, in relazione a ciò, del processo produttivo»(112). Risulta da tale «relazione esemplare», dunque, una forte decisione del sindacato veneziano nel far propria — e nel dispiegarla nella situazione concreta — la linea del potere contrattuale, che contraddistinguerà sempre più la strategia della C.G.I.L.
Bisogna aggiungere che l’iniziativa rivendicativa, se non introietta subito gli esiti di una ricerca così avanzata, non è del tutto assente per poi affermarsi lentamente, ma anche con efficacia come nel caso del movimento rivendicativo di massa che parte spontaneamente dall’Ilva di Bagnoli e che trova un significativo riscontro nei lavoratori dell’Ilva di Marghera che, rivoltisi al tribunale, hanno visto riconosciuto con sentenza(113) il principio che «l’indennità di mensa è da considerare parte integrante della retribuzione»(114). Si tratta di una vertenza che risale nel tempo — a Marghera le prime richieste sono state avanzate nel 1953 — e che pesa molto ai fini del conteggio della busta-paga per i riflessi diretti su tutte le voci del salario e con effetto retroattivo dal 1° gennaio 1946: si tratta di una effettiva sottrazione salariale media di circa 94.000 lire (dell’epoca). È comprensibile, dunque, che alla resistenza confindustriale si opponga con determinazione crescente un’azione articolata e generale di scioperi che alla fine riesce a spuntarla con l’accordo dell’aprile 1956(115) per cui Giorgio Monego, segretario della commissione interna dell’Ilva, può dire con «soddisfazione» ai suoi compagni di lavoro che «in questi giorni a Marghera hanno pagato»(116). In definitiva, la vertenza rivela — ed è proprio questo che interessa — la diffusione di una reale spinta di lotta a livello di base che anche a Marghera, come ammette la stessa Confindustria veneziana, non è priva «di un caratteristico […] mordente»(117): una sorta di rivincita sul conglobamento, cioè sul salario contrattuale che però resta un salario compresso, «molto al di sotto della media europea»(118).
In contemporanea si avviano vertenze nelle singole fabbriche che, in una forma o nell’altra, riguardano sempre il salario e sono accompagnate da scioperi e manifestazioni di varia intensità: in quelle del gruppo Montecatini per l’estensione a tutti della gratifica di bilancio che si concluderà con un accordo separato; alla Breda dove si richiede un aumento salariale annuo di 30.000 lire, o in altre dove si rivendicano i premi di produzione. Nel complesso, però, gli esiti sono insufficienti rispetto al costo sopportato con gli scioperi.
Nel frattempo pesano nel sindacato e nella sinistra i riflessi contorti della crisi provocata da quello che è stato chiamato — ma solo «per noi che ci stemmo dentro»(119), preciserà autocriticamente trent’anni dopo Pietro Ingrao — «l’indimenticabile ’56»(120) con il rapporto segreto di Kruscev e la sua forte, ma solo nominale, denuncia dello stalinismo; la rivolta ungherese con la ripercussione in Italia del «manifesto dei 101» intellettuali di condanna «irrevocabile» dello stalinismo e con la richiesta di «rinnovamento profondo nel gruppo dirigente del partito»(121); l’VIII congresso del P.C.I. con le infinite e accese discussioni ideologiche e politiche che lo precedettero alla base sulla «via italiana al socialismo» — quando, come scrive Stefano Merli, si attuò la «rottura della diga che teneva imbrigliati ‘i perché’»(122) — e su cui si formano nuove leve di dirigenti a tutti i livelli. Un salto in avanti, dunque e non paradossalmente, nella partecipazione dei militanti ma in cui, come osserva ancora Ingrao, «tutta la tematica emergente nelle fabbriche in connessione alle politiche neocapitalistiche non è ancora un tema centrale»(123), tematica tanto più importante in quest’area di Marghera — va ribadito — di così forte sviluppo.
È in questo contesto di forte tensione politica e sindacale che, nelle fabbriche di Marghera, la definizione delle rivendicazioni, l’articolazione del movimento e l’introiezione delle nuove forme di lotta diventano punti di passaggio difficili ma obbligati sui quali vanno crescendo quelle nuove esperienze di cui parla, anni dopo, ancora con molta partecipazione, Gordiano Pacquola, uno dei capi storici della commissione interna della Vetrocoke: «Quando il sindacato, intorno al ’55, al ’56 […] promosse il principio della contrattazione a livello aziendale, con alcuni compagni si iniziò lo studio — fabbrica per fabbrica — dei processi produttivi. Cercavamo di far impadronire i lavoratori di ogni singolo momento della vita aziendale, in modo che prendessero coscienza dello sfruttamento padronale e, quindi, della loro forza contrattuale […] in modo da provocare un’azione sindacale organizzata»(124).
Di particolare interesse sono le prime richieste avanzate di riduzione dell’orario di lavoro — nelle fabbriche del gruppo Fiat (Sirma, Vetrocoke e Azotati)(125), nel gruppo Sade(126) e all’Ilva («riduzione dell’orario di lavoro a 40 ore settimanali con salario di 48»)(127) — con cui viene posto questo problema essenziale e, se la strada per le «40 ore» sarà ancora lunga sino all’autunno caldo, intanto l’orizzonte del movimento si allarga e anche le altre rivendicazioni prendono respiro. Si contrappone l’offensiva padronale su molteplici piani: con i 45 licenziamenti alle Leghe Leggere, «alla vigilia di raddoppiare la produzione»(128), non perché la fabbrica sia in crisi, ma perché si è in fase di ristrutturazione; con le forme più retrive di repressione sindacale come all’Ilva dove la direzione «toglie il telefono alla Commissione interna»(129); con le pesanti e nocive condizioni di lavoro alla Vetrocoke dove «l’atmosfera [è] satura di sostanze come anidride carbonica, ammoniaca, metano, azoto», tanto che i quattro topolini messi in gabbia dagli stessi operai «sotto le macchine» rimangono stecchiti «dopo sette minuti, controllati con l’orologio»(130).
Sergio Turone considera, a ragione, il 1960 come «l’anno del trauma»(131): trauma sociale e trauma politico. Trauma sociale per l’inversione di tendenza delle lotte operaie con l’entrata in campo delle giovani generazioni postliberazione. Emblematica di tale inversione è la vertenza degli elettromeccanici(132), «la lotta più avanzata e moderna del dopoguerra»(133) per l’obiettivo di «più alto salario e più corto l’orario», per le forme articolate delle 120-130 ore medie di sciopero per operaio, per l’inventiva nelle manifestazioni esterne come i fischietti davanti all’Assolombarda o il «Natale in piazza del Duomo», per la partecipazione di massa e per le nuove forme di unità sindacale dal basso. Anche la Zoppas di Conegliano, fabbrica in piena fase espansiva, partecipa a questa lotta, a segnare l’entrata in campo della nuova classe operaia veneta: «i giovani dell’hinterland, figli dei contadini disprezzati dagli operai cittadini, i più attivi sostenitori della lotta»(134). Trauma politico per la caduta del governo Tambroni sotto la mazzata dello sciopero generale antifascista dell’8 luglio, autorivelazione di una insospettabile carica di rottura politica giovanile che esplode dal basso nei giorni infuocati di Genova e di Reggio Emilia cui tutta l’Italia risponde di colpo solidale e spontanea. Marghera è in prima fila(135) con «gli stessi cislini [che] si uniscono agli altri lavoratori»(136) mentre Venezia ascolta per la prima volta, il giorno successivo, nella «grandiosa e imponente» manifestazione antifascista promossa dal consiglio federativo della Resistenza davanti alla lapide di «Riva dei 7 Martiri», a Castello(137), l’intervento, fra gli altri, di alcuni studenti dell’Istituto di Architettura che poi saranno tra gli organizzatori delle occupazioni. È su questo movimento che il primo centro-sinistra prende l’abbrivo e solo «dopo che Aldo Moro riuscì a convincere i leader democristiani che […] era la scelta migliore per mantenere la centralità della Dc nel sistema»(138).
In definitiva, si può ben dire che — trauma o svolta — il 1960 è il primo scricchiolio di una frattura che si compie poi a cavallo del 1962-1963 quando — secondo il commento di un operaio Fiat riportato da Revelli — «il cervello che era rimasto congelato per tanti anni, di colpo si sbloccò»(139). E si sbloccò con la ricomparsa degli scioperi alla Fiat — indubbio segnale di ripresa del ciclo di lotta — per il contratto dei metalmeccanici, con i suoi nuovi contenuti rivendicativi emergenti dalle trasformazioni tecnologiche: «non [è] più solo il quantum della retribuzione ad essere in discussione, ma anche la struttura del sistema retributivo (qualifiche), la struttura della retribuzione (cottimi, premi di rendimento) e in generale l’organizzazione del lavoro (ritmi, organici, ambiente)»(140) come modo di riportare il sindacato a unico agente contrattuale a tutti i livelli, in primis quello aziendale. Come è noto questa vertenza, nel concreto, si sviluppa in due fasi — con in mezzo accadimenti di grande clamore che sono entrati a far parte della memoria operaia: gli 88 licenziamenti per rappresaglia alla Fiat e i fatti di piazza Statuto — per un totale di 39 giorni e 150 milioni di ore di sciopero. La prima fase si snoda per 8 tornate di 24 ore di sciopero e manifestazioni alle quali i metalmeccanici di Marghera partecipano con «straordinaria compattezza»(141), alle quali segue una seconda densa di scioperi articolati e unitari — 4 ore giornaliere — e di manifestazioni di piazza, Mestre compresa, sino alla spallata della proclamazione dello sciopero generale dell’industria in appoggio ai metalmeccanici per l’8 febbraio che non si attua per la vera e propria resa della Confindustria. Sono gli stessi industriali veneziani a dire che «non c’è stato risparmio di colpi»(142). Si tratta di un contratto che segna una svolta storica nelle relazioni industriali in Italia per la sanzione, sia pure parziale, della contrattazione aziendale e per la rottura del blocco salariale: per la prima volta nel dopoguerra — come riconosce Guido Carli — «il livello dei salari del nostro paese tende a raggiungere quello vigente nei paesi europei industrialmente più progrediti»(143).
Sono gli anni questi anche della «giovane cultura marxista italiana»(144), di rilettura critica e innovativa di Marx e dei marxismi, ben oltre gli storicismi di moda, e di cui la prima uscita di rilievo è data dal saggio di Raniero Panzieri Sull’uso capitalistico delle macchine nel neocapitalismo(145) — «una formidabile demistificazione di tutte le ideologie oggettivistiche e tecnocratiche della razionalità tecnologica che circolavano in quel periodo»(146) e, a ben guardare, ancora oggi — pubblicato nel primo numero dei «Quaderni Rossi», nel settembre 1961, con il suo seguito di «con ricerca a livello operaio»(147). È in questi processi che si radica la formazione di quel gruppo operaista veneziano — avviata con il corso di Toni Negri su Il Capitale nell’umida sezione socialista di S. Barnaba, con i frequenti incontri con Panzieri, con la collaborazione a «Il Progresso Veneto»(148) — che terrà banco nelle lotte studentesche e operaie del ’68-’69 a Venezia e Marghera.
Sono anche gli anni in cui Tinto Brass, alle sue prime prove, gira a Venezia — con le «rabbie fredde […] ma filtrate dal disincanto», come dice di se stesso(149) — quel bel film, anticipatore della contestazione giovanile, che è l’iconoclastico Chi lavora è perduto o In capo al mondo, con la collaborazione nella regia e nella sceneggiatura di quello che diventerà uno dei più creativi montatori del cinema italiano — Franco Arcalli(150), il giovane partigiano Kim(151) che aveva collocato la cassa di tritolo a Ca’ Giustinian nel luglio 1944 — e che, nella sequenza della carica della polizia a Marghera, fa anche l’attore visibilmente interiorizzando la parte dell’operaio aggredito così come la parte dello sconfitto in quella, avvolgente, del manicomio.
In L’anno degli studenti Rossana Rossanda mette Venezia, insieme a Pisa e Trento, «fra i punti di elaborazione destinati a travolgere, in Italia, i termini tradizionali delle lotte universitarie»(153): Venezia sta per Istituto di Architettura diretto da Giuseppe Samonà — prima scuola che si era aperta alla cultura della modernità — che innesca il Sessantotto il 19 aprile 1967 con la prima occupazione della serie che, se nell’immediato si configura come opposizione alla proposta di aumento delle tasse scolastiche, assume nel contempo la prospettiva di una contestazione della «struttura generale dell’università in Italia, di inequivocabile impostazione autoritaria, oppressiva perciò dei diritti costituzionali di libertà di accesso agli studi di tutti i cittadini e della libera espressione e potere decisionale nel loro lavoro di studenti»(154). Il riferimento sottinteso è alla «famigerata 2314»(155), il progetto di legge di riforma universitaria del ministro democristiano Luigi Gui che gli studenti valutano come «espressione della parte più retriva della stessa borghesia […] fondamentalmente arretrato rispetto alle stesse esigenze del piano del capitale»(156). Dopo 64 giorni la facoltà è sgomberata — di prima mattina fra le proteste di studenti e professori, solidali per l’occasione — dalla polizia: sono 64 giorni di intensi dibattiti e confronto/scontro con i docenti a tutto campo e di sperimentazione politica che sfociano nella pratica dell’assemblea generale come nuova forma di autogoverno del movimento, cioè come assunzione diretta del potere decisionale, non più delegato, pratica presto mutuata in fabbrica come riappropriazione da parte dei lavoratori del diritto di decidere sulle proprie rivendicazioni. È in questo contesto — quando, come scrive Luisa Passerini, si materializza «il nesso tra parola e soggettività»(157) in molte università, in Italia come in America e in Europa — che decolla il vero e proprio Sessantotto studentesco veneziano intrecciandosi alle lotte operaie di Marghera e alla contestazione della «Biennale dei ‘signori’»(158) di cui resta memoria nelle vivide immagini di Ugo Mulas(159) e di Gianni Berengo Gardin(160) e la traccia creativa nel Non consumiamo Marx di Luigi Nono(161). Architettura intanto è nuovamente occupata sulla scia degli scontri di Valle Giulia e dall’assemblea parte il primo appello diretto: «Compagni operai di Porto Marghera, No all’armonizzazione della Montedison — no alla armonizzazione dell’università»(162).
«Armonizzazione» è la parola chiave di questa fase: con l’incorporazione della Montecatini in Edison il 7 luglio 1965 — le famose «nozze petrolchimiche»(163) — si pone il problema di «armonizzare», appunto, le due diverse situazioni in materia di livelli occupazionali e di condizioni di lavoro e salariali. Ma «armonizzare» è tutt’altro che semplice in una situazione in cui si inseriscono dati diversi e contrastanti: lo sviluppo economico-produttivo della chimica in particolare a Marghera, il sociale con la nuova leva di giovani operai e il politico con la divisione e il ritardo sindacali e la nascita dei nuovi gruppi di sinistra. Vi è stata la lotta contrattuale dei chimici, iniziata a maggio e conclusa a fine novembre 1966, che, rispetto al citato sviluppo del settore e al costo degli scioperi, non paga adeguatamente con quel limitato 5% di aumento dei minimi tabellari e 2 ore di riduzione dell’orario settimanale scaglionate in 3 anni e poco altro(164), lasciando così un vuoto destinato a essere riempito. Poi, l’anno successivo, vi è l’accordo separato di C.I.S.L.-U.I.L. con Montedison sulla nocività a Marghera che comporta «clausole rovinose per i lavoratori» e da cui prende avvio «la lotta serrata del gruppo forni e lavorazioni collegate che getterà scompiglio nelle centrali sindacali»(165), anticipo di movimenti ben più larghi. Intanto Montedison incorpora Vetrocoke e Vego, mettendo così «le mani sull’80 per cento dei grandi stabilimenti di Porto Marghera»(166), e, con l’occasione, impone un altro giro di vite tale da suscitare nuove reazioni operaie — per la prima volta in forma così massiccia — che presto si trasformano in scioperi spontanei e articolati in molti reparti del Petrolchimico, subito sostenuti da Potere Operaio e contrastati dai sindacati, peraltro divisi tra di loro, e anche se la Filcea, il sindacato dei chimici C.G.I.L., riconosce esplicitamente che «le lagnanze e le richieste avevano ed hanno un fondamento serio ed inoppugnabile»(167). È, dunque, in questa situazione di crescente tensione che Montedison pone il problema dell’«armonizzazione» — tanto più impellente poi perché è programmata la messa in cantiere del secondo Petrolchimico che segnerà il passaggio, a Marghera, dalla chimica dell’acetilene a quella dell’etilene — che dal punto vista Montedison significa unificazione della gestione e una più razionale organizzazione produttiva e del lavoro, ma che da quello dei lavoratori non può significare che «armonizzazione» verso l’alto, in altri termini aumento complessivo del monte salari. Ma l’accordo(168) sottoscritto dai sindacati nel gennaio 1968 è tanto al ribasso — «fa parte del piano del padrone ed è un bidone per gli operai»(169): è il linguaggio forse troppo colorito, ma non falso del volantino di un Potere Operaio a cui Corrado Perna, allora sindacalista a Porto Marghera, riconosce «la forza di un legame vero, genuino, saldo con i bisogni operai»(170) — da provocare nell’immediato un vero e proprio rifiuto operaio che funziona da volta di passaggio alla lotta sul premio di produzione delle «5.000 per tutti»: quella che Gualtiero Bertelli canterà in Primo d’agosto Mestre sessantotto(171).
Per primi si muovono i 300 operai dei reparti Cvp (cloruro di vinile polimero) e Cvm (cloruro di vinile monomero), fra i più esposti alla nocività, che «si presentarono alla Commissione interna aprendo una rivendicazione collettiva […]. La Cgil e la Cisl con gravi difficoltà accettarono […]. La lotta comunque si aperse con scioperi massicci»(172). Da questi primi scioperi del 30 marzo sino al 21 giugno, quando inizia il primo sciopero per il rinnovo del premio di produzione, è un crescendo di iniziative dal basso — nell’assemblea/dibattito, nella definizione delle rivendicazioni, nella scelta delle forme di lotta — sempre sollecitate o sostenute da Potere Operaio e subite dai sindacati che non possono rompere i legami con la base operaia: ma è sempre, come scrive Massimo Cacciari, «sperimentazione di nuove forme di organizzazione, controllate dalla base in ogni momento»(173).
È subito evidente che quella del premio di produzione non può essere una vertenza nei ristretti canoni tradizionali: l’ultimo contratto stabilisce vincoli troppo rigidi e limitati in relazione ai forti incrementi di produzione che, tradotti in cifre, risulterebbero una vera miseria. Nelle assemblee — non rimossa di certo la rabbia per l’«armonizzazione» e l’accordo sulla nocività su cui fa leva Potere Operaio — prende corpo l’obiettivo delle «5.000 lire uguali per tutti». Spiazzante non è, tutto sommato, la cifra in assoluto, anche se Montedison la rifiuta, ma quell’«uguale per tutti» che va contro il principio taylorista-fordista della divisione del lavoro: non si tratta di un egualitarismo di stampo universalistico o di negazione della qualifica professionale, ma di un obiettivo rivendicativo che, da un lato, si propone in quella data situazione la riduzione della divaricazione crescente tra i parametri contrattuali, fatti saltare dall’inflazione e dai meccanismi differenziati della scala mobile e, dall’altro, mira effettivamente alla messa in moto di un processo di ricomposizione del lavoro come affermazione di autonomia del lavoratore e come ricomposizione politica di classe.
Si tratta di una rivendicazione — «5.000 per tutti» — che allora non faceva parte della cultura del sindacato ma che dal sindacato, alla fine, viene accettata obtorto collo e che viene vissuta come continua contraddizione, così come con contraddizione viene vissuta la diaspora quotidiana nelle assemblee con la discussione sulle forme articolate di lotta — lo sciopero a giorni alterni — e le forme di comunicazione con le altre fabbriche. La contraddizione poi si acuisce, ché nei picchetti ai cancelli delle fabbriche e nelle assemblee sono sempre presenti, e in massa, gli studenti, soprattutto di Architettura, che a loro volta vivono l’approccio alla fabbrica e alla classe come l’altra faccia politica delle occupazioni delle sedi — «Alla classe operaia noi non vogliamo insegnare nulla: è la classe operaia che deve insegnare molte cose agli studenti»(174) — ma che il sindacato fatica a riconoscere come interlocutori. Da ultimo — per aver completo il quadro — è da rilevare come l’intransigenza di Montedison sia forte anche perché non avverte minimamente il ciclone in arrivo: punta sulle divisioni sindacali e sullo spirito di subordinazione della forza lavoro che il management continua a vedere non frangibile.
È un luglio bollente, questo del ’68, fitto di scioperi che la direzione del Petrolchimico vorrebbe scombinare con la richiesta di triplicazione degli indispensabili — invece di mantenere al minimo tecnico il ciclo continuo durante lo sciopero, vuole la produzione quasi normale — ma che, al contrario, provoca una reazione a catena fatta d’infittimento di scioperi, di maggior partecipazione alle assemblee e rafforzamento ai picchetti, di «un volantino al giorno»(175): quel volantino che funziona da misuratore di «temperatura della fabbrica» attraverso «il comportamento degli operai» per cui «se ne venivano gettati via molti significava che non interessavano, se invece per terra ne restavano pochi, il problema era sicuramente molto sentito»(176). In questo caso, per terra ne rimasero ben pochi. Il 18 luglio — durante il sesto sciopero — viene organizzato anche un corteo a Venezia, da piazzale Roma a campo S. Stefano, all’insegna dello slogan urlato a tutta voce «operai e studenti uniti nella lotta»: «Il corteo che attraversa Venezia è enorme» e passa davanti alla sede del giornale cittadino al grido «Gazzettino servo del padrone»(177). Il nono sciopero, il 25 luglio, è totale perché l’organizzazione dei picchetti di massa, fin dall’alba, blocca ogni entrata, persino quella dei dirigenti: «è possibile bloccare effettivamente la fabbrica e recare con ciò grave danno al padrone»(178), è il commento degli studenti che sono partecipi attivi. Il 30 luglio l’assemblea rifiuta i 210 comandati dalla direzione come indispensabili, provocatoriamente esorbitanti. Il giorno successivo — undicesimo sciopero — i 210 si lasciano tranquillamente fermare ai cancelli: la risposta Montedison è la serrata, la controrisposta operaia è non far entrare nessuno in fabbrica e l’organizzazione di picchetti ancora più duri per tutta la notte, compreso il fronte laguna da cui passa una parte dei crumiri con i mezzi forniti dall’azienda. La mattina del 1° agosto non è giornata di sciopero ma «la direzione dichiara che lo stabilimento non può funzionare e chiude i cancelli davanti agli operai del primo turno. Di fatto è una nuova serrata: la reazione operaia è fortissima. Operai e studenti danno luogo ad una grande manifestazione di protesta»(179).
È l’altro «avvenimento topico del Sessantotto»(180) che, come era accaduto il 19 aprile, con l’abbattimento della statua di Marzotto a Valdagno, va persino in televisione — una delle prime volte che gli operai ‘bucano’ lo schermo — oltre che sulle prime pagine di tutti i giornali. Il corteo parte dal Petrolchimico, trascina gli operai delle altre fabbriche lungo il percorso, raggiunge il cavalcavia e si dirige verso la stazione per imboccare via Piave: sono in 10.000 assieme agli studenti. È il «Corriere» a raccontare: «La stazione di Mestre invasa, i treni bloccati per oltre venti minuti, il cavalcavia di Marghera occupato e bloccato: stamani Venezia era come assediata dall’esterno»(181). In realtà è qualcosa di più dell’invasione della stazione, ché è Potere Operaio a prendere l’iniziativa: «durante la notte se ne è parlato a lungo». Infatti «300 operai di corsa e poi altre migliaia irrompono nella stazione ferroviaria e ne occupano i binari. Grandi striscioni rossi con le scritte ‘Tutti contro la Montedison’, ‘Sciopero generale’ vengono portati davanti ai treni. I carrelli dei portabagagli vengono messi di traverso sui binari: c’è un’estrema decisione di tutti […]. Allora avanzano 300 celerini […]. Sono momenti di estrema tensione», quando il commissario di polizia, con indubbia freddezza, si rende conto della situazione e ordina il ritiro e «i celerini se ne vanno tra due muri di pugni chiusi»(182). La manifestazione si conclude poi in piazza Ferretto, l’indomani sarà sciopero generale di tutta Marghera e il giorno successivo ancora sarà firmato l’accordo(183).
A leggere oggi tale accordo si resta sorpresi per la modestia dei risultati che in nulla pagano la lotta di cui resta però l’«evidente, impressionante valore politico», visto che «non [si] produce alcun fenomeno di riflusso nella disponibilità operaia alla lotta»(184). Il premio di produzione sta nei parametri contrattuali — tra le 1.000 e 2.500 lire — cui si aggiunge un assorbimento e monetizzazione di altre voci minori per altre 1.000 lire: a saltare è dunque quell’«uguale per tutti», punto di forza e di novità della lotta, ma non salta — sorta dalla lotta stessa e nell’autogoverno delle assemblee — l’identità collettiva del Petrolchimico che continuerà a reggere sino alla metà degli anni Settanta.
Come scrive Ferruccio Brugnaro, poeta operaio di Marghera — «Ma io resto fermo / io accumulo fuoco / io raccolgo fuoco»(185) —, si può già intravedere in questo luglio ’68 il ricongiungimento di quei fili continui di socializzazione operaia che — dipanati sin dalla Resistenza — si erano visti riaffiorare in varie forme nel passare degli anni e nell’articolazione del movimento di lotta. Questo luglio ’68 resta nella trama del movimento a Marghera come il filtro di addensamento del lungo percorso. Il compimento avverrà nell’autunno del 1969.
A Marghera, dunque, il ’68 come nuovo livello storico della lotta operaia, unificante sul piano sociale e politico: «l’anno più sovversivo nella recente storia del movimento operaio italiano»(186), paletto ben piantato per una nuova periodizzazione nella storiografia non solo italiana. Così è stato a Valdagno e alla Zoppas di Conegliano dove alla conclusione della vertenza, racconta Trentin, «tratto con i padroni con la gente fuori che interviene»(187), a segnare le nuove forme di democrazia dal basso che irrompono nella scena sociale e politica anche in Veneto, «indicativi di una situazione di rottura in atto e come frutto di un equilibrio spezzatosi persino nel cuore geografico della ‘conservazione’ politica e dello strapotere capitalistico industriale»(188).
L’effetto trascinamento si ripercuote in tutte le altre fabbriche di Marghera — a cominciare dall’Acsa, diventata nel frattempo Chatillon, che fa il suo accordo sul premio di produzione(189) qualche giorno dopo il Petrolchimico, per arrivare alla Preo(190), attraverso la Galileo(191), l’Italsider(192) e molte altre — ed è una moltiplicazione di lotte e di risultati concreti in termini aziendali: in definitiva, terreno di sedimentazione per la ormai vicina stagione contrattuale. Così come nelle altre aree industriali del paese e in primo luogo a Torino dove un significativo episodio di lotta matura sul contrasto tra i gruppi e il sindacato, cioè tra rivendicazione salariale e richiesta di riforme — nel caso specifico il blocco degli affitti — per esplodere, il 3 luglio, nella «battaglia di corso Traiano»(193) attorno a Mirafiori: «Su delle barricate c’erano delle bandiere rosse, su una c’era un cartello con su scritto ‘Che cosa vogliamo: tutto’»(194). Segno utopico, questo con tanti altri, di una fase che, se non è e non diventerà realtà, rivela il mutare profondo dei comportamenti conflittuali e dei modi di pensare di quella nuova figura sociale che è l’operaio massa, così intensamente tipizzata nel personaggio del romanzo di Nanni Balestrini.
Nel frattempo si intrecciano due movimenti di riforma a carattere nazionale pure sfociati in un ventaglio di scioperi generali, riuscitissimi anche a Marghera — tutt’altro che «logica del conflitto ad ogni costo»(195) — e che hanno funzionato come strumenti di unificazione sociale e salariale e fattori di accelerazione del movimento rivendicativo: la conquista della nuova legge sulle pensioni(196) come «moderno sistema di sicurezza sociale»(197) e l’abolizione delle zone salariali(198), quelle che i lavoratori chiamavano «gabbie». È ancora prima di queste lotte — e di questi importanti risultati a torto beffeggiati da Potere Operaio — che lo stesso sferra la sua offensiva: «Avanti compagni, attraverso assemblee decisionali imponiamo la scadenza anticipata dei contratti e la lotta unitaria di tutti gli operai sugli obiettivi del salario minimo garantito, delle 40 ore pagate 48, dell’assistenza e delle ferie uguali per tutti»(199) cui seguirà la proposta che la direzione della lotta sia assunta dai C.U.B. (Comitati Unitari di Base), con riferimento a quello che si era formato alla Pirelli Bicocca di Milano ancora nel marzo 1968 — come racconta Mario Mosca, uno dei suoi fondatori, un bracciante del Polesine emigrato a Milano dopo l’alluvione del Po — «al bar Gardenia, proprio lì, all’inizio delle case Pirelli costruite per noi lavoratori [dove] si discuteva dentro una stanzetta il nostro Che fare» con l’obiettivo «unità dei lavoratori e rilancio delle lotte»(200). Ma, se i contratti verranno anticipati, non sarà merito di Potere Operaio, bensì della Fiat con le sue 30.000 sospensioni dal lavoro per rappresaglia. I C.U.B. poi a Marghera non avranno molta fortuna e Potere Operaio, se inciderà ancora nelle lotte dei chimici, non influirà in quella dei metalmeccanici.
Siamo così all’«autunno caldo». A Marghera, il primo sciopero fatto insieme da metalmeccanici, chimici ed edili per i rispettivi contratti — dopo che le trattative con le controparti sono state avviate e subito rotte perché la Confindustria pone come pregiudiziale la fine della contrattazione aziendale — ha luogo il 17 settembre, con corteo e comizio in piazza Ferretto(201): è l’«unità dei tempi» nelle lotte contrattuali sostenuta da Trentin in contrapposizione alla «lotta unica»(202), richiesta a gran voce dal comitato operaio e dagli altri gruppi, perché questa significherebbe «una forte probabilità di approdare ad un accordo unico: o ad una specie di accordo quadro»(203). Prima e dopo di questo, le singole categorie hanno fatto e faranno i loro scioperi, sempre massicci e con la forte presenza degli studenti nei picchetti e nei cortei, e sempre tra un diluvio di volantini. Alla base di questi scioperi stanno le piattaforme rivendicative adottate con varie modalità dopo lunghi mesi di discussione e confronto, favorite dalla ripresa dell’economia, dopo la fase recessiva del 1966-1967, che contribuisce in positivo ad allargare gli orizzonti del movimento.
Per i metalmeccanici — è Trentin a sostenerlo — è valso, contro il «metodo della ratifica» seguito sinora, il «metodo della democrazia di base» per cui ora «si deciderà […] su tutto»(204), il che significa che nella definizione delle rivendicazioni il voto delle assemblee ha valore decisivo. E così è: a Marghera, nell’assemblea dei metalmeccanici, contro la relazione del segretario della F.I.O.M. veneziana che propone l’aumento salariale in percentuale e l’argomentato intervento di Trentin, presente all’assemblea, pure a favore del salario di qualifica, la maggioranza si schiera con il voto per l’aumento uguale per tutti, ché sulla rivendicazione delle 40 ore pagate 48, la parità normativa e il riconoscimento dei diritti sindacali l’accordo è unanime. Sarà questa la decisione finale e unitaria per le richieste dei metalmeccanici: 75 lire orarie per tutte le qualifiche. Fra i chimici invece questo rapporto simbiotico tra base e vertice è saltato: «Al Petrolchimico non solo non era avvenuta la consultazione dei lavoratori, ma la stessa discussione all’interno del gruppo dirigente provinciale dei chimici aveva portato a profonde lacerazioni» tanto che «la piattaforma contrattuale definitivamente elaborata dalle tre federazioni nazionali fu portata a conoscenza dei lavoratori solo dopo la sua presentazione alla controparte»(205). Un vuoto che sarà riempito a tutti gli effetti da Potere Operaio e, in parte, anche dagli altri gruppi.
Segue una lunga catena di scioperi secondo schemi basati fabbrica per fabbrica e sull’articolazione interna. Per i metalmeccanici valga l’esempio Italsider, settimana da lunedì 22 a venerdì 26 settembre: lo «Sciopero (operai) Giornalieri» avrà luogo nelle ultime 3 ore dell’orario normale di lavoro tutti i giorni salvo il giovedì 25 settembre quando sarà di 24 ore; il primo turno sciopererà il lunedì dalle 8:30 alle 11, tutti gli altri giorni le ultime 4 ore del turno salvo il giovedì in cui sarà di 24 ore; lo stesso schema sarà seguito dagli altri due turni e così per gli impiegati. Vi si aggiunge, per tutti, lo «sciopero di tutto il lavoro straordinario e festivo»(206). Una lotta massiccia che costa un prezzo salato a entrambe le parti ma che è portata avanti con assoluta decisione e coerenza dai metalmeccanici.
Molto più intricata è quella dei chimici. Una tensione continua. Il sindacato propone 48 ore di sciopero articolato in due giorni ma alla fine il comitato operaio riesce a far prevalere la continuazione dello sciopero a giorni alterni: un confronto che comincia all’alba, con il primo turno, sino a notte quando entra il terzo turno, tra i caciarosi picchetti con gli studenti — «attorno ad ogni studente gente curiosa e stimolata a fare continuamente domande e magari questi capannelli si facevano davanti ai cancelli e così capitava che chi voleva entrare si trovava impedito davanti a tutta questa gente che parlava e di fatto ostruiva l’ingresso in fabbrica»(207), racconta Italo Sbrogiò — e le interminabili assemblee nelle mense e nei reparti in cui tutti si impegnano allo spasimo, sino a quel gruppetto di marxisti-leninisti che non si perita di assumere nientemeno che «il compito di condurre le lotte di massa alla vittoria»(208).
All’inizio di ottobre c’è il corteo di chimici e metalmeccanici sin davanti la sede della Confindustria, a Mestre, al grido di «contratto subito»(209) con relativa «fischiata di massa». Nel contempo, al Petrolchimico — in un susseguirsi ininterrotto di assemblee di fuoco con scambio di accuse al vetriolo fra sindacato («al padrone non fanno paura gli obiettivi operai, ma fa paura che il sindacato entri in fabbrica») e contraccuse del comitato operaio («al padrone invece il sindacato in fabbrica non fa neanche un po’ di paura anzi»)(210) — sono eletti in 24 ore 150 delegati di reparto — contestati da Potere Operaio — che con commissione interna e sindacato preparano lo sciopero articolato per turno dal 12 ottobre «anche durante le trattative»: «Turnisti, Domenica 12 Squadra A dalle 14 alle 22; lunedì 13 squadra A dalle 14 alle 22; martedì 14 Squadra D dalle 14 alle 22; mercoledì 15 squadra B dalle 6 alle 14. Giornalieri, Lunedì 13 e venerdì 17 dalle 7:45 alle 11:45»(211), con il che si colpisce più a fondo la produzione a minor costo salariale. Gli scioperi poi si infittiscono, si formano i cortei interni come alla Fiat — alla Montefibre li chiamano «operazione rastrello»(212) —, si arriva al punto di avere «il blocco pressoché totale della produzione»(213). Per dare maggior forza al movimento si aggiungono gli scioperi nazionali di categoria come quello di 48 ore il 24 e il 30 ottobre con relative assemblee, in sala mensa con i giornalieri e davanti ai cancelli per i turnisti, «per dare la possibilità ad ogni lavoratore di valutare momento per momento le fasi della trattativa»(214). Anche i metalmeccanici hanno il loro ottobre di scioperi sempre più articolati, cortei e manifestazioni. Il 3 ottobre torna lo sciopero contemporaneo di metalmeccanici, chimici ed edili con manifestazione a Mestre cui partecipano circa 50.000 lavoratori e il 9 a Venezia con sit-in in piazza S. Marco.
Agli scioperi per i contratti fa da scenario politico la lotta per le riforme sui temi decisivi dello Stato sociale — «1. abitazione e affitti; 2. imposte dirette e trattenute sulle buste-paga; 3. assistenza sanitaria; 4. riassetto del territorio e trasporti; 5. riforma della scuola e diritto allo studio per tutti»(215) — che sfocia prima in uno sciopero provinciale di 4 ore il 6 novembre e poi in quello generale nazionale del 19 novembre(216) con manifestazione in piazza S. Marco e a cui partecipano lavoratori e cittadini, persino bottegai e osti che — per la prima volta, a memoria d’uomo — lasciano a secco le gole degli scioperanti, arse dalle urla e dal soffio nei fischietti. Sciopero che segna «anche emblematicamente, un punto di svolta nell’insieme della vicenda sindacale italiana»(217).
Nel frattempo continuano gli scioperi articolati di chimici e metalmeccanici. Al Petrolchimico l’articolazione avviene su uno schema ancor più innovativo: lo sciopero di reparto e di impianto come ulteriore scomposizione dello sciopero per turno(218): una vera e propria «variante sovversiva»(219). Per i metalmeccanici il movimento culmina in una manifestazione nazionale, a Roma, il 28 novembre — tutt’altro che «passeggiata turistica»(220) — con il comizio di Trentin, Carniti e Benvenuto in piazza del Popolo sotto il volteggiare un po’ minaccioso dell’elicottero della polizia, dopo un corteo che ha attraversato tutta Roma con un mare di bandiere rosse, tra il trillo martellante dei fischietti e gli slogans ritmati di «contratto contratto», di «Agnelli e Pirelli ladri gemelli» e altri, che finiscono per conquistare la simpatia di gran parte della città. Questa manifestazione segna il passaggio dalla fase più acuta della lotta contrattuale a quella in cui il muro confindustriale comincia a sgretolarsi. Infatti il 7 dicembre viene firmato il contratto dei chimici, il 10 è la sigla per il contratto dei metalmeccanici delle Partecipazioni statali.
Ma il 12 dicembre accade quella che è passata alla storia come la «strage di Stato» — cioè l’attentato, a Milano, «alla Banca nazionale dell’agricoltura di Piazza Fontana affollata come tutti i venerdì, giorno di mercato […]. I morti sono sedici […]. L’esplosione ferma gli orologi di piazza Fontana sulle 16:37»(221) — che avvia quella «strategia della tensione» che sul momento può apparire finalizzata a contrastare i movimenti di lotta dell’autunno o magari anche del ’68, ma che poi, sulla distanza, si rivela come «l’altra deriva […] delle trame nere e di Stato» che «a quella ondata ‘dal basso’» si contrappone «come forma determinante di risposta ‘dall’alto’ da parte di una classe dominante […] strutturalmente malata di ‘sovversivismo’», fino ad arrivare a mutare «nella sostanza, di fatto, il nostro sistema costituzionale […]. È l’altra storia sommersa»(222) che attende ancora i propri scopritori.
Comunque sia, almeno sul momento, non ferma il movimento, tanto che il 21 dicembre è la volta della resa della Confindustria ai metalmeccanici. Nel complesso sono 60 i rinnovi contrattuali nel 1969 con il «più rilevante boom salariale dell’esperienza postbellica»(223) e il più gran numero di ore di sciopero — nella sola industria nella provincia di Venezia 2 milioni e mezzo — e «un incremento del costo del lavoro valutabile mediamente intorno al 25-30 per cento»(224). Insomma, quello che il presidente degli industriali veneziani, nella relazione all’assemblea annuale dell’Associazione, chiama lo «sconquasso dell’autunno»(225). E di «sconquasso» effettivamente si tratta: aumento salariale di 65 lire orarie per tutti, 40 ore pagate 48, parità normativa fra operai e impiegati, affermazione della libertà di contrattazione aziendale, diritti sindacali fra cui il diritto di assemblea in azienda (con 10 ore retribuite) e il riconoscimento del sindacato in azienda. In altri termini un vero e proprio ribaltamento in quantità e in qualità della struttura contrattuale — rifinita dall’inquadramento unico fra operai e impiegati sancito dal contratto del 1972(226) — cui si congiunge la nascita dei consigli di fabbrica, eletti su scheda bianca da tutti i lavoratori per ‘gruppo omogeneo’ e riconosciuti come struttura di base del sindacato: riappropriazione di base del diritto di decidere sulle proprie rivendicazioni e sulle forme di lotta per attuarle, base dell’unità sindacale e del potere contrattuale in fabbrica. «Cesello finale»(227) è lo Statuto dei diritti dei lavoratori votato in Parlamento il 20 maggio 1970 — la celebre «legge 300» — vero e proprio «atto fondativo di un nuovo rapporto tra Stato e lavoratori»(228). Marghera, dunque, è ben dentro questi processi.
L’«autunno caldo» comporta inoltre — in uno con quella del centro-sinistra — la crisi definitiva del macroprogetto dorighiano della terza zona industriale(229) con cui le sinistre razionalizzatrici democristiana e socialista, con l’opposizione dei comunisti, ma non del sindacato, si propongono di pianificare, dopo le malefatte di Montecatini ed Edison in seconda zona, l’ulteriore espansione di Marghera, in altri termini di imporre loro stringenti briglie. La storia del Consorzio di sviluppo della terza zona industriale, di natura pubblica, risale agli inizi degli anni Sessanta, dopo l’adozione del piano regolatore di Venezia — che schiude agghiaccianti prospettive alla grande industria: «Nella zona industriale troveranno posto prevalentemente quegli impianti che diffondono nell’aria fumo, polveri o esalazioni dannose alla vita umana, che scaricano nell’acqua sostanze velenose, che producono vibrazioni e rumori»(230) — e ha il suo presupposto nello scavo del canale del porto di Malamocco per congiungere il mare direttamente alla zona industriale, senza passare per il bacino di S. Marco.
L’inizio però della crisi di quella che allora il sindaco Favaretto Fisca reclamizzava come la futura «grande Venezia» è segnato da quel tragico tardo pomeriggio del 4 novembre 1966 quando il mare infuriato, forza nove, rotti i murazzi, sbatte violento sulle colonne del Palazzo Ducale e sommerge Venezia. Molteplici e intricate sono le ragioni, anche lontane, del «problema di Venezia», ma quei 194 centimetri d’«acqua alta» materializzano di colpo l’incompatibilità fisica e ambientale tra la grande industria di base di Marghera, la laguna e l’insula veneziana su cui mai nessuno, dal 1917, aveva sollevato un dubbio. Ma gli interventi artificiali in laguna — dagli estesi imbonimenti delle barene per le aree industriali alla loro subsidenza a causa dell’estrazione di acqua per uso industriale e allo scavo del citato canale di Malamocco, dall’aeroporto di Tessera all’isola artificiale del Tronchetto e all’attraversamento lagunare della Romea, per non indicare che gli esempi più visibili — finiscono per romperne l’equilibrio idrogeologico; l’indice più appariscente sta nel numero fortemente crescente delle «acque alte». In definitiva, ciò che la lotta operaia mette in discussione nell’«autunno caldo» non è un problema paesaggistico o naturalistico, ma il modello di sviluppo economico-sociale che, se ha trasformato il paese da agricolo in industriale, lo ha anche colmato — e il Veneto in particolare — di forti squilibri economico-sociali, territoriali e ambientali.
Il problema ambientale in fabbrica si chiama nocività. Così è sintetizzato, nell’ottobre 1971, in un convegno comunista: «A Porto Marghera non vi è questo o quel reparto nocivo, questa o quella fabbrica nociva, è tutta la zona industriale nociva […]. È la stessa organizzazione del lavoro che è contemporaneamente causa ed effetto di questo alto grado di nocività»(231). È una significativa presa di coscienza a livello politico, anche se in ritardo, ché già tre anni prima alcuni scioperi dei reparti Cv del Petrolchimico avevano dato il via in modo massiccio, dal basso e contro l’ostilità dichiarata del sindacato, ad un’azione che aveva come parola d’ordine «la salute non si paga», sviluppatasi lungo tutto il 1969. Appunto come rifiuto di quell’«indennità di nocività e rischio» con cui contrattualmente si intendeva risolvere il problema.
Il 1971 è anche l’anno in cui cominciano le innumerevoli fughe di gas — la prima annunciata pubblicamente è del 2 dicembre: «al Tdi 5, dalla torre C 505/1, fuoriuscita di gas contenente fosgene; colpiti 60 operai, di cui 19 ricoverati in ospedale (dei quali 3 ricoverati successivamente una seconda volta)»(232) — e che aumentano progressivamente tanto che il 3 gennaio 1973 il dirigente dell’Ispettorato del lavoro ordina l’obbligo individuale della maschera per tutti quelli che lavorano a Marghera: «cervellotica decisione che porta a immortalare, sulla stampa nazionale, l’operaio apparso in corteo con una maschera antigas e la scritta ‘Le maschere alle ciminiere non ai lavoratori’»(233). È dello stesso periodo di tempo la costituzione della commissione ambiente al Petrolchimico che pubblica il suo primo «Foglio» con una significativa e precisa denuncia: «gli impianti più nocivi sono proprio quelli ultramoderni, costruiti secondo la logica del profitto […]: il Tdi per esempio, che ha avuto la prima fuga nella fase di messa in marcia e successivamente ne ha avuto una serie spaventosa, con centinaia di lavoratori intossicati dal fosgene. Stesso discorso per il DL 2 dove la fuga di cloro che raggiunse Marghera e Mestre era dovuta soprattutto a tubi costruiti al risparmio, con materiali inadatti. È chiaro che gli impianti vecchi sono nocivi, ma risulta altrettanto chiaro allora che la logica che ha costruito questo tipo di ‘nuovi impianti’ è una logica antioperaia»(234).
Alla fine del 1973, il 23 ottobre, con lo sciopero generale dell’industria a Marghera «per la contrattazione degli investimenti sul risanamento degli impianti» e il 20 novembre con lo sciopero generale in tutta la provincia «per i problemi dello sviluppo, dell’ambiente, dell’organizzazione del territorio»(235) sostenuto da una grande manifestazione in piazza S. Marco, a Venezia, si ha forse il momento più alto e in attacco nella fase acuta delle «fughe o inquinamenti di gas e/o di sostanze tossiche o nocive (fosgene, cloro, anidride solforosa, acido solforico, acido cloridrico, metacrilato, acrilato di metile, cicloesenone, cloruro di benzile, toluolo, solfato ammonico eccetera)»(236) che continuano ancora per lungo tempo e a cui Montedison e autorità pubblica danno risposte sempre evasive o minimizzatrici.
È a questo punto, a metà degli anni Settanta, innescata dalle crisi del petrolio e dalla crescente rigidità della forza lavoro indotta dal ’68-’69, che comincia a prendere corpo quella terza rivoluzione industriale — l’«uscita tumultuosa dal Novecento»(237) — che sta alla base della globalizzazione: «una innovazione trascinante nella strutturazione del capitale e nel cuore del processo produttivo: nei saperi, nel sistema macchinale, nell’organizzazione del lavoro, e nelle dimensioni spaziali planetarie che il sistema capitalistico e delle imprese tendono ad assumere»(238). In altri termini il passaggio dal modello produttivo fordista con la sua teoria sullo «sviluppo illimitato» — l’epoca della grande fabbrica meccanizzata, dell’integrazione verticale della produzione e dell’«organizzazione scientifica del lavoro»(239) — a quello postfordista della nuova fabbrica integrata e flessibile strutturata su quella macchina linguistica che è il nuovo sistema comunicativo informatico fra interno ed esterno: un vero e proprio «nuovo paradigma socioeconomico» che presuppone la trasformazione del territorio da contesto a fattore produttivo e in cui le «risorse sociali disseminate» — come le intende Revelli(240) — sono mobilitate e consumate. Anche se tutto ciò, come aggiunge Christian Marazzi, «non ha nulla a che fare con un non meglio definito ‘progresso sociale’»(241).
È all’interno di tali processi che Porto Marghera — per dirla brutalmente, ma con verità — diventa archeologia industriale. Non di colpo ma, a poco a poco, per la gran parte nel corso degli anni Ottanta. Gli è che la nuova tecnologia, che va ridisegnando l’economia a scala mondiale, impone il disuso di vecchie e l’uso di nuove materie prime, nuove relazioni fra i settori di base, riconversioni e soprattutto nuove produzioni e, dunque, nuovi processi produttivi. In altri termini nel porto industriale non si scaricano più bauxite, ceneri di pirite, carboni, rottami e le altre materie prime come era d’uso nella prima Marghera, per cui non servono più le fabbriche che le lavorano. Analogo è il discorso dell’ammoniaca e di tutte, o quasi tutte, le vecchie produzioni del Petrolchimico, anche se il cracking dell’etilene e alcune sue produzioni terranno ancora per qualche tempo. È così che sono state chiuse, a una a una, tutte le vecchie grandi fabbriche della prima zona industriale e di parte della seconda. Con l’eccezione della Breda, ora Fincantieri, che si è invece ristrutturata su un nuovo modello produttivo e organizzativo per grandi navi da crociera, basato sul lavoro flessibile, precario e nocivo oltre ogni misura degli appalti e subappalti — «fare dieci ore dentro una nave tutti i giorni è pesante. Ci sono rumori, mole, tagli, è pesante, prendere sempre il flex in mano, tagliare con il cannello […] stanno 6-7 ore chiusi, con le tute o con le maschere a pitturare, li senti sempre con la tosse»(242) — in un modo tale da costituire un cuneo postfordista, lunga propaggine della flessibilissima struttura industriale veneta nel cuore della vecchia Marghera.
Naturalmente a ogni annuncio di ridimensionamento di fabbrica — cui immancabilmente segue prima o dopo la chiusura — c’è la mobilitazione del sindacato con gli scioperi, le manifestazioni di piazza con la bruciatura dei copertoni, cui si accompagna l’immancabile appello alle «forze politiche» che, di governo o di opposizione, partecipano alle assemblee in mensa con una interminabile passerella di rassicurazioni verbali per non meglio precisati interventi o iniziative. È così che di chiusura in chiusura — anche per forza di cose — il sindacato tende a perdere quel potere di controllo, conquistato negli anni Sessanta, su un’organizzazione del lavoro che sta diventando sempre più obsoleta in relazione alla obsolescenza degli impianti, per cui finisce per trincerarsi, a seconda delle situazioni, tra difesa del posto di lavoro, il più delle volte nocivo, e contrattazione, al meglio possibile, degli ammortizzatori sociali. Una condizione paradossale e contraddittoria da cui non sa, o non può, districarsi. Di più: ne consegue, indotto dalle cose stesse, un «processo di istituzionalizzazione» — come denuncia un dirigente nella lettera di dimissioni «per motivi politici» dalle «strutture dirigenti dei chimici della Cisl» — per cui «i giochi si fanno in luoghi diversi dalle assemblee, dalle riunioni dei Consigli di fabbrica, dai tavoli di trattative aziendali»(243).
Il primo settore colpito è quello dell’alluminio: si comincia ancora nel 1970-1971 con la riduzione degli organici e della manutenzione, con la cassa integrazione e i prepensionamenti, per finire con la chiusura completa delle Sava nonostante le possibilità di sviluppo prospettate dagli esperti che portavano «a proporre la disponibilità di una capacità produttiva effettiva di primario senz’altro superiore al 50 per cento del fabbisogno interno e tendenzialmente vicina al 60 per cento»(244) e nonostante i molti passaggi con tutte le «autorità» locali e nazionali e le loro rassicurazioni. Gli operai delle Sava conducono una lotta intensa e multiforme, grande è la solidarietà esterna, ma quelle colonne portanti di Sava Allumina e Alluminio nella struttura produttiva di Marghera e quelle punte avanzate del movimento operaio vengono inesorabilmente tagliate. E così avverrà per altre fabbriche o reparti importanti di fabbrica, come un lungo stillicidio che distrugge vissuti, destini singoli e collettivi e identità sociali. Queste situazioni che obbligano il sindacato a una lotta puramente difensiva — salvo le forti e decise risposte politiche e di massa(245) in piazza e in fabbrica, fra il 1980 e il 1981, contro i brutali assassini a opera delle Brigate Rosse di Sergio Gori e Giuseppe Taliercio, dirigenti di primo piano del Petrolchimico, e di Alfredo Albanese, dirigente della Digos veneziana — finiscono per funzionare anche da deterrente nei confronti di una lotta rivendicativa in attacco su salario e condizione di lavoro che invece va riducendosi sempre più, nei fatti, alle sole lotte per i rinnovi contrattuali nazionali, nelle periodiche scadenze, e anche queste condotte con sempre minore grinta per l’incombente minaccia delle chiusure.
Questa è la situazione reale che alla fine è prevalsa a Marghera e che ha determinato l’attuale stasi, anche se nei lunghi anni intercorsi si è tentato di smuoverla attraverso vertenze sindacali e accordi di carattere general-generici che, a ben guardare, a nulla, o a poco, hanno portato in materia di potere contrattuale e, tanto meno, in materia di risanamento, sicurezza e sviluppo. Per darne un’idea, fra i molti possibili, citiamo solo due esempi, uno generale e l’altro concernente Marghera. Il primo riguarda l’accordo del marzo 1974 col gruppo Montedison — il primo della serie — che è indicativo per le mirabolanti prospettive di 1.933 miliardi di investimenti e un incremento occupazionale per 13.500 unità, finalizzate a obiettivi concernenti Mezzogiorno, ricerca, agricoltura, sanità, materie plastiche, ambiente-sicurezza, occupazione, investimenti(246): tutto finito nel fumo inquinante delle ciminiere. L’altro è l’accordo al Petrolchimico nell’ottobre 1980(247), respinto dall’assemblea dei lavoratori, con 1.164 voti contro 802 favorevoli(248), per il legame stabilito tra salario e produttività, oltre che per le prospettive non chiare della fabbrica. La vertenza si era aperta sulla base di una piattaforma rivendicativa(249) approvata dalle assemblee, su cui si imperniano prima lunghe trattative a Marghera e poi a Milano con il responsabile delle relazioni sindacali Montedison — «un paffuto gattone che girava sornione attorno a tre sorci guardinghi [i sindacalisti]»(250) — cui segue un duro scontro culminato nella fermata degli impianti, compreso il Cr, cuore del Petrolchimico, con la sua «enorme colonna di fumo nero che si stagliava cupa e minacciosa nella chiara notte, sulla fabbrica e su Marghera»(251). In pratica si tratta di un’autogestione degli impianti che — se dura quattro giorni, alla fine dei quali il delegato di reparto Salvi «telefona al laureato di turno: ‘Le consegno la fabbrica […] tutto in marcia […] tutto regolare’»(252) — è anche uno degli ultimi esempi significativi di lotta: non a caso — a segnare tale declino — la vertenza si svolge in concomitanza con quella dei «35 giorni» della Fiat contro i 18.000 licenziamenti e la famosa «marcia dei 40.000». In definitiva si tratta della fine del Petrolchimico come «laboratorio politico» — la «fine di una politica sindacale» la chiama Italo Sbrogiò, uno dei capi storici di Potere Operaio a Marghera, proprio nel momento in cui lui stesso dice di essere «stato folgorato sulla via di Damasco [l’Associazione Industriali era sita in via Damasco 15]» grazie all’«uomo nuovo […] nella figura del capo del personale della Montedison di Porto Marghera: il dottor Enrico Di Giorgi»(253) –– tanto che a distanza di qualche mese più di 1.000 operai chimici di Marghera sono messi in cassa integrazione(254), primo passo verso il licenziamento o il prepensionamento.
L’altro modo di colmare la stasi citata è consistito soprattutto in una imponente convegnistica produttivo-dirigistica, promossa da enti pubblici e da forze politico-sindacali a partecipazioni incrociate, a prescindere dai soggetti in campo (capitale e lavoro) e dai rapporti di forza sociali (chi impone cosa a chi) e dove si tracciano/rivendicano fantastiche prospettive — persino «una nuova filosofia produttiva»(255) come si evoca in un convegno comunista del maggio 1988 — attraverso le quali tutto è semplice e risolvibile. Per la citazione degli esempi non c’è che l’imbarazzo della scelta.
Del convegno organizzato dal Comune di Venezia il 6 e 7 marzo 1989 si può individuare l’esito nelle rassicuranti affermazioni conclusive della relazione di Maurizio Rispoli: «Porto Marghera ha caratteristiche sufficienti per rimanere una zona industriale importante e ciò non tanto perché conserverà un numero notevole di unità produttive e di occupati […] quanto per il fatto che vi si svolgono processi produttivi che […] sono competitivi in termini di efficacia e di efficienza rispetto ad un ambiente concorrenziale ormai senza confini nazionali»(256). Meritano rilievo anche le certezze dell’allora vicepresidente del Consiglio dei ministri, Gianni De Michelis che — ormai non più «da piccolo Rastignac»(257), visto che ha già conquistato la «sua Parigi» — non si perita di affermare: «Mi ricordo di quando Brugnaro diceva che l’unico modo per risanare le fabbriche era fermarle. Erano solo poesie, non azione concreta. Mi ricordo le riunioni sul Cvm e sul Pvc, nelle quali si proponeva di fermare tutto perché c’era il mac [massimo di concentrazione accettabile] zero. Oggi, anche da questo punto di vista, viviamo una fase completamente nuova; il mito del mac zero non c’è più»(258). Nell’un caso e nell’altro, come poi sia andata a finire è sotto gli occhi di tutti.
Dopo che da due anni Enimont è diventato Enichem, dopo cioè che «Gardini e amici sono stati generosamente liquidati (2.805 miliardi al primo, 770 ai secondi)»(259) con denaro pubblico — «siamo stati sbattuti per anni tra i privati e lo Stato, un po’ di qua, un po’ di là. I padroni sono diventati a un certo punto quelli della Gemina, gli Agnelli insomma, ma era Schimberni che voleva comandare. Poi è arrivato un certo Varasi anche se è durato poco perché Gardini scalò la Montedison in Borsa. Ma pure lui, che voleva fare la chimica mondiale, se n’è andato. Ci ha venduto. E così noi del Petrolchimico siamo tornati allo Stato, all’Enichem»(260), racconta Franco Albertini, operaio pendolare da Cavarzere —, in un convegno dall’enfatico titolo «Innovare per il 2000», organizzato dalla Filcea, il relatore propone «una sorta di utopia, un’idea vincente in grado di cogliere da subito il futuro per iniziare a materializzarlo». Il che consisterebbe nel «passare da una linea di sterile e inadeguata difesa ad una linea di miglioramento e sviluppo che […] ponga le basi per una radicale inversione di tendenza nel polo […] superando la logica del grande industrialismo e per procedere a ripopolarlo produttivamente con uno sviluppo compatibile, ma di tipo innovativo»(261). Tre anni dopo — in un analogo convegno della F.U.L.C. (Federazione Unitaria Lavoratori Chimici) per «fare il punto e chiarezza sulla situazione attuale» — il relatore parla dei cicli chimici di Marghera come di «cicli maturi, sicuri, affidabili, resi compatibili con l’ambiente in virtù dei numerosi interventi tecnologici e migliorativi», e così prospetta il futuro: «La nostra sfida, quindi, è creare questo rinnovamento, che definiamo un rinascimento dell’area produttiva, in quanto si inserisce nelle nuove frontiere mondiali della produzione tecnologica»(262). Sulla stessa linea la sinistra politica: in un convegno del 1991 del P.D.S. (Partito Democratico della Sinistra) si analizza Marghera come «il luogo ideale per l’innovazione e il cambiamento»(263).
Non deve sembrare strano che di tanta dovizia programmatoria non siano rimasti che dei burocratici Atti da cui Piero Brunello ha potuto trarre un graffiante «prontuario di nozioni utili, secondo il metodo più sperimentato» sul «come pronunciare un discorso su un polo industriale senza far brutte figure» che così spiritosamente inizia: «Che cos’è Porto Marghera? Porto Marghera è il luogo o l’habitat ideale per l’innovazione e il cambiamento»(264), a segnare il paradosso di un linguaggio fittizio.
I presupposti di tale modo d’essere e comportamento di sinistra e sindacato nei movimenti di lotta, nelle relazioni industriali e nel contesto politico stanno nella egemonia del fordismo-taylorismo e del razionalismo della cultura weberiana e nelle «ideologie produttiviste e redistributive che, per oltre un secolo […], hanno dominato il pensiero democratico e socialista nel mondo intero»(266). In altri termini le culture politiche della sinistra e del sindacato hanno avuto sempre a proprio fondamento la certezza nelle potenzialità oggettivamente «progressive» dello sviluppo delle «forze produttive» come base per il mutamento dei «rapporti di produzione» e dell’allargamento degli spazi di democrazia nel momento in cui invece, come analizza Trentin, «l’imperativo dello sviluppo ha avuto il sopravvento sul rispetto dei diritti individuali e sulle ‘ingombranti’ regole della democrazia, ha sollecitato, per sostenersi, l’affermazione di forme sempre più autoritarie e burocratiche nel governo delle società e delle imprese, e, dopo i primi rapidi successi, ha finito per tradursi in un degrado economico e sociale inarrestabile»(267), come appunto si dimostra ad abundantiam a Marghera.
È all’interno di queste culture che — dopo l’infinita serie di accordi, patti, protocolli che ogni volta stanziavano centinaia di miliardi per lo sviluppo, l’ammodernamento e il risanamento della chimica a Marghera sotto qualsiasi padrone essa fosse, ma sempre puntualmente disattesi e di cui abbiamo citato solo qualche esempio — maturano le ultime due decisioni per Marghera: la variante al piano regolatore e l’accordo di programma per la chimica. Se le «Norme di attuazione» della variante al piano regolatore per Marghera, così come adottata nel 1995 e modificata nel 1996 dal consiglio comunale, escludono formalmente le «industrie insalubri di prima classe ai sensi […] delle leggi sanitarie; tutte le attività basate sulla produzione, lavorazione, e stoccaggio di sostanze cancerogene», tuttavia stabiliscono delle eccezioni — ecco il nuovo machiavello — a favore degli «interventi per la realizzazione di nuovi impianti utili all’ammodernamento e al miglioramento tecnologico delle produzioni esistenti» oltre che a favore delle «trasformazioni ed adeguamenti funzionali e tecnologici di questi ultimi»(268). Del pari, tale variante non prevede un piano generale di bonifica del sottosuolo di Marghera, ma si limita a prescrivere solo l’obbligo «di confinamento e/o di bonifica» per quelle aree sulle quali si attuano «interventi di ristrutturazione edilizia (se comportanti la demolizione e la sostituzione di consistenti parti strutturali), di ampliamento, di sopralzo, di ricostruzione di fabbricati esistenti e gli interventi di nuova costruzione»(269). E così si chiude il cerchio: le prescrizioni di legge per le produzioni nocive e la bonifica — o di mero «confinamento»(270) — del sottosuolo vanno applicate esclusivamente ai nuovi — del tutto nuovi — insediamenti, ragione per cui a Marghera tutto può continuare a inquinare come prima, nel pieno rispetto della legge, visto che ormai più nessuno si sogna di costruire un nuovo petrolchimico o un centro siderurgico in laguna.
L’Accordo di programma per la chimica di Porto Marghera del marzo 1998 prevede — «in questa logica»(271) della variante urbanistica e quindi in coerenza con le citate eccezioni — un «piano complessivo degli investimenti» a Marghera, da parte delle aziende, per «1.575,5»(272) miliardi finalizzati a 4 obiettivi: definizione di un iter procedurale e operativo per fare di Porto Marghera un «caso pilota» di area ecologicamente attrezzata; risanamento dell’ambiente «attraverso azioni di disinquinamento e bonifica dei siti, di riduzione [sic] delle emissioni in atmosfera e delle immissioni in laguna»; indurre cospicui investimenti industriali per «dotare gli impianti esistenti delle migliori tecnologie ambientali e di processo»; «il mantenimento, il rilancio e la qualificazione dell’occupazione»(273). Come in tutti i piani precedenti, non si va alla radice del problema in quanto si opera sull’esistente che, in quanto esistente, prescinde dai processi in atto e dalle loro tendenze.
Tanto più grave, ché nella realtà materiale e sociale di Marghera nel frattempo si sono verificati certi avvenimenti non proprio secondari. A cominciare dall’inchiesta del giudice Casson e dall’avvio, il 13 marzo 1998, del processo penale che vede imputata la chimica italiana. Nei primi mesi del 1994 «Medicina Democratica» aveva pubblicato un dossier(274) sul cloruro di vinile monomero in cui Gabriele Bortolozzo senza mezzi termini, ma con rigore scientifico, anche se autodidatta, e sulla base degli esiti dell’indagine epidemiologica tra gli addetti al Cvm condotta nel 1975 da Medicina del lavoro di Padova e di una sua indagine specifica, denuncia la «cancerogenesi da Cvm». Bortolozzo, che morirà messo sotto da un camion nel settembre 1995, era un operaio che aveva lavorato dal 1956 nei reparti Cv, poi colpito dal morbo di Raynaud (o «sindrome della mano fredda») — «un aspetto mite, quasi ‘francescano’ […] con dei sandali da frate»(275) come lo ricorda un suo compagno — e che nel 1985 aveva fatto persino «obiezione di coscienza alle lavorazioni cancerogene». Forte della sua esperienza, diventerà portavoce e organizzatore dell’iniziativa contro, come lo chiama nel dossier, quel «killer chimico» che è il Cvm-Pvc.
Bortolozzo e «Medicina Democratica» hanno presentato subito alla Procura della Repubblica di Venezia tale dossier come esposto/denuncia che si dimostrerà «pienamente fondato»(276). Ci sono volute la passione civile e le qualità professionali del pubblico ministero Felice Casson per andare a fondo dell’indagine. Sono 38 gli imputati — in gran parte dei vertici Montedison ed Enichem — rinviati a giudizio sulla base di due richieste di Casson: l’una perché «con più azioni ed omissioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, agendo nonostante la previsione dell’evento (e cioè la morte e la malattia di più persone, come indicato negli allegati […]), per colpa cagionavano il delitto di strage e di disastro di cui agli artt. 422 e 434 c. p., mediante azioni ed omissioni […] che cagionavano pericoli per la pubblica incolumità, sia all’interno che all’esterno dei reparti Cvm-Pvc, tanto che derivavano la morte e la malattia di un numero allo stato ancora imprecisabile di persone, tra cui comunque quelle di cui agli allegati […]»(277); l’altra per aver effettuato «scavi» e realizzato «bacini e discariche» dal 1970 al 1978 «all’interno dell’insediamento produttivo petrolchimico di Porto Marghera […] in cui venivano abusivamente smaltiti, abbandonati, scaricati, depositati e comunque stoccati rifiuti di vario genere e, in particolare, rifiuti speciali tossico-nocivi», contribuendo così «a dare origine e ad incrementare il progressivo avvelenamento delle acque di falda sottostanti la zona di Porto Marghera, acque utilizzate anche per uso domestico e agricolo, in cui sono state rinvenute tracce di solventi clorurati, solventi aromatici, idrocarburi aromatici, fenoli, ammoniaca, ammine aromatiche, piombo, cadmio, zinco, mercurio e arsenico in valori superiori ai limiti consentiti (sostanze tossiche alcune delle quali cancerogene) e determinavano altresì un inquinamento grave dei sedimenti e delle acque nei canali e negli specchi lagunari veneziani prospicienti Porto Marghera […] così da procurare pericolo per la pubblica salute»(278). Mai è apparsa così appropriata l’«equazione» di Giulio Maccacaro: «plusvalore per il capitalista = minus-salute per il lavoratore»(279) e, aggiungiamo, per il cittadino.
Dietro ogni imputazione stanno indagini, perizie tecniche, consulenze e interrogatori condotti su vasta scala attraverso cui, come scrive lo stesso Casson, «le nebbie si sono poco a poco diradate ed è stato possibile cominciare ad individuare, anche in un’ottica processuale, le cause di determinate patologie mediche, le sopraffazioni di una certa maniera di gestire l’attività industriale, le gravi manchevolezze di ogni sistema di controllo, le inadempienze degli Enti pubblici istituzionalmente deputati alla tutela dell’ambiente e, comunque e in ogni caso, della salute dei lavoratori» per cui «alcuni punti fermi sono stati raggiunti»(280). Tra questi «punti fermi» c’è l’elenco di 143 morti riscontrati ad uno ad uno da Casson, poi aumentati a 157 man mano che il tempo passava durante l’iter processuale: come ha scritto Gianfranco Bettin, veri e propri «crimini di pace»(281).
Gli avvocati della difesa — «quando vado in udienza e sento parlare gli avvocati della Montedison sembra che mio padre e tutti gli altri siano morti dal freddo»(282) racconta, di loro, una figlia — reagiscono con la taccia della «sagra dell’assurdo» così come analogamente avevano reagito nel corso di molti decenni — salvo lodevoli eccezioni — il management, le istituzioni locali, le forze politiche e sindacali, cioè negando, minimizzando, rimuovendo, rassicurando e accusando di «criminalizzare» Marghera tutti quelli che — a cominciare da Bortolozzo di cui un dirigente sindacale arriva persino a non ricordare «in quel periodo una sua presenza»(283) — hanno lavorato e lottato per salvaguardare, con l’ambiente, la vita e la salute dei lavoratori e dei cittadini.
Durante il processo sono poi continuate le fughe di gas — l’ultima, per il momento, è del 4 gennaio 2000, al reparto Cr 3 del Petrolchimico, dove si è verificata «una fuga di circa cinque tonnellate di etilene» che viene bruciato nelle torce ma i cui residui «hanno stagnato a bassa quota facendosi sentire da mezza città»(284) —, gli inquinamenti, i guasti impiantistici, gli incidenti di lavorazione; si sono persino scoperte discariche radioattive sulla gronda lagunare e in terraferma — «Dalla zona dei Pili al Cep di Campalto, mezza città è costruita sui rifiuti, urbani e industriali»(285) — a comprovare che accordi e investimenti di risanamento non hanno avvicinato la soluzione del problema. I reparti dove tuttora si lavora il Cvm non sono in stato di sicurezza, come uno dei periti nominati da Casson ha potuto rilevare in un apposito sopralluogo a sorpresa nel giugno 1996: «Per quanto riguarda l’efficienza del sistema di rilevamento automatico della presenza di Cvm in aria all’interno dei reparti di lavorazione, sulla base delle verifiche effettuate si è evidenziato che il sistema […] non è in grado di rilevare la reale concentrazione di Cvm»(286). In più, ancora, l’8 giugno 1999 dai Cv 22 e 23 dell’Evc «si verifica una fuga di circa 900 chilogrammi di Cvm»(287).
Viene così smentita la tesi sostenuta dalla difesa — e da tutti quelli che in questi decenni hanno offerto copertura all’industria inquinante e nociva — secondo cui, se mai, i pericoli riguardavano il passato, ma non il presente. Come se per il passato non si sapesse. Al contrario si sapeva e nulla, o ben poco, è stato fatto, come spiega Leonardo, un operaio che ha lavorato dal 1955 ai Cv e a cui nell’indagine epidemiologica del 1975 sono state riscontrate «la sindrome di Raynaud, una microangiopatia periferica, e un’accentuazione della trama broncovasale». Oggi è in pensione ma vive temendo per la sua vita perché sa «cosa ha voluto dire lavorare con il Cvm»: «Mi godo la famiglia e i nipotini, faccio una vita tranquilla. Ma so che quella che ho vissuto è stata una pagina nera della storia della nostra città. Dopo vent’anni di lavoro con il Cvm, quando si è dimostrato scientificamente che era cancerogeno, bisognava mandare tutti gli operai in prepensionamento. Bisognava chiuderli i reparti. E invece niente. I dirigenti ci hanno lasciato lì»(288). Infatti è proprio questo il punto in cui il passato di Marghera si interseca con il suo presente e il suo futuro.
Per chi vuol vedere, il problema si presenta in termini radicali ma in forma chiara: l’esperienza storica dimostra, e la tecnologia moderna insegna, che la salvaguardia ambientale e la sicurezza di un complesso chimico di base o sono progettate e costruite integrate negli impianti stessi — fanno cioè parte dovuta del ‘combinat’ ab initio — o tutto quello che viene aggiunto successivamente in realtà è una toppa destinata prima o dopo a saltare: è ciò che si è verificato e si verifica continuamente a Marghera dove certi investimenti di risanamento sono stati anche fatti, ma non hanno potuto — e mai potranno — dare risultati stabili in ragione di questo loro peccato originario di accessorietà aggiuntiva. In altri termini, se si volesse mantenere ancora a Marghera una chimica di base, ma non nociva e non inquinante — dato e non concesso che questo sia possibile — bisognerebbe radere al suolo l’attuale Petrolchimico, progettarne uno nuovo in sicurezza e costruirlo: nessuno sinora si è espresso in questo senso. Al contrario, è in atto una fuga della chimica da Marghera, mascherata nella crescente frammentazione della proprietà dei singoli impianti e, conseguentemente, della loro gestione da cui deriverà indubbiamente una situazione ancora più precaria e gravida di ulteriori pericoli. Quindi il futuro di Marghera — visto che, nell’attuale contesto di globalizzazione, tutto va contro il vecchio modello di Volpi e che non poche possono essere le alternative possibili che bisognerebbe finalmente mettersi a studiare nella nuova ottica — non può e non deve basarsi comunque sull’industria di base né, tanto meno — per ragioni ambientali — su quella petrolchimica: il posto di lavoro non vale la vita, in nessun caso. Così come è vitale intraprendere, con molta decisione e su un progetto integrato e generalizzato, le opere di disinquinamento della laguna e della bonifica di suolo e sottosuolo delle zone industriali ormai diventate enormi discariche tossiche e, a loro volta, inquinanti.
Sono queste le contraddizioni irrisolte nella sorprendente sentenza assolutoria di primo grado(289) per tutti gli imputati emessa dal Tribunale di Venezia il 2 novembre 2001 a conclusione del citato processo, secondo cui nulla di colpevole sarebbe successo contro gli operai in fabbrica e contro il territorio/laguna. Non è qui possibile ripercorrere criticamente questa lunga vicenda processuale (150 udienze in tre anni e mezzo, un milione e mezzo di carte agli atti) e prospettare un’analisi giuridico-fattuale di un verdetto che ha colto di sorpresa perfino gli stessi imputati e i loro difensori — tanto che Montedison «in gran segreto» ha concluso qualche giorno prima un ennesimo accordo, questa volta «transativo», con un governo più che disponibile, con cui si impegna a sborsare 525 miliardi «per lavori di bonifica integrale in nove siti dell’area chimica di Marghera»(290) — ma è almeno possibile rilevare come, ancora una volta, deflagri l’antinomia tra verità storica e verità politico-giudiziaria. Non senza motivazioni, dunque, dopo Vajont, Marco Paolini potrà raccontare con altrettanta forza e passione civile le sue Storie di plastica(291).
Ed è — questa — anche la contraddizione vissuta dai lavoratori chimici di Marghera e dallo stesso sindacato: quella che lo storico Vladimir Dedijer, a suo tempo vicepresidente del Tribunale Russell, chiama «identificazione con l’aggressore»: una vera e propria «manipolazione» attraverso cui «le vittime stesse si costruiscono un’ideologia per giustificare la loro resa e il loro conformismo, il che porta spesso ad un’autocensura»(292). Nel linguaggio di Marghera, «resa» significa ricatto del posto di lavoro e «autocensura» significa rimozione del problema.
Anche Guglielmo, operaio dei Cv oggi in pensione, continua a pensarla così: «Quando sono entrato in fabbrica ero sicuro, non avrei mai pensato che potesse succedere quello che è successo, ma è chiaro che se mi ritrovassi di nuovo, come da giovane, con una famiglia a carico e senza lavoro, anche adesso tornerei a lavorare in fabbrica perché cos’altro si potrebbe fare?»(293). Eppure gli operai del Petrolchimico e della Montefibre hanno una grande tradizione di lotta sui punti decisivi, e di forte valenza politica, del salario, dell’organizzazione del lavoro e della nocività e non è facilmente comprensibile questa sorta di fatalità — appunto vera e propria «resa», spesso inconscia — che attualmente sembra chiudere il loro orizzonte. A spiegare oggi, almeno in parte, questa rimozione del problema c’è intanto — come scrivono Franco e Franca Basaglia — l’«incorporazione, da parte di tutti, del concetto positivistico della malattia, che poneva il problema su una sfera ‘oggettiva’, ‘scientifica’, totalmente separata dal terreno proprio della politica»(294), cioè dall’azione per far valere i diritti inalienabili — e uguali per tutti — alla vita, alla cura e alla salute. Ma c’è soprattutto la scomposizione sociale e politica indotta dalla globalizzazione e dall’innovazione tecnologica e c’è, ancora, quel contesto che Revelli chiama «società del malessere»(295). Anche Zygmunt Bauman scrive che «dove per alcuni la globalizzazione segnala nuove libertà, per molti altri discende come un destino non voluto e crudele»(296), anche se nel contempo, con Alain Touraine, siamo convinti che la «globalizzazione dell’economia non elimina la nostra capacità di azione politica […] su rivendicazioni di uguaglianza e di solidarietà»(297).
Ciò nonostante resta storicamente sconcertante il fatto che a Marghera — allo scadere di quello che Eric J. Hobsbawm ha chiamato il «secolo breve»(298) ma così intriso di movimento operaio — la difesa del posto di lavoro «nocivo» prevalga, nella socializzazione operaia, sul diritto alla vita e alla salute. In definitiva, non si spiega se non come crisi di una cultura del lavoro fondata sulla produzione — invece che sul processo di liberazione dall’oppressione del lavoro alienato — a cui Marghera, ormai messa fuori dai circuiti dello «sviluppo», offre il terreno di coltura. Ed è anche il segno, in qualche modo, del compimento del ciclo operaio veneziano nel compimento del ciclo produttivo di Marghera.
1. F. Ciancani, Per l’industrializzazione di Venezia. Il cominciamento, «Il Secolo Nuovo», 19 dicembre 1914.
2. Filippo Grimani, Il porto di Venezia e il Decreto Luogotenenziale 26 luglio 1917, Roma 1918, p. 4.
3. Giuseppe Volpi, La genesi di Porto Marghera ed i criteri della sua realizzazione, «Le Tre Venezie», giugno 1932, p. 348.
4. Ferruccio Fiorioli della Lena, Venezia Nôva. Conferenza tenuta all’Ateneo Veneto ed al Circolo socialista veneziano nel marzo 1905, Venezia 1905, p. 29.
5. Francesco Piva, Contadini in fabbrica. Il caso Marghera: 1920-1945, Roma 1991, p. 207.
6. Petrolkimiko. Le voci e le storie di un crimine di pace, a cura di Gianfranco Bettin, Milano 1998, pp. 128-129.
7. Wladimiro Dorigo, Venezia e il Veneto, in Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità a oggi. Il Veneto, a cura di Silvio Lanaro, Torino 1984, p. 1061 (pp. 1037-1065).
8. F. Piva, Contadini in fabbrica, p. 98, tab. 13.
9. Giovanni Lasorsa, La ricchezza privata in provincia di Venezia, Padova 1934, pp. 141-149 e 162.
10. Dario Perini, Rapporti fra proprietà, impresa e manodopera nell’agricoltura italiana, XV, Veneto, Roma 1933, p. 58.
11. Fabio Ravanne, Migrazioni interne e mobilità della forza lavoro. Venezia e Marghera, in La classe operaia durante il fascismo, a cura di Giulio Sapelli, Milano 1981, p. 602 (pp. 579-636).
12. Vittorio Bellotti, Il complesso chimico Fertilizzanti-Ceneri del gruppo Montecatini (1924-1943), in I primi operai di Marghera. Mercato, reclutamento, occupazione 1917-1940, a cura di Francesco Piva-Giuseppe Tattara, Venezia 1983, p. 230 (pp. 230-264).
13. F. Piva, Contadini in fabbrica, p. 196.
14. Ibid., p. 110.
15. Maurizio Carbognin, Lo stabilimento siderurgico Ilva (1933-1942), in I primi operai di Marghera. Mercato, reclutamento, occupazione 1917-1940, a cura di Francesco Piva-Giuseppe Tattara, Venezia 1983, p. 270 (pp. 265-275).
16. Bruna Bianchi, L’economia di guerra a Porto Marghera: produzione, occupazione, lavoro. 1935-1945, in La Resistenza nel Veneziano, I, La società veneziana tra fascismo, resistenza, repubblica, a cura di Giannantonio Paladini-Maurizio Reberschak, Venezia 1984, p. 172 (pp. 163-233).
17. Francesco Piva, Il reclutamento della forza-lavoro: paesaggi sociali e politica imprenditoriale, in I primi operai di Marghera. Mercato, reclutamento, occupazione 1917-1940, a cura di Id.-Giuseppe Tattara, Venezia 1983, p. 362 (pp. 325-463).
18. B. Bianchi, L’economia di guerra a Porto Marghera, p. 204.
19. F. Piva, Contadini in fabbrica, p. 202.
20. La grandiosa battaglia dei metallurgici italiani. Il movimento a Venezia, «Il Secolo Nuovo», 11 settembre 1920.
21. Pietro Secchia, L’azione svolta dal partito comunista in Italia durante il fascismo 1926-1932, Milano 1970, p. 509.
22. Cesco Chinello, La Resistenza a Marghera: rottura e ricomposizione nella lotta operaia. Una nuova soggettività sociale e politica, in La Resistenza nel Veneziano, I, La società veneziana tra fascismo, resistenza, repubblica, a cura di Giannantonio Paladini-Maurizio Reberschak, Venezia 1984, p. 237 (pp. 235-293).
23. Venezia, Archivio Istituto veneziano per la storia della Resistenza e della società contemporanea, Fondo Filcea-Cgil, b. 1, fasc. 1, «Vetrocoke-Porto Marghera, N. 1058/c.p., lì 7/11/34 a. XIII°».
24. Ibid., «Verbale di accordo. Il giorno 24 ago. 1938-XVI […]».
25. Vittorio Foa, La Gerusalemme rimandata. Domande di oggi agli inglesi del primo Novecento, Torino 1985, p. 10.
26. F. Piva, Contadini in fabbrica, p. 181.
27. C. Chinello, La Resistenza a Marghera, p. 238.
28. Pietro Cornaglia, in A voi cari compagni. La militanza sindacale ieri e oggi: la parola ai protagonisti, a cura di Sesa Tatò, Bari 1981, p. 94 (pp. 95-100).
29. Roma, Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell’Interno, Direzione Generale Pubblica Sicurezza, Divisione Affari Generali e Riservati, 1941, b. 58, Cat. K1B, «Relazione sulla situazione politico-economica alla data 31 dicembre 1938, XVII» (a firma del questore Galasso).
30. Ibid., «22 dicembre 1940. Anno XVII. Relazione sulla situazione politico-economica» (a firma del questore Solimando).
31. Relazione del 28 luglio 1941, riportata in C. Chinello, La Resistenza a Marghera, p. 245.
32. Relazione del 18 agosto 1941, riportata ibid., p. 247.
33. Roma, Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell’Interno, Direzione Generale Pubblica Sicurezza, Divisione Affari Generali e Riservati, 1942, b. 68, Cat. K1B, «12 agosto 1941. Anno XIX. Denuncia ai sensi articoli 271-272 CP a carico di: De Bei Umberto […]» (a firma del questore); «All’avanguardia dei popoli […]» (testo del discorso apocrifo di Stalin); «In nome di Sua Maestà […]» (testo della sentenza del Tribunale speciale, 14 ottobre 1941).
34. Martedì sciopero nelle fabbriche di P. Marghera contro la provocazione e i licenziamenti all’Ilva, «L’Unità», 5 luglio 1953.
35. Provocatorio arresto del dirigente De Bei alla vigilia delle elezioni sindacali all’Ilva, ibid., 30 novembre 1954.
36. De Bei condannato con le leggi fasciste, ibid., 3 dicembre 1954.
37. Roma, Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell’Interno, Direzione Generale Pubblica Sicurezza, Divisione Affari Generali e Riservati, 1942, b. 77, Cat. K1B, «30 marzo 1942. Anno XIX. Relazione sulla situazione politica economica e prospetti degli episodi sovversivi».
38. Relazione dell’11 giugno 1942, riportata in C. Chinello, La Resistenza a Marghera, p. 249.
39. Paul Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra ad oggi. Società e politica 1943-1988, Torino 1989, p. 6.
40. C. Chinello, La Resistenza a Marghera, pp. 250-251.
41. Ibid., p. 255.
42. Venezia, Archivio Istituto veneziano per la storia della Resistenza e della società contemporanea, Fondo Filcea-Cgil, b. 1, fasc. 1, «Unione Industriali, Provincia di Venezia, Verbale di accordo tra la S.A. Vetrocoke e i propri operai addetti allo scarico del carbone», 21 dicembre 1943.
43. L’episodio è stato analizzato in sintesi da C. Chinello, La Resistenza a Marghera, pp. 254-255 e nel dettaglio da Simon Levis Sullam, La rinascita del Partito Fascista a Venezia (1943). Cronaca e spunti interpretativi, «Venetica», n. ser., 13, 1996, nr. 5, pp. 105-108 (pp. 101-160).
44. Pietro Secchia, Il Partito comunista e la guerra di liberazione 1943-1945. Ricordi, documenti inediti e testimonianze, Milano 1973, pp. 149-153.
45. Claudio Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità della Resistenza, Torino 1991, p. 26.
46. Ernesto Ragionieri, La storia politica e sociale, in Storia d’Italia, IV/3, Dall’Unità a oggi, Torino 1976, p. 2379 (pp. 1667-2832).
47. Svolgimento dello sciopero, «La Nostra Lotta», marzo 1944, nrr. 5-6.
48. Giorgio Amendola, Lettere a Milano, Roma 1973, p. 442.
49. Giuseppe Turcato, ‘La Beffa del Teatro Goldoni’ - 12 marzo 1945, in 1943-1945. Venezia nella Resistenza. Testimonianze, a cura di Id.-Agostino Zanon Dal Bo, Venezia 1976, pp. 249-258.
50. Roma, Archivio Centrale dello Stato, Segreteria Particolare del Duce, Carteggio Riservato, b. 46, fasc. 489, «Situazione riscontrata a Venezia (Visita dei giorni 21 e 22 nov. [1944] XXIII)».
51. Vittorio Foa, Questo Novecento, Torino 1996, p. 166.
52. Decreto N. 1, «Fratelli d’Italia-Il Gazzettino, organo del Comitato regionale veneto di liberazione nazionale», 28 aprile 1945.
53. Decreto del Cln della provincia di Venezia, «Corriere di Venezia», 3 maggio 1945.
54. Hannah Arendt, Pensieri sulla politica e la rivoluzione, in Ead., Politica e menzogna, Milano 1985, p. 255 (pp. 253-282).
55. Movimento sindacale, «Il Giornale delle Venezie», 18 maggio 1945.
56. Un appello della Camera del lavoro, «La Voce del Popolo», 27 maggio 1945.
57. L’Assemblea dell’Associazione degli industriali, «Il Giornale delle Venezie», 19-20 settembre 1945.
58. Gli operai scioperano, «Corriere Veneto», 19 giugno 1945.
59. Mario Isnenghi, L’Italia in piazza. I luoghi della vita pubblica dal 1848 ai giorni nostri, Milano 1994, p. 370.
60. Walter Tobagi, La fondazione della politica salariale della Cgil, in Problemi del movimento sindacale in Italia 1943-1973, a cura di Aris Accornero, Milano 1976, p. 410 (pp. 409-446).
61. Sciopero generale di protesta a Venezia, «Il Giornale delle Venezie», 18-19 luglio 1945.
62. «8 lug. 1945. Accordo per la istituzione della indennità di contingenza», in CISL, Accordi interconfederali. 1943-1966, Roma 1967, pp. 15-21.
63. Compatta e ordinata la popolazione della Provincia ha difeso la ragion d’essere dei Cln, «La Voce del Popolo», 22 luglio 1945.
64. Riportato, con i relativi conteggi, in Cesco Chinello, Sindacato e industria a Marghera, in Venezia nel secondo dopoguerra, a cura di Maurizio Reberschak, Padova 1993, p. 90 (pp. 73-123).
65. «6 dic. 1945. Concordato per la perequazione delle retribuzioni dei lavoratori dell’industria nel nord», in CISL, Accordi interconfederali. 1943-1966, Roma 1967, pp. 29-50.
66. Vittorio Foa, La struttura del salario, Roma 1976, p. 84.
67. «19 gen. 1946. Accordo per lo sblocco parziale dei licenziamenti e norme sulla cassa integrazione nel nord-Italia», in CISL, Accordi interconfederali. 1943-1966, Roma 1967, pp. 54-58.
68. Venezia, Archivio Chinello, b. 1, fasc. 2, «28 giugno 1945, Camera di commercio, industria e agricoltura, Situazione dell’industria nella provincia di Venezia», cicl.
69. Wladimiro Dorigo, Come si fa un porto industriale, «Questitalia», marzo-aprile 1960, nrr. 24-25, p. 80 (pp. 80-82).
70. Massimo Cacciari, Sviluppo capitalistico e ciclo di lotte. La Montecatini-Edison di Porto Marghera, I, La fase 1950-1966, «Contropiano», 1968, nr. 3, p. 590 (pp. 579-627).
71. Vittorio Foa, Per una storia del movimento operaio, Torino 1980, p. 182.
72. Riunioni di categorie e regionali, «Notiziario dell’Associazione Industriali della Provincia di Venezia», 31 gennaio 1950.
73. Assochimici, Contratto collettivo nazionale di lavoro per gli addetti all’industria chimico-farmaceutica. 16 set. 1947, Roma s.a. [ma 1947].
74. FIOM, Contratto nazionale di lavoro per le industrie metallurgiche e affini. Firmato il 25 giu. 1948, Firenze 1948.
75. Id., Contratto nazionale per i lavoratori addetti all’industria metalmeccanica. 25 giu. 1956, Roma s.a. [ma 1956].
76. Venezia, Archivio Chinello, b. 2, fasc. 1, «Quel 14 marzo 1950 a Marghera» (a firma «Pietro Cornaglia ‘Berto’»).
77. Consiglio di Fabbrica Breda, Breda: quel marzo 1950, Venezia 1980, pp. 3-4.
78. Vertenze e situazioni locali, «Notiziario dell’Associazione Industriali della Provincia di Venezia», 10 novembre 1948.
79. Umberto Sannicolò, Gli operai dell’Ina impediscono i licenziamenti, «Il Grido del Popolo», 18 settembre 1949.
80. Alla Sava Allumina, «Notiziario dell’Associazione Industriali della Provincia di Venezia», 26 agosto 1949.
81. 200 sospensioni alla Breda, 100 alla Sava Allumina. Continua la lotta alle Riserie & Oleifici, «L’Unità», 6 novembre 1949.
82. Gianni Rodari, Sarà oggi a Porto Marghera e a Mestre la Commissione parlamentare d’inchiesta, ibid., 17 marzo 1950.
83. CGIL, Conferenza economica nazionale per il piano del lavoro, Roma 1950; Il piano del lavoro della Cgil. 1949-1950. Atti del convegno, Milano 1978.
84. Vittorio Foa, Interventi, in Il piano del lavoro della Cgil. 1949-1950. Atti del convegno, Milano 1978, p. 181 (pp. 174-182).
85. Camillo Daneo, La politica economica della ricostruzione 1945-1949, Torino 1975, p. 269.
86. Bruno Trentin, Interventi, in Il piano del lavoro della Cgil. 1949-1950. Atti del convegno, Milano 1978, p. 191 (pp. 190-204).
87. Karl Marx, Il Capitale, I, 2, Roma 1952, p. 129.
88. «12 giu. 1954. Accordo per il conglobamento e riassetto zonale delle retribuzioni per i settori industriali», in CISL, Accordi interconfederali. 1943-1966, Roma 1967, pp. 194-205.
89. Giuseppe Di Vittorio, Antologia delle opere, a cura di Antonio Tatò, Roma 1970, p. 250.
90. Emilio Pugno-Sergio Garavini, Gli anni duri alla Fiat. La resistenza sindacale e la ripresa, Torino 1974, p. 19.
91. G. Di Vittorio, Antologia delle opere, p. 357.
92. Vittorio Foa, La centralità della condizione operaia, in Piero Boni-Vittorio Foa-Emilio Pugno, Sindacato e fabbrica nella svolta del ’55, «Proposte», 1977, nr. 49, p. 25 (pp. 19-28).
93. «26-27-28 apr. 1955, Risoluzione della sessione del direttivo Cgil», in Gastone Sclavi, Sulla contrattazione a livello di grande impresa, Appendice, «Quaderni di Rassegna Sindacale», 6, 1968, nr. 20, p. 32 (pp. 26-41).
94. V. Foa, Per una storia del movimento operaio, p. 207.
95. Aldo Schiavone, I conti del comunismo, Torino 1999, p. 100.
96. 87% alla Cgil alla Sava di Venezia, «L’Unità», 19 aprile 1956.
97. Grande vittoria della Cgil a Porto Marghera e Modena, ibid., 19 maggio 1956.
98. Grande vittoria della Cgil alla Vetrocoke e Azotati di Venezia, ibid., 6 luglio 1956.
99. Netta vittoria della Cgil alle Lll di P. Marghera, ibid., 31 ottobre 1956.
100. Venezia, Archivio Chinello, b. 43, fasc. 2, «Ilva Marghera, 23 apr. 1956, Elezioni della Commissione interna anno 1956, Risultati definitivi».
101. Venezia, Archivio Istituto veneziano per la storia della Resistenza e della società contemporanea, Fondo Filcea-Cgil, b. 2, fasc. 12, «Verbale scrutini per la elezione della Commissione interna Sirma», 15-16 novembre 1956, datt.
102. Ibid., b. 10, fasc. 1A, «Verbale di elezioni per la nomina della Commissione interna Montecatini-Fertilizzanti», 29 maggio 1956, ms.
103. Roma, Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell’Interno, Direzione Generale Pubblica Sicurezza, Divisione Affari Generali e Riservati, 1931-1949, b. 120B, Cat. C2I, fasc. «Venezia», «Relazione riassuntiva sulla situazione politica, economica e della pubblica sicurezza in provincia di Venezia, 15 ottobre 1949».
104. Venezia, Archivio Chinello, b. 2, fasc. 2, «Comitati sindacali Fiom Allumina e Alluminio», s.a. [ma 1951], cicl.
105. I problemi degli orari e degli impianti alla Conferenza di produzione della Montecatini, «L’Unità», 31 maggio 1950.
106. Per il miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori, in Pubblicazione della Ccdl in occasione del III congresso unitario. Venezia 26-28 settembre 1952, Venezia 1952, p. 34 (pp. 34-36).
107. Ugo Arcuno, Metallurgici e chimici fermi a Marghera, «L’Unità», 8 marzo 1952.
108. Italo Sbrogiò, Tuberi e pan secco. Itinerario autobiografico sociale, culturale e politico, Venezia 1990, p. 30.
109. Franco Momigliano, Sindacati, progresso tecnico, programmazione economica, Torino 1966, p. 15.
110. Romano Alquati, Sulla Fiat e altri scritti, Milano 1975, pp. 33-34.
111. Gabriele Bortolozzo, L’erba ha voglia di vita. Autobiografia e storia politica tra Laguna e Petrolchimico, Venezia-Mestre 1998, p. 28.
112. Sergio Fabbro-Giuseppe Golinelli-Fioravante Pagnin, La esperienza fatta a Portomarghera nell’azione a livello aziendale, «Rassegna Sindacale», 28 febbraio-15 marzo 1957, nrr. 4-5, pp. 105-111.
113. Venezia, Archivio Chinello, b. 3, fasc. 1, «Repubblica Italiana. In nome del popolo italiano. Il Tribunale di Venezia […]», 21 dicembre 1955, testo della sentenza in fotocopia.
114. V. Foa, La struttura del salario, p. 72.
115. «20 apr. 1956. Accordo interconfederale sulla contabilità della indennità di mensa nella retribuzione valevole ai fini degli istituti contrattuali», in CISL, Accordi interconfederali. 1943-1966, Roma 1967, pp. 246-248.
116. Venezia, Archivio Chinello, b. 3, fasc. 2, Commissione Interna Ilva, «Cari compagni», 20 giugno 1956, datt.
117. L’attività dell’Associazione nel 1955 e nei primi mesi del 1956, «L’Industria Veneziana», 1956, nrr. 1-6.
118. Giovanni Contini, Le lotte operaie contro il taglio dei tempi e la svolta nella politica rivendicativa della Fiom (1955-1956), «Classe», 10, 1978, nr. 16, p. 16 (pp. 3-29).
119. Pietro Ingrao, Quella svolta del ’56, «L’Unità», 19 agosto 1994.
120. Id., Il XX Congresso del Pcus e l’VIII Congresso del Pci, in Paolo Spriano et al., Problemi della storia del Partito comunista italiano, Roma 1971, p. 131 (pp. 131-168).
121. Nello Ajello, Intellettuali e Pci 1944/1958, Roma-Bari 19972, pp. 536-537.
122. Stefano Merli, L’altra storia. Bosio, Montaldi e le origini della nuova sinistra, Milano 1977, p. 10.
123. P. Ingrao, Il XX Congresso del Pcus, p. 166.
124. Imelde Rosa Pellegrini, La valigia a doppio fondo. Gordiano Pacquola nella storia sandonatese del Novecento, Portogruaro 1990, pp. 156-157.
125. Una richiesta della Cdl, «Realtà Veneta», 25 maggio 1956.
126. Chiedono la riduzione dell’orario i 7.000 dipendenti del monopolio Sade, «L’Unità», 26 ottobre 1956.
127. Venezia, Archivio Chinello, b. 4, fasc. 3, Fiom-Sezione Provinciale di Venezia, «Alla Direzione dello Stabilimento Ilva, P. Marghera», 10 gennaio 1957, datt.
128. Fioravante Pagnin, Alla vigilia di raddoppiare la produzione. Le Lll licenziano 50 lavoratori, «L’Unità», 20 settembre 1957.
129. Venezia, Archivio Chinello, b. 4, fasc. 3, «Ilva. Verbali sommari riunioni Commissione interna. 1957», [Ilva], «Riunione Commissione interna Marghera 14 nov. 1957, ore 14.30. Ordine del giorno», ms.
130. Augusto Fasola, Vetrocoke: la fabbrica dove si fanno i miliardi con l’aria, «L’Unità», 13 aprile 1957.
131. Sergio Turone, Storia del sindacato in Italia 1943-1969, Roma-Bari 1974, p. 313.
132. Bruno Bezza-Stefano Datola-Roberto Gallessi, Le lotte degli elettromeccanici, Milano 1981.
133. Luciano Lama-Piero Boni, Dopo la grande lotta nel settore dell’elettromeccanica, in I metalmeccanici. Documenti per una storia della Fiom, a cura di Gianfranco Bianchi-Giorgio Lauzi, Bari 1981, p. 216 (pp. 215-226).
134. Paolo Feltrin-Adriano Lollo, La scoperta dell’antagonismo. Gli anni ’60: operai lotte organizzazione, Venezia 1981, p. 40.
135. Pietro Granziera, Mestre e Venezia hanno detto no al fascismo, «Voce Operaia», 9 luglio 1960.
136. Bruno Liviero, Porto Marghera: realtà capitalistica e le lotte operaie negli anni 1960-1972, tesi di laurea, Università degli Studi di Padova, a.a. 1976-1977, p. 43.
137. O.B., 28 associazioni e partiti hanno aderito alla manifestazione antifascista di Venezia, «L’Unità», 11 luglio 1960.
138. Donald Sassoon, L’Italia contemporanea. I partiti le politiche la società dal 1945 ad oggi, Roma 1988, p. 310.
139. Marco Revelli, Torino 1962, storie di operai, «L’Unità», 12 luglio 1992.
140. Riccardo Chiaberge, Le strutture di base negli anni ’60, «Quaderni di Rassegna Sindacale», 12, 1974, nr. 49, p. 124 (pp. 122-136).
141. Venezia, Archivio Chinello, b. 9, fasc. 3, «Fiom Venezia, Lavoratori metallurgici!», 14 luglio 1962.
142. L’attività dell’Associazione nel 1962 e nei primi mesi del 1963, «L’Industria Veneziana», 1963, nr. 4.
143. Da un’intervista di Guido Carli al «Resto del Carlino» (1977), riportato in Pietro Ingrao, Masse e potere, Roma 1977, p. 15.
144. Alberto Asor Rosa, La cultura, in Storia d’Italia, IV/2, Dall’Unità a oggi, Torino 1975, p. 1649 (pp. 821-1664).
145. Raniero Panzieri, Sull’uso capitalistico delle macchine nel neocapitalismo, «Quaderni Rossi», 1, 1961, nr. 1, pp. 53-72.
146. Toni Negri, Ambiguità di Panzieri?, «Aut-Aut», 1975, nrr. 149-150, p. 145 (pp. 141-155).
147. R. Alquati, Sulla Fiat e altri scritti, p. 13.
148. Mario Isnenghi, Tra partito e prepartito. Il ‘Progresso veneto’ (1961-1963), «Classe», 11, 1980, nr. 17, pp. 221-238; Luigi Urettini, L’operaismo veneto da ‘Il Progresso veneto’ a ‘Potere operaio’, in Il lungo decennio. L’Italia prima del 68, a cura di Carmelo Adagio-Rocco Cerrato-Simona Urso, Verona 1999, pp. 173-204.
149. L’avventurosa storia del cinema italiano raccontata dai suoi protagonisti. 1960-1969, a cura di Franca Faldini-Goffredo Fofi, Milano 1981, p. 233.
150. Kim Arcalli: montare il cinema, a cura di Marco Giusti-Enrico Ghezzi, Venezia 1980 (il cognome anagrafico è Orcalli).
151. Kim e i suoi compagni. Testimonianze della Resistenza veneziana, a cura di Giuseppe Turcato, Venezia s.a. [ma 1980].
152. Luisa Passerini, Il ’68 nella storia dei processi di comunicazione intersoggettiva, Brescia 1990, p. 1.
153. Rossana Rossanda, L’anno degli studenti, Bari 1968, p. 6.
154. Venezia. Istituto universitario di architettura, a cura di Marco De Michelis, in Documenti della rivolta universitaria, a cura del Movimento studentesco, Bari 1968, p. 170 (pp. 167-218).
155. R. Rossanda, L’anno degli studenti, pp. 21-22.
156. Venezia, Archivio Chinello, b. 26, fasc. 1, «Lettera agli studenti», a cura del Centro internazionale di documentazione del Movimento studentesco, 7 luglio 1967, cicl., «Mozione approvata dall’assemblea generale degli studenti, 27 giu. 1967», p. 29.
157. Luisa Passerini, Autoritratto di gruppo, Firenze 1988, p. 90.
158. Luigi Nono, Cronaca politica della ‘Biennale boicottata’, «Rinascita», 25, 26 luglio 1968, nr. 30, p. 15.
159. Germano Celant, Ugo Mulas, Milano 1989, foto nr. 121.
160. Gianni Berengo Gardin, Fotografo 1953-1988, Udine 1988, pp. 155-157.
161. Luigi Nono, Non consumiamo Marx. Musica Manifesto n. 1, Milano 1969.
162. Venezia, Archivio Chinello, b. 28, fasc. 3, «Compagni operai di Porto Marghera», volantino cicl. a firma «Gli studenti occupanti la Facoltà di Architettura di Venezia», 4 marzo 1968.
163. Guido Tassinari, Mont-Edison: un’operazione ‘dorotea’, «Questitalia», 1965, nr. 93, p. 43.
164. Eugenio Guidi et al., Movimento sindacale e contrattazione collettiva 1945-1970, Milano 1971, p. 112.
165. B. Liviero, Porto Marghera: realtà capitalistica e le lotte operaie, p. 194.
166. Venezia, Archivio Chinello, b. 27, fasc. 2, Vetrocoke: incorporazione e riorganizzazione, «Unità Operaia», nr. unico a cura del Comitato zona industriale di Porto Marghera del P.C.I., dicembre 1967.
167. FILCEP-CGIL, «Lavoratori della Montedison Petrolchimico», 30 agosto 1968, volantino riportato in B. Liviero, Porto Marghera: realtà capitalistica e le lotte operaie, p. 198.
168. Venezia, Archivio Chinello, b. 28, fasc. 1, «Accordo di armonizzazione» Montedison, 13 gennaio 1968, cicl.
169. Il testo del volantino è riportato in M. Cacciari, Sviluppo capitalistico e ciclo di lotte, I, pp. 612-614.
170. Corrado Perna, Classe sindacato operaismo al Petrolchimico di Porto Marghera. Appunti sull’autunno del ’69 attraverso i volantini di fabbrica, Roma 1980, p. 16.
171. Gualtiero Bertelli, Primo d’agosto Mestre sessantotto, in Avanti popolo due secoli di canti popolari e di protesta civile, a cura dell’Istituto E. De Martino, Bresso-Modena-Roma 1998, nr. 1.
172. Porto Marghera/Montedison. Estate ’68, a cura di «Potere Operaio» di Porto Marghera, Firenze 1968, p. 14.
173. Massimo Cacciari, Sviluppo capitalistico e ciclo delle lotte. La Montedison di Porto Marghera, II, La ‘fase’ 1966-estate 1969, «Contropiano», 1969, nr. 2, p. 414.
174. Venezia, Archivio Chinello, b. 29, fasc. 2, «Perché gli studenti si rivolgono alla classe operaia», volantino cicl. a firma «Movimento studentesco Facoltà Architettura Venezia», giugno 1968.
175. I. Sbrogiò, Tuberi e pan secco, p. 65.
176. Franco Donaggio, In fabbrica ogni giorno tutti i giorni, Verona 1977, p. 88.
177. Porto Marghera/Montedison, p. 31.
178. Venezia, Archivio Chinello, b. 29, fasc. 2, «Compagni operai della Montedison», volantino cicl. a firma «Il movimento studentesco dell’Accademia, di Architettura, di Ca’ Foscari, di Padova», 28 luglio 1968.
179. Valentino Parlato, I giovani chimici all’attacco della Montedison, «Rinascita», 25, 9 agosto 1968, nr. 32, pp. 3-4.
180. Emilio Franzina, Il caso Veneto, Brescia 1990, p. 296.
181. Egidio Sterpa, Strade e ferrovie bloccate da cinquemila scioperanti, «Corriere della Sera», 2 agosto 1968.
182. Porto Marghera/Montedison, pp. 39-40.
183. Venezia, Archivio Chinello, b. 30, fasc. 2, «Accordo sul rinnovo dei premi di produzione negli stabilimenti Petrolchimico, Fertilizzanti, Azotati ed ex Vego», 3 agosto 1968, cicl.
184. M. Cacciari, Sviluppo capitalistico e ciclo di lotte, II, p. 425.
185. Ferruccio Brugnaro, Bisogna raccogliere molto fuoco, in Vogliono cacciarci sotto. Un operaio e la sua poesia, con una nota di Andrea Zanzotto, Verona 1975, p. 74.
186. P. Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra ad oggi, p. 425.
187. Riportato in Cesco Chinello, Sindacato, Pci movimenti negli anni sessanta. Porto Marghera-Venezia 1955-1970, II, Milano 1996, p. 586.
188. E. Franzina, Il caso Veneto, p. 296.
189. Venezia, Archivio Chinello, b. 30, fasc. 2, «Accordo per l’applicazione dell’accordo per la istituzione del premio di produzione nel settore fibre», 8 agosto 1968.
190. Ivi, b. 31, fasc. 3, «Verbale di accordo», 11 dicembre 1968.
191. Ibid., fasc. 2, «Verbale di accordo», 18 novembre 1968.
192. Ibid., fasc. 3, «Verbale di accordo», 4 dicembre 1968.
193. Luigi Bobbio, Lotta continua. Storia di una organizzazione rivoluzionaria, Roma 1979, p. 35.
194. Nanni Balestrini, Vogliamo tutto, Milano 1971, p. 203.
195. Silvio Lanaro, Storia dell’Italia repubblicana. Dalla fine della guerra agli anni novanta, Venezia 1992, p. 283.
196. Legge 30 aprile 1969, nr. 153.
197. E. Guidi et al., Movimento sindacale, p. 27.
198. «18 mar. 1969. Accordo per il conglobamento dell’indennità di contingenza e per l’unificazione dei minimi di paga e di stipendio», in Gli accordi interconfederali di lavoro, Roma s.a., pp. 116-126.
199. Venezia, Archivio Chinello, b. 32, fasc. 2, «Compagni operai di Porto Marghera», volantino a firma «Potere operaio», 23 gennaio 1969.
200. Mario Mosca, C’era una volta la classe operaia. Un protagonista raccontato da sei donne, Milano 1999, p. 78.
201. Venezia, Archivio Chinello, b. 35, fasc. 3, «Il grande scontro contrattuale tra lavoratori e padroni è iniziato», volantino a firma «Cgil-Cisl-Uil», 13 settembre 1969, cicl.
202. Lotte operaie e problema dell’organizzazione: luglio ’68-febbraio ’70, a cura del Comitato operaio di Porto Marghera, Milano 1970, p. 39.
203. Conferenza consultiva della Fiom sul contratto nazionale del lavoro, Rimini 9-11 maggio 1969. Intervento conclusivo di B. Trentin, «Sindacato Moderno», 1969, suppl. al nr. 6, p. 15.
204. Ibid., p. 9.
205. C. Perna, Classe sindacato operaismo al Petrolchimico, p. 24.
206. Venezia, Archivio Chinello, b. 35, fasc. 3, «Lavoratori dell’Italsider», volantino a firma «Il Comitato di fabbrica Fim-Fiom-Uilm», 20 settembre 1969, cicl.
207. I. Sbrogiò, Tuberi e pan secco, p. 66.
208. Venezia, Archivio Chinello, b. 35, fasc. 3, «Compagni operai», volantino a firma «Unione dei comunisti italiani (marxisti-leninisti)», 22 settembre 1969, cicl.
209. Domenico D’Agostino, Per tre ore in corteo chimici e metalmeccanici di Marghera, «L’Unità», 2 ottobre 1969.
210. Venezia, Archivio Istituto veneziano per la storia della Resistenza e della società contemporanea, Fondo Filcea-Cgil, b. 42, fasc. 4, «Due ore di comizi mentre gli operai gridavano: fatti e non chiacchiere!», cicl. a firma «Operai della Petrolchimica e studenti di Ca’ Foscari», 4 ottobre 1969.
211. «Comunicato n. 8», 11 ottobre 1969, volantino a firma «Comitato dei delegati di reparto, Commissione interna, Filcea-Federchimici-Uilcid», riportato in C. Perna, Classe sindacato operaismo al Petrolchimico, p. 124.
212. F. Donaggio, In fabbrica ogni giorno, p. 65.
213. Venezia, Archivio Chinello, b. 32, fasc. 2, «Lotta articolata e delegati di reparto: nuovi strumenti di potere e di democrazia», volantino a firma «La Segreteria provinciale [Filcea]», 16 ottobre 1969, cicl.
214. Ibid., «Lavoratori della Petrolchimica!», volantino a firma «Comitato dei delegati di reparto, Commissione interna, Filcea-Federchimici-Uilcid», 29 ottobre 1969, cicl.
215. Si farà uno sciopero generale per protesta contro il carofitti, «Il Gazzettino», 19 ottobre 1969.
216. Venezia, Archivio Chinello, b. 37, fasc. 1, «19 nov. 1969. Sciopero generale nazionale di 24 ore dei lavoratori di tutte le categorie», volantino a firma «Cgil-Cisl-Uil», 14 novembre 1969, volantino a stampa.
217. Pietro Marcenaro, Bilancio ed esperienze decennali delle forme di lotta nell’industria, «Quaderni di Rassegna Sindacale», 10, 1972, nr. 38, p. 56.
218. Venezia, Archivio Chinello, b. 36, fasc. 2, «Comunicato n. 12. Nuovi programmi di sciopero. Petrolchimica», volantino a firma «Comitato dei delegati di reparto, Commissione interna, Filcea-Federchimici-Uilcid», 30 ottobre 1969, cicl.
219. Paolo Virno, 1969. La riscossa dell’ex crumiro, «Il Bimestrale», suppl. nr. 6 de «Il Manifesto», 12 dicembre 1989, p. 54.
220. Una passeggiata turistica o qualcosa di più?, «Lotta Continua», 6 dicembre 1969.
221. La Nuova Sinistra, La strage di stato. Controinchiesta, Roma 1970, p. 15.
222. Marco Revelli, Prefazione, in Cesco Chinello, Sindacato, Pci movimenti negli anni sessanta. Porto Marghera-Venezia 1955-1970, I, Milano 1996, p. 22 (pp. 17-22).
223. Michele Salvati, Politica economica e relazioni industriali dal ‘miracolo’ economico ad oggi, in Problemi del movimento sindacale in Italia 1943-1973, a cura di Aris Accornero, Milano 1976, p. 720 (pp. 685-735).
224. Umberto Romagnoli, Appunti per una storia del movimento sindacale in Italia (1960-1970), «Problemi del Socialismo», 1970, nr. 49, pp. 910-911.
225. Venezia, Archivio Chinello, b. 39, fasc. 2, Associazione degli Industriali della Provincia di Venezia, «Relazione all’Assemblea Generale 1970 tenuta dal presidente avv. M. Valeri Manera il 6 aprile 1970», cicl., p. 4.
226. Venezia, Archivio Istituto veneziano per la storia della Resistenza e della società contemporanea, Fondo Filcea-Cgil, b. 53, fasc. 2, «Filcea/Federchimici/Uilcid, Comunicato. Firmato accordo di rinnovo contrattuale con allegato testo accordo», 31 ottobre 1972, cicl.
227. Adriano Ballone, Uomini, fabbrica e potere. Storia dell’Associazione nazionale perseguitati e licenziati per rappresaglia politica e sindacale, Milano 1987, p. 434.
228. Mario Napoli, Il quadro giuridico istituzionale, in Relazioni industriali. Manuale per l’analisi della esperienza italiana, a cura di Gian Primo Cella-Tiziano Treu, Bologna 1982, p. 55 (pp. 43-77).
229. Consorzio Obbligatorio per il Nuovo Ampliamento del Porto e della Zona Industriale di Venezia-Marghera, Il piano regolatore generale della zona di espansione del porto commerciale e industriale di Venezia, Venezia 1965.
230. Comune di Venezia, Piano regolatore generale. Norme urbanistico-edilizie, Venezia s.a. [ma 1963], «Art. 15 Zona industriale», comma 3, p. 24.
231. Venezia, Archivio Chinello, b. 46, fasc. 1, Pci-Comitato Zona Industriale di P. Marghera, «Convegno su ‘Il piano chimico e le lotte operaie’», 16 ottobre 1971, relazione introduttiva, cicl.
232. Cesco Chinello, Storia di uno sviluppo capitalistico. Porto Marghera e Venezia 1951-1973, Roma 1975, p. 255.
233. G. Bortolozzo, L’erba ha voglia di vita, p. 144.
234. Venezia, Archivio Chinello, b. 46, fasc. 1, «I fattori nocivi. Foglio di fabbrica del Petrolchimico», nr. unico a cura della Commissione stampa del Consiglio di fabbrica Montedison di Porto Marghera, s.a. [ma seconda metà del 1972].
235. Daniele Resini, Cronologia, in Cent’anni a Venezia. La Camera del lavoro 1892-1992, a cura di Id., Venezia 1992, pp. 486-487 (pp. 317-509).
236. Emilio Argiroffi-Cesco Chinello, Nocività e inquinamento a Marghera, «Quaderno nr. 5, a cura del gruppo comunista del Senato», 1973, p. 5.
237. Marco Revelli, Le due destre, Torino 1996, p. 75.
238. Pietro Ingrao-Rossana Rossanda, Appuntamenti di fine secolo, Roma 1995, p. 13.
239. Frederick W. Taylor, Principi di organizzazione scientifica del lavoro, Milano 1975.
240. Marco Revelli, La sinistra sociale. Oltre la civiltà del lavoro, Torino 1997, p. 125.
241. Christian Marazzi, Il lavoro autonomo nella cooperazione comunicativa, in Il lavoro autonomo di seconda generazione. Scenari del postfordismo in Italia, a cura di Sergio Bologna-Andrea Fumagalli, Milano 1997, p. 44 (pp. 43-80).
242. Fabio Brusò, Operai alla Fincantieri, «Altrochemestre», 1998, ultimo numero, p. 14.
243. Venezia, Archivio Istituto veneziano per la storia della Resistenza e della società contemporanea, Fondo Filcea-Cgil, b. 42, fasc. 4, «Alla Segreteria Flerica-Cisl Venezia, Al Direttivo comprensoriale Flerica Cisl Venezia, e p. c. Seg. Filcea-Cgil Venezia», 3 ottobre 1982, lettera cicl.
244. Maurizio Rispoli, L’industria dell’alluminio, «Economia e Politica Industriale», 4, 1976, nr. 14, p. 169 (pp. 121-178).
245. Venezia, Archivio Istituto veneziano per la storia della Resistenza e della società contemporanea, Fondo Filcea-Cgil, b. 55, fasc. 2, Cgil-Cisl-Uil Veneto, «7 luglio [1981] ore 10,30. Manifestazione contro il terrorismo, per l’occupazione e la difesa delle conquiste dei lavoratori, in piazza Ferretto a Mestre. Lama, Carniti, Benvenuto», 7 luglio 1981, volantino a stampa.
246. Ibid., b. 53, fasc. 6, Fulc, «Accordo Montedison», 11 marzo 1974, cicl.
247. Ibid., b. 46, fasc. 5, «Premesso che […] resta definito quanto segue» [Accordo integrativo aziendale al Petrolchimico], 20 ottobre 1980, cicl.
248. Ibid., «Partecipazione e risultati delle votazioni nelle assemblee del Petrolchimico di P. Marghera per la ratifica dell’ipotesi di accordo per il rinnovo del contratto integrativo aziendale», 17 novembre 1980, prospetto ms.
249. Ibid., b. 6, fasc. 2, Consiglio di Fabbrica Petrolchimico, «Gestione post-contrattuale, piattaforma rivendicativa, iniziative di lotta», 23 maggio 1980, volantone a stampa.
250. Tommaso Di Renzo, Eravamo bonzi. Ricordi senza remore delle lotte sindacali del 1980. Il Petrolchimico di Porto Marghera, Venezia 1988, p. 107.
251. Ibid., p. 111.
252. G. Bortolozzo, L’erba ha voglia di vita, p. 211.
253. I. Sbrogiò, Tuberi e pan secco, pp. 107-108.
254. Venezia, Archivio Istituto veneziano per la storia della Resistenza e della società contemporanea, Fondo Filcea-Cgil, b. 6, fasc. 2, «Verbale accordo», 19 febbraio 1981, cicl.
255. Michele Vianello, Relazione introduttiva, in Il polo chimico di Porto Marghera: quali terapie per rilanciare la prospettiva industriale in una nuova fase di sviluppo economico. Atti del convegno nazionale del P.C.I., Venezia-Mestre 1988, p. 9 (pp. 7-26).
256. Maurizio Rispoli, Porto Marghera: una zona industriale in evoluzione, in Porto Marghera. Proposte per un futuro possibile, a cura di Coses-Comune di Venezia, Milano 1990, p. 47 (pp. 13-48).
257. Mario Isnenghi-Silvio Lanaro, Un modello stanco, in Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità a oggi. Il Veneto, a cura di Silvio Lanaro, Torino 1984, p. 1073 (pp. 1067-1085).
258. Porto Marghera. Proposte per un futuro possibile, a cura di Coses-Comune di Venezia, Milano 1990, p. 443.
259. Paolo Rabitti, Cronache della chimica. Marghera e le altre, Napoli 1998, p. 179.
260. Rinaldo Gianola, Senza fabbrica, Milano 1993, p. 13.
261. Venezia, Archivio Chinello, b. 66, fasc. 2, p. 12, Filcea-Cgil Venezia, «‘Innovare per il 2000’, convegno, hotel Ramada 14 dic. 1992, ‘Un nuovo futuro per la chimica a Porto Marghera’», relazione di G. Brait, cicl.
262. Ivi, b. 82, fasc. 2, Fulc Venezia, «La chimica tra ambiente ricerca e sviluppo. Atti del convegno, 17 febbraio 1995. Relazione introduttiva di B. Filippini», pp. 8 e 10.
263. P.D.S., Atti del convegno «Il Pds per il rilancio produttivo a Porto Marghera», relazione di S. Brandani, Venezia s.a. [ma 1991], p. 4.
264. Piero Brunello, L’innovazione è la carta fondamentale!, «Altrochemestre», 1994, nr. 1, pp. 24-27.
265. Antonella Barina, Laudata si’ (1994), in Ead., Madre Marghera, cicl., s.a. [ma 1996], p. 4.
266. Bruno Trentin, La città del lavoro. Sinistra e crisi del fordismo, Milano 1997, p. 9.
267. Ibid., pp. 47-48.
268. «Norme di attuazione. Titolo II, Norme di zona, Capo I, Art. 25», in Comune di Venezia, La pianificazione urbanistica come strumento di politica industriale. La Variante al Prg per Porto Marghera, Roma 1996, p. 156.
269. Ibid., p. 155.
270. Per «confinamento» — termine tecnico di nuova coniazione — s’intende la semplice operazione di iso;lamento (sarcofago) del sito inquinato ed è sempre messo in alternativa alle vere e proprie opere di bonifica.
271. Regione Veneto, Accordo di programma per la chimica di Porto Marghera, Venezia 1999, p. 7.
272. Ibid., p. 12.
273. Ibid., p. 23.
274. La messa al bando del cloro e del Pvc/Cvm: una necessità per la salute e l’ambiente, «Medicina Democratica», 1994, nrr. 92-93, pp. 25-92.
275. Riportato in Petrolkimiko, p. 25.
276. Luigi Mara, Alcuni importanti risultati lungo l’impervia strada della giustizia, «Medicina Democratica», 1997, nrr. 111-113, p. 1.
277. Venezia, Archivio Chinello, b. 72, fasc. 2, «Procura della Repubblica presso il Tribunale civile e penale di Venezia, N. 3340/96 R, 16 ott. 1996, Il Pubblico Ministero, Visti gli atti […]», fotocopia dell’originale [prima richiesta], p. 9.
278. Ibid., [seconda richiesta], pp. 9-13.
279. Giulio Maccacaro, Classe e salute, in Franco Basaglia et al., La salute in fabbrica, I, Roma 1974, p. 18 (pp. 16-33).
280. Felice Casson, Prefazione, in Paolo Rabitti, Cronache della chimica. Marghera e le altre, Napoli 1998, p. 2 (pp. 1-4).
281. Gianfranco Bettin, Crimini di pace, in Petrolkimiko. Le voci e le storie di un crimine di pace, a cura di Id., Milano 1998, p. 13 (pp. 13-56).
282. Petrolkimiko, p. 67.
283. Dalla lettera di Bruno Filippini, segretario regionale della Filcea, inviata a «La Nuova Venezia» del 29 agosto 1944 e riportata in Paolo Rabitti, Cronache della chimica. Marghera e le altre, Napoli 1998, p. 27.
284. R. Brunetti, La fuga di gas al Petrolchimico. Allarme ‘puzza’ in centro storico, «Il Gazzettino», 7 gennaio 2000.
285. M. Dianese, Inquinamento ‘autorizzato’. E dopo anni adesso saltano fuori tonnellate di gessi radioattivi in terraferma, ibid., 12 maggio 1998.
286. P. Rabitti, Cronache della chimica, p. 101.
287. Gianluca Amadori, Le fughe di cloruro di vinile dovute a poca manutenzione, «Il Gazzettino», 30 settembre 1999.
288. Petrolkimiko, pp. 145-146.
289. La sentenza, «Il Gazzettino», 3 novembre 2001.
290. Giorgio Cecchetti, Accordo Stato-Montedison 525 miliardi per Marghera, «La Repubblica», 4 novembre 2001.
291. È il titolo del «racconto» che Marco Paolini sta elaborando in progress con altri autori (Fernando Marchiori, Il tragico disastro del Petrolchimico. Marco Paolini racconta con ‘Storie di plastica’ il sogno nerissimo di Porto Marghera, «Il Manifesto», 30 ottobre 2001).
292. Vladimir Dedijer, Appunti sulla storiografia come strumento di identificazione con l’aggressore, in Crimini di pace. Ricerche sugli intellettuali e sui tecnici come addetti all’oppressione, a cura di Franco Basaglia-Franca Basaglia Ongaro, Torino 1975, p. 122 (pp. 113-148).
293. Ibid., p. 136.
294. Franco Basaglia-Franca Basaglia Ongaro, Crimini di pace, ibid., p. 52 (pp. 3-111).
295. M. Revelli, La sinistra sociale, p. 7.
296. Zygmunt Bauman, Dentro la globalizzazione. Le conseguenze sulle persone, Roma-Bari 1999, p. 4.
297. Alain Touraine, Come liberarsi dal liberismo, Milano 2000, p. 11.
298. Eric J. Hobsbawm, Il Secolo breve, Milano 1995.