STORIA (fr. histoire; sp. historia; ted. Geschichte; ingl. history)
Il concetto di storia, che nel pensiero antico e medievale ha importanza relativamente scarsa, acquista nell'età moderna, specialmente dal sec. XIX in poi, rilievo grandissimo, assurgendo addirittura a tema centrale di molte concezioni idealistiche. Si intende quindi come la storia di tale concetto, assai povera in quel primo periodo, diventi invece ricca e complessa con l'avvento del clima culturale che ha dato appunto all'Ottocento la possibilità di essere designato come "secolo dello storicismo".
Nel suo valore originario il termine ἱστορία (historia), pertinente allo stesso tema Fιδ che compare nel greco ἰδεῖν e nel corrispondente latino videre, e che designa l'attività visiva, significa tanto la "ricerca" o "investigazione" di qualcosa quanto l'"esposizione" o "descrizione" letteraria con cui se ne rende conto. È a questo primitivo significato del vocabolo che risale la tradizione terminologica per la quale "storia" vale anche oggi, in certi casi, solo "ricerca" o "descrizione" di una data realtà, senza che questa abbia quel carattere che più propriamente si dice "storico": così p. es. si parla di "storia naturale" anche quando quest'ultima non è intesa nel senso di storia dell'evoluzione del mondo naturale ma solo in quello di descrizione e classificazione, normativa e quindi non storica, dei tipi che l'esperienza constata esistenti nei regni della natura. Alle origini di questa tradizione terminologica stanno infatti, naturalmente, le celebri Περὶ τὰ ζῴα ἱστορίαι di Aristotele: cioè le "indagini e descrizioni concernenti gli animali", diventate nella tradizione la Storia degli animali. Questa, che dal punto di vista del più importante e moderno significato del vocabolo potrebbe dirsi l'accezione non storica del termine "storia", si combina d'altronde variamente con quella ormai più propriamente sua nei casi in cui la descrizione scientifica abbia insieme (o, meglio, a volta a volta) il carattere della classificazione naturalistica e quello dell'interpretazione genetica: così, p. es., la "storia delle religioni" classifica da un lato i tipi di religiosità e dall'altro ne segue lo sviluppo, e la stessa "storia della natura", propriamente naturalistica nelle sistemazioni gerarchiche delle specie zoologiche e botaniche, è insieme in certa misura storicistica quando (come, p. es., col Darwin) considera anche i generi e le specie non come realtà fisse, sovrastanti al divenire degl'individui, ma come prodotto anch'esse di un incessante processo evolutivo. Di fatto, in seno a quella primitiva e generale tradizione terminologica si specifica e afferma rapidamente, acquistando importanza predominante, quella per cui ἱστορία è, sì, "indagine e descrizione", ma riferentesi essenzialmente alle vicende umane. Si determina così, fin dal periodo più antico della grande cultura classica (già nel sec. V a. C. esso appare corrente), l'uso tecnico per cui le ἱστορίαι, le historiae, sono propriamente le narrazioni storiche: e l'originaria preferenza per l'uso plurale del termine (in cui si manifesta la primitiva esperienza degli eventi storici come essenzialmente molteplici, e quindi costituenti il tema non di una sola ma di più "descrizioni") si perpetua ancora tanto nell'uso letterario umanistico o di derivazione umanistica quanto in quello popolare per cui, p. es., si parla di "raccontare delle storie".
Come queste narrazioni degli eventi umani (o genericamente riconducibili sotto la categoria dell'umano, quali, per es., molte narrazioni cosmogoniche, teogoniche, mitologiche) assumano volta per volta il carattere o di semplici soddisfazioni di curiosità, o di celebrazioni di glorie dinastiche, o di ammaestramento che dal passato si trae per l'avvenire, fino a raggiungere il superiore aspetto di considerazioni scientifiche in cui ogni altro interesse è superato da quello della pura comprensione; e come, in tale più matura fase, venga variamente inteso e realizzato il carattere e il compito di questa comprensione, risulta dalla storia della storiografia (v. appresso) antica, medievale e moderna. Qui, in sede di considerazione propriamente filosofica del concetto di storia, dobbiamo limitarci a esaminare, nelle sue manifestazioni più salienti, la storia delle concezioni speculative dirette esplicitamente all'interpretazione della natura della storia. S'intende che tale storia delle teorie della storia si svolge in stretta connessione genetica con la storia di quello che grossolanamente potrebbe dirsi il suo corrispondente pratico, cioè con la storia della storiografia: ché come da un lato le concezioni filosofiche della storia influiscono sulla forma mentis degli storici, così le stesse opere di questi ultimi collaborano, con la metodologia storiografica in esse implicita, al progresso dell'interpretazione speculativa del concetto di storia, risolvendo problemi o ponendone di nuovi. Ciò non toglie peraltro che, in nome di quelle stesse partizioni convenzionali a cui è soggetta, per il carattere didascalico della sua espressione verbale, ogni esposizione storica delle concezioni consapevolmente ed esplicitamente speculative della storia possa distinguersi da quella della storiografia, in cui l'interesse per i problemi metodologici è soverchiato da quello per l'effettiva interpretazione e ricostruzione degli eventi: a un dipresso come, in un altro campo (o, meglio, in una zona più specifica di questo stesso campo) si può distinguere la storia dell'estetica da quella della critica letteraria e artistica.
Il problema filosofico della storia si pone, anzitutto, in quanto l'attività spirituale costituita dal conoscere storico diventa oggetto di problema per la psicologia o filosofia dello spirito, intenta a collocare quell'attività al suo posto tra le facoltà psichiche in generale e tra quelle dirette alla conoscenza scientifica in particolare. Ma il problema del conoscere storico si trasforma rapidamente in quello costituito dall'oggetto stesso di tale conoscere: giacché (specialmente per il pensiero classico, a cui comincia ad affacciarsi questo problema) la natura della forma conoscitiva appare direttamente condizionata e definita da quella della realtà da conoscere, e la possibilità di una conoscenza storica viene quindi a dipendere dalla giustificabilità di un divenire storico delle cose. Il problema della storia come historia rerum gestarum si trasforma cioè in quello della storia come res gestae: e si comprende quindi la difficoltà che nella concezione della prima incontra ogni pensiero intrinsecamente condotto a negare la seconda, e cioè a considerare il corso degli eventi come dominato o dalla necessità naturale o dal giuoco del caso, e quindi dissonante da quella razionalità dell'agire umano che sola conferisce senso e valore al processo storico. D'altronde, distinte in tal modo le res gestae dall'historia rerum gestarum, la storia operata dalla storia scritta, il problema filosofico della storia viene a configurarsi duplicemente: da un lato si determina infatti il problema dell'interpretazione dell'oggettivo corso storico delle cose, diretta a scoprire comunque in esso un significato e una norma, e nasce così quella che più comunemente si dice "filosofia della storia"; dall'altro si specifica meglio il problema della facoltà soggettiva atta a comprendere e a ricostruire idealmente l'aspetto storico ed esclusivo della realtà, e sorge in tal modo la "filosofia (o "teoria", o "metodologia") della storiografia". La prima riflette la concezione filosofica della storia alla quale tende il pensiero incline a trasferire realisticamente i valori nell'oggetto della conoscenza (nonostante che, in questo caso, l'oggetto stesso appaia tutto costituito di una somma di soggettive esperienze dell'umanità), la seconda quella che invece interessa sempre più il pensiero idealisticamente consapevole della maggiore importanza del soggettivo in confronto dell'oggettivo e della dipendenza del secondo dal primo. E si vede quindi come, quando la considerazione idealistica delle cose abbia pienamente assorbito in sé medesima la loro considerazione realistica, anche la classica filosofia della storia debba risultare del tutto superata e dissolta nella filosofia della storiografia.
Dalle varie esigenze teoriche che in tal modo risultano implicite nel problema filosofico della storia risulta già determinata, nelle sue linee essenziali, la storia stessa di tale problema. Nel pensiero antico si può dire non sussista un problema propriamente speculativo della storia, nonostante che il vivace sviluppo dell'attività storiografica rechi con sé un progressivo affinamento dei canoni metodologici e in generale della forma mentis con cui viene considerata la realtà storica, e l'esigenza di comprenderla. Ma una vera filosofia del conoscere storico manca, proprio in quanto manca l'avvertimento obiettivo di una vita storica del reale. Storia è libertà e volontà, orientata verso un fine e progrediente verso di esso: e il pensiero greco concepisce le cose come dominate o dalla causa o dal caso, in una situazione quindi che comunque esclude la teleologica organicità del progresso. L'idea primitiva del fato immutabile si raffina nelle varie concezioni dei cicli cosmici e degli eterni ritorni, dalle quali è permeata da un capo all'altro la storia delle dottrine greche concernenti la vita dell'universo; e anche quando, capovoltasi l'antica idea della primordiale età aurea, si pone il problema del progresso come problema dell'ascesa dell'uomo dallo stato di barbarie allo stato di civiltà, questo stesso processo storico viene a sua volta inserito in quel più vasto schema ciclico, e si configura quindi come ripetizione circolare di progressi e regressi eguali. Quando, d'altronde, l'esigenza di liberare l'uomo dalla schiavitù del fato divino e da quella della stessa necessità naturale che gl'imporrebbe il meccanico moto degli atomi induce Epicuro a concepire la caduta verticale di questi ultimi come modificata dall'arbitrario intervento del clinamen, e quindi a dedurre in estrema analisi l'accadere del mondo dalla cieca irrazionalità del caso alterante la causa, la situazione non muta, giacché la libertà del caso crea storia tanto poco quanto la necessità della causa, per la stessa ragione onde la libertas indifferentiae, cara a certe correnti dell'etica classica, è tanto sterile di azioni quanto la schiavitù nei ceppi della natura.
Questo generale carattere negativo del pensiero antico nei riguardi del problema filosofico della storia non può dirsi smentito neppure dall'unico esempio di concezione speculativa classica che possa propriamente considerarsi come soluzione di quel problema, cioè dalla teoria aristotelica. Com'è noto, Aristotele definisce uno dei caratteri essenziali del conoscere storico quando, contrapponendo nella Poetica la storia all'arte, rileva la sua natura individualizzatrice, cioè osserva com'essa consideri i suoi individui per ciò che essi realmente furono nella loro situazione storica, spazialmente e temporalmente determinata, mentre l'arte li trasfigura sub specie universalis, scorgendo nei suoi personaggi solo i tipi ideali di una realtà quale può e dev'essere. E dell'importanza della sua distinzione e qualificazione è indiretta testimonianza il fatto che essa torna a presentarsi, almeno per qualche lato, alle soglie stesse del Novecento, nelle prime indagini dedicate al concetto della storia dal nuovo idealismo italiano. Ma ciò non toglie che, in quella contrapposizione, l'interesse di Aristotele sia rivolto non tanto verso la storia quanto verso l'arte, svalutata da Platone come produttrice di realtà e di conoscenze inferiori a quelle sensibili e da lui invece riavvicinata all'universalità della filosofia. La storia resta conoscenza dell'individuale empirico: e il fatto che Aristotele abbia sostenuto in sede ontologica la realtà dell'individuo non deve far dimenticare che tutta la conoscenza scientifica è per lui pur sempre conoscenza dell'universale, cioè della legge e della norma, per sua natura astorica e soprastorica. Anche quando indaga il mondo della storia umana, egli vi ricerca soltanto le leggi, o quelle che gli uomini stessi si sono date nelle loro costituzioni o quelle che si possono stabilire come eterne regole delle loro cicliche evoluzioni politiche; e non è un caso che il suo maggiore interesse storico si sia rivolto proprio a quello sviluppo delle dottrine filosofiche, per cui doveva apparire più immediata la contingenza della storia trascorsa rispetto alla sistemazione teoretica che la concludeva.
Nel pensiero cristiano e medievale, se permane l'idea della forza superiore soverchiante e in fondo annullante il potere creativo dell'individuo, la situazione cambia in quanto tale forza non è più concepita come immutabile legge naturale o razionale, costringente il divenire a ripetersi in cicli identici o comunque a realizzare solo un unico e costante principio motore, ma come provvidente volontà di Dio. E venendo a questo divino volere naturalmente assegnati i caratteri che parrebbero da attribuire al più perfetto volere umano, l'accadere del mondo, voluto da Dio, assume un aspetto totalmente storico, analogo a quello che esso verrebbe a presentare se lo si potesse pensare realizzato per intero da un'infallibile attività d'uomo. Che questa determinazione dell'accadere cosmico per opera della volontà divina sia intrinsecamente diversa da quella che i Greci invece deducono dalla razionalità immutabile della legge, sia pure concepita anch'essa come divina, risulta evidente già dall'antinomia in cui il pensiero cristiano incorre nel tentativo di applicare alla sua esperienza religiosa, per cui Dio è amore e volontà, le concezioni della teologia classica, per cui Dio non è volontà ma ragione. E se da altri punti di vista questo contrasto della sostanza volontaristica con la forma razionalistica porta il pensiero cristiano di fronte a insolubili contraddizioni, da quello della concepibilità della storia esso lo conduce comunque per la prima volta all'idea di una totale storicità del cosmo. Parimenti, se il concetto della razionalità di Dio, preordinata e preveggente ab aeterno il corso delle cose, deve pur contraddire a quello della libera creatività storica del suo agire, è vero anche che esso, riferito in maniera più limitata e meno rigorosa alla sola perfezione ideale del fine a cui si pensa rivolta l'azione di Dio, contribuisce a rafforzare l'idea dell'organicità e provvidenzialità storica di tale azione. Nasce così la vera e propria "filosofia della storia", come riflessione speculativa che studiando l'universale vicenda delle cose scorge in esse la progressiva attuazione dei disegni di Dio. Primo suo grande autore è, nell'età patristica, Sant'Agostino; nel pieno Medioevo può essere considerato come uno dei suoi più originali rappresentanti Gioacchino da Fiore; per l'età moderna l'esempio tipico è quello dei Discours sur l'histoire universelle del Bossuet.
Non è peraltro da credere che, come la sostituzione di un concetto volontaristico e teleologico del potere agente sul mondo a quello razionalistico ed eziologico che ne avevano i Greci conduce il pensiero cristiano a quel problema del senso oggettivo della storia che per gli antichi a rigore non sussisteva nemmeno, così l'avvento del soggettivismo moderno basti ad approfondire questa filosofia delle res gestae in una filosofia dell'historia rerum gestarum, idealisticamente intesa come teoria dell'attività storiografica dello spirito. C'è infatti tutto un grande periodo del pensiero moderno, cioè posteriore alla rivalutazione campanelliana e cartesiana del dubito di Agostino, in cui il problema dell'esperienza storica continua a restare in ombra, il primo piano essendo occupato da quella concezione naturalistica della realtà che intrinsecamente esclude il valore della storia. Già nell'età dell'Umanesimo e del Rinascimento la rivalutazione dell'uomo s'inquadra e si arricchisce nell'esaltazione della natura: e tutti i grandi sistemi gnoseologici e metafisici che, da Cartesio a Kant, si pongono il problema della natura della soggettività e della sua situazione teoretica e pratica in seno all'universo, considerano la dottrina della conoscenza soprattutto come indagine metodologica concernente quella conoscenza fisico-matematica delle leggi naturali, che nello stesso tempo viene assumendo sempre maggiore importanza. S'intende quindi per che motivo generale possa dirsi che la riflessione filosofica sull'attività storiografica dello spirito nasce propriamente solo nel secolo in cui la considerazione storica della realtà viene acquistando in tutti i campi interesse preponderante, e che perciò è stato detto il secolo della storia, l'Ottocento.
Una insigne eccezione è peraltro costituita, in pieno Settecento, da Giambattista Vico, al quale spetta quindi a buon diritto il titolo di padre della moderna teoria della storia. Qui s'incontra per la prima volta una dottrina in cui la concezione del rapporto gnoseologico-metafisico che lega l'uomo al mondo è insieme un'interpretazione della sua attività storiografica. Storica infatti è, per il Vico, ogni conoscenza della "natura" delle cose, in quanto dev'essere conoscenza del loro "nascimento", cioè non dell'immota legge che le determina, ma del mobile corso del loro divenire: dove si vede come l'impostazione storicistica del problema gnoseologico investa e risolva in sé anche quel mondo naturale, che nella costanza immutata delle sue leggi sembra sfuggire ed ostacolare, più che ogni altro scibile, la forma storica del conoscere. Principio originario ed essenziale della gnoseologia vichiana è infatti che verum et factum convertuntur, cioè che il verace accertamento della natura di una cosa è identico alla sua ricostruzione genetica, giacché solo chi, come il matematico, crea da sé le sue costruzioni ideali, può veramente conoscere come si siano formate e quindi in che cosa esse assolutamente consistano. Se d'altronde il mondo delle entità matematiche è soltanto astratto e quello della natura, che per il cattolico Vico è opera della creazione, può essere conosciuto adeguatamente soltanto dal suo divino autore, il "mondo delle nazioni", che l'uomo stesso crea svolgendo la propria storia, è insieme l'oggetto della più perfetta e peculiare sua conoscenza, perché di esso egli non soltanto ha la chiave, ma è anche il solo ad averla. Così la vichiana Scienza nuova si conforma come dottrina di quelle tipiche forme dell'agire umano, che universalmente qualificano i diversi aspetti del suo evolversi storico: cioè come prima teoria delle categorie spirituali intese quali categorie storiografiche. D'altra parte, in quanto il Vico trasferisce lo schema circolare secondo il quale si avvicendano dialetticamente le attività dello spirito (al momento del senso succedendo quello dell'intuizione commossa e a questo quello della limpida riflessione razionale) nello stesso processo storico che da esso rampolla nell'estensione temporale, la storia eterna torna in certa misura a risolversi nella "storia in tempo", di cui dovrebbe invece costituire l'immanente categoria trascendentale. Così la vichiana filosofia dell'intendere storico torna ad essere anch'essa per larga parte, una filosofia dell'essere storico, a ciò contribuendo naturalmente anche la sua intonazione religiosa, col conseguente concetto della divina provvidenza sorreggente, e indirizzante al suo fine, il corso delle cose umane.
Ma questa incertezza vichiana non può dirsi superata neppure dall'Ottocento, a cui del resto non perviene, in genere, l'eco delle dottrine del solitario pensatore napoletano. Anche considerando la formulazione più insigne data al concetto della storia dall'idealismo postkantiano del primo Ottocento, e cioè quella del Hegel, si scorge come in essa l'idea della soggettiva dottrina della storiografia si componga ancora ambiguamente con quella dell'oggettiva filosofia della storia. Risolta, infatti, tutta la realtà nell'ambito del pensiero e dell'idea, il divenire dialettico delle sue categorie si presenta da un lato come eterno processo delle forme ideali dello spirito, informanti del loro eterno valore le infinite determinazioni che possono esserne portatrici nel divenire empirico: e da questo punto di vista tutto il sistema hegeliano delle verità filosoficamente definibili appare come grande complesso di categorie storiografiche atte a interpretare caso per caso gli eventi della storia cosmica. Ma d'altro lato lo stesso processo dialettico delle categorie, considerato dal punto di vista per cui la ricchezza delle sue determinazioni e specificazioni tende ad avvicinarlo il più possibile alla concretezza della realtà empirica, finisce con l'identificarsi col processo storico delle cose; e l'ideale viaggio che lo spirito, sotto gli occhi del filosofo, compie partendo dalla sua posizione più povera e indeterminata per giungere a quella più ricca di determinazioni diventa il simbolo, o il quadro generale, dello stesso corso temporale della storia, ascendente dalla miseria della barbarie alla sempre maggiore ricchezza delle civiltà attraverso un dialettico giuoco di tesi, antitesi e sintesi. Donde la caratteristica contraddizione, tipica come sintomo di quella originaria ambiguità, in cui tale filosofia della storia incorre in quel suo momento terminale, che dal punto di vista storico è l'età presente mentre dal punto di vista filosofico è l'estremo culmine pensabile del divenire dialettico: con la conseguenza della considerazione del presente come conclusione definitiva dell'universale processo storico e dell'impossibilità di concepire un'evoluzione ulteriore, non solo nella sfera della ricerca filosofica ma in quella di qualsiasi altra attività teoretica e pratica.
Questa fondamentale contraddizione, già evidente nelle Lezioni sulla filosofia della storia e nelle altre trattazioni storiografiche del Hegel, viene in più cruda e ingenua luce nelle opere che ad analoghi temi dedicano i suoi epigoni; e può essere perciò annoverata tra le cause più notevoli di quel moto d'insoddisfazione per la metafisica dell'idealismo, che sempre più si afferma a partire dalla metà del secolo, conducendo alla violenta reazione positivistica. S'intende che tale reazione, rivendicante il classico ideale gnoseologico di ogni empirismo, per cui scienza è (quando è) solo quella delle relazioni causali in cui si riescano a connettere i fatti della natura, deve per ciò stesso rigettare in ombra il problema della storia. Non scienza di cause, la storia sembra così non meritare neppure il nome di scienza: e viene riproposto di conseguenza il vetusto problema se essa sia scienza o arte, perché solo accostandola alla libertà creativa di quest'ultima sembra possa farvisi luogo a quel "caso", che salva l'arbitrio delle umane sorti dalla ferrea necessità delle leggi naturali. La rigorosa visione naturalistica dell'universo non può d'altronde non investire e sommergere la stessa concezione della storia, ché, essendo anche l'uomo essere naturale, il suo divenire deve pure essere prodotto di cause naturali, e la storiografia configurarsi il più possibile come scienza di tali cause. Non dibattute per lo più dai filosofi, queste controversie vengono in luce soprattutto attraverso gli stessi atteggiamenti metodici degli storici, e risultano quindi principalmente dalla storia della storiografia di questo periodo. Ciò non toglie, comunque, che anche sul piano propriamente speculativo si assista, specialmente negli albori di rinascita idealistica che si vanno facendo palesi verso la fine del secolo, a tentativi di risollevare la concezione della storia dalle bassure del naturalismo. Così, per non parlare che della Germania, dove il problema appare meglio avvertito, alla determinazione del carattere della conoscenza storica, ricca di concretezza individuale e investita di valore umano, a paragone di quella naturalistica, astrattamente generalizzatrice e priva di tale valore, è diretta nella sua parte principale l'opera speculativa del Dilthey e in larga misura quella del Rickert; mentre, in età più recente, lo stesso tipo classicheggiante della filosofia della storia, con le sue caratteristiche confusioni tra il soggettivo e l'oggettivo nonostante le novità del caso, miete allori tra il vasto pubblico con l'apocalittismo dello Spengler.
Posizione assolutamente centrale assume infine il problema della storia nella rinascita idealistica dell'Italia contemporanea, che da riflessioni su esso può anzi dirsi abbia preso il suo primo abbrivo. Al problema se la storia sia scienza o arte si riferisce infatti il primo importante saggio speculativo del Croce, che, insistendo sul carattere d'individualità proprio della conoscenza storica in antitesi all'universalità delle leggi naturalistiche, distacca la storia dalla scienza che le concerne e la riconduce sotto il concetto generale dell'arte, in cui essa si specifica in quanto al comune carattere dell'individualità intuitiva del suo oggetto aggiunge la nota della reale esistenza di esso. In questa concezione iniziale (che potrebbe dirsi aristotelica in quanto, se nella Poetica l'arte è preferita alla storia per la sua relativa universalità rispetto all'individualità di quella, essa sta comunque all'altra come l'immagine del possibile sta all'immagine del reale) è già implicita l'ulteriore evoluzione del pensiero del Croce nei riguardi del problema della storia. Il concetto ancora vago dell'esistenzialità contraddistinguente l'intuizione storica si determina infatti, attraverso i saggi preparatori e poi nei volumi costituenti la Filosofia dello spirito fino alla Teoria e storia della storiografia, nella dottrina del giudizio individuale collegante l'universalità del giudizio filosofico con l'individualità dell'intuizione artistica, e perciò costituente la fase più alta e concreta dell'attività teoretica dello spirito. Tutta la realtà si risolve in esperienza spirituale, e questa, considerata sub specie aeterni, cioè nelle sue condizioni trascendentali, svela alla considerazione filosofica le quattro forme fondamentali della sua attività, estetica speculativa economica ed etica: conoscere questi "concetti puri" significa quindi possedere i criteri per riconoscere in ogni esperienza spirituale la sua intrinseca natura, e poterla così collocare al suo posto nella storia dello spirito. Tutta la filosofia, come filosofia dello spirito oltre la quale non esistono altre pensabili filosofie, diviene in tal modo "metodologia della storia", cioè delucidazione teoretica delle categorie universali che nel giudizio individuale della storia si predicano del fatto singolo, cioè del concreto atto spirituale. Né tale "storia pensata" ha di fronte a sé una "storia operata", non sussistendo le res gestae antecedentemente all'historia rerum gestarum e come suo presupposto, giacché il reale fatto storico non s'incontra che nell'esperienza concreta dello storiografo, il quale lo ricostruisce elevando a tale vita spirituale quelle che si chiamano le sue fonti, che a loro volta non sono che sue meno organiche percezioni. Tutta la storia è con ciò, in senso filosofico, "storia contemporanea"; o, in altri termini, storia e storiografia s'identificano: il che importa la più decisa eliminazione di ogni filosofia della storia in senso oggettivistico, persistendo in questa, comunque, l'opposizione della storia operata alla storia scritta.
Dell'importanza di tali concezioni, sia nei riguardi del problema della storia sia rispetto a quello più generale della filosofia, testimonia l'intera cultura italiana contemporanea. Ciò non toglie che il loro concreto valore appaia talora in contrasto con le loro tecniche formulazioni speculative; così, per citare l'esempio più tipico, duplice e quindi ambiguo è il concetto dell'intuizione estetica quale elemento del giudizio storico, perché da un lato (in funzione del rapporto onde l'arte sta alla filosofia come il linguaggio puro sta al linguaggio logico) essa si presenta quale veste estetico-linguistica del giudizio storico, e dall'altro (in funzione dell'equazione dell'arte con l'individuale e della filosofia con l'universale) essa appare invece quale soggetto individuale a cui, nel giudizio storico, si applica il predicato universale. Queste difficoltà di carattere tecnico non s'incontrano invece nell'approfondimento che della teoria crociana della storia ha dato il Gentile: approfondimento che ha del resto preceduto per molti aspetti le più mature formulazioni di quella teoria, quale p. es. la riduzione di ogni storia a storia contemporanea, e ha quindi collaborato alla loro genesi. Dell'ideale contemporaneità di ogni storia, della concreta presenza di ogni evento storico e quindi anche di ogni suo documento o fonte nella consapevolezza del ricostruttore, dell'inesistenza di ogni storia in re, e quindi di ogni sua filosofia, oltre la storia in mente, e insomma della piena risoluzione di ogni realtà nella presente storia dello spirito, il Gentile è infatti il più rigoroso e compiuto teorico in forza dello stesso principio fondamentale della sua filosofia, accentrante l'intero universo nell'atto puro del pensiero, cioè nell'eterno presente della consapevolezza. La sua concezione appare quindi come un punto di passaggio obbligato per tutti i possibili approfondimenti futuri del concetto idealistico di storia.
Storia della storiografia.
Grecia. - I Greci non hanno avuto in età arcaica la cura minuta per la registrazione cronachistica dei loro avvenimenti, che è abituale nei popoli dell'Oriente. Essi hanno guardato soprattutto al loro passato più remoto, e lo hanno pensato come parte integrante del mito, lo riportassero o meno a quella relativamente piccola sezione del mito, che era plasmata in epos. Una coscienza storiografica s'inizia quindi in Grecia per duplice via: riconoscendo un contrasto fra il mondo mitico e la vita attuale e cercando di appianarlo, o concentrando la propria osservazione su fatti contemporanei. Il duplice processo ha le sue radici in Ionia nel sec. VI a. C. in ovvia correlazione con l'instaurazione della filosofia ionica e più in generale con la rapida maturazione politica e sociale di quella regione, a contatto stretto con le civiltà orientali.
La critica del mondo mitico è, per così dire, solo il prolungamento estremo di quello sforzo di dare ordine alle coorti di dei ed eroi e in particolare alle genealogie che legavano i personaggi sovrumani con gli uomini, che era abituale da secoli in Grecia ed era venuto assumendo sempre maggiore sistematicità. Questa critica non ha mai avuto per scopo di sopprimere il mondo mitico, né maì è giunta a concepirlo come prodotto di fantasia. Essa ha cercato sempre solo di dare coerenza a tale mondo e di eliminare, attraverso l'interpretazione, i dati contrastanti con altre esperienze ritenute accertate. Circa il 525 a. C. fioriva Teagene di Reggio, che per primo introdusse l'interpretazione allegorica nella esegesi di Omero. In Ecateo da Mileto, attore della ribellione ionica (499-494 a. C.), la consapevolezza di quella diversità fra le leggende religiose greche e le orientali, specie egiziane, che si esprimeva con la massima evidenza nella diversa cronologia (le generazioni umane erano per gli Egiziani di gran lunga più numerose che per i Greci), viene di rincalzo alla critica della religione tradizionale esercitata dai filosofi ionici, che del resto, come dimostra Senofane, non ignoravano l'argomento comparatistico per svalutare la fede volgare. Ecateo ne è tratto a proclamare "molti e ridicoli" i racconti dei Greci e a contrapporre loro ciò che ritiene vero.
È fondamentale nell'atteggiamento di Ecateo il richiamo al proprio criterio personale, cioè alla ragione, nel giudicare la tradizione. Esso, come atteggiamento non episodico, è ignoto ai popoli dell'Oriente e vale fin dal primo momento a caratterizzare la storiografia greca: instaurazione del controllo dell'esperienza personale come antitetico all'accettazione supina dalla tradizione. Ma nello stesso Ecateo, in cui la contrapposizione al dato tradizionale è d'una indubitabile consapevolezza, non si oltrepassa mai il ritocco all'affermazione tradizionale per collegarla con le esperienze meglio accertate.
Ciò equivale a dire che la critica della tradizione, obbedendo più a un'esigenza negativa di eliminare quanto contrastasse con una verità già ottenuta in altro modo, che all'esigenza positiva di instaurare attraverso la ricerca storica la verità, non ha mai potuto allargarsi a indagine sistematica del passato. Alla storiografia greca rimane estraneo lo studio dei documenti semplicemente perché rimane ignoto che esistono dei dati da interpretare: in quanto critica di "dati" essa conosce solo racconti da rettificare o completare. I documenti che si trovano in taluni storici greci, anche quelli che giungono al limite estremo della creatività storiografica greca (Tucidide, Polibio) sono eccezioni, nelle quali inoltre sarebbe sottile distinguere dove cessi l'integrazione del racconto (ad analogia, per es., delle citazioni poetiche) e dove cominci l'interpretazione di un "dato". Le raccolte di documenti, sia quella di Ippia di Elide nel sec. V (vincitori di Olimpia), sia quella di Cratero del sec. III (decreti ateniesi), o hanno avuto scopi pratici o hanno rappresentato curiosità antiquarie non collegate con le direttive storiografiche dominanti.
La critica della tradizione presuppone pertanto una verità già acquisita, la quale può essere data dall'indagine filosofica o naturalistica (e in tal caso non ci riguarda qui direttamente), ma può anche essere trasferita da quello che risulta il vero campo dell'indagine storiografica greca: l'esposizione di cose personalmente viste (donde il vanto continuo dei Greci di avere visto con i proprî occhi, di avere viaggiato, ecc.) oppure risapute personalmente con certezza (donde, ad es., l'insistenza di Erodoto di far noto che egli ha saputo "chiaramente", "esattamente" le cose non viste o la dichiarazione di Tucidide di avere esaminato con "acribia" i racconti dei fatti a cui non aveva partecipato). Il riconoscimento di una trasparenza razionale della realtà ha qui la sua effettiva esplicazione. L'esigenza della storia presente, fondamento di ogni possibile controllo del fatto storico, assume la forma più ingenua che i fatti siano materialmente presenti o ai proprî occhi o agli occhi di persona ben nota. Solo dal presente materialmente inteso si può risalire al passato, estendendo quei criterî che dominano la storia contemporanea: esempî tipici le cosiddette archeologie (cioè le prefazioni storiche) di Tucidide e Polibio. Storico è, nella sostanza, in Grecia colui che capisce gli avvenimenti presenti. E capirli vuol dire classificarne obiettivamente le note essenziali in conformità del generale carattere obiettivo-classificatorio della comprensione nel periodo greco arcaico e classico. Non esiste nella storiografia greca una storia di idee o di cultura (quando si prescinda da elencazioni esteriori erudite) appunto perché non c'è una storia della creatività spirituale. Ma c'è invece una constatazione attenta dei costumi e delle vicende esteriori dei singoli popoli; c'è, come già si accennava, una curiosità per il sovrapporsi e l'accrescersi delle cognizioni umane (tipica la letteratura sugli εὑρήματα, sui "ritrovati"), c'è soprattutto una vigorosa rappresentazione della vita politica riportata alla πολιτεία, alla natura della costituzione, oppure all'ἦϑος, all'obiettivo carattere, dei singoli personaggi, definito nelle loro abilità tecniche (guerriere, oratorie) o morali (incorruttibilità, fermezza, ecc.). E s'intende quindi bene che una tale storiografia, non potendo avere lo scopo di chiarificare il processo spirituale, che non conosceva, dovesse poi giustificare il suo lavoro con l'utilità di conoscere quei determinati singoli fatti del presente e del passato per agire nel futuro: lo scopo pedagogico accomuna tutti gli storici serî dell'antichità, anzi vale a distinguere i serî da quelli che non lo sono. Donde anche l'illusione di poter ricostruire dall'ἦϑος dei personaggi come le loro azioni così i loro discorsi con il tipico sistema di fingere orazioni verosimili, che solo nei deteriori diventa strumento di allettamento retorico, mentre nei migliori appartiene alla tecnica della caratterizzazione dell'ἦϑος.
In un primo momento, in Ionia, quando l'interesse dei Greci si volgeva cupido a conoscere i popoli circostanti, prevale la descrizione etnografico-geografica nelle forme della periegesi e del periplo: Ecateo stesso scrive una periegesi. E in genere è caratteristico per il periodo dei cosiddetti logografi che, accanto alla sistemazione del mondo mitico (Ferecide, Acusilao, Ellanico, Antioco di Siracusa) in cui potremo comprendere anche le prime storie locali (Carone per Lampsaco, poi Ellanico per Atene), volte soprattutto alla storia mitica, si proceda alla descrizione di popoli contemporanei, sia pure con largo riferimento all'antichità (Carone e Dionisio di Mileto sulla Persia, Xanto sulla Lidia). Ma nemmeno in questa rigidezza arcaica i temi sono così esclusivi: già Scilace di Carianda, uno tra i più antichi viaggiatori (fine sec. VI), scrive la vita di un tiranno di Milasa, in Caria. Con Erodoto l'oggetto dell'indagine si sposta: se in lui la descrizione etnografica ha ancora un posto di primo piano, il tema fondamentale diviene una guerra, vista nelle sue lontane origini e nel suo minuto svolgimento. Ctesia che pure, posteriore a Eroiloto e perfino a Tucidide, è tuttavia più antiquato di entrambi nei suoi Περσικά, non può fare a meno di dare anche egli posto centrale alla vicenda delle guerre greco-persiane. Infine in Tucidide, senza residui etnografici, una guerra, la guerra del Peloponneso, è il problema solo: ma esso si proietta su tutta la storia greca, si risolve volontà di comprendere che ha un Ateniese di fronte alla tragedia della propria patria, maestra di civiltà e pure sconfitta.
Ma tra il passato lontano, che l'esperienza del presente insegna a correggere, e la storia all'incirca contemporanea, che si offre naturalmente alla comprensione, sta una zona intermedia e ambigua, in cui lo storico non ha propriamente nessun criterio preciso di valutazione, e a cui può estendere l'interpretazione che egli dà al presente, ma senza che la materia storica pretenda per la sua inverosimiglianza necessariamente una correzione. È la zona che Erodoto - a differenza così di Ecateo come di Tucidide - ha prediletto: quella che non impegna né la revisione critica né la comprensione prammatica, e per cui basta λέγειν τὰ λεγόμενα. Non per capirla, né per criticarla lo storico si rivolge a essa, ma perché le "opere grandi e mirabili" non siano senza gloria. Non è dubbio che per Erodoto il tema delle guerre persiane è in parte tale da permettere una conoscenza sicura e chiara, cioè rientra nella storia di cui è possibile il controllo per la vicinanza del tempo e il carattere diretto delle testimonianze: ma in parte - con un'oscillazione concettuale che va rilevata nella sua indeterminatezza senza chiedere oltre - è già passato, di cui occorre tenere a mente la tradizione, in quanto tale.
Fra il polo della critica della tradizione (Ecateo) e il polo della pura storia contemporanea (Tucidide) Erodoto, sia cronologicamente sia idealmente, stabilisce una zona neutra del conservare il ricordo, che resterà come terza direttiva fondamentale nella storiografia greca. Sarà innanzi tutto quella in cui, per la tendenza acritica, agirà più fortemente il richiamo dell'epica o in genere della considerazione poetica del passato. C'è in Erodoto una gioia di narrare che manca del tutto in Tucidide, pure altrettanto grande poeta nella sua materia. E questo motivo neutro di conservare τὰ γενόμενα ἐξ ἀνϑρώπων, se già in Erodoto aveva un dichiarato presupposto encomiastico, diventerà sempre più importante quanto più da Gorgia di Leontini in poi si estenderà e giungerà a predominare con Isocrate la mentalità etico-retorica nel considerare le opere umane. La storiografia posteriore a Tucidide, in quanto è sotto la sua influenza, resta storia contemporanea: l'unica parziale eccezione è Filisto; ma Senofonte e Teopompo, i suoi continuatori, scrivono solo di questa, e così Callistene, mentre anche gli storici, per es. lo stesso Filisto ed Eforo e Anassimene, che vogliono essere soprattutto storici del passato, vengono sempre più allargando la loro esposizione con l'approssimarsi al loro tempo, che è procedimento destinato a rimanere caratteristico nella storiografia antica. Tutti questi storici (eccettuato forse l'uomo di stato siracusano Filisto, ma non Senofonte) sono però anche sotto l'influenza di una concezione etico-retorica, in cui del resto è visibile, in special modo in Teopompo, come Isocrate s'incroci con Erodoto. La storia non rinuncia a essere comprensione e trasferimento al passato dei criterî del presente: anzi ora gl'ideali politici contemporanei vengono senza esitazione assunti nella storiografia e usati a motivi d'interpretazione di tutta la storia greca precedente. La necessità che in Grecia ci sia un egemone, proclamata da Isocrate, diventa per Eforo ragione di cercare in tutta la storia greca il sorgere e il mutarsi degli egemoni. Ma l'ideale politico non sa staccarsi dall'encomio e dal biasimo, creando una equivocità di valutazioni, tanto piò pericolosa in avvenimenti contemporanei; mentre vita pratica e indagine speculativa andavano concentrando l'interesse sui singoli individui (Evagora d'Isocrate; Agesilao di Senofonte), sicché dalla storia quasi anonima di due costituzioni, come in Tucidide, si arriva alle Filippiche di Teopompo, dove al centro di un vastissimo quadro sta un uomo. Già presso gli antichi erano famose la smoderatezza di giudizio di Teopompo e la sua facilità ad accogliere il particolare stravagante e fantastico, pur di tenere desta, retoricamente, l'attenzione. Si perde anche per tale via il senso esatto della distinzione tra il romanzo storico a tesi e la narrazione storica: come si può già vedere nella Ciropedia di Senofonte o nella descrizione della terra di Merope nelle Filippiche di Teopompo. Se, al pari che nella storia politica contemporanea, crollavano i limiti della polis, si apriva una larga comprensione della civiltà greca nella sua unità, degli altri popoli nelle loro peculiarità e dell'uomo tanto nella sua indididualità quanto nella sua umanità, veniva però a mancare nella coscienza stessa degli storici il limite tra il reale e l'immaginario: precisamente come sembra venga meno nelle generazioni che accompagnano o seguono Alessandro il limite tra la coscienza morale e l'affermazione sregolata delle proprie fantasie o cupidigie. L'impresa di Alessandro dà luogo a un moltiplicarsi di letteratura che sta tra il reale e l'immaginario: già Callistene, e poi Onesicrito, di cui è interessante constatare la derivazione da Teopompo, e Clitarco creano una biografia di Alessandro ricchissima di motivi filosofici, ma che non per nulla sboccherà nel romanzo. E la biografia di più diretta emanazione peripatetica, che vede l'individuo in funzione di una categoria, a cominciare da Aristosseno non procede in modo meno arbitrario. Per uno storico più tardo di tradizione ellenistica, Flavio Giuseppe, e quindi forse per la sua fonte Nicola Damasceno, si sono potuti addirittura dimostrare trasferimenti di motivi del romanzo erotico. È del pari significativo che se non manca la reazione a questa storiografia, essa di regola si risolve nel tenersi ai limiti d'un'arida cronaca di viaggio o d'una secca memoria personale, lasciando quindi intatti i motivi di pensiero, che facevano la forza degli avversarî: memorialisti serî come Aristobulo, Tolomeo, il futuro re di Egitto, Nearco e Ieronimo di Cardia valgono a mantenere desta la coscienza della verità tra i Greci - e più particolarmente della necessità che si parli di ciò che si è visto e di cui ci s'intende - ma non eliminano la ragion d'essere di Onesicrito e Clitarco. Il contrasto che nella più antica storiografia greca era tra la fedeltà alla tradizione e l'esperienza contemporanea è sostituito da quello tra il romanzo storico su convincimenti filosofici, politici o semplicemente retorici e un sano, ma povero, memorialismo.
Il contrasto si allargava ora che da un lato l'aristotelimo aveva insegnato a considerare la raccolta sistematica dei fatti come strumento di definizione concettuale, e dall'altro lato (e i due aspetti evidentemente hanno molti punti in comune) la coscienza culturale greca era giunta ad estrema consapevolezza nel cercare i resti del passato come documenti della propria nobiltà (in tale senso il peripatetico Dicearco doveva tracciare le varie fasi delle condizioni della Grecia nel suo Βίος τῆς ‛Ελλάδος): e aveva quindi preso uno sviluppo straordinario la dottrina antiquaria, riallacciandosi sia alla descrizione etnografico-geografica, sia a quelle storie locali, che, nate già in età arcaica, avevano naturalmente continuato a essere scritte tra il sec. V e il IV e in Atene avevano anzi dato origine a un genere letterario ben definito, l'attidografia, di cui primo rappresentante fu Ellanico, il più illustre nel IV sec. Androzione e di cui nel terzo raccoglierà le somme Filocoro. In tutta questa erudizione antiquaria si insinuava il dissidio tra chi cercava di mantenerla nel limite di solida constatazione della tradizione - con al più riserve critiche d'ordine generale, come rispetto a Omero faceva Eratostene - e chi invece voleva animarla di un afflato retorico, che attraverso la forma influiva pericolosamente sul contenuto. Quasi tutti gli storici locali dell'età ellenistica possono essere accusati di essersi lasciati trascinare dall'eccessiva carità del natio loco (Eforo, che pure non faceva professione di storico locale, ne aveva già dato esempî buffi nel sec. IV in favore della sua Cuma): però non era ancora questa la manipolazione retorica metodica di cui il caso più celebre è Timeo, lo storico siculo esule ad Atene, fondamentale ricercatore per la storia dell'Occidente.
In tale incertezza tra la storia come τὸ σαϕὲς σκοπεῖν e la storia come opus oratorium maxime (come dirà Cicerone) era naturale che dovesse avere fortuna pure la teoria della storia come mimesi, imitazione, in cui si trapiantava il concetto aristotelico della tragedia nella storiografia con il risultato - poteva sembrare - di unificare la fedeltà al reale e l'afflato artistico, in verità "tragicizzando" la storia in senso retorico, che sarà il rimprovero di Polibio a Duride e a Filarco, i due rappresentanti massimi di questo indirizzo.
Abbiamo già notato che la memorialistica, soprattutto, non aveva mai lasciato smarrire l'immagine dello storico competente, che può insegnare di ciò che sa. E sarà appunto approfondendo questa figura dello storico pratico e armandola di una complessa giustificazione filosofica circa la politica, che Polibio restaurerà una storiografia aliena da falsificazioni retoriche come da meschinità cronachistiche, tutta intesa a cogliere nella loro fisionomia reale le trasformazioni politiche e le vicende militari. L'energia di pensiero posta da Polibio nel suo compito, la larghezza di visuale, per cui il centro della storia viene riconosciuto là dove esso si trova realmente, in Roma, la conseguente realizzazione di una storia cosmopolitica, non hanno bisogno di essere analizzate qui. È facile peraltro riconoscere che c'è già in Polibio palese l'avvio a quell'indirizzo che porterà definitivamente il pensiero antico - nella sua direzione principale - fuori della storia. Il prammatismo vigoroso di Polibio accentua di altrettanto la scissione tra l'individuo singolo e il processo storico che era già implicita in tutta la storiografia antica: donde la necessità di richiamarsi a una forza irrazionale e trascendente, la τύχη, la fortuna, per spiegare più o meno le vicende umane. Con il che il valore didascalico della storia, che, solo l'aveva giustificata ad occhi antichi, svaniva. Il continuatore di Polibio, Posidonio, è anche colui che si sforza all'estremo di far rientrare questa irrazionalità nella storia, come "furore" (ϑυμός), forza antitetica al Logos, la ragione, come motrice delle vicende umane; e con Posidonio perciò l'interesse etnografico per i barbari, di cui è proprio il "furore", si sublima in analisi di un aspetto integrativo della natura umana: né occorre dire che in tal modo la storia cosmopolita è ottenuta nella forma più rigorosa che sia stata raggiunta dall'antichità. Ma, se anche è stata giustamente contestata l'origine in Posidonio del neoplatonismo, è certo che sempre più in lui prendono valore le forze non storicamente constatabili: la storia cede il passo alla riflessione teologica.
Dopo Posidonio non ci è più dato di constatare motivi originali di pensiero storiografico. Si può bensì riconoscere tra gli aspetti caratteristici della vitalità della cultura greca che per secoli i suoi apporti storiografici essenziali non vengano dimenticati e vengano anzi richiamati o imitati anche in congiunture di pensiero sfavorevoli. In età cesariana-augustea uno storico greco ignoto (non sembra sia Timagene), che è la fonte delle Historiae Philippicae di Pompeo Trogo a noi giunte nel riassunto di Giustino, riprende il disegno delle Filippiche di Teopompo per allargarle a storia universale; nella stessa età le idee cosmopolitiche di Posidonio guidano (sembra) il disegno di una mediocre, ma coscienziosa, compilazione da varî storici di Diodoro. Più tardi, nel sec. II a. C., un Arriano si rifarà a Senofonte e ai memorialisti più serî di Alessandro Magno; nel sec. III un Dessippo si richiamerà a Tucidide; e Tucidide sarà anzi il modello di tutti coloro che vorranno reagire a quelle correnti di storiografia retorica che si continueranno del pari dall'età ellenistica e troveranno nell'adulazione verso gl'imperatori nuovo pascolo. Quanto questo richiamo a Tucidide fosse consapevole e serio ci dice il Come si debba scrivere la storia di Luciano, dove sono raccolte tutte le migliori esperienze della storiografia greca circa una scrupolosa esposizione del vero non senza un richiamo, derivante da Polibio, alla necessità che lo storico sia un uomo pratico. La decadenza della creatività storiografica è confermata dall'estendersi degli excerpta e delle compilazioni esemplificatorie, che se anche condotte con serietà, come fa Polieno, preludono alla letteratura bizantina.
Il meglio della tarda storiografia greca deriva dal contatto col mondo romano. Possiamo qui trascurare il problema dell'influenza della storiografia romana sulla greca, che, se si prescinde da fatti ovvî come quello di un Dionisio di Alicarnasso o di un Cassio Dione che risente della annalistica e si vale di fonti romane, non è stato ancora bastantemente indagato. Ma da Polibio in poi il prammatismo nella comprensione del mondo romano resta tra gli sforzi più serî dei Greci: testimoni ne sono, oltre Cassio Dione, Appiano ed Erodiano. E, soprattutto, conta che dal confronto del mondo greco e del romano, dalla volontà di tenere alto il primo di fronte al secondo, ma nello stesso tempo dal riconoscimento della forza morale del secondo, esca l'opera storiografica greca maggiore dell'età imperiale: le Vite di Plutarco, il cui modello storiografico (comune con Cornelio Nepote) è ancora ignoto, ma in cui è incontestabile la personalità dello scrittore, dotato di simpatia morale e di un fine senso di cultura. Ma che la storiografia, per conservare concretezza di esperienza spirituale, si risolva in biografia e si debba trasfigurare nell'idealizzamento senza controllo, è un altro segno che la storiografia greca è finita.
Storiografia romana. - I Romani stessi ritennero che la loro storiografia avesse origine dalle registrazioni dei pontefici: "erat enim historia nihil aliud nisi annalium confectio, cuius rei memoriaeque publicae retinendae causa ab initio rerum Romanarum usque ad P. Mucium pontificem maximum (circa 130-110 a. C.) res omnes singulorum annorum mandabat litteris pontifex maximus ferebatque in album et proponebat tabulam domi, potestas ut esset populo cognoscendi, eique etiam nunc annales maximi nominantur. Hanc similitudinem scribendi multi secuti sunt, qui sine ullis ornamentis monumenta solum temporum, hominum, locorum gestarumque rerum reliquerunt..." (Cic., De oratore, II, 12, 53). Sulla natura e sulla antichità di queste più antiche registrazioni pontificali si è discusso senza fine (v. annali missimi). Qui basta dire che esse devono risalire per lo meno, nella parte autentica, alla fine del sec. V, da quando la tradizione storica romana è nel complesso sicura, e devono molto verosimilmente contenere notizie autentiche di un secolo precedente. Da questa rozza annalistica pontificale deriva nella sostanza appunto la materia della storia più antica di Roma, aggiunte le tradizioni domestiche e le notizie di interesse generale conservate a memoria con riferimento a monumenti, a canti popolari, ecc. Ma ciò non va confuso con l'origine di una storiografia, che abbandoni la semplice registrazione cronachistica. Anche in questo senso però la forma annalistica della cronaca pontificale mantiene la sua importanza, in quanto, non ostante si sia creduto di poter dimostrare il contrario, i più antichi storici romani scrivono sotto forma di annali, cioè la storiografia rimane a lungo legata all'abito di scindere il corso degli eventi secondo anni, sia pure che il corso intrinseco consigliasse altre divisioni. Ma della artificiosità dell'ordinamento annalistico erano già consapevoli i Romani stessi, poiché non mancò chi trattasse il termine "annali" come peggiorativo. E se già Catone il Vecchio protestava contro l'imitare le inezie delle registrazioni pontificali, un contemporaneo dei Gracchi, Sempronio Asellione, contrapponeva gli annali alle storie in una celebre definizione: "Nam neque alacriores ad rempublicam defendendam neque segniores ad rem perperam faciundam annales libri commovere quicquam possunt. Scribere autem bellum initum quo consule et quo confectum sit et quis triumphans introierit ex eo 〈 et eo > libro, quae in bello gesta sint, non praedicare aut, interea, quid senatus decreverit aut quae lex rogatiove lata sit, neque quibus consiliis ea gesta sint, iterare: id fabulas pueris est narrare, non historias scribere" (presso Aulo Gellio, V, 18).
La registrazione annalistica rimase insomma nella storiografia romana un duplice richiamo: positivo come ordinata successione di fatti, negativo come limite del non scelto e non letterariamente elaborato. Lo sforzo consapevole della storiografia romana sarà sempre, accètti o no la disposizione degli annali, di oltrepassare il tipo della registrazione annalistica. Lo scopo stesso dei più antichi annali (di cui del resto, come di tutta l'annalistica preliviana, possiamo solo farci un'idea, approssimativa, per quanto ne è passato in Polibio, Livio, Dionisio e Diodoro) è già appunto di andare oltre i semplici dati che potevano bastare per i Romani stessi offrendo ai Greci una presentazione attraente della storia di Roma: perciò questi annali sono scritti in greco, e il loro avvio è dato da Q. Fabio Pittore, il senatore eminente inviato a interrogare l'oracolo di Delfi dopo Canne. Che tali annali fossero scritti in greco dipendeva dalla finalità, ma presupponeva evidentemente un ormai intimo contatto con la storiografia greca, la quale sarà da allora sempre presente alla storiografia romana. Deve essere già dello stesso Fabio l'utilizzazione di una elaborazione letteraria greca della leggenda di Romolo compiuta da Diocle di Pepareto.
È significativo che la naturale reazione contro questo scrivere in lingua straniera per stranieri fosse guidato da Catone il Censore, ma è è altrettanto significativo che due generi letterarî greci - la storia delle fondazioni delle città (origines) e la storia contemporanea - gli servissero per affermare la sua reazione: che fu dunque anche contro l'annalistica. Le Origines testimoniavano una tendenza a riunire la storia d'Italia raccogliendo insieme le leggende sull'età arcaica delle singole città d'ltalia; più tardi Catone scriveva con distribuzione, ma forse non con minuzia annalistica, sul proprio tempo. Intanto, probabilmente sullo stesso esempio di Fabio Pittore, che deve (sembra) avere pubblicato un'edizione latina della sua cronaca, la più genuina annalistica che riprendeva la storia dalle origini, era fatta romana, ma poetica, da Ennio, continuando l'epos storico introdotto da Nevio in Roma; e infine si veniva costituendo una tradizione di annali in prosa a cominciare da Cassio Emina circa l'anno 150 a. C.
Tale azione e reazione circa la lingua e la forma letteraria è senza dubbio molto importante, ma a noi, che non abbiamo più le opere correlative, non permette che scarse deduzioni circa il metodo storiografico. L'aspetto più sicuro, che si possa constatare ancora in questa più antica storiografia, è un suo atteggiamento verso la materia trattata che rimarrà sempre a contraddistinguere la storiografia romana. Catone, che nella sua storia contemporanea si rifiutava di dare nomi personali di magistrati o generali romani indicandoli invece col loro grado, perché risultasse chiaro che attore era il popolo romano, è l'esempio estremo di una passione di cittadino, che nelle vicende da lui narrate riconosce costantemente che si tratta di cosa propria e non si sovrappone mai, obiettivo, ai fatti per constatarli, ma li narra con la convinzione di trovarsi sempre in un punto della mischia. La storiografia romana ha in scarsa misura la volontà di erigere un sistema di conoscenze partendo dall'esperienza storica, che è propria della migliore storiografia greca. Ma, come la poesia latina scopre un'intimità spirituale che la greca non conosce, e il ritratto romano ha un realismo interiore quasi ignoto all'idealizzazione dell'arte greca, così la storiografia romana trova in questa immediata aderenza al proprio oggetto una forza di ricostruzione psicologica, che ha valore obiettivo, in quanto nello stesso autore si continuano i moventi storici che egli rappresenta e ha valore soggettivo - e perciò documentario - in quanto appunto, soprattutto se si tratta di storia contemporanea, indica il modo con cui l'autore sente la propria posizione di cittadino romano. Obiettività didascalica greca e soggettività partigiana romana sono due momenti che la storiografia non oltrepasserà che con un altro più profondo concetto della realtà. Ma il fascino che ha esercitato durante i secoli la storiografia romana e che continua a esercitare - purché non si riduca la valutazione storiografica a giudizio di esattezza anagrafica - sta in quella partecipazione del cittadino, che si sente nello stesso tempo oggetto e soggetto di storia, e vive con interiore unità la vicenda e riconosce negli altri virtù e vizî, che apprezza o aborre nella sua pratica quotidiana. Chi vuole comprendere la "virtù" e la "maestà" del popolo romano come forze storiche deve anzitutto rifarsi alla presenza costante di esse nella storiografia romana.
Di qui il deciso moralismo della storiografia romana, di qui anche quel suo carattere retorico, così apertamente definito da Cicerone, per cui in Roma ha avuto successo non Polibio e nemmeno il pur imitatissimo Tucidide, se si guarda (come preciseremo meglio) alla sua metodica storiografia e non al suo stile, ma la storiografia retorico-politica di età ellenistica. Retoricità che non consiste, come nella deteriore storiografia greca, in una gratuita deformazione dei fatti, ma nel costante organizzare i fatti in modo che risulti confermato lo stato d'animo dello scrittore. Il fenomeno della cosiddetta più recente annalistica, cioè di età graccana e postgraccana da Cn. Gellio a Valerio Anziate e Licinio Macro - non si comprende senza questa caratteristica. Dai più antichi annalisti (quali noi forse possiamo ancora ricostruire soprattutto da Diodoro) a questi più recenti (noti in specie per Dionisio e per Livio), la materia della storia romana più antica subisce un'amplificazione, in cui due ragioni si mescolano, e sarebbe errore distinguerle, il furore partigiano (che è nello stesso tempo orgoglio familiare) e l'impossibilità di rappresentarsi una storia arcaica così differente e povera in confronto a quella di Roma dominatrice.
D'altronde, giudizio storiografico si dà di ciò che esiste; e una storia della storiografia romana dovrà sempre consistere essenzialmente in quell'analisi di Sallustio, Cesare, Livio e Tacito che solo da poco si va riprendendo. Come Sallustio nel suo voluto arcaicizzamento si riporti a Tucidide (e a Catone), quali esemplari di vecchia austera virtù, e veda nel suo tempo dissolversi, per la corruzione, la possibilità di soddisfare un nobile amor di gloria; come Cesare impronti le sue memorie dell'identificazione di se stesso con l'interesse del popolo romano e faccia volgere la narrazione dei fatti con quella stessa sicurezza lucida e leggiera con cui dirige gli eventi; come in Livio oggetto della storia diventi la stessa grandezza (o virtù) romana, e sempre la minacci, o presente o umbratile, l'insidia della corruzione; come infine Tacito (se si prescinde dalla Vita di Agricola, o meglio se ne tiene conto come contropartita delle opere maggiori) non sappia realizzare il suo ideale civico se non nella forma negativa di una spietata introspezione dell'animo degl'imperatori tiranni: sono alcuni dei motivi che è dato di cogliere più facilmente. E sempre (anche in Cesare) è il cittadino, che giudica come in sé incarnasse lo stato romano. La Germania di Tacito, notoriamente, non è altro che un trasferimento della originaria virtus romana ai Germani.
La decadenza della storiografia romana coincide quindi - a parte la continuazione della biografia-romanzo in Curzio Rufo - con lo smarrirsi di questa capacità di interiorizzare lo stato. Che pensassero gli storici perduti, per es. Plinio il Vecchio, se anche hanno largamente influito nella nostra tradizione storica, non è bene ricostruibile. Tacito, che ancora ignora nella sua storia le provincie, è al limite. Il suo contemporaneo Svetonio non concepisce più la storia che come biografie imperiali (già Velleio Patercolo in fondo aveva costruito la sua rapida storia su schizzi biografici) e la sua fortuna è attestata dall'imitazione di Mario Massimo e di altri, sboccando nella Storia Augusta nel secolo IV. Con Svetonio prende la prevalenza la tradizione erudita, che Varrone in specie aveva importato in Roma e di cui da Verrio Flacco a Claudio, non erano mai mancati cultori. Se per la caratterizzazione della storiografia romana hanno scarsa importanza le biografie di un Cornelio Nepote, non si può invece trascurare, appunto per la coincidenza con il moto di trasformazione in biografica della storia romana, la vasta attività memorialistica degli stessi imperatorî o alti personaggi (Augusto, Tiberio, Agrippina, Claudio, Vespasiano, Corbulone, ecc.). Una sola resurrezione ha nel mondo antico il pensiero storiografico romano, singolare, ma comprensibile appunto nel suo isolamento: nel sec. IV un ufficiale antiocheno, Ammiano Marcellino, che, conquistata un'anima latina dalla tradizione dell'esercito e dai libri, scrive in latino e intende continuare Tacito: il complesso che ne risulta - astrologia orientale ed etica civica - è il prodotto intellettuale più suggestivo della dissoluzione della storiografia romana nei problemi religiosi orientali. La restante produzione si risolve in epitomi liviane o prodotti analoghi, da Floro a Eutropio, che, pur mantenendo vivo un senso di unità storica nello sviluppo di Roma, che le compilazioni bizantine non hanno, coincidono nella decadenza di pensiero con queste ultime.
I primi germi della storiografia nuova sono, s'intende, nel campo giudaico. Non in Giuseppe Flavio (del resto storiograficamente non ancora bene analizzato) che si riconnette alla tarda storiografia ellenistica, con diversità di tono in parte dipendente dalle sue fonti, in parte dai suoi collaboratori (di cui uno, per es., aveva una spiccata simpatia per Tucidide), ma negli abbozzi di filosofia della storia di varî apocrifi e degli oracoli sibillini giudaici e di Filone, che offre il modello a Lattanzio del De mortibus persecutorum. La piena fioritura del nuovo pensiero è cristiana. Certo anche il De mortibus rimane di per sé senza conseguenze, perché rappresenta la risposta di eccezione a un momento transeunte di persecuzione; né, di contro alle apparenze, è più fruttifero il primo tentativo di isolare una storia della Chiesa, con la Storia ecclesiastica di Eusebio, la quale avrà continuazioni nel senso materiale, non riprese e approfondimenti nel concetto. Anche la Storia ecclesiastica infatti rappresentava, se ben si guarda, una fase transeunte: il momento puntuale della vittoria del cristianesimo, che, ancora non assumendo entro di sé tutto lo stato, può fare di sé stesso una storia isolata. La storia ecclesiastica rinascerà solo con la Riforma. La vera opera, che apre e domina il Medioevo è il De Civitate Dei di Sant'Agostino, di cui è immediato corollario Orosio, perché pone e risolve il problema nuovo che sorgeva dalla dissoluzione del mondo politico antico, sia di quello che avevano cercato di analizzare obiettivamente i Greci, sia di quello che avevano espresso soggettivamente i Romani: il problema del rapporto tra la civitas terrena e la civitas caelestis.
Bibl.: I frammenti degli storici greci non conservati sono editi magistralmente con commento da F. Jacoby, Fragmente der griechischen Historiker, Berlino 1923 segg., in continuazione, che dovrà sostituire la vecchia benemerita raccolta di C. Müller, Fragmenta historicorum graecorum, Parigi 1853-70 (voll. 5). Sui criterî della raccolta, cfr. F. Jacoby, in Klio, IX (1909), p. 80 segg.
I frammenti degli storici latini editi da H. Peter, Historicorum Romanorum reliquiae, Lipsia I, 2ª ed., 1914; II, 1906, con commentarî introduttivi.
La più profonda delineazione della storiografia greco-romana è in B. Croce, Teoria e storia della storiografia, 3ª ed., Bari 1927, p. 166 segg., con cui si devono confrontare i due vecchi, ma non superati saggi di F. Creuzer, Die historische Kunst der Griechen in ihrer Entstehung und Fortbildung (1803), 2ª ed., Lipsia e Darmstadt 1845, e H. Ulrici, Charakteristik der antiken Historiographie, Berlino 1833. Buon orientamento in B. Lavagnini, Saggio sulla storiografia greca, Bari 1933, con bibliografia. Siano ancora qui ricordati: A. v. Gutschmid, in Kleine Schriften, IV, Lipsia 1893, p. 281 segg., e J. B. Bury, The ancient Greek historians, Londra 1909, nonché i manuali di K. Wachsmuth, Einleitung in das Studium der alten Geschichte, Lipsia 1895; A. Rosenberg, Einleitung und Quellenkunde zur römischen Geschichte, Berlino 1921; H. Peter, Die geschichtliche Literatur der römischen Kaiserzeit, Lipsia 1897.
Su aspetti più particolari: E. Norden, Die antike Kunstprosa, 3ª ristampa, Lipsia e Berlino 1918; I. Bruns, Die Persönlichkeit in der Geschichtschreibung der Alten, Berlino 1908; H. Peter, Wahrheit und Kunst, Geschichtschreibung und Plagiat im klassischen Altertum, Lipsia 1911. Per taluni generi, cfr.: F. Leo, Die griechisch-römische Biographie, ivi 1901; D. R. Stuart, Epochs of Greek and Roman biography, Berkeley 1928; G. Misch, Geschichte der Autobiographie, I, Lipsia 1907; M. Braun, Griech. Roman und hellenistischer Geschichtsschreibung, Francoforte 1934.
Ma la ricerca procede soprattutto per indagini monografiche. Cfr. le singole voci nell'Enciclopedia Italiana e in Pauly-Wissowa, Real-Encycl. (in quest'ultima anche le voci più generali, come Lokalhistoriker).
Storiografia medievale. - Con la contrapposizione della civitas caelestis alla civitas terrena "quas in hoc interim saeculo perplexas quodammodo diximus invicemque permixtas" (De civit. Dei, XI, 1), era precisato anche il nuovo compito dello storico, il quale, nel "disputare" - come imprendeva a fare proprio Sant'Agostino - de duarum civitatum exortu et excursu et debitis finibus, si doveva volgere a considerare la storia non di questo o di quell'aggregato politico, bensì della "umanità", viva e operante attraverso i tempi e gl'imperi, e continuamente scissa fra bene e male.
Era un sostanziale passo innanzi nei confronti della storiografia classica: anzi, il più sostanziale passo innanzi che mai si sia avverato nel pensiero storiografico, come quello che faceva della storia anzitutto un problema morale e spirituale, un dramma continuo della coscienza umana, e in questa luce comprendeva e interpretava gli eventi esteriori dei regni e degl'imperi.
La trama cronologica, questa storia spirituale dell'umanità la trovava nel biblico schema delle sei età del mondo, corrispondenti ai sei giorni della creazione; uno schema che, intrecciatosi con quello delle quattro monarchie (Assiri e Babilonesi, Medi e Persiani, Macedoni e Diadochi, Romani), elaborato e integrato con precisi calcoli cronologici da Isidoro di Siviglia e da Beda, avrebbe costituito l'intelaiatura fondamentale di tutta la storiografia medievale.
Schemi che possono sembrare puro giuoco di fantasia, se attraverso ad essi non fosse avvenuta la recezione, si potrebbe dire, della storia politica nel pensiero cristiano; se, con essi, non fosse avvenuta l'accettazione del principio dell'impero - romano - che così fortemente e continuamente avrebbe influenzato tutto il pensiero, politico e storiografico, del Medioevo e che sarebbe sussistito - grazie alla formula della translatio - anche quando si sarebbe dovuto constatare che mutamenti profondi s'erano avverati nei rapporti fra i popoli e che l'impero dei secoli X, XI, XII non era più propriamente l'impero di Roma, conosciuto ed effigiato da Agostino.
Del quale profondissimo doveva essere l'influsso, come sul pensiero politico, così anche su quello storiografico delle generazioni successive: anche se si doveva scendere, dopo di lui, dall'altissima concezione d'insieme a frammenti di idee sulla storia, dal quadro complessivo a notazioni particolari e disorganiche. Presso i cronisti, gli storici ex professo dei secoli seguenti, la lotta drammatica fra celeste e terreno perdeva infatti vigore e compiutezza di rilievo e si trasformava nel moralismo minuto dei commenti a questo o quel fatto, nella notazione spicciola, inserita fra mezzo il racconto degli eventi.
Ma, se non si riusciva a sollevarsi all'altezza di speculazione di S. Agostino, si riusciva invece bene ad afferrare taluno dei concetti fondamentali che a quella speculazione avevano servito di orientamento e di guida; concetti che, ripresi senza soluzione di continuità dal pensiero medievale, dovevano dare alla storiografia dei secoli di mezzo talune delle sue note caratteristiche: vale a dire, il persistere, nel giudizio storico, dell'elemento morale-religioso, onde le discordie, le guerre, i mali dell'umanità dovevano attribuirsi ai "peccati" degli uomini, a loro volta dovuti anzitutto alla superbia "omnium malorum caput atque origo" (De civit. Dei, XIV, 3); l'affisarsi nel mito della pax come nel massimo dei beni concessi agli uomini (e sia pur la semplice "pax in his rebus mortalibus" che non è ancora la vera pace, la "pax coelestis" o "vita aeterna", ibid., XIX, 11 segg.); il delinearsi - analogamente a quanto doveva succedere anche nel pensiero politico medievale - del "tipo" del re buono, pio, amante della giustizia e della pace, a cui si contrapponeva il "tipo" del re malvagio, oppressore delle coscienze, solo animato dalla "libido dominandi". I quali concetti del res iustus e del tyrannus, con i relativi attributi, descritti dallo Pseudo-Cipriano (De XII abusivis saeculis), costituivano come il modello su cui lo storico avrebbe ricalcato la sua raffigurazione dei personaggi singoli: donde la stilizzazione del ritratto, intellettuale e morale, dei grandi attori, i cui attributi (sia dei principî "buoni", sia, per contrapposto, dei malvagi) si rassomigliarono per secoli con straordinaria continuità, in netto contrasto con la preoccupazione dei cronisti di cogliere, veristicamente, il "particolare" fisico.
Erano, queste, le espressioni determinate e concrete di una concezione d'insieme la quale, ricercando e agitando anche nel passato storico il problema della salvezza, assegnava alla ricerca storica in sé e per sé un compito del tutto subordinato, riducendola ad ancilla della speculazione teologica e morale.
Logico pertanto che, per opera di Isidoro di Siviglia, il Medioevo accettasse - sia pure sulla base di una ben diversa concezione d'insieme del mondo - le definizioni e le ripartizioni tradizionali delle arti e delle scienze, che non assegnavano alla storia un posto determinato e proprio, ma la subordinavano o alla morale come magistra vitae, o alla poesia come fabula; che nelle università medievali l'insegnamento storico non occupasse alcun luogo; che il problema del metodo non affiorasse mai.
Con la recezione dello schema classico delle arti e delle scienze e del significato della historia, era però stabilito un nuovo profondo nesso con la storiografia classica; e altri nessi ancora si dovevano appalesare, sì da determinare, allato dell'influsso propriamente cristiano-agostiniano, il persistente influsso del mondo antico. Influsso dovuto ad alcuni e non certo fra i maggiori storici romani (Svetonio, Giustino, Eutropio); ma percepibile sia nella forma esteriore, per es. in quel pullulare, a fianco delle Cronache, di Vite, che riconoscono il loro primo modello nelle Vite di Svetonio (tipico esempio, la Vita Karoli Magni di Eginardo); sia, anche, nello sforzo di mantenere, nella narrazione storica, lo stesso tono che si rinveniva nei modelli: che è, forse, la nota caratteristica di alcuni fra i più noti cronisti del primo Medioevo, e segnatamente di Paolo Diacono e di Eginardo.
Poiché una constatazione emerge, dal confronto fra i cronisti tlei varî periodi del Medioevo: che cioè l'avvento della concezione storiografica che potremo definire "agostiniana" è soprattutto il frutto dei secoli fra il IX e il XII; laddove per i primi secoli dell'alto Medioevo è ancora assai più percepibile l'influsso della storiografia classica. Come per le dottrine politiche, così per la storiografia l'età d'oro della concezione "cristiana" è l'età posta fra la dissoluzione dell'impero carolingio è il primo affermarsi delle nuove nazionalità - francese, italiana, ecc. -; l'età precisamente contrassegnata dall'affermarsi del papato e, ad un certo momento, da quel profondo rinnovamento di vita religiosa che si esprime nella riforma cluniacense.
Non che negli storici dei secoli fra il VI e il IX manchi la nota nuova cristiana: da Gregorio di Tours a Paolo Diacono a Eginardo, si avverte, certo, benissimo il mutato atteggiamento spirituale nei confronti degli storici "pagani". Ma tessitura del racconto, interesse ancora prevalente per il fatto politico in sé riconnettono ancora saldamente vecchio e nuovo mondo.
Nella Historia Langobardorum di Paolo Diacono poco o nulla si avverte della concezione agostiniana della storia: sparisce il parallelismo fra le due città, viene meno il senso dell'"umano" come del fattore centrale della storia; è assente perfino il moralismo delle annotazioni spicciole che avrà invece così largo rilievo in cronisti posteriori. Invece, signoreggia ancora il senso della storia come di una bella vicenda in cui emergono figure di principi prodi, aitanti della persona e bravi guerrieri: una storia che è, senza dubbio, in parte leggenda, ma che della leggenda assume i motivi epico-cavallereschi e non quelli mistico-religiosi. E come la "curiosità" di Paolo traluce nelle non infrequenti notazioni di carattere fisico-geografico e nella cura posta nel descrivere fenomeni ed eventi naturali, così il suo atteggiamento generale di fronte alla storia umana trova una significativa espressione negli attributi (strenuus, bellicosus, audax) che lo scrittore accorda agli attori della sua narrazione con palese compiacimento. Qui, della nequizia della civitas terrena, il ricordo è svanito.
Non dissimile l'atteggiamento di Eginardo, non tanto nel fatto di prescegliere ad oggetto d'esaltazione una personalità laica - e fosse pure quella di un rex iustus - quanto soprattutto nel modo di tessere l'esaltazione. Qui il senso religioso della storia è parecchio attenuato e quel che viene posto in luce è - sulle orme di Svetonio - il fattore umano delle vicende, pur avvertendosi il riflesso delle mutate condizioni di pensiero, soprattutto forse in quella che è e sarà poi caratteristica della storiografia medievale, cioè nella capacità di cogliere specialmente, dell'uomo, l'esteriorità fisica, e invece nell'insufficiente fusione delle caratteristiche morali e spirituali.
Alquanto diverso ci si presenta invece il quadro con storici posteriori, con quelli stessi che pur hanno fama di acuto senso politico; per es., con lo stesso Liutprando da Cremona, uno degli storici medievali, cioè, di cui più si è vantato il "realismo" della visione e nella cui opera più si è creduto di riscontrare la capacità di ritrarre il particolare, il concreto. Che sono, indubbiamente, doti di questo vivace e battagliero uomo di parte divenuto storico: ma non sono tutto Liutprando. E colpisce invece, nei confronti con il meno colorito e meno brillante Paolo Diacono, proprio l'accentuarsi della nota religioso-moralistica; il più frequente richiamo al volere di Dio e all'ultraterreno; lo stilizzare - sia pure anche per effetto della volontà polemica dell'autore - le figure della sua storia (soprattutto nell'Antapodosis) secondo il modello del tyrannus pieno di vizî (Berengario) e del rex iustus (Ottone): tutti elementi che accentuano la nota prettamente "medievale" dello scrittore.
La preoccupazione di cogliere nel vivo uomini e cose particolari, il realismo con cui viene narrato l'episodio singolo, non impediscono che all'occulto, ma giusto giudizio di Dio lo storico non cominci a ricorrere con maggiore frequenza; non impediscono, soprattutto, che nella narrazione cominci ad insinuarsi il commento personale sotto forma di notazioni moralistiche.
Erano, come s'è detto, i frammenti della concezione agostiniana: ma erano, questi, ora, a dare il tono alla storiografia: la quale, se continua ad accettare il fatto politico; se anzi più e più volte dà prova non solo di un acuto senso delle cose, ma ben più di una netta tendenza ad ammirare ed esaltare il fatto umano, dimenticando ch'esso dovrebbe essere per sua stessa natura peccamimso, e apportando invece nell'analisi già un'incipiente fierezza nazionale (Widuchindo, Richer di Reims), rivela poi, nei commenti del cronista, la sua "cristianità". Il profondo senso del dramma dell'umanità, alla maniera di Agostino, s'è perduto: e nonché una storia della città terrena nel suo continuo contrapporsi alla città celeste, si hanno ora le cronache dedicate al racconto degli eventi - e sono proprio in primo luogo gli eventi "politici" - di un regno, di un imperatore, di una regione o città, di un monastero. Quella che una volta si sarebbe detta "filosofia della storia" bisogna andarla a cercare fuori del campo degli storici ex professo: in un Agobardo di Lione, in un Walafrido di Reichenau, in un Incmaro di Reims, vale a dire soprattutto fra i pubblicisti, che stanno ora discutendo sui rapporti fra regnum e sacerdotium, e con ciò investono i più grossi problemi della vita medievale. Qui è possibile scorgere, per es., un passo innanzi nella dottrina delle quattro monarchie, nel senso di riconoscere un nuovo impero, il franco (Walafrido); qui è anche possibile rinvenire una prima coscienza del "progresso" nella storia (Agobardo). La historia invece rimane ancilla, e non solo nella ripartizione scolastica e formale delle arti e delle scienze: concepita come racconto di cose viste o accertate auditu, come "testimonianza", essa rimane sul piano della testimonianza. Il momento del giudizio di valore non è più affar suo, ma della pubblicistica, intenta a creare, di sui fantasmi del passato, un nuovo ordine di cose e la coscienza di questo nuovo ordine.
Ridotti pertanto su un piano assai più limitato di quello di Agostino, i cronisti conservano, dell'ampia concezione agostiniana, sopra tutto gli elementi più facilmente e immediatamente percepibili: il giudizio d'insieme si frantuma così nei precetti e nei commenti moralistici che vorrebbero costituire il giudizio di valore, l'elemento soggettivo, personale posto ad integrare il semplice "vedere" i fatti. Ne è prova perspicua una fra le cronache più caratteristiche dell'alto Medioevo tedesco, la Cronaca di Thietmar di Merseburg.
Ma, su questi frammenti, si va lentamente ricostruendo un'altra visione d'insieme che, se non è più imperniata sulla storia del dramma dell'umanità, ritrova tuttavia un ben preciso elemento connettivo: dal contrasto fra città terrena e città celeste, si passa al più definito, concreto, percepibile contrasto fra Chiesa e Stato, fra regnum e sacerdotium, che dalla pubblicistica, dall'ambito delle teorie politiche comincia a trapassare nell'ambito della trattazione storica, a divenire, da dibattito teorico, criterio d'interpretazione della storia. Questo trapasso, per cui i concetti di celeste e terreno, di giusto e ingiusto, di santo e peccaminoso vengono applicati a due istituzioni ormai storicamente ben definite, l'Impero e il Papato, giunge a pieno compimento nel momento della lotta delle investiture.
Che se da una parte nei Libelli ferve la disputa di principio sui rapporti fra le due autorità, negli Annales, nelle Vitae e nelle Chronicae contemporanee essa disputa viene ripresa con perfetto sincronismo, nel senso che, a seconda si tratti di scrittori filoimperiali o filopapali, Gregorio VII o Enrico IV assumono i lineamenti tipici del rex (o del papa) iniustus, e le loro lotte da fatto particolare vengono elevate a momenti decisivi della stessa contesa fra santità ed empietà, fra Dio e diavolo, fra Cristo e Anticristo. Così negli Annales di Lamberto di Hersfeld, e più ancora nel De Bello Saxonico di Brunone, Enrico IV è il tipico rex iniquus dello Pseudo-Cipriano, è il fautor iniquitatis; per contrario nella Vita Heinrici IV imperatoris egli appare il rex pacificus, il rex iustus, il rex nulli pietate secundus (Carmen de bello Saxonico).
In questo modo al centro dei problemi storici si pone quello, assai concreto e vivo, dei rapporti fra Chiesa e Stato, fra due istituzioni cioè che, nonostante tutte le loro radici ultraterrene, si presentano in forma ben terrena e con procedimento d'azione del tutto umano. Anche lo stato è considerato come creazione di Dio, e, non più vincolato nella sua necessità dalla mala natura, dallo stato di peccato degli uomini, è riconosciuto come fonte di bene. Il male, lo può fare il rex impius, il tyrannus che in quanto tale cessa dalla sua stessa qualità regia: ma la distinzione fra rex bonus e tyrannus serve precisamente a salvare l'istituzione, anche quando se ne condanna il momentaneo reggitore. La polemica può, ora, appuntarsi contro le persone specifiche di questo o quel sovrano; può accentrarsi sul quesito della subordinazione o meno del regnum al sacerdotium: ma fuori causa è ormai, anche per i più accaniti polemisti antimperiali, il principio dello stato terreno.
Su queste basi, si può pertanto giungere alla ripresa in grande stile della concezione d'insieme agostiniana, con relativa attesa escatologica, ad opera di Ottone di Frisinga, ma con questa fondamentale differenza: che la civitas Dei di Ottone abbraccia - per quanto essa si può attuare sulla terra - non più solo la Chiesa, ma Chiesa ed Impero, quell'Imperium Romanum divenuto, con la translatio, Imperium Teutonicum, di cui lo scrittore sente profondamente la grandezza e di cui rivendica nettamente le prerogative. Commistione delle idee agostiniane con l'idea imperiale tedesca, che rappresenta il punto d'arrivo, in un certo senso, della storiorafia medievale.
Ma proprio in questo stesso periodo, quando cioè pare che si sia giunti nuovamente a vedere l'azione di forze universali per entro il groviglio dei fatti particolari, proprio allora si fanno avvertire nuove tendenze, che avviano la storiografia verso nuovi indirizzi. Tendenze da ricercare non - come è stato fatto - nel simbolismo tedesco del sec. XII, in Ruperto di Deutz, in Ugo da S. Vittore, in Ildegarda di Bingen, che riprendono e approfondiscono il concetto della storia come svolgimento di un valore spitituale: da questa parte, quale che sia l'originalità e l'importanza dei simbolisti, quale che sia la ricchezza di motivi con cui essi rifanno la storia della Chiesa, dimostrando, per es., una viva e giusta comprensione del valore storico del monachesimo (così in Anselmo di Havelberg), non si avrà un vero e fruttuoso sviluppo; bensì nello svilupparsi e nel precisarsi, nei cronisti, del senso nazionale, cioè di una coscienza che a mano a mano condurrà al tramonto di quelle idee universalistiche pervenute a dominare la concezione storica di un Ottone di Frisinga.
Per vero, in seno alla stessa idea universalistica della cristianità guidata da Papato e Impero era percepibile l'affiorare di un'affettività e sensibilità nazionale, che dava calore di sentimento umano alla concezione dottrinale: nello stesso Ottone di Frisinga, l'impero era non soltanto "concepito", ma "sentito", volta a volta, con fierezza e gioia, preoccupazione e dolore, a seconda ch'esso apparisse trionfante o declinante.
Di più, l'idea d'una particolare "missione" affidata da Dio ad un popolo - idea in cui riaffiorava il concetto biblico del popolo eletto - non era stata ignota nemmeno nei primordî del Medioevo, quando non v'era ancora l'idea dell'Impero: e allora erano stati i Franchi ad apparire destinati all'alto compito.
Ora l'idea riappariva soprattutto nella storiografia normanna, che poneva a centro della vita europea il nuovo stato e a questo solo affidava la grande missione voluta dai tempi, cioè la crociata e la propagazione del monachesimo. Se a base della concezione rimane l'idea tradizionale della missione affidata da Dio, la novità sostanziale è costituita dal fatto che ad adempiere la missione si vede chiamato non più l'Impero, bensì uno stato particolare non universale.
Una visione di questo genere - chiaramente espressa nella Historia ecclesiastica di Orderico Vitale e nel De rebus gestis regum Anglorum di Guglielmo di Malmesbury, e che ispirerà poi a Ugo Falcando, come l'elogio della monarchia normanna, nel Liber de regno Siciliae, così l'invettiva contro i barbari, cioè i Tedeschi, della Epistola... de calamitate Siciliae - significa dunque un deciso mutamento di prospettiva nella valutazione storico-politica, una prima affermazione dello stato nazionale e dell'individualità concreta dei singoli popoli.
A risultati analoghi doveva condurre anche la storiografia municipale, che accompagnava in Italia l'affermarsi delle nuove forze, sociali o politiche, raccolte nel comune.
I cronisti italiani apportano infatti un senso nuovo di fierezza civile, una coscienza se non nazionale almeno municipale, per cui le grandi idee universalistiche rimangono sullo sfondo, e centro vero e non solo formale del racconto diviene la città, con le sue glorie sentite con accesa passione. Così specialmente nella cronachistica milanese da Arnolfo, da Landolfo il Vecchio e da Landolfo di S. Paolo, ai Gesta Federici I imperatoris (una volta attribuiti a Sire Raul); così negli Annali genovesi di Caffaro e dei suoi continuatori; così nel Liber Majolichinus de gestis Pisanorum illustribus.
Orgoglio municipale che in breve s'intreccia con lo spirito di parte: nelle cronache italiane del Duecento e del primo Trecento vibra fierissimo, oltre che l'amore del natio loco, l'amore della propria fazione, guelfa o ghibellina che sia; e, in prosieguo di tempo, di fronte al costituirsi dei governi signorili, gli storici si suddividono fra chi esalta i benefici del nuovo regime e chi, uscito dal vecchio ceto dirigente del comune, oppone invece alla "tirannide" il ricordo del cosiddetto libero reggimento municipale. Ma come nell'età della lotta delle investiture i cronisti hanno parteggiato e con ciò hanno trasferito il contrasto fra città terrena e città celeste nel più concreto contrasto fra Stato e Chiesa, così ora, parteggiando, i cronisti municipali finiscono col rendere sempre più preciso e circostanziato il giuoco politico, non più combattuto fra due istituzioni di carattere universale, ma fra comune e comune, fra partito e partito; finiscono cioè col porre sempre maggiormente in rilievo il lato politico dell'attività umana. Lezione, questa, che darà pienamente i suoi frutti nella storiografia del Rinascimento.
Ma poiché le vicende dei partiti sono ora intrecciate in un ambito almeno nazionale; poiché la realtà politica su cui s'appunta lo sguardo ha da tempo trasceso il ristretto ambito cittadino per rivelare comunanze di interessi almeno regionali, così anche nella storiografia si comincia ad ampliare la visuale, trascorrendosi dalla pura cronaca cittadina al racconto delle vicende "italiane" o almeno di parte d'Italia: che è il momento nuovo rappresentato dalla Historia Augusta e dal De gestis Italicorum post mortem Heinrici VII di Albertino Mussato, e dalla Historia rerum in Italia gestarum di Ferreto de' Ferreti.
L'accentuazione del carattere nazionale nella storiografia italiana viene d'altronde resa evidente, in quello stesso torno di tempo, dall'uso del volgare, anche ad opera dei cronisti. Sulla fine del sec. XIII e nel Trecento la storiografia in volgare acquista infatti un posto preminente ad opera soprattutto dei fiorentini Ricordano Malespini (della cui Cronaca è stata di recente rivendicata l'autenticità), Dino Compagni, Giovanni, Matteo e Filippo Villani, ma ad opera anche di altri meno noti cronisti, fra i quali emerge l'anonimo autore della Vita di Cola di Rienzo, pittore efficacissimo - se pur soltanto esteriore - delle gesta del tribuno romano.
Avvento di una forma nuova che non significa, certo, ripudio della tradizione classica nel suo spirito, in quello cioè ch'essa ha di vivo e di connaturale con il nascente spirito italiano stesso: anche in questo campo, come in ogni aspetto della vita morale e culturale dell'Italia trecentesca, il ricordo di Roma antica (v. rinascimento) è stimolo vivo ai nuovi pensieri, cemento connettivo del sentimento nazionale italiano; e non a caso proprio nella prima storiografia volgare il richiamo a Roma antica è frequente e s'accomuna con l'esaltazione delle sue non degeneri eredi (Firenze) che si stanno creando, sul suo esempio, gloria e potenza.
Sennonché - e qui è l'essenziale - quello che vive non è più il concetto medievalistico dell'imperium, d'origine romana sì, ma di valore universalistico e, di più, dagli Ottoni in poi concretamente permeato di fierezza politica germanica; bensì il senso di Roma caput Italiae e come tale caput mundi, l'orgoglio della sua opera conquistatrice e dissodatrice e unificatrice anzitutto in Italia, vale a dire il senso e l'orgoglio della tradizione romana quale progenitrice diretta della nuova tradizione in via di formazione, municipale ma italiana. Pertanto, comincia ad emergere, nei confronti della Roma imperiale, la Roma repubblicana, a cui la prosa di Livio, il nuovo maestro storiografico, ha aggiunto fascino e splendore, e a cui devono far capo le stesse tradizioni dei municipî italiani: non all'età imperiale, bensì a quella repubblicana si riporta il Villani per iniziare la celebrazione della sua Firenze, "figliuola e fattura di Roma"; e a Cesare, dominante nella tradizione romana del Medioevo, cominciano a sostituirsi gli Scipioni.
lnvece, nei confronti del più recente passato - pure fondato sul culto dell'impero di romana impronta - s'avverte un ben netto senso di avversione: e già i secoli dopo la caduta dell'Impero romano d'Occidente cominciano ad apparire nella luce di età di decadenza e di barbarie da cui solo ora si sta risorgendo; e, prima ancora che il termine di media aetas venga coniato, se ne matura il concetto, in modo particolare nella storiografia dell'arte, nel Boccaccio e in Filippo Villani, ma anche in quella politica, che non è più disposta ad esaltare, sulle orme di Ottone di Frisinga, l'Impero, o che al massimo, e conformemente a Dante, ne vuole accentuare nettamente e nazionalmente - con coscienza già pienamente italiana - il carattere romano, e vede pertanto quali tralignamento e corruzione i momenti in cui il "giardin dello impero" non è al primo posto.
Grosso rivolgimento, questo, soprattutto perché significava il tramonto dell'escatologismo storico-religioso medievale, a cui si cominciava, più o meno coscientemente, a sostituire non solo l'attesa puramente umana di tempi migliori per accresciuta potenza, ricchezza, felicità degli uomini, bensì la compiaciuta constatazione che già le cose del mondo andavano bene, nonostante dissensi e lotte intestine e guai cittadini: compiacimento palese nel Villani, il più notevole dei cronisti italiani del '300, e tale da concentrare sempre più decisamente lo sguardo dello storico sul di qua, sulla città terrena, sull'uomo.
Era ancora un rivolgimento in sull'inizio, giacché poi, per altro verso, molti dei motivi ideologici proprî della storiografia medievale passavano pari pari anche nel Villani e nei suoi coetanei; e mentre già si determinava un diverso orientamento d'insieme sussistevano vecchi schemi, precetti dottrinali di stampo agostiniano che mantenevano tuttora gli storici su certe posizioni da tempo acquisite. Permaneva il tradizionale concetto della superbia come del motivo primo della storia umana, nel suo aspetto considerato negativo (guerre e contese): donde il persistere di una certa stilizzazione del quadro, quando si trattava di lotte di partiti, di contese fra principi, ecc., ricondotte come a causa prima ancor sempre al prevalere di quella mala passione umana, dovunque identica, amor sui generale e quindi privo di carattere concreto, particolare, differenziato caso per caso. La storia non è ancora sentita come il regno dell'individuale e del "particolare"; e una certa stilizzazione, venata di quel moralismo che giunge alla massima espressione in Dino Compagni, ma che non è mai del tutto assente neppure in Giovanni Villani, continua a mantenere il collegamento fra i cronisti italiani del Trecento e i loro predecessori.
Assai più forti, d'altronde, i legami col passato della storiografia straniera. Anche in questa, come in quella italiana, più e più si faceva avvertire, sulle rovine delle concezioni unitario-universalistiche dei secoli IX-XII, il senso della particolarità nazionale; anche in questa l'adozione dei "volgari" accentuava il tono politico-nazionale, specialmente in quella francese, la quale trovava, nel sec. XIII e al principio del XIV, due alte espressioni in Villehardouin e in Joinville. Ma ben altro era il mondo spirituale e morale in cui si muovevano questi storici. Qui, non l'apparire di una nuova società, borghese, di gente d'affari e d'amministrazione, che si crea proprî ordinamenti, proprie norme di vita, buttando a mare le vecchie leggi, che rimane tuttora fedele formalmente a dottrine e usanze etico-religiose del passato, ma già inclina a vedere, anche nella storia, quel che vede nella propria vita quotidiana, vale a dire gli effetti del raziocinio, del calcolo, e già si dispone a veder in Dio, sempre riconosciuto come supremo reggitore del mondo, "il buon maestro d'uno traffico", siccome dirà poi Vespasiano da Bisticci; bensì il permanere di una società a base cavalleresco-religiosa, giunta anzi in allora al suo massimo fiore, con un fortissimo senso di devozione personale al signore, con un senso eroico-avventuroso della vita e quindi della storia, con una ancor più ingenua e immediata, meno raziocinante, concezione del mondo, quindi più avvinta al modo di sentire e di pensare dei secoli precedenti. Donde, se l'ideale del re giusto trovava la sua umanamente vivace personificazione nella figura di Luigi IX, quale il sire di Joinville effigiava nella sua Histoire, intento a rendere giustizia sotto la vecchia quercia, a diretto contatto con il suo popolo, o a tener alto il vessillo cristiano contro gl'infedeli, anche quando i suoi fedeli - primo fra essi lo stesso Joinville - gli esprimevano chiaramente i loro timori, gl'ideali di valore guerriero, speso per la "buona" causa, e di fedeltà al signore, che contrassegnavano gli eroi di Villehardouin e, più tardi, di Froissart, costituivano il paludamento cavalleresco di quei principî etico-religiosi che avevano servito da punto d'appoggio al pensiero storiografico dopo il sec. IX, e si erano espressi e si esprimevano volta a volta sia sotto forma di mito propriamente ascetico-religioso sia - e ora sempre più - sotto forma di mito religioso-cavalleresco. Permaneva - assai più che non nella contemporanea storiografia italiana - uno schema aprioristico di distinzione morale fra bene e male, fra lecito e illecito, fra opera di Dio e opera del diavolo. Di qui, la minor possibilità di svolgimento verso nuovi modi di essere. Splendidamente colorita; ricca di senso del reale fisico, nella sua varietà e minuzia; efficacissima nel far rivivere questo mondo avventuroso, la storiografia cavalleresca giungeva al suo punto più alto con le Chroniques di Jean Froissart, e seguitava ad ammantarsi di oro e di porpora nella storiografia borgognona del sec. XV; ma con il crollo della potenza borgognona anch'essa esauriva il suo compito.
La storiografia del Rinascimento. - Ben diverso sviluppo doveva invece avere la storiografia italiana, la quale, tra il sec. XV e i primi del XVI, perveniva veramente ad una completamente nuova concezione storica e, modificando profondamente criterî di giudizio e atteggiamento complessivo di fronte al corso degli eventi umani, apriva la via della storiografia moderna.
Di primo acchito, poteva apparire che, con il deciso ritorno, da parte dei più notevoli fra gli storici italiani del sec. XV, alla forma latina, andasse perduto quel vivo, fresco senso dei tempi nuovi che aveva dato origine alla storiografia in volgare del Trecento, e che la stilizzazione formale degli umanisti tornasse ad avvolgere la considerazione storica in un paludamento, diverso dai precedenti, ma non meno gravoso. Ma in realtà proprio attraverso quella fase della storiografia cosiddetta umanistica s'andavano consolidando e moltiplicando i motivi nuovi che sarebbero poi pienamente venuti a giorno nella grande storiografia fiorentina dell'inizio del sec. XVI.
Veste latina, e quindi un apparente ritorno alla tradizione di secoli; in realtà, una veste assai diversa. Il culto della bella forma, dell'eleganza dello stile, caratteristico in genere dell'umanesimo; in modo specifico, l'ammirazione per il nuovo maestro, Livio, e il fiorire del culto di Cicerone, di colui cioè che aveva definito la storia come opus oratorium maxime, conducevano al riconoscimento pieno del carattere artistico dell'opera storica: a differenza del cronista medievale, lo storico che pretendeva di apparir tale doveva ora conciliare la veridicità con la felicità della narrazione, doveva essere, oltre che testimone fededegno, letterato.
Che era un primo, ma grande passo verso una maggior dignità teorica della historia nei confronti delle altre arti, un riconoscerle compiti e funzioni sino a un certo punto indipendenti dal compito di sussidiaria della speculazione teologica e filosofica o della pubblicistica: onde, pur con tutte le concrete deficienze artistiche dei singoli storiografi umanisti, tratti dalla imitatio all'impersonalità accademica e aulica dello stile, quella affermazione sarebbe trapassata nella coscienza storiografica moderna, la quale ha accolto l'esigenza dell'opera storica come opera d'arte, e avrebbe costituito uno dei motivi più efficienti dell'influsso esercitato dalla storiografia italiana su quella europea, nel '400 e '500: siccome doveva essere ben presto visibile nell'opera storica di Willibald Pirckheimer e di Giacomo Wimpheling in Germania, di Paolo Emilio in Francia.
Ma l'innovazione umanistica non si limitava allo stile. Così come avveniva in ogni campo della vita spirituale (v. rinascimento), anche nella storiografia il rinnovato culto di Roma era qualche cosa di più che non un mero culto formale; e se lo stile si abbelliva sull'esempio di Livio, anche il pensiero diveniva più sicuro e netto, posto com'era a contatto di un mondo come quello romano, ora finalmente sentito come modello e norma di vita in sé e per sé, senza che più occorressero giustificazioni teologiche a legittimarne l'ammirazione: civitas terrena, sì, ma tale da bastare di per sé e non più contaminata dal peccato d'origine. Ora da una siffatta valutazione, libera da premesse e fini metafisici, di un potente organismo politico, il giudizio storico usciva improntato a nuovi criterî: quel senso schiettamente politico, già notato nella storiografia italiana dell'età comunale e signorile, riceveva nuovo conforto di dati e di considerazioni, diveniva più riflesso, quindi man mano più sicuro, anche quando dalla valutazione spicciola di questo o quel fatto si trascorresse nell'ambito della visione d'insieme. Non a caso un tipico rappresentante della storiografia umanistica quale Leonardo Bruni avrebbe poi avuto un così diretto influsso sulla storiografia fiorentina dell'epoca aurea.
Da questo punto di vista la storiografia umanistica continuava l'opera iniziata dalla storiografia latina e volgare del Duecento e del Trecento; alla quale opera apportava, infine, una assai più solida preparazione metodologica.
Non che di una vera e propria metodologia nel senso moderno si possa parlare per ora. Ma se manca una ricerca metodologica sistematica, è pure indubbio che si avverte un senso critico già acuito dalla pratica di quella scienza dell'antichità - filologia e archeologia - che è merito dell'umanesimo l'avere instaurata; una capacità di riflessione e di discernimento resa più sicura dalla assai più larga conoscenza del mondo classico, nei suoi scrittori e nei suoi avanzi archeologici. La demolizione, ad opera del Valla e del Cusano, del Costituto di Costantino, è, al riguardo, significativa.
Questo senso critico viene d'altronde rafforzato per altra via, grazie alla più larga ricerca di materiale documentario, alla tendenza a procurarsi fonti nel maggior numero possibile, caratteristiche, dalla metà del Quattrocento in poi, dei migliori fra gli storici italiani ed europei. Uno Sleidan che chiede documenti a principi e città (Briefwechsel, ed. Baumgarten, 1881, pp. 48, 56, 61, 73, ecc.); uno Zurita che redige gli Annales de la corona de Aragón sulla diretta conoscenza di un copioso materiale archivistico devono la loro curiosità a quella storiografia umanistica che aveva come iniziatori Leonardo Bruni, Poggio Bracciolini, Flavio Biondo e si continuava, nei varî centri della penisola, a Venezia, Milano, Firenze, Napoli, soprattutto con Bernardo Giustiniani, il Sabellico, il Simonetta, il Calchi, il Pontano.
In tal modo, era aperta la via agli storici fiorentini dei primi decennî del '500, e precisamente al Machiavelli e al Guicciardini, i primi due grandi storici del mondo moderno.
Con essi, i motivi nuovi che da tempo fermentavano trovano finalmente espressione piena e compiuta: il trasferirsi della storia su terreno puramente umano, senza che più la volontà di Dio vi intervenga, in effetti, con la benché minima efficacia; la scomparsa, quindi, di qualsiasi contrapposizione fra due storie, una temporale, concreta e peccaminosa, l'altra ideale ed eterna, fra la storia della città terrena e quella della città di Dio. Compito dello storico diviene ora non più il ritessere, sia pure con una schematicità estrema, la storia dell'umanità dal giorno della creazione, perché solo in tal maniera era possibile vedere chiaramente e giustamente la linea direttiva delle vicende umane e comprenderne il valore; bensì il lumeggiare, in quadro molto più ristretto cronologicamente ma molto più folto di uomini e cose, un determinato periodo di storia, cittadina o nazionale: nel che appunto è la diretta conseguenza dell'abbandono della concezione agostiniana. Non vi è più una linea continua della storia del mondo, un principio generale che solo può giustificarne la descrizione e spiegazione: ogni vicenda si chiude, potrebbesi dire, in sé, si esaurisce nello studio degli interessi e delle passioni umane che l'hanno determinata. Il concetto, nettissimo nel Machiavelli, del fatale nascere, crescere e decadere dei popoli e degli stati, ognuno dei quali ha un suo ciclo da compiere; questo concetto, naturalisticamente inteso come è e senza alcun legame con il correlativo concetto cristiano del valore che questo succedersi di cicli storici assume nella legge eterna che governa la storia, significa precisamente che la concezione d'insieme cristiana s'è frantumata.
Né al suo posto sottentra una diversa, ma in sé organica e compiuta visione unitaria: la storia del mondo appare ora spezzettata, ogni frammento a sé. Solo vincolo comune fra le varie età, fra i vari cicli è la natura stessa dell'uomo (l'immutabilità delle passioni umane); e destino comune è la fase ciclica attraverso a cui ogni società deve passare: di qui uno spirito che voglia ritrovare delle leggi di valore universale come il Machiavelli muove per affermare il valore dell'esempio, dando alla "lezione delle cose antique", cioè alla storia, pieno valore pragmatistico. Ma è, questa, un'universalità che anziché fondere in una visione d'insieme il succedersi dei fatti umani, alcuni ne isola - perché degni di assurgere a lezione - e altri ne tace, perché senza valore ai fini pragmatistici che lo storico-politico persegue: un'universalità quindi del tutto apparente.
Tanto è vero che con il Guicciardini, dalla particolarissima sensibilità storica, anche il valore della lezione viene rifiutato: ogni fatto storico è "particolare" e staccato, ha, diremo, una individualità propria che non permette raffronti e vuole essere studiata e valutata in sé. Con ciò, la storiografia del Rinascimento per bocca del suo più alto rappresentante perveniva a quella ch'è stata la sua vera e grande scoperta: perveniva cioè al senso della "individualità" storica, all'affermazione della storia come creazione umana ben circostanziata e differenziata nei suoi varî momenti, ognuno dei quali costituisce una storia, compiuta in sé.
Senza dubbio, questo senso della "individualità", proprio perché non coordinato in una più larga visione d'insieme, che armonizzasse libero fluire creativo delle singole storie e continuità intima di esse, l'una nell'altra, era ancora nello stadio del puro empirismo, della sensibilità immediata, e non poteva divenire concetto chiaro e preciso, né acquistare il valore di un criterio universale di giudizio (questo sarebbe avvenuto soltanto tre secoli più tardi): ma era pur sempre la rivalutazione, d'importanza fondamentale, di uno dei due elementi costitutivi del senso storico. Il cristianesimo aveva afferrato, del processo storico, l'elemento continuità, vale a dire aveva volto lo sguardo non al singolo, bensì all'universale, non al fatto in sé, bensì al suo "valore" in rapporto al prima e al poi; il Rinascimento ne poneva in rilievo l'elemento momentaneità e particolarità, vale a dire si affisava nell'evento in sé, trascurandone la funzione ai fini dello sviluppo universale. Compito della storiografia moderna sarebbe stato, pertanto, quello di conciliare l'una e l'altra di queste due esigenze fondamentali del pensiero storico.
Senso dell'individualità storica dunque puramente empirico: anzi, l'individualità, presso questi storici, si converte nel senso della figura e personalità umana, cioè degli individui singoli, che costituiscono il centro della narrazione.
Senso, inoltre, limitato: valore delle forze morali, delle tradizioni e della fede religiosa e delle idee; influsso dei fattori economici nello svolgersi della vita dei popoli: tutto questo è completamente trascurato dalla storiografia fiorentina del primo Cinquecento. Alla storia dell'umanità di tipo cristiano si contrappone una nuova storia "politica", in cui il corso degli eventi appare determinato dal giuoco di alcune poche forze, di alcuni istinti elementari, che trovano la loro espressione nella lotta politica e nella lotta militare: donde guerra e diplomazia, cozzo di partiti e avvicendarsi di governi costituiscono l'intelaiatura della narrazione storica; donde il tono esclusivamente politico di questa, che a volte, poi, come per il Machiavelli e anche per il Guicciardini delle Storie fiorentine, è, più che narrazione, polemica politica trasferita dal presente nel passato.
Ma se da un lato tutto ciò poneva netti limiti alla possibilità di ricostruzione storica, d'altro lato, proprio in grazia di questo restringersi d'orizzonte, di questo accentrarsi su pochi motivi, l'analisi storica perveniva, all'atto pratico, quando fosse compiuta da uomini della statura di un Machiavelli e soprattutto di un Guicciardini, a una finezza e perspicuità di notazione, a una forza di rilievo alla quale non era mai pervenuta, dai tempi della grande storiografia classica. Né mai si riuscì, anche dopo, sul piano della storiografia "politica", a superare la precisione nuda e potente di analisi, la felicità di espressione e di giudizio di un Guicciardini, nella cui opera storica gli uomini, colti nell'intimo delle loro passioni e dei loro interessi politici con straordinaria e implacabile sicurezza di sguardo, veramente appaiono i creatori di storia: di una storia tutta umana, tutta sul piano della realtà terrena, povera sì di luci ideali, ma congegnata con perfetta organicità di vedute.
Questo indirizzo "politico" affermato dai fiorentini, doveva divenire, da allora e sino alla fine del Seicento, l'indirizzo dominante di tutta la storiografia europea. In parte ciò avvenne per l'influsso esercitato dagli storici italiani - e segnatamente dal Guicciardini -, tanto più che, nello spirito dei maestri, altri italiani si volgevano a trattare, nel periodo successivo, eventi di altri paesi, infondendo nella storiografia italiana una inusitata larghezza d'interessi e dandole così un'efficacia non più raggiunta: e basti rammentare il Davila e la sua interpretazione, meramente politica, delle lotte di religione in Francia.
Ma avvenne anche perché quel senso politico e nazionale, che già s'è visto tralucere nella cronachistica del basso Medioevo, s'era affermato, quasi contemporaneamente, anche fuori d'Italia per sostituire il tramontante senso religioso-cavalleresco: onde, agli ultimi rappresentanti della storiografia borgognona s'era contrapposta in Francia, sul finire del sec. XV, la storiografia di Filippo di Commynes. Anche essa storiografia schiettamente politica, fondata sull'analisi dei pensieri e delle aspirazioni dei principi, rifuggente dal mitico e attenta a cogliere solo la realtà d'interessi e d'intrighi determinati dall'anelito alla potenza, attenta a trarre la "lezione" dall'esperienza viva: per quanto poi fosse meno armonica, meno chiara della quasi contemporanea storiografia fiorentina non solo per maggior attaccamento, sia pure in gran parte esteriore, a taluni concetti religiosi, per un tuttora percepibile accoglimento della Provvidenza nei fatti umani, bensì anche per la mancanza di quel senso della storia come arte che caratterizzava invece la storiografia italiana dall'umanesimo in poi (sotto questo riguardo il Commynes - per viva ed efficace che riesca la sua narrazione - è ancora fermo agli stessi principî della cronachistica medievale).
Così l'influsso italiano, corrispondendo a quelle ch'erano le esigenze proprie dei tempi, trionfava, come trionfava in genere, fuori d'Italia, la cultura del Rinascimento italiano. Quanto deciso e sicuro fosse ormai il nuovo indirizzo della storiografia europea doveva apparire, nel '500, con le dispute religiose collegate alla Riforma e alla Controriforma.
Eventi questi che per la loro natura essenzialmente e squisitamente religiosa non trovavano rispondenza nella forma mentis dello storico alla Guicciardini; che, invece, offrivano motivo di reintrodurre, nella considerazione storica, allato dell'elemento politico, nuovamente il fattore spirituale, e, con ciò, di riportare dall'individualità all'universalità, secondo che già era avvenuto con Agostino. E il tentativo fu fatto: le Centurie di Magdeburgo, l'insistere di Flacio Illirico e dei suoi collaboratori sulla doctrina, cioè sulla vita religiosa intima - non esteriore -, significavano precisamente (oltre che il tentativo, anche se non molto felice, di valersi della critica umanistica nell'ambito della storia religiosa) un notevolissimo mutamento di prospettiva nei riguardi delle concezioni storiografiche dominanti. Ma fu un tentativo, che doveva esser ripreso e fruttare soltanto un secolo e mezzo più tardi, e per allora invece rimase - nonostante le polemiche suscitate - senza vero e profondo influsso sull'orientamento generale: ché invece l'elemento politico riprendeva nettamente il sopravvento, pur quando si trattassero le questioni religiose, non soltanto in un Aventino o in uno Sleidan, ma anche - in piena Controriforma - nel Sarpi e nel suo contradditore, il Pallavicino.
La Storia del concilio di Trento del Sarpi era infatti nient'altro che l'applicazione, ad un argomento di carattere religioso, dei criterî di valutazione instaurati dalla storiografia fiorentina: questa aveva trascurato le questioni ecclesiastiche, il Sarpi ne faceva oggetto della sua ricerca, ma apportandovi le stesse preoccupazioni e mentalità che un Machiavelli, un Guicciardini, un Varchi avevano potuto apportare nello studiare la storia dei partiti fiorentini. V'era un ampliamento della materia, non un mutamento di prospettiva nel modo di considerar la materia.
E poiché anche dal punto di vista metodologico nessun passo innanzi veniva compiuto nei confronti della storiografia umanistica - ché anzi più volte si doveva, semmai, notare un regresso, non un progresso di spirito critico, anche per le necessità della polemica religiosa (così nei Centuriatori) - sino al sec. XVII avanzato le posizioni fondamentali rimanevano quelle raggiunte dagli storici italiani dei primi decennî del '500: che erano le posizioni su cui veniva edificata ancora nella seconda metà del '600 un'opera come la History of the Rebellion and Civil Wars in England del Clarendon, cioè uno dei massimi prodotti della storiografia secentesca.
Bibl.: Storiografia medievale. - Come per la storiografia classica, così anche per quella medievale la delineazione più profonda è quella di B. Croce, Teoria e storia della storiografia, 3ª ed., Bari 1927, e da M. Ritter, Die Entwicklung der Geschichtswissenschaft an den führenden Persönlichkeiten betrachtet, Monaco-Berlino 1919. Di carattere espositivo più che critico è la Storiografia di G. Lisio, Milano s. a., che per la massima parte è dedicata appunto al Medioevo, e giunge a tutto il secolo XIV. Per la storiografia latina medievale le più accurate notizie si trovano in M. Manitius, Geschichte der lateinischen Literatur des Mittelalters, voll. 3, Monaco 1911-31. Per la storiografia italiana, garbata esposizione in U. Balzani, Le cronache italiane del Medioevo, 2ª ed., Milano 1900.
Tralasciando gli studî dedicati a singoli storici (per cui v. i relativi articoli), devono essere ricordati soprattutto: E. Bernheim, Mittelalterliche Zeitanschauung in ihrem Einfluss auf Politik u. Geschichtschreibung, I (unico pubbl.), Tubinga 1918 (importante per le idee di S. Agostino, a cui il vol. è dedicato); B. Schmeidler, Geschichtschreibung u. Kultur im Mittelalter, in Archiv für Kulturgeschichte, XIII (1917); H. Grundmann, Die Grundzüge der mittelalterlichen Geschichtsanschauungen, in Archiv für Kulturgeschichte, XXIV (1933); J. Spörl, Grundformen hochmittelalterlichen Geschichtsanschauung, Monaco 1935 (per il sec. XII). Cfr. anche M. Schulz, Die Form des Geschichtswerks in der Auffassung der Geschichtschreiber des Mittelalters (VI-XIII. Jahrh.) und ihr Abhängigkeit von der Rhetorik, Berlino, Lipsia 1909.
E su problemi più particolari: J. Kleinpaul, Das Typische in der Personenschilderung der deutschen Historiker des 10. Jahrh., Lipsia 1897; R. Teuffel, Individuelle Persönlichkeitsschilderung in den deutschen Geschichtswerken des 10. u. 11. Jahrh., ivi 1914; R. Münnich, Die Individualität der mittelalterlichen Geschichtsschreiber bis zum Ende des 12. Jahrh., Halle 1907; G. Werdemann, Heinrich IV. seine Anhänger u. seine Gegner im Lichte der augustinischen u. eschatologischen Geschichtsauffassung des Mittelalters, Greifswald 1913; B. Schmeidler, Italienische Geschichtsschreiber des XII. u. XIII. Jahrh., Lipsia 1909.
Storiografia del Rinascimento. - Dalla storiografia dell'umanesimo ha inizio l'opera, fondamentale, di E. Fueter, Geschichte der neueren Historiographie, 3ª ed., Monaco-Berlino 1936, con una assai ricca bibl. Ma occorre tener sempre presente, B. Croce, op. cit.; e anche, seppur di minor valore, M. Ritter, op. cit.
Tra le opere di carattere generale, cfr. inoltre: Fr. X. Wegele, Geschichte der deutschen Historiographie seit dem Auftreten des Humanismus, Monaco 1885; P. Joachimsen, Geschichtsauffassung und Geschichtschreibung in Deutschland unter dem Einfluss des Humanismus, Lipsia 1910; E. Menke-Glückert, Die Geschichtschreibung der Reformation und Gegenreformation, ivi 1912; G. Falco, La polemica sul Medioevo, I, Torino 1933. Cfr. anche: A. Rein, Das Problem der europaischen Expansion in der Geschichtschreibung, Amburgo 1929; W. Rehm, Der Untergang Roms in abendländischen Denken, Lipsia 1930; E. Hölzle, Die Idee einer altgermanischen Freiheit von Montesquieu, Monaco-Berlino 1925.
Su questioni particolari: R. Sabbadini, Il metodo degli umanisti, Firenze 1922; H. Baron, Das Erwachen des historischen Denkens im Humanismus des Quattrocento, in Hist. Zeitschrift, CXLVII (1932); H. Gmelin, Personendarstellung bei den florentinischen Geschichtschreibern der Renaissance, Lipsia 1927; G. A. Jekel, Die Schilderung des Menschen bei den französischen Geschichtschreibern der Renaissance, Heidelberg 1930; R. Buschmann, Das Bewusstwerden der deutschen Geschichte bei den deutschen Humanisten, Gottinga 1931; W. Nigg, Die Kirchengeschichtschreibung, Monaco 1934.
Per la storiografia italiana dell'età barocca, v.: B. Croce, Storia dell'età barocca in Italia, Bari 1929. Per la storiografia francese nel '600, cfr. W. H. Evans, L'historien Mézeray et la conception de l'histoire en France au 17éme siècle, Parigi 1930.
Per le teorie sulla storia e sul metodo storico: F. v. Bezold, Zur Enstehungsgeschichte der historischen Methodik, in Aus Mittelalter und Renaissance, Monaco-Berlino 1918, e ancora, R. Flint, History of philosophy of history, Londra 1893; id., Historical philosophy in France and french Belgium and Switzerland, Edimburgo 1893.
La storiografia moderna. - Il pensiero moderno appare, a tutta prima, ostile alla storia, incerta e confusa di fronte alla chiarezza e dimostrabilità della matematica. Tuttavia la critica storica è nata, nel sec. XVII, dallo stesso movimento intellettuale da cui proviene Cartesio, dalla stessa opposizione alla tradizione e all'autorità. Col suo Tractatus theologico-politicus Spinoza inaugura una storia della religione, che si propone d'attenersi a quanto nella Sacra Scrittura è puro dato di fatto, in aperta rottura con l'interpretazione tradizionale. Naturalmente anche questa critica antitradizionalistica aveva la sua tradizione: le armi erudite le erano fornite dalla filologia, specialmente olandese. E a sua volta tale filologia traeva la sua origine dall'umanesimo.
Il distacco dalla storiografia umanistica è rappresentato dalla critica cui sono sottoposti gli storici romani. Critica che ha dapprima un aspetto puramente negativo: P. Bayle, nel Dictionnaire historique et critique (1695), si diverte a registrare le contraddizioni di tutte le autorità storiche, e L. de Beaufort, nella Dissertation sur l'incertitude des cinq premiers siècles de l'histoire romaine (1738) denuncia come favole edificanti i racconti di Livio.
Alla negazione doveva seguire la positiva costruzione. Poiché non era possibile ricorrere alla deduzione matematica, prevalse il metodo empirico. Quello stesso spirito, che alla nuova scienza della natura impone di seguire l'immediata ed esatta osservazione dei dati di fatto, anima la storiografia della fine del seicento, che si dà a raccogliere un materiale sterminato di notizie, risalendo alle fonti documentarie ed applicando metodicamente i suoi strumenti di osservazione: la cronologia, la diplomatica, la paleografia. Cessa la storiografia letteraria: lo storico si vieta d'intervenire; i documenti sono accolti come dati di fatto indiscussi.
L'immenso lavoro di raccolta fu intrapreso in Francia dalla congregazione benedettina di S. Mauro. Capolavoro di questa storiografia gli Annales ordinis s. Benedicti (1703-39) di J. Mabillon, repertorio di notizie disposte in ordine cronologico. Analogo carattere ebbero l'Histoire des Empereurs (1690-1738) e i Mémoires pour servir à l'histoire ecclésiastique (1693-1712) di L.-S. de Tillemont. Lo scopo dei maurini era pur sempre la difesa della Chiesa, ma la loro fede era così robusta da non temere lo scandalo della verità. Sul limitare della storiografia moderna sta questo ascetico esempio di devozione alla verità.
Il nuovo metodo uscì presto dal campo della storia ecclesiastica. Già il maurino A. Rivet de La Grange compilò un'Histoire littéraire de la France (1733), prima storia sistematica della letteratura. Il Leibniz applicò il metodo dei maurini alla storia politica con gli Annales imperii occidentis Brunsvicensis (1703-16). La storia non appare più opera soltanto dei potenti della terra, mera vicenda politico-militare, bensì rivela, attraverso la moltitudine obiettiva delle notizie giustapposte secondo l'ordine cronologico, il suo sottosuolo giuridico-sociale, con le istituzioni, i costumi, la vita religiosa, morale, culturale. È così che già nel 1735 la Francia ha, nell'Histoire critique de l'établissement de la monarchie franåaise dans les Gaules dell'abate J.-B. Dubos, un primo sistematico tentativo di storia delle istituzioni. Il contatto con la realtà politico-sociale anima la fredda erudizione. Il Dubos già sostiene una tesi, opponendo alla teoria del conte di Boulainvilliers (v.) la tesi della continuità delle istituzioni romane nella Gallia dei Franchi, dell'investitura dei re da parte degl'imperatori romani, e infine dell'origine usurpatoria dei diritti feudali.
Questo senso moderno dei grandi interessi collettivi si fa consapevole in Pietro Giannone che scrive appunto una Istoria civile del regno di Napoli (1723), con la quale fonda la storiografia giuridica e costituzionale, ponendo al centro del suo interesse le vicende della legislazione e dei rapporti giuridici tra autorità secolare ed ecclesiastica. Tale interesse giurisdizionale diventa sociale in L. A. Muratori. Oltre a costituire nei Rerum italicarum Scriptores (1723-51) la base degli studî sul Medioevo italiano, egli illustrò nelle Antiquitates Italiae medii aevi (1738-1742) la vita medievale in tutti i suoi aspetti. I suoi Annali d'Italia (1744-49), pur conservando l'ordine cronologico, rivelano già la tendenza a sollevarsi al disopra dell'oggettività materiale del dato. Ma soprattutto egli esce dal mondo dei maurini in virtù del suo utilitarismo sociale, che ha per criterio la "pubblica felicità".
Sulla soglia del secolo dei lumi vi è una prima reazione, che anticipa il romanticismo e lo storicismo del sec. XIX. Essa è dovuta al permanere, nell'Europa illuministica, di fermenti neoplatonici, residui del Rinascimento. Con lo Shaftesbury (Characteristics of Men, Manners, Opinions and Times, 1711) e le sue idee di origine bruniana dell'anima del mondo, della bellezza ed armonia del cosmo nella sua varietà, cadeva il concetto atomistico e meccanico della natura, premessa dell'illuminismo; dall'"eroico furore" di Bruno discende pure l'"entusiasmo" dello Shaftesbury, che fa presagire, contro il razionalismo ugualitario, l'affermazione aristocratica del valore peculiare dell'individualità. Al panteismo bruniano e allo Shaftesbury s'ispirerà la reazione romantica.
Dal neoplatonismo del Rinascimento proviene anche G. B. Vico. Al razionalismo egli oppone, nella Scienza nuova (1725), che anche la barbarie ha la sua forza e la sua bellezza, che anzi la poesia è dono spontaneo della potente fantasia di popoli rozzi e feroci, cui segue la prosa della civiltà. Tuttavia è ben figlio del suo tempo. Il suo principio della reciproca conversione del vero col certo, dell'idea col fatto, l'esigenza cioè di superare la mera fase filologica, presuppone il lavorio dell'erudizione del suo tempo.
L'età divina o ferina, l'eroica o aristocratica, l'umana o democraticomonarchica si susseguono per ogni nazione, sul modello di Roma, con fatale regolarità, e, dopo "spiegata tutta la ragione umana", torna fatalmente la barbarie: "storia ideale eterna" di corsi e ricorsi, che si distingue dai miti orientali e classici e dalla teoria ciclica del Machiavelli per il senso, proprio del suo tempo, delle grandi forze collettive. La storia di Vico non è storia di principi, ma di "nazioni". Questo concetto del carattere collettivo e inconsapevole del moto della storia è espresso nella formula della Provvidenza, che si serve delle passioni degli uomini per guidarli dalla barbarie all'umanità.
Il problema di trarre dalla congerie dei fatti storici osservati i principî costitutivi della natura delle nazioni è pure il problema del Montesquieu. Anche lui attratto dal destino di Roma (Considérations sur la grandeur et la décadence des Romains, 1734), anche lui disposto a scorgere, sotto l'influenza dei classici e di Machiavelli, un ciclo nella fortuna delle nazioni, vuole però di questa vicenda dare la spiegazione, ricorrendo al concetto del "genio", che, già adoperato dal Sarpi e poi dal Saint-Evremond, diventa il motore spirituale della storia, che determina, variando, il nascere, fiorire, perire degl'istituti e degli stati. Però di questo "spirito generale" egli ha dato, nell'Esprit des lois (1748) una teoria del tutto naturalistica.
Il secolo s'interessò alla dottrina del Montesquieu, ma non la seguì. Ritorna invece il concetto prammatico nella storiografia, l'idea che grandi e piccoli eventi sieno dovuti all'iniziativa degl'individui. Persino lo "spirito", la "civiltà" d'un secolo, è attribuito, dal Voltaire, ai calcoli di saggi sovrani. E ritorna l'immagine del caso capriccioso.
Ma alle richieste del Terzo Stato il Voltaire dà una giustificazione teologico-cosmologica importando dall'Inghilterra l'idea newtoniana d'una meccanica celeste e di un Dio saggio architetto dell'universo e sopra tutto la critica deistica ai dogmi delle religioni positive. È insidiata la tradizione per eccellenza, quella che è avvertita, dalla borghesia francesei come nucleo della società stessa che si tratta di abbattere. Alla base dell'illuminismo sta dunque un'ardita concezione storica: quella del carattere umano e quindi storico delle origini cristiane. Premettendo che Rivelazione e Ragione dovessero necessariamente coincidere, i deisti inglesi (G. Locke, J. Toland, Th. Morgan) misero le mani sul materiale neotestamentario, divenuto appunto materiale storico. Né manca la critica al miracolo (Th. Woolston e Conyers Middleton) con cui si compie la secolarizzazione della storia.
La storiografia dell'illuminismo reca quella sintesi, che era mancata alla storiografia erudita. Ma è una sintesi dilettantesca, che non mette a profitto il materiale raccolto né si dà la pena di raccoglierne del nuovo.
La maggiore novità dell'opera del Voltaire sta nel senso borghese della vita che la pervade. È la borghesia, che prende coscienza di sé e delle sue virtù. Il passato in blocco, fino al regno di Luigi XIV, è ignoranza e barbarie. Nonostante ciò, il Voltaire concepisce la storia come un uniforme movimento in avanti, come un progresso automatico. Con questi criterî il Voltaire si è dato a una grandiosa sistemazione della storia universale, che inizia una nuova era dello spirito occidentale. Il suo Siècle de Louis XIV (1735-39; 1ª ed. 1751) è il capolavoro del nuovo genere e la prima opera storica moderna, che rompe la tradizione annalistica, ordinando gli eventi secondo la loro interna connessione e illustra la vita complessiva d'uno stato. L'Essai sur les moeurs et l'esprit des nations, opposto al Discours del Bossuet, è il primo tentativo, in senso laico e critico, d'una "storia dello spirito umano", che ordina secondo poche grandi linee la storia universale.
Più profondo del Voltaire è David Hume, che con la History of England from the invasion of Julius Caesar to the revolution of 1688 (1754-63) è considerato, per certi riguardi, suo discepolo. Già il fatto però che egli si limita a narrare la storia inglese, indica una sostanziale differenza; è cioè consapevole rappresentante del ceto medio inglese, la "migliore e più salda base della pubblica libertà", che non anela più a riforme e contempla soddisfatta il cammino percorso, la raggiunta dignità, la felice forma di governo, la propria tolleranza e prosperità. Si avvede però che l'origine della liberty stava nel fanatismo dei puritani. Ricorre allora al concetto dell'entusiasmo religioso, anelante a libertà anche politica, distinguendolo dalla superstizione, fautrice della tirannide clericale (Essay of superstition and enthusiasm, 1741), introducendo così nella storiografia il senso della fecondità dell'irrazionale passione e della lotta. La sua Storia d'Inghilterra ha appunto lo scopo di mostrare come il suo paese sia giunto da un gouvernement of will a un gouvernement of law, processo che viene inteso nel suo carattere sociale di distruzione dell'aristocrazia ed ascesa della gentry e del ceto medio.
Autentico discepolo del Voltaire è W. Robertson (History of Scotland, 1759; History of the Reign of the Emperor Charles V, 1769) che ci ha dato per primo una storia unitaria degli stati europei.
L'idea, già espressa dal Hume nella Natural history of religion (1757), della superiorità del bello e sereno paganesimo sull'intollerante cristianesimo, ha ispirato la patetica History of the Decline and Fall of the Roman Empire (1776-88) di E. Gibbon, che per primo ha trattato, da storico profano, il problema della diffusione del cristianesimo.
In Francia nella seconda metà del secolo la storiografia cede il posto a una schematica dottrina del progresso: il Turgot nel suo Discours sur les progrès successifs de l'Esprit humain (1750) ancora professa di credere nella Provvidenza, ma il Condorcet nel suo Esquisse d'un tableau historique de l'Esprit humain (1794) ammette la pura legge naturale del progresso, "quasi altrettanto sicura quanto quella delle scienze naturali".
In Italia le tendenze riformistiche si manifestarono prevalentemente nella diretta critica alla legislazione vigente e alla tradizione giuridica romana, che ne costituiva la base: e ai giuristi si aggiunsero gli economisti nel combattere le "ereditarie costumanze" (P. Verri), invocando un saggio "dispotismo intermedio", custode delle leggi e delle libertà civili. Un diretto discepolo del Voltaire è S. Bettinelli, che però si scosta dal maestro in quanto considera, in Del risorgimento d'Italia negli studii, nelle arti e nei costumi dopo il Mille (1775), vero Rinascimento italiano non quello dell'umanesimo bensì l'età dei Comuni, ponendosi cioè per primo il problema del Rinascimento.
In Germania le idee illuministiche furono introdotte dalla cosiddetta scuola di Gottinga, scuola di polistori, compilatori diligenti: J. Ch. Gatterer, A. L. Schlözer, L. T. Spittler, A. H. Heeren. Più originale quest'ultimo, che nelle Ideen über die Politik, den Verkehr und den Handel der Völker der alten Welt (1793) gettò le basi, per influenza di A. Smith, d'una storia dell'economia, spiegando la fortuna politica di certi popoli antichi con le loro posizioni di privilegio nella tecnica e nel commercio. Ma vero grande storico di questo periodo è J. Möser, autore della Osnabrückische Geschichte (1768). Acre realista, dotato di un vivo senso della tradizione locale, egli non sogna il Medioevo cavalleresco, bensì le antiche autonomie locali, poggianti sulle comunità rurali. Contro il despotismo riformatore, rivendica la bellezza variopinta delle tradizioni popolari.
Il luteranesimo che ha impedito all'Aufklärung tedesca di farsi banditrice di audaci riforme rivoluzionarie, e l'ha trattenuta sul terreno della vita religiosa e morale, suggerendole, in luogo del concetto utilitaristico del progresso, l'interiore concetto dell'educazione del genere umano, come sforzo di elevazione e di conquista, trova il suo maggiore interprete in G. E. Leming. Invece di cercare l'essenza del cristianesimo nelle Sacre Scritture, egli si volse alla vita religiosa da cui questi scritti erano scaturiti, affermando che anche in avvenire il destino del cristianesimo dipendeva non già dalla dottrina, bensì dallo "spirito" e dalla "forza" (Wolfenbüttler Fragmente, 1773; Über den Beweis des Geistes und der Kraft, 1774). Donde il principio che la perfezione non consiste nel pigro possesso della verità, bensì nella ricerca. La tolleranza acquistava così un'intima dignità, in quanto il fanatismo appariva la pretesa d'un inerte possesso. Ma questo principio vietava anche di schernire le religioni positive. Esse erano per il Lessing gli stadî dell'educazione dell'umanità (Erziehung des Menschengeschlechts), necessaria preparazione alla meta ultima: l'era del Vangelo eterno. La Rivelazione non era negata, ma era identificata con l'intera storia, divenuta tutta sacra.
Le idee dello Shaftesbury, del Vico, del Montesquieu non hanno cessato di operare, come fermenti, attraverso l'intero Settecento. In Francia il Boulanger, che forse aveva letto il Vico, si propose di derivare in L'Antiquité dévoilée par ses usages (1766) religioni, costumi e istituti da una grande emozione collettiva dell'umanità preistorica, dal terrore del diluvio. È allora che si dischiude il mondo favoloso dell'Edda, si prende a considerare vichianamente l'antica poesia come documento di costumanze e mentalità primitive e si desta in Inghilterra e in Germania la "settentrionomania". Infine è la suggestione del Montesquieu che solleva J. J. Winckelmann dall'erudizione archeologica e biografica e lo conduce a fondare la storia, assurgendo a una teoria dell'origine, dello sviluppo, della caduta degli stili e inserendo la storia dell'arte nella storia generale.
In Inghilterra, dove il popolo interpretava le sue rivoluzioni come restaurazioni d'antichi privilegi e libertà, dove quindi non c'era, verso il passato, un'ostilità di principio, si formò l'atmosfera per un sentimentale ritorno al passato. Perfino la moda letteraria del culto del gotico, di Ossian e di Omero doveva diventare un'arma politica: l'arma con cui l'Inghilterra respingeva da sé le idee della rivoluzione francese. E. Burke in un Essay towards an abridgement of the English history aveva professato la sua venerazione per la religione primitiva e soprattutto per le istituzioni del passato, radici della vita politico-sociale presente. È questo concetto della continuità dello sviluppo che egli oppone agli "immortali principî" nelle Reflections on the Revolution in France (1790) e nei Thoughts on French affairs (1791), erigendosi a consapevole difensore della tradizione nel campo politico.
Nel Discours sur les sciences et les arts (1750) e nel Discours sur l'origine et les fondaments de l'inégalité parmi les hommes (1753) il Rousseau aveva a sua volta esaltato l'umanità primitiva. Ma il suo "uomo di natura" altro non era che l'astratto simbolo della Ragione, negazione radicale della "civiltà", cioè della storia. Qui veramente l'antitesi tra Ragione e Storia si fa aperta e netta: è la Rivoluzione, che respinge da sé tutto il passato. Una storiografia non è più possibile che come esaltazione della libera virtù, conculcata dalla tirannide: tale è lo spirito delle Geschichten schweizerischer Eidgenossenschaft (1786-1808) di J. von Müller.
Tuttavia anche l'entusiasmo del Rousseau per lo stato di natura doveva esser fecondo per la storiografia: J. G. Herder gli toglie l'astrattezza alimentandolo dei motivi del preromanticismo inglese e insieme dando a questi motivi carattere polemico di difesa del popolo contro il despotismo militare-burocratico. Dagl'inglesi il Herder apprende il vichiano principio che la poesia è il linguaggio primitivo dei popoli, il culto di Omero, della Bibbia, dell'anima nordica. La psicologia del Leibniz del fondo oscuro, ma vitale, della coscienza, le idee del Hamann sul valore dell'irrazionale, i fermenti mistici del pietismo, confluiscono in questo concetto dell'individualità irriducibile della nazione, unità organica, che sviluppa da sé costumi, leggi, istituti. Il platonismo dello Shaftesbury fa sì che il Herder avverta in questa varietà l'armoniosa unità del genere umano: non l'astratto genere umano degl'illuministi, bensì una pluralità di nazioni, guidata secondo un misterioso piano unitario della Provvidenza (Ideen zur Philosophie der Geschichte der Menschheit, 1784-91). Alla storiografia, alla lettetatura e alla politica dell'Ottocento il Herder ha legato il concetto della nazione, forza spontanea cui è vano applicare leggi ed istituti estranei, perché ha il proprio carattere, invariabile attraverso i secoli. Ma il senso storico delle individualità nazionali s'irrigidiva, al suo nascere, nel mito antistorico del Volksgeist, con cui si presuppose l'esistenza primordiale delle nazioni senza porsi il problema della loro formazione.
Napoleone, suggerendo al Montlosier il piano d'una storia della monarchia francese, aveva cercato di dare le ragioni storiche del suo impero. Più vivace la storiografia del campo opposto: Madame de Staël in De l'Allemagne (1813) elevò un inno al genio tedesco, individualistico e sentimentale, che pose in rapporto con la mancanza, in Germania, d'una capitale e d'un governo accentrato, e il ginevrino S. de Sismondi, nella sua Histoire des Républiques italiennes au moyen âge (1807-1818), oppose all'assolutismo centralistico il sistema dello stato federale, attribuendo la rovina d'Italia nel sec. XV non alla mancanza d'uno stato unitario, bensì alla mancata formazione d'una federazione di repubbliche.
Nella lotta per il rinnovamento della Prussia K. vom Stein aveva avuto a compagno B. G. Niebuhr, che nel 1811 prese a pubblicare la sua Römische Geschichte. Da esperienze personali della sua giovinezza, trascorsa tra i laboriosi contadini del Dithmarschen, egli trasse l'immagine ideale delle antiche comunità agrarie, religiose e guerriere, e la storia di Roma antica gli si chiarì come storia d'una comunità agraria, prospera finché i suoi cittadini rimasero liberi contadini. Così egli trovò nella storia della potenza di Roma la riprova dell'urgenza di restituire la libertà al contadino prussiano. In tal modo, inserendo la questione politico-sociale del proprio tempo, il Niebuhr ha inaugurato una realistica storia sociale di Roma. Ha pure inaugurato il metodo critico-filologico, in quanto ha dovuto, dopo distrutta la tradizione leggendaria, ricostruire il passato attraverso l'interpretazione critica delle leggende, delle formule e delle consuetudini giuridiche.
Già sotto Napoleone si era iniziato un nostalgico ritorno a quel Medioevo, tanto vilipeso dall'illuminismo; lo Chateaubriand riabilitò nel suo Génie du Christianisme (1802) la vecchia Francia delle cattedrali. I romanzi storici di Walter Scott ebbero un successo trionfale in tutta Europa. Si moltiplicarono allora le edizioni delle cronache medievali. Ne derivò una storiografia "pittoresca", che mirava a conservare il tono ingenuo di quelle cronache e il cosiddetto "colorito locale". Il barone P. de Barante diede appunto una Histoire des ducs de Bourgogne (1824-26) che si limitava a narrare con l'ingenuità d'una cronaca di Froissart le storie di tornei, galanterie e bei gesti di quel Medioevo di maniera.
Non era questo il nuovo senso della storia di cui si vanterà il sec. XIX. Né di senso storico diedero prova i governi reazionarî. La Restaurazione, al contrario, è stata, nel sua spirito, un ritorno al despotismo paternalistico del Settecento. Gli stessi intellettuali della Restaurazione esaltarono il Medioevo gerarchico e religioso come modello astratto. K. L. von Haller, nella Restauration der Staatswissenschaft (1816), idealizza lo stato "patrimoniale" medievale condannando lo stesso principio dell'indivisibilità dello stato come preludio al concetto moderno dello stato. I "tradizionalisti" francesi argomentano bensì che la storia ha dato la prova dell'incapacità della ragione umana a guidare gli uomini, ma non si appellano alle forze storiche, bensì all'autorità: per il De Maistre, la Riforma e l'illuminismo sono esattamente quello che era il Medioevo per gl'illuministi, e i filosofi del sec. XVIII sono orditori d'una cabale come i preti di Voltaire (Soirées de St. Pétersbourg, 1821). L'autorità è intesa da lui in senso astratto quanto era stata intesa la Ragione, e la storia è negata come nella dottrina del Rousseau.
Quest'esaltazione del Medioevo come epoca "organica", della comunione della fede e dell'ordine, contrapposta all'epoca "critica" della anarchia spirituale e sociale moderna, è il fondo pure del sansimonismo. Anche il Saint-Simon vagheggia un ritorno all'ordine "organico", ma la potenza spirituale che lo deve restaurare non è più per lui la fede religiosa, bensì la scienza. A tal fine egli sente la necessità di coordinare le scienze in un perfetto, dogmatico sistema. È il programma eseguito dal discepolo di Saint-Simon, A. Comte, fondatore del positivismo.
Vi era in quest'idea del ritmico susseguirsi di epoche "organiche" e "critiche" una prima, grossolana intuizione della dialettica della storia. Nei formidabili avvenimenti, cui avevano assistito, gli uomini dell'età napoleonica avevano sentito una fatalità più forte degl'individui. La storia appariva la vincitrice di Napoleone, e tuttavia si avvertiva che qualcosa di nuovo e grande stava sorgendo dalle rovine. La sintesi di questa esperienza tragica e insieme religiosa è la "filosofia della storia" del Hegel. La Provvidenza cede il posto al conflitto delle idee, alla dialettica, immanente nella storia medesima. Al panteismo dello Spinoza il Lessing aveva già cercato d'imprimere vita e movimento: il Hegel compie l'ultimo passo celebrando la storia come graduale estrinsecarsi, nel mondo, del divino principio, dell'Idea. Ogni fase è momento necessario, che nega il precedente per generare, nel dolore della propria interna contraddizione, la propria antitesi. In luogo del lento sviluppo vegetativo, immaginato dal Herder, si ha la perenne discordia, la guerra madre di sempre nuova e più alta vita. La storia umana diventa una fase di un processo cosmico, dell'itinerario dell'Idea, che, chiusa dapprima in sé, si smarrisce come natura per ritornare a sé nel mondo dello spirito.
L'influenza del Hegel sulla storiografia è stata potente: E. Gans ha introdotto il metodo dialettico nella storia del diritto (Erbrecht in weltgeschichtlicher Entwicklung, 1824-1829); W. Vatke nella storia della religione ebraica (Religion des alten Testaments, 1835); F. Ch. Baur nella storia della Chiesa e del dogma (Lehrbuch der christlichen Dogmengeschichte, 1847). Ma già il Baur, capo della cosiddetta scuola di Tubinga, attenua il rigido metodo dialettico integrandolo con l'analisi filologico-critica dei testi; E. Zeller si pone addirittura come mediatore tra l'interpretazione speculativa e l'indagine erudita nella sua Geschichte der griechischen Philosophie in ihrer geschichtlichen Entwicklung (1844-1852); K. Schnaase ha inaugurato una nuova era nella storia dell'arte, considerandola come "storia dello spirito", interpretando cioè le opere d'arte come espressioni di momenti storici, ma è ricorso anche all'osservazione "storica", cioè empirica. La grande avversaria del Hegel è stata infatti la filologia. Hegel chiude la serie dei grandi sistemi metafisici, distrugge la metafisica riducendola a storia. Però tale sforzo lascia le sue tracce: la sua storia è una metafisica della storia, un rigido schema logico, sistemazione a priori degli eventi, analoga alle grandi storie teologiche cristiane di Eusebio e di Agostino.
Ora è in nome della "storia", cioè dell'evento particolare e concreto, che protesta la filologia. Essa significa anzitutto saggia prudenza nell'interpretare i testi, minuziosa verifica. Ma anche la grande filologia classica tedesca dell'Ottocento è in realtà ben più che un metodo. Il suo fondatore F. A. Wolf rinnovò nei suoi Prolegomena ad Homerum (1795) la teoria vichiana dell'epoca primitiva. Il suo discepolo A. Boeckh trasformò la filologia in scienza storica e K. O. Müller applicò alla storia delle stirpi elleniche l'idea romantica dell'"anima nazionale".
Nella civiltà ellenica il romanticismo tedesco volle appunto scorgere un incomparabile prodotto spontaneo dello "spirito" nazionale, immune da qualsiasi influenza esterna, liberamente sbocciato. E voleva anche scorgere nella "nazione" tedesca, pur essa politicamente divisa, una nuova nazione dell'"umanità", un'unità nazionale "culturale", al centro della quale sta l'individualità ineffabile dell'anima nazionale", anteriore allo stato, radice di tutte le istituzioni. In questo senso la filologia classica tedesca è intimamente connessa con la "scuola storica del diritto".
K. F. Eichhorn si era proposto di collaborare alla redenzione della patria insegnando ad amare la storia delle istituzioni natie nella sua Deutsche Staats- und Rechtsgeschichte (1808-1823), che rivelò uno sviluppo genetico del diritto tedesco, organismo unitario, lentamente formatosi nel popolo. Egli ha dato in tal modo al popolo tedesco la coscienza di essere un'unità giuridico-sociale anteriore al pluralismo dei suoi stati. La nazione diventava il soggetto profondo della storia. È questo il principio della "scuola storica" fondata da K. von Savigny col celebre opuscolo Über den Beruf unserer Zeit zur Gesetzgebung und Rechiswissenschaft (1814), col quale egli affermò l'origine spontanea del diritto. Ma la scuola storica combatteva anche contro Hegel in nome della "storia", cioè di un oscuro complesso di forze sentimentali e affettive, che operava non secondo una spietata dialettica d'idee, bensì idillicamente crescendo come "coscienza comune". A riprova della sua tesi, il Savigny, nella Geschichte des römischen Rechts im Mittelalter (1815-1831) s'industriò di mostrare che i giureconsulti bolognesi avevano operato per una necessità comune delle ricche città italiane, non per imposizione degl'imperatori svevi.
Sotto l'influenza del Savigny, Jacob Grimm fondò la scienza delle origini germaniche. Pubblicò Deutsche Rechtsaltertümer (1828), mirabile quadro dell'antica Germania medievale, in cui poeti e giudici esprimono la "coscienza comune" del popolo. Iniziava in tal modo quella che sarà detta Kulturgeschichte, la storia della vita nazionale distinta e in certo senso contrapposta alla storia politica.
Dal diritto la concezione storico-organica passò all'economia politica ad opera di W. Roscher (Grundriss zu Vorlesungen über die Staatswirtschaft nach geschichtlicher Methode, 1843), seguito da B. Hildebrand e da K. Knies. Questa "scuola storica dell'economia" affermò che l'attività economica non era che un aspetto della vita nazionale, e che quindi le sue leggi non erano quelle universali e naturali della scuola classica, ma erano relative alla vita nazionale, e andavano quindi ricavate con metodo storico.
L'interesse ardente per la storia nazionale aveva destato il bisogno di conoscere direttamente le fonti. K. vom Stein fondò nel 1819 la Gesellschaft für das Studium der alten deutschen Geschichte e lanciò l'idea di una raccolta di fonti, i Monumenta Germaniae Historica, trovando in Pertz l'uomo adatto a intraprendere la grande impresa, che segnò al suo apparire (1826) un'epoca nuova nello studio storico. Il metodo era quello della filologia classica, e rese possibile lo studio critico della storia medievale. La pubblicazione dei Regesta imperii, iniziata da I. F. Böhmer nel 1831, gettò luce sulla personalità degl'imperatori e sulle segrete fila della loro politica.
Mancava ancora la capacità alla sintesi, ma già si sentiva il dovere di informarsi direttamente sui documenti. La piena fusione di metodo critico e di sintesi narrativa è raggiunta soltanto da L. Ranke, che ha recato il rigore della filologia classica nello studio della storia moderna, il senso della totalità e insieme individualità della storia. Nella storia avvertì, quasi panteisticamente, la presenza del divino, ma si rifiutò di tracciare il disegno della Provvidenza, che ogni epoca gli appariva fine a sé stessa. Unico scopo dello storico quello d'intendere come le cose erano andate, senza parteggiare e senza giudicare.
Nel periodo della Restaurazione la storiografia è la grande arma politica della borghesia liberale francese: intesa non già come nostalgica rievocazione d'un determinato passato, bensì come descrizione di uno svolgimento necessario.
È una storiografia di uomini politici e di pubblicisti, che ha per temi le ardenti questioni del giorno: l'emancipazione dei comuni, le assemblee del Terzo Stato, le rivoluzioni inglesi, la rivoluzione francese. Nei Dix ans d'études historiques (1820) A. Thierry celebra, contro l'aristocrazia feudale, dipendente da conquistatori stranieri, il Terzo Stato, erede dei Comuni e quindi dei vinti Gallo-Romani, depositarî dell'antica civiltà. Questa simpatia per le masse oscure e laboriose, per i vinti, che sarà accolta dal Manzoni, ispira pure la sua Histoire de la conquête de l'Angleterre par les Normands (1825). F.-P. Guizot, il "dottrinario", l'uomo del juste milieu, volle mostrare con la sua Histoire de la Révolution d'Angleterre (1816-27) gli errori di quella francese e l'utilità d'un regime rappresentativo, e nelle sue celebri Histoire générale de la civilisation en Europe e Histoire de la civilisation en France (1829-32) ha descritto la lotta medievale tra municipalismo e idea imperiale romani, organizzazione della Chiesa, individualismo germanico, lotta da cui sarebbe nata quella classe media, che, attraverso inevitabili rivoluzioni, doveva giungere al regime rappresentativo. F. Miguet, nella Histoire de la Révolution franåaise (1824), giustifica storicamente quella che fino allora appariva un'inconcludente convulsione, ponendo il problema delle origini della Rivoluzione. A sua volta A. Thiers, nella Révolution franåaise (1823-1827), dà alla cronistoria degli eventi una fatale concatenazione. Con la rivoluzione di luglio questi storici passarono al potere. Cadde allora l'impeto polemico di questa storiografia. Alle rapide e brillanti sintesi, che erano requisitorie, seguono ora gli studî più pacati dell'erudizione. Guizot, ministro, si diede a organizzare gli studî storici. Nel 1834 sorse la Société de l'histoire de France. La caccia ai documenti, già iniziata durante la Restaurazione, diventa l'occupazione preferita degli storici. Nel 1835 s'inizia la pubblicazione della Collection de documents inédits sur l'histoire de France. L'abate Migne si fa editore della Patrologia. La ricerca d'archivio diventa scopo a sé stessa: Guérard, Pétigny, Floquet, Bazin scrivono illeggibili cronistorie, che si limitano a esporre dei "fatti" documentati.
Sola una rinata passione politica poteva dar nuovo vigore alla storiografia. Thiers, passato all'opposizione dopo la sua caduta nel 1840, pose, da "opportunista", l'interesse della patria al disopra delle pregiudiziali dottrinarie esaltando nella sua Histoire du Consulat et de l'Empire (1845-62) il primo console come il salvatore della Rivoluzione e della Francia, ma denunciando gli errori politici e militari dell'imperatore, "malato della follia dell'onnipotenza". J. Michelet fu a sua volta un nemico dei "dottrinarî" e di Guizot, ma per altri motivi. Traduttore della Scienza nuova, conoscitore della Germania di Herder e di Grimm, odiava la secchezza razionalistica di Guizot: con un potente temperamento lirico egli compose nella sua Histoire de la France (1833-43) una grandiosa, commossa epopea. Patriota e democratico, nell'Histoire de la Révolution franåaise (1847-53), fa del popolo francese il protagonista d'un dramma eroico e di Danton l'incarnazione dell'anima popolare. Ai grandi disegni storici, che annullavano la personalità, Sainte-Beuve contrappose il ritratto psicologico nella sua Histoire de Port-Royal (1840-61), ricca di maliziosa esperienza mondana.
Con gli studî storici, con la discussione dei grandi problemi della storia nazionale, la cultura italiana della prima metà dell'Ottocento si è posta alla pari con la cultura europea, contribuendo altresì decisamente alla formazione della coscienza nazionale unitaria. Le idee romantiche di Germania e le idee liberali di Francia, la lirica di Chateaubriand e il romanzo storico di Walter Scott, il pensiero di Sismondi, di Herder, di Hegel, di Thierry, la critica di Niebuhr hanno agito da stimoli. Ma la reazione da parte italiana ha avuto una sua originalità derivatale già dalla particolare complessità dei problemi affrontati. Fin dal 1800 V. Cuoco nel suo Saggio sulla Rivoluzione napoletana del 1799 aveva opposto all'astratto razionalismo la sapienza del Vico, e dietro a lui gl'Italiani poterono vantarsi, adeguandosi alle idee del romanticismo, di riprendere la tradizione vichiana. Nessun "dottrinario" italiano, pertanto, pose il problema nazionale in termini di puro costituzionalismo: si sentiva che esso implicava una revisione dell'intera vita morale e religiosa della nazione.
Sembrano così appartenere a un'altra epoca, ormai superata, gli scritti dei Napoletani che avevano collaborato all'azione riformatrice di re Giuseppe e di Murat: tra i quali D. Winspeare (Storia degli abusi feudali, 1811) e P. Colletta (Storia del Reame di Napoli, 1834); però sono questi veterani napoleonici, è il Foscolo, è M. D'Ayala con le sue Memorie storico-militari (1833), che recano al moto dell'indipendenza il fermento guerriero: le Memorie di G. Pepe nel 1847 sono un manifesto per la guerra d'indipendenza. Fuori del tempo è allora soltanto lo scetticismo pessimista di C. Botta.
Il nuovo concetto della storia come svolgimento richiedeva che si ricercassero nel lontano passato le radici di quell'unità che s'intendeva costituire: s'intendeva compiere appunto un "risorgimento". Roma era un ideale troppo universale per il nuovo, romantico, sentimento nazionale. V. Cuoco nel suo Platone in Italia (1804) risalì, vichianamente, a un'antica civiltà italica preromana, e G. Micali celebrò la grandezza etrusca nell'Italia avanti il dominio dei Romani (1810). Ma è al Medioevo, all'epoca della nascita delle nazioni moderne, che ci si volge: all'epoca dei primi re d'Italia, Liutprando, Arduino, e all'epoca dei liberi Comuni. La storiografia s'imperniò quindi su una polemica intorno alla funzione nazionale svolta dal papato nel Medioevo: polemica astratta e antistorica, ma che rispondeva a un'esigenza profonda: quella di definire i rapporti del moto nazionale con la Chiesa. Più ricca e profonda la scuola neoguelfa, alimentata dal nuovo cattolicismo del Lamemais e da vecchi fermenti giansenistici; più poveri, spiritualmente, i nuovi ghibellini, che in realtà altro non erano che degli anticlericali illuministici, anche se accesi di fiero patriottismo.
Il Manzoni ha iniziato la polemica nel 1822 con un Discorso sopra alcuni punti della storia longobardica, dove, distruggendo il mito dell'idillica fusione di vincitori Longobardi e di vinti Romani, prese partito per i vinti, che formarono in seguito il popolo dei Comuni. Il medesimo concetto delle razze si ritrova nella Storia d'Italia di C. Troya. Più cauto, Gino Capponi, nelle sue Lettere sulla dominazione dei Longobardi in Italia (1844) si stacca dall'oscuro criterio della razza, ammette però l'oppressione longobarda pur avvertendo nella mancata unificazione longobarda un'interna debolezza della nazione italiana. Nella sua Storia d'Italia sotto i barbari (1840) e nel suo Sommario della storia d'Italia (1848) Cesare Balbo segue un criterio strettamente politico: quello dell'indipendenza. La storia d'Italia gli si presenta come una catena di dipendenze, interrotta a tratti da periodi d'indipendenza. Era un criterio estrinseco, ma che rispondeva all'avviamento del moto liberale-moderato verso il Piemonte, alla sua progressiva affrancazione dal guelfismo. Questo diventa invece programma politico nel Primato morale e civile degli Italiani (1843) di V. Gioberti, dove all'esaltazione francese della missione del popolo francese era contrapposta l'esaltazione della missione del popolo italiano, e di questa funzione era indicata la testimonianza nella continuità d'una tradizione che, partendo dai Pelasgi era fatta giungere all'epoca contemporanea, in cui, ristabilita l'armonia con l'idea cattolica, l'Italia avrebbe ritrovato la sua grandezza e ripreso la sua missione di civiltà nel mondo. Con lo stesso entusiasmo neoguelfo il padre L. Tosti paragona nella Storia della Lega lombarda (1848) gl'Italiani dei Comuuni agli Italiani di Pio IX.
È merito della scuola neoguelfa l'avere rivelato nei suoi aspetti essenziali la struttura sociale del Medioevo italiano e di avere scavato in profondità, nella ricerca di documenti. Anche se le sue tesi sono state dimostrate in gran parte insostenibili, è da dire che oggi ancora i problemi della storia medievale sono quelli da essa individuati, mentre rimasero quasi del tutto trascurate la storia di Roma e la storia del Rinascimento, per le quali una tradizione di studî non si formò. Pure alla scuola neoguelfa si deve invece una letteratura sulle istituzioni e sulla vita sociale del popolo italiano.
Al gruppo del Balbo appartengono scrittori, come il Baudi di Vesme, L. Cibrario, F. Sclopis, G. Provana, E. Ricotti le cui opere, pure avendo un più limitato campo d'indagine, per l'aderenza alle fonti si consultano tuttora con utilità; al gruppo del Capponi, E. Poggi (Cenni storici delle leggi sull'agricoltura da' tempi romani fino ai nostri, 1845-48). Solo per la comune fede cattolica si accompagna alla scuola neoguelfa C. Cantù, delle cui molteplici opere quella su gli Eretici d'Italia, in ispecie per certe parti, non è priva neppur oggi di qualche utilità. Manca invece ogni preparazione erudita agli storici neoghibellini (A. Ranieri, G. B. Niccolini, A. Vannucci), le opere dei quali hanno avuto carattere e intenti analoghi a quelli dei romanzi del Guerrazzi.
Prima ancora che il '48 rivelasse l'inconsistenza politica dell'ideologia neoguelfa, una critica realistica dell'interpretazione neoguelfa della storia si deve a un erede della tradizione economico-amministrativa del Verri e degli altri illuministi lombardi: a Carlo Cattaneo. Il realismo dell'economista consente al Cattaneo non soltanto di rivelare l'anacronismo di una polemica tra guelfi e ghibellini in pieno sec. XIX e la mancanza di senso storico in chi giudicava dal punto di vista nazionale moderno uomini ed eventi del Medioevo, e gli permette anche di dare nelle Notizie naturali e civili della Lombardia (1844) uno "spaccato" della storia d'Italia impostato su nuove basi sociali-economiche. Federalista, liberale radicale, il Cattaneo scorge nella tradizione municipale, che egli affranca dal guelfismo, il principio unitario della storia italiana e lo strumento della civiltà.
Se il criterio centrale del Cattaneo è l'idea del progresso, intesa in senso borghese e illuministico, essa è però ravvivata e resa agile dal nuovo storicismo. Egli ammette il principio della nuova storiografia, che vuol rendere conto del passato anziché condannarlo in nome di astratti principî, ma vuole che il passato resti passato. Più che fede nel progresso, c'è in lui fede nella storia, cioè nello svolgimento della civiltà, che gli fa respingere il mito d'un beato stato di natua. In lui si opera quel contemperamento di elementi dell'illuminismo lombardo e delle nuove idee romantiche, che è stato proprio degli uomini del Conciliatore.
L'opera in cui il nuovo metodo critico-filologico dei Tedeschi è usato con assoluta padronanza è La guerra del Vespro siciliano di M. Amari, dove però il rigore dell'indagine si accompagna all'amore per la propria gente del patriota siciliano e a una larga visione delle conseguenze del Vespro nella storia d'Italia e d'Europa. Con l'altro suo capolavoro, la Storia dei Musulmani in Sicilia (1853), egli entrava nella ristretta schiera degli autori classici della storiografia europea.
In Inghilterra la tradizione di Hume, Robertson e Gibbon continua fiaccamente nel sec. XIX. Fin dal 1800 era stata costituita una "Record Commission" col compito di raccogliere e ordinare documenti. L'editore dei Parlamentary Writs, Palgrave, compose su tale base una prima storia costituzionale inglese, The Rise and Progress of the English Commonwealth. Sotto l'influenza di Grimm e della filologia tedesca Kemble descrisse la società anglosassone, negando qualsiasi traccia celtica e romana nelle sue istituzioni.
A dare nuova vita alla storiografia intervenne il riaccendersi della lotta tra whigs e tories intorno al Reform Bill. La prima opera sull'Inghilterra moderna, la Constitutional History from the accession of Henry VII to the death of George II di A. Hallam, è una requisitoria contro il dispotismo dei Tudor e degli Stuard, una glorificazione della rivoluzione del 1688, ma soprattutto un manifesto del partito whig. Il maggiore storico liberale dell'Inghilterra è stato però Th. B. Macaulay. Più agile dei "dottrinarî", egli ha narrato, nella sua History of England front the Accession of James II (1849-1861) e nei suoi Essays, come la saggia politica dei whigs, in antitesi al fanatismo puritano e al dispotismo degli Stuard, abbia dato all'Inghilterra libertà, prosperità e potenza. A sua volta il torismo trovò il suo campione in Alison, la cui History of Europe (1833-1842), denunciava i pericoli di ogni innovazione, definiva la rivoluzione francese pura anarchia distruttrice e dimostrava che la democrazia non può esistere e non è mai esistita.
L'opera più importante di questo periodo, la History of Greece (1846-1856) di G. Grote, unisce al rigore del metodo critico-filologico tedesco la passione politica del democratico, discepolo di Bentham e amico dei cartisti. Se altri aveva celebrato Atene come madre delle arti e della filosofia, egli ne esalta la grandezza politica, e scorge nella nuova e grande idea d'un popolo sovrano, composto di cittadini liberi e uguali, il contributo più prezioso recato dalla patria di Clistene e di Pericle all'umanità.
L'indirizzo del Niebuhr aveva trovato un discepolo in Th. Arnold, la cui History of Rome (1838-1841), vivace rievocazione, è rimasta un frammento. Fino a questo momento la storia romana era stata storia della repubblica. Il primo a dare una larga e solida storia dell'impero è Merivale, che nella History of the Romans under the Empire (1850) si è proposto di mostrare il mutarsi d'una rapace repubblica aristocratica in un benefico impero unitario.
Merivale appartiene ancora alla scuola del Gibbon. Questa persistenza della tradizione illuministica in Inghilterra in pieno sec. XIX spiega il fascino esercitato da Th. Carlyle, introduttore del romanticismo tedesco e nemico personale dell'illuminismo. Calvinista scozzese, cui l'illuminismo aveva tolto la fede, ma non la visione pessimistica della vita, egli ha recato nella storiografia un pathos tragico e apocalittico da profeta biblico. Lo stesso pessimismo calvinista ha ispirato le sue lezioni On Heroes, Hero-Worship and the Heroic in history (1841), che sono una rivolta contro l'utilitarismo e il liberalismo dei whigs, una prima protesta dell'individualismo contro la montante democrazia. Gli eletti della storia sono gli eroi, uomini di elementare energia, fortissime personalità sicure di sé; la causa vittoriosa è sempre la giusta. Questi principî gli hanno consentito di riconciliare gl'Inglesi con la figura di Cromwell (Oliver Cromwell's Letters and Speeche with elucidations, 1845), di rievocaare la personalità di Federico di Prussia (History of Friedrich II, called Frederick the Great, 1858-1865) in un brillantissimo ritratto del suo eroe, non della sua opera d'illuminato riformatore. Con Carlyle ormai si chiude l'epoca liberale della storia inglese: l'epoca della trasformazione dell'Inghilterra terriera e aristocratica in un'Inghilterra borghese, manifatturiera, bancaria. Egli è già il profeta del nuovo imperialismo colonizzatore e dell'espansione mondiale dell'lnghilterra di Cecil Rhodes e di Kitchener (Past and Present, 1843).
La storiografia della seconda metà dell'Ottocento è dominata dal problema sociale. I motivi romantici si sviluppano senza soluzione di continuità, ma entrano in una nuova atmosfera, dove le questioni economiche e la lotta delle classi fanno apparire in una luce più cruda la vita degli uomini e i loro rapporti. L'antitesi tra liberalismo borghese e democrazia radicale si fa aperta e netta. La borghesia prende ora a dubitare della bontà di quelle stesse dottrine, con cui aveva compiuto la sua ascesa, vuole riservato a sé, in quanto classe colta, l'esercizio delle libertà politiche o addirittura rinuncia ad esse, come fonti del sovvertimento e dell'anarchia. Il fattore economico, già intravisto dagl'illuministi, diventa ora criterio d'interpretazione della storia. Quel primato dell'economia sulla politica, che era stato affermato da Saint-Simon, era divenuto, per opera del suo discepolo, A. Comte, primato della "società" rispetto allo stato, e la storiografia era divenuta ricerca positiva delle leggi uniformi e costanti dell'accadere sociale, cioè, come "filosofia della storia", una parte della nuova scienza della società: della sociologia (Cours de philosophie positive, 1830-1842).
Il concetto economico è stato assunto a criterio diretto d'interpretazione dal "materialismo storico" di K. Marx (Das Kapital, 1867) e di F. Engels (Der Ursprung der Familie, des Privateigentums und des Staates, 1884), gli autori, nel 1847, del "Manifesto dei comunisti". Da Comte, ammiratore di De Maistre, derivò ad esso non soltanto il concetto della storia come processo della vita sociale, ma anche l'idea d'una nuova civiltà unitaria e organica; da Hegel l'idea del movimento dialettico necessario, della storia. In tal modo, adeguandosi allo storicismo del secolo, Marx poté predicare un socialismo "scientifico", poté dare alle masse operaie la coscienza di rappresentare una nuova fase della storia. L'avvento della società comunistica è garantito da lui in base a quella fatalità del movimento, per cui già dalla società agrario-feudale del Medioevo si era passati alla società capitalistico-borghese. Marx ha introdotto nella storiografia il concetto di classe, ha visto nelle guerre, rivoluzioni, movimenti religiosi, sistemi politici e giuridici, il fondo economico. Portando però all'estremo tale scoperta, ha promosso il fattore economico a principio motore esclusivo e ridotto scienza, religione, morale, ideali politici e nazionali, a prodotti derivati e secondarî, a utili strumenti della lotta di classe. Egli è uno dei maestri del pragmatismo e insieme dello storicismo: ha dato il colpo di grazia al "diritto di natura" e alle "leggi naturali" dell'economia classica, proclamando che non vi sono categorie assolute e leggi eterne, ma soltanto prodotti storici transitorî con i quali gli uomini sanzionano e "verbalizzano" le loro relazioni sociali determinate dalla tecnica e dall'organizzazione della produzione.
La rozzezza e la violenza della nuova epoca determinano un tentativo aristocratico di evasione. Questo distacco pessimistico dall'età dell'industrialismo e della lotta di classe diventa godimento individualistico della storia per sé stessa in J. Burckhardt, storico dell'arte e della "cultura". La sua classica Cultur der Renaissance in Italien (1860) interpreta per la prima volta il Rinascimento come un'epoca a sé, tra il Medioevo e l'età moderna, assegnandogli come inconfondibile carattere l'individualismo. Un altro esteta e "viaggiatore" come il Burkhardt in Der Cicerone è F. Gregorovius che nella Geschichte der Stadt Rom im Mittelalter (1859) esprime, come nei Wanderjahre in Italien, il suo rapimento per le rovine, l'arte e la spontaneità dell'arcadica vita popolare italiana: anche lui un evaso dal duro presente, che si rifugia nella rievocazione d'un pittoresco passato.
La storiografia francese della seconda metà dell'Ottocento è sotto l'inpressione diretta degli avvenimenti del '48 e del '70: essa dimentica i problemi formali del costituzionalismo, per guardare più a fondo, al disotto delle idee e dei principî, il moto delle forze sociali ed economiche.
L. Blanc, il socialista, che in Dix ans d'histoire franåaise (1841-44) aveva denunciato nel regime di Luigi Filippo il governo della borghesia corrotta dall'amore del lucro, nella sua Histoire de la révolution française (1847-1862) distinse due opposti movimenti: quello che, partito da Voltaire, si era espresso nella Costituente e nei girondini e non era che individualismo borghese, e quello che, partito da Rousseau e interrotto da Termidoro, era il grande movimento della fraternità, che conveniva riprendere.
A. de Tocqueville è il primo a porre il problema del suo tempo in termini sociali. Datosi a studiare le "cause" della Rivoluzione, trovò negli archivi provinciali la prova che una grande rivoluzione amministrativa aveva preceduto quella politica, sostenendo in L'Ancien Régime et la Révolution (1856) che la Rivoluzione non aveva fatto che sanzionare la progressiva centralizzazione della monarchia, riuscendo ad instaurare l'uguaglianza giuridica e l'uniformità amministrativa, ma sboccando nell'anarchia e nella dittatura militare, perché il desiderio d'uguaglianza era stato più forte del recente desiderio di libertà. Era implicita in questa conclusione del vecchio liberale la tendenza a connettere il bonapartismo con una deficienza della Rivoluzione. La polemica contro Napoleone III si estese così a una critica della Rivoluzione.
E. Quinet, esaminando dall'esilio le cause del fallimento della libertà nella Rivoluzione (La Révolution, 1865), le aveva indicate in una mancata riforma religiosa. Ma questa critica all'intero ultimo secolo, che comprendeva in un'unica condanna democrazia giacobina e bonapartismo, come due aspetti d'un unico errore, diventa esame di coscienza della nazione dopo la débâcle e la Comune. Allora anche uomini fino allora estranei alla politica sentirono il dovere d'intervenire.
E. Renan uscì dalla sua calma attività di orientalista e di storico della religione. Sulle orme di Michelet, ma sostituendo alla foga di costui la dolcezza dell'idillio, egli aveva ritenuto che compito dello storico fosse la rievocazione dell'anima del passato. Ma questo dilettante e stilista, che trattava le cose umane con sorridente senso di relatività, scrive dopo il disastro la Réforme intellectuelle et morale (1871), dove considera la Rivoluzione come una dissoluzione: abbattendo quella monarchia, che da otto secoli le aveva dato la grandezza, la nazione francese si era condannata a vivere in una steppa intellettuale.
La stessa critica è formulata da H. Taine. Propostosi, da freddo positivista, di esaminare virtù e vizî delle nazioni come prodotti naturali, aveva cercato, nell'Histoire de la littérature anglaise (1862), ricollegandosi a Montesquieu, di derivare anche le grandi personalità dalla razza, dal milieu e dal momento storico. I disastri della patria, distogliendolo dagli studî letterari, lo indussero a rivedere la recente storia della nazione. In Les origines de la France contemporaine (1875-1894) tutti i mali della Francia sono fatti risalire allo spirito "classico", inventato da Cartesio, al metodo non-scientifico, geometrico e vacuamente ottimistico dei letterati del sec. XVIII, che impedì una seria riforma organica secondo il modello inglese: democrazia giacobina e bonapartismo erano figli di questo errore. Taine dava così una teoria agli "opportunisti", ai fondatori della terza repubblica, all'alta borghesia orleanista di Thiers e di Ferry.
Quest'odio verso Voltaire e i "philosophes", chiamati responsabili di ogni forma di superficiale democrazia, si perpetua in G. Sorel, che nei suoi scritti denuncia la terza repubblica dreyfusarda, massonica, radicale, come la continuazione di quello spirito illuministico che aveva distrutto le severe virtù della vecchia Francia.
Il consolidarsi della Terza Repubblica, la relativa tranquillità della politica interna e la ripresa della sua politica estera, hanno fatto cessare, verso la fine del sec. XIX, la grande storiografia di partito. Il passato è stato esaminato con maggiore serenità e obiettività. L'indagine ha ripreso a fondarsi su accurate e metodiche ricerche d'archivio. Ma la serietà e la diligenza dell'informazione sono sempre accompagnate dal desiderio della sintesi o per lo meno da una certa eleganza e dignità della forma. Data però la vastità dei materiali e la necessità d'una speciale preparazione, questa storiografia è opera quasi esclusiva di professori, che si dànno alla pubblicazione di grandi storie collettive. Il metodo è largamente eclettico, con qualche speranza di trovare delle norme nella sociologia. Si mira soprattutto a spiegare gli eventi, senza giudicarli, e il sentimento prevalente è l'amore per la gloriosa storia di Francia in tutti i suoi eventi e in tutte le sue figure.
Il maestro di questa storiografia priva di tendenze, dotta, ostile agli schemi e alle formule è N.-D. Fustel de Coulanges, che da Tocqueville aveva appreso a considerare l'organizzazione politica come l'espressione del moto delle forze sociali. Sottraendo la storia antica alle interpretazioni di parte, ha mostrato nella Cité antique (1864) che la democrazia ateniese era dovuta a un processo che si sottraeva a qualunque azione individuale e che era connesso col dissolversi della vecchia fede, e nella Histoire des institutions politiques de l'ancienne France (1874-92) che le istituzioni feudali erano dovute non a errori di principi, ma a profonde trasformazioni sociali. Anche il giudizio verso la Rivoluzione si è fatto più spassionato. A. Sorel in L'Europe et la Révolution franåaise (1885-1904) compie ciò che Tocqueville aveva fatto per la politica interna: dimostra cioè che i rivoluzionarî furono i diretti eredi della tradizione monarchica nella richiesta delle "frontiere naturali", e, contro Taine, che la loro politica di guerra non fu dovuta a dilettantismo dottrinario, ma alla necessità di salvare la Francia dall'invasione straniera. La riabilitazione di Napoleone è stata compiuta, come difensore della patria, da H. Houssaye, come restauratore dell'ordine sociale e amico della pace da Vandal, come uomo privato da F. Masson. Contro le accuse mosse ai rivoluzionarî ha reagito, studiando la genesi e lo svolgimento dell'idea e delle istituzioni repubblicane e democratiche, A. Aulard (Histoire politique de la révolution franåaise, 1901). Il Secondo Impero ha avuto i suoi storici, non privi di preconcetti, in E. Ollivier e P. de la Gorce, la politica estera della Terza Repubblica è stata studiata da Ch. Seignobos.
Ampio sviluppo ebbero gli studî sulle antichità orientali (G. Maspéro), sulla civiltà bizantina (C. Diehl), sull'Africa romana (P. Gsell), sulla preistoria della Gallia (C. Jullian), sul cristianesimo antico (con diversità d'indirizzi, L. Duchesne, A. Loisy).
Caratteristica dell'attività della storiografia francese contemporanea sono le "sintesi" collettive, ivi più numerose che in altri paesi: l'Histoire de France (1900-1922) diretta da E. Lavisse; l'Histoire de la nation franåaise diretta da G. Hanotaux; l'Évolution de l'humanité, in 100 volumi, diretta da H. Berr; Peuples et Civilisations, diretta da L. Halphen e Ph. Sagnac; Histoire du monde, diretta da E. Cavaignac, ecc.
Nulla rivela l'iniziale povertà del moto liberale in Germania prima del '48, quanto la storiografia politica di quel periodo. Diffuso negli stati del sud-ovest, nel Baden, nel Württemberg, là dove l'amministrazione napoleonica aveva lasciato un'eredità non cancellabile, il liberalismo tedesco prequarantottesco ha carattere provinciale e piccoloborghese. Ancora non si è formata, in Sassonia e nella Renania, quella borghesia industriale di cui è araldo F. List. Domina in questi liberali la preoccupazione di mostrare che le proprie idee non erano un'importazione dall'estero, bensì erano radicate nella tradizione e nell'anima nazionale. Così G. G. Gervinus attaccherà, nella sua Geschichte des neunzehnten jahrhunderts seit den Wiener Verträgen (1855-1866) l'opera reazionaria del congresso di Vienna in nome d'un liberalismo "propriamente tedesco", fondato sulle "schiette virtù casalinghe".
I liberali-nazionali hanno considerato loro padre spirituale F. C. Dahlmann, un campione della monarchia moderata, che, sull'esempio dei "dottrinarî" francesi, compilò una Geschichte der englischen Revolution (1844) e una Geschichte der französischen Revolution (1845).
Dahlmann aveva avviato la nuova generazione verso l'ideale d'un impero tedesco liberale. Il fallimento di questo sogno, il '48, determinò una revisione profonda delle posizioni politiche e dei criterî storiografici. Insegnò soprattutto a togliere rigidità all'ideale, a renderlo relativo al momento storico. Di questo storicismo il massimo interprete è Th. Mommsen che si propose, con la sua opera, di educare politicamente il popolo tedesco. Egli rovescia entro la storia romana la sua ira delusa di patriota democratico, che vede il suo sogno di un forte stato nazionale fallire dinnanzi alle egoistiche resistenze di un'aristocrazia. Come Niebuhr, egli è un uomo d'azione e un uomo di parte, che si propone un problema del proprio tempo e del proprio paese. Dalla scuola liberale-nazionale egli si separa non soltanto per la sua tendenza democratica, bensì per il suo relativismo storicistico. I liberali-nazionali opporranno la dottrina del Machtstaat alla dottrina dello stato parlamentare: un ideale assoluto a un altro ideale assoluto. Mommsen ha invece eliminato l'idea d'una morale assoluta al disopra della storia, ma non è disinteressato e staccato come Ranke. Ranke si vietava di giudicare, egli invece giudica immergendosi negli avvenimenti: la sua Römische Geschichte (1854-1856) dà ragione a Cesare, non perché la monarchia militare fosse, in astratto, superiore al regime aristocratico-repubblicano, ma perché questo invecchiato regime si era dimostrato incapace di amministrare l'impero esteso ormai a quasi tutto il mondo.
Ciò che differenzia Mommsen da Niebuhr, oltre allo stile, è il metodo. La sua esperienza di giurista, numismatico, epigrafista, gli ha consentito di salire a una storia politica direttamente dai resti della vita sociale. Egli ha potuto toccare questo fondo senza aver bisogno d'interpretare criticamente le favole della tradizione letteraria. Dell'età imperiale si è occupato nel Römisches Staatsrecht (1871-1888), in cui ha chiarito che il regime di Augusto era una diarchia, cioè un compromesso, e in Die römischen Provinzen von Cäsar bis Diokletian (1885), in cui ha opposto alle accuse di Tacito e Svetonio l'ordine e la saggezza dell'amministrazione imperiale.
Mommsen ha avuto dei discepoli eruditi, non ha formato una scuola di storici. L'odio dei Tedeschi di ogni parte per Napoleone III screditò l'apologia del cesarismo, tentata da Mommsen. Anzi l'opposizione dei liberali-nazionali alle idee democratiche ne trasse nuovo alimento: essa infatti poté dimostrare che la democrazia conduceva fatalmente al cesarismo.
D'altra parte, nonostante il suo storicismo, Mommsen perseguiva un'utopia: praticamente erano più aderenti alle esigenze del momento storico i piccolo-tedeschi partigiani della Prussia.
La Deutsche Geschichte vom Tode Friedrichs des Grossen bis zur Gründung des Deutschen Bundes (1854-1857) di L. Häusser può dirsi il manifesto dei piccolo-tedeschi. È un inno alla "missione nazionale" della Prussia, in cui unico criterio di giudizio è il principio dell'unità.
L'uomo che ha vinto l'insincerità della conversione, piena di riserve, dei liberali-nazionali alla potenza prussiana, è il fondatore della scuola prussiana, J. G. Droysen. La forza militare-burocratica di uno stato non è più per lui una realtà opaca e oppressiva. Agl'ideali costituzionali, questo discepolo del pensiero politico di Hegel oppone il concetto dello stato fortemente organizzato e autoritario, solo capace di assicurare l'esistenza d'una nazione. Pertanto non accetta l'egemonia prussiana come un espediente estrinseco e temporaneo, bensì come il principio spirituale, che dovrà dare la sua impronta alla nazione tedesca.
Anche lui è andato a cercare conforto alla sua tesi nella storia antica. La sua Geschichte Alexanders des Grossen (1833), continuata nella Geschichte des Hellenismus (1836-1843), capovolge tutti i giudizî correnti: alle piccole repubbliche travagliate da lotte intestine e in particolare ad Atene, contrappone la forte monarchia macedone, senza la quale la civiltà greca non avrebbe conquistato l'Oriente, ma sarebbe soggiaciuta ad esso. Era evidente che la Macedonia della nuova Germania era per lui la Prussia. Nella Geschichte der preussischen Politik (1855-1886) affermò che la politica di espansione prussiana era stata al servizio dell'unità tedesca: era insomma un appello alla Prussia, affinchè questa riprendesse la sua missione.
Non politica, ma sociale è la premessa da cui parte H. v. Sybel. Di fronte ai tumulti del '48, alla ribellione socialista, tutto comprendere, come voleva Ranke, suo maestro, era anche tutto giustificare: Sybel si rifiutò di farlo. Vi sono, egli disse, idee e tendenze le quali offendono i presupposti stessi della convivenza civile e politica. Nei loro confronti l'impassibilità, la sospensione del giudizio, sarebbe una debolezza etica. Persuaso di obbedire non a un interesse di classe, ma alla storia medesima, egli formulò una dottrina che corrispondeva ai desiderî dell'alta borghesia: lo stato deve essere liberale verso le classi colte, severo verso le incolte. Con questo canone si diede a giudicare uomini ed eventi: la sua Geschichte der Revolutionszeit (1853-1858) indica al disotto delle lotte dottrinali dei partiti una rivoluzione reale, che si svolge non a Parigi, ma nel paese, anzi in tutta l'Europa, e che consiste in un processo di distruzione del vecchio irrazionale ordinamento feudale della proprietà, salutare distrazione fino al momento in cui, aprendo la strada all'anarchia delle masse, minacciò la stessa proprietà. Un episodio famoso della lotta tra piccolo-tedeschi e grandi-tedeschi, tra prussianesimo nazionalistico e universalismo austriaco è il suo discorso Über die neueren Darstellungen der deutschen Kaiserzeit (1859), nel quale gl'imperatori medievali, fino allora venerati come eroi nazionali, erano accusati di avere sacrificato gl'interessi della nazione a un sogno di universalità romana. Esso aprì una polemica protrattasi fino ai nostri giorni.
I principî di Droysen e di Sybel sono stati fusi in una vera e propria dottrina politica da H. v. Treitschke. Nemico del particolarismo federalistico, dell'Austria, del cattolicismo, delle memorie del Sacro Romano Impero, della democrazia, del socialismo, rinunciò apertamente all'idea liberale, quando si avvide che non era conciliabile con la monarchia prussiana. Il suo cocente patriottismo spinse lui, sassone, ad optare per la Prussia. La sua Deutsche Geschichte im 19. Jahrhundert (1879-1894) vuole dimostrare che la nuova Germania nasceva dall'incontro tra la cultura tedesca e la forza prussiana, tra lo spirito di Weimar e lo spirito di Potsdam. Si era proposto di dare al suo popolo una storiografia nazionale: in effetti egli è riuscito, nella descrizione delle forze molteplici che prepararono l'impero, a dare una visione d'una vita unitaria che si viene costituendo.
Chiusa l'età della Reichsgründung, anche la storiografia prese un andamento più riposato. Il nuovo stato tedesco, impero federale e non unitario, non rispondeva esattamente alle speranze del Treitschke. Il Kulturkampf rivelò quanto la coscienza del paese fosse ancora divisa. D'altra parte la creazione d'un'industria tedesca fece sì che tradizione militare prussiana e industrialismo renano e sassone trovassero un terreno di intesa nell'espansione economica, coloniale, marittima. Si ebbe così uno stato, che all'interno aveva bisogno di proseguire il processo di coesione e all'esterno di affermarsi come potenza. Tutto ciò spiega come la scuola prussiana abbia continuato a sussistere fino alla guerra mondiale e oltre. I suoi epigoni hanno continuato a celebrare il primato della potenza militare e a considerarsi gli educatori politici d'una nazione scarsamente politica. La storia nazionale fu ancora l'esclusivo loro tema, che però trattarono con maggiore serenità. La passione patriottica non era venuta meno, ma era dominata dalla volontà della verità scientifica.
Gli altri indirizzi della storiografia tedesca della seconda metà dell'Ottocento sono direttamente o indirettamente in antitesi alla scuola prussiana. Col suo prestigio questa ha determinato la figura anche dei suoi avversarî. Anzitutto la scuola grande-tedesca o austriaca. Lo stesso realismo politico si ritrova infatti nell'austriaco O. Lorenz, che giudica però dal punto di vista dell'Austria e rievoca nella sua Deutsche Geschichte im 13. und 14. jahrhundert (1863-67), contro il dogma dello stato nazionale, le origini dell'Austria, organizzazione politica conciliatrice di antagonismi nazionali. Ed è contro la tesi di Sybel che J. Ficker difende l'idea universalistica del Sacro Impero in Das deutsche Kaiserreich in seinen universalen und nationalen Beziehungen (1861). Questa corrente avrà una inaspettata ripresa ai giorni nostri con il Metternich e Deutsche Einheit 1935) di H. v. Srbik.
Altro indirizzo quello cattolico. Il futuro capo spirituale dei Vecchi Cattolici, J. v. Döllinger, aveva sostenuto nella sua Reformation, ihre innere Entwicklung und ihre Wirkungen (1840) che la Riforma era stata seguita in Germania da un'epoca di decadenza morale e intellettuale. J. Janssen a sua volta nella sua Geschichte des deutschen Volkes (1876 1888) attribuì le origini della Riforma alla politica dei principi diretta contro gl'interessi dei contadini e dei piccoloborghesi e specialmente all'introduzione del diritto romano: egli riusciva così a dare alla sua polemica antiprotestante carattere nazionale e democratico, recando sul terreno storiografico le tedenze del cosiddetto partito del centro. Suo discepolo, L. v. Pastor compose, su vastissime ricerche d'archivio, la monumentale Geschichte der Päpste (1886-1933), esaltazione della grandezza e maestà del papato.
In antitesi al carattere esclusivamente politico della scuola prussiana è la giovane scuola storica dell'economia, fondata da G. Schmoller, uno dei promotori, contro il conservatorismo di Treitschke, della legislazione sociale tedesca. In antagonismo alla scuola classica e alla scuola psicologica austriaca, lo Schmoller negava l'esistenza di leggi economiche, riducendo la scienza economica a storia dell'attività economica (Grundriss der allgemeinen Volkswirtschaft, 1900-1904). Per suo impulso s'iniziò una sistematica ricerca di documenti economici.
Gli stessi discepoli della scuola prussiana hanno preso a trattare la storia nazionale con maggiore scrupolo d'oggettività (come E. Marcks, M. Lehmann, H. Delbrück, F. Meinecke, K. Hampe).
Una nuova vitalità ebbe, tramontata la "Scuola di Tubinga", la storia del cristianesimo e della Chiesa (A. Ritschl, A. Harnack, A. Hauck, H. v. Schubert, J. Haller, E. Gothein). Né mancano le grandi collezioni, come l'Allgemeine Geschichte in Einzeldarstellungen diretta da W. Oncken.
A sé sta la cosiddetta Kulturgeschichte, per la quale K. Lamprecht battagliò con gli storici politici (D. Schäfer), in quanto significava la riduzione dello stato da fattore dominante a mero elemento della "cultura", ad essa subordinato. "Cultura" era per il Lamprecht l'insieme di società, stato, economia, moralità, diritto, poesia, arte, religione di un'epoca, dominato da un unico atteggiamento spirituale (Deutsche Geschichte, 1891-1901). Ma il Lamprecht pretendeva anche di ridurre la storiografia a scienza esatta, traendo cioè dai fatti le leggi biologiche dell'evoluzione storica. Siffatte leggi furono anche formulate da K. Breysig in una teoria ciclica delle culture (Der Stufenbau und die Gesetze der Weltgeschichte, i904). Sono le idee di una morfologia delle culture che furono riprese, con clamoroso successo, da O. Spengler nell'Untergang des Abendlandes (1922), dove appunto sulla base di una siffatta teoria ciclica viene preconizzata la fine della civiltà "faustiana", cioè della nostra.
La storiografia inglese della seconda metà dell'Ottocento rivela una diretta dipendenza da idee e metodi nati ed elaborati nel continente. Appare quindi scarsamente originale e spesso arretrata di parecchio. Anche là dove si fa interprete di un nuovo orgoglio nazionalistico, ripiega su Grimm e sul teutonismo romantico, come la sua nuova coscienza imperiale è un riflesso del pensiero di Ranke; l'adozione del metodo critico appunto un'adozione della critica tedesca delle fonti e l'indirizzo positivistico un'eco della sociologia di Comte. Il progresso non consiste pertanto nel contributo originale al pensiero storiografico europeo, bensì soltanto nella rottura dei vecchi schemi, nella cessazione dell'isolamento.
Il metodo critico entrò in Inghilterra con la cosiddetta scuola di Oxford, di cui fanno parte W. Stubs, E. A. Freeman e J. R. Green. Sul modello del Waitz, W. Stubs pubblicò magistrali edizioni delle fonti del Medioevo inglese. La sua Constitutional History of England (1874-1878) è fondata sulla persuasione che la sorgente d'ogni dignità e indipendenza sono le istituzioni germaniche, recate dagli Anglosassoni. E. A. Freeman, nella History of the Norman Conquest of England (1867-1879) cercò di mostrare come le istituzioni anglosassoni si siano mantenute anche sotto i Normanni e abbiano dato origine al selfgovernment. J. R. Green ha dato con la sua History of the English People (1877-1880) una vivida epopea del popolo inglese, dove come protagonista appare l'umile massa anonima operante al disotto del mutevole avvicendarsi di dinastie e di partiti.
Dalla sociologia di Comte proviene il tentativo di H. Th. Buckle di rinnovare la storiografia su basi "scientifiche", cioè con i metodi proprî delle scienze naturali. Della sua History of Civilisation in England (1857-1861) non è apparsa che la parte introduttiva, programmatica. Essa considera, sull'esempio di Comte, il progresso della civiltà come avanzamento intellettuale, scientifico, e si propone di trarre delle leggi dalla storia, analoghe a quelle della fisica. La sua importanza consiste soltanto nell'avere provocato, in Germania, la discussione sulla differenza di metodo tra "scienze dello spirito" e scienze naturali, che è lo spunto del pensiero di Dilthey, Windelband, Rickert e M. Weber. Più fine e profondo è L. Stephen, autore d'una History of English Thought in the Eighteenth Century (1876), in cui ha dato un quadro vivo e unitario della lotta tra deismo e ortodossia nel Settecento inglese.
Ma il maggiore storico inglese di questo periodo, e quello che più risente l'influenza di Ranke, è J. R. Seeley, lo "storico dell'imperialismo". C'era in lui il senso dell'attualità della storia, ma ancora didatticamente intesa come preparazione alla vita politica. Perciò egli si volgeva alla storia moderna (The Expansion of England, 1883; Growth of British Policy, 1895), quella appunto più utile all'uomo di stato, insegnando agli Inglesi che la loro storia non era quella di un'isola, ma d'un impero, e disegnando le linee dello sviluppo della potenza britannica in tutte le parti del mondo.
Affine a Fustel de Coulanges è F. W. Maitland (History of English Law up to the time of Edward I, 1895, scritta con l'aiuto di F. Pollock), un giurista che però considera i documenti legali come la migliore e talvolta l'unica testimonianza della storia sociale ed economica, della storia della vita morale, della storia della religione pratica. Nei tre saggi Domesday Book and Beyond (1897) prese parte alla polemica tra romanisti e teutonisti sulle origini delle istituzioni inglesi, sbarazzando il problema dalle pregiudiziali di razza.
Anche l'Inghilterra ha avuto i suoi lavori d'insieme redatti da specialisti: la Social England, a record of the progress of the people (1893-1897), a cura di H. D. Traill e T. S. Mann; la Political history of England (1905-1910), diretta da W. H. Hunt e R. L. Poole; la History of England (1905-1915), diretta da sir Ch. Oman, e infine le collezioni di Cambridge: Cambridge modern history, Cambridge history of English literature, Cambridge medieval history, Cambridge history of India.
In Italia il disastro del '48 fu una lezione di realismo. Esso schiarì l'aria dalle ideologie neoguelfe ed ebbe come conseguenza immediata una revisione delle posizioni ideali. Il Gioberti nel Rinnovamento d'Italia (1851) abbandonò papato e idea federale per convertirsi alla monarchia piemontese e all'idea dell'unità. Cessa ogni interesse per il lontano Medioevo, si rinuncia alle grandi costruzioni, non ci si preoccupa di stabilire la funzione dell'Italia nella tradizione civile europea, ma si volge lo sguardo alla storia recente, ai "casi" e alle condizioni reali del paese negli ultimi decennî.
I patrioti italiani non ebbero bisogno di fare delle sostanziali abdicazioni, come quelli tedeschi. Il Piemonte, la forza politica reale cui ora si rendeva omaggio, non era sentito, come la Prussia dai liberali tedeschi, uno strumento indispensabile ma repellente, bensì rappresentava già, nei suoi ordinamenti, quell'ideale politico cui si voleva sollevare l'intera patria. Il problema dell'unità viene sollevato da Cavour sul piano della politica europea, ma il nemico, l'Austria, non è soltanto una potenza rivale, bensì anche l'avversario ideologico, la roccaforte della reazione. D'altra parte lo stato arretrato della vita economica, la mancanza d'industrie, di un proletariato operaio, di lotte di classe, impediscono che il mivimento politico dell'unità sia intersecato da agitazioni sociali. La democrazia mazziniana era del pari una sconfitta del '48, e i primi accenni socialistici, quali i Saggi politici-storici-militari sull'Italia (1850) di C. Pisacane, rimasero affatto isolati e senza eco.
Tutto ciò spiega la "decadenza" degli studî storici in Italia nella seconda metà del secolo. Senza un vigoroso interesse politico e senza un interesse sociale, il realismo si rifletté sulla storiografia in senso puramente negativo come ostracismo alle "idee", alla "filosofia della storia" dalle grandi interpretazioni e alle schematiche deduzioni. Il rinnovato culto del "fatto", dell'empirica realtà documentata, non fu un ritorno alla filologia, ma soltanto al metodo filologico, ché mancarono l'afflato romantico della filologia tedesca e la passione politica della critica di Niebuhr e di Mommsen, malamente sostituiti dalla nuova fede positivistica nel valore e nell'utilità delle scienze naturali e tecniche.
Ultima a resistere all'ondata di positivismo quella scuola hegeliana di Napoli, che aveva recato alla formazione del nuovo stato italiano un austero concetto dello stato, non però un'anima rinnovatrice. Appartiene ad essa, entro certi limiti, la Storia della letteratura italiana (1870-1871) di F. De Sanctis. Il suo concetto della forma plasmatrice d'una materia, cioè d'una realtà storica, gli permise di evitare il concetto dell'opera d'arte come "documento" storico, la distinzione, da altri seguita, tra valore "storico" e valore "estetico". Con maggiore secchezza B. Spaventa ha rifatto nella Filosofia italiana nelle sue relazioni con la filosofia europea (1862) la storia del pensiero italiano dal Rinascimento, ricongiungendola al moto generale europeo. Tuttavia proprio questo sforzo di mostrare le premesse indigene del hegelianismo rivelano la debolezza del movimento, che non aveva dietro a sé quel travaglio teologico protestante, di cui si era alimentato il pensiero di Hegel.
Un superstite d'altri tempi è G. Ferrari, l'autore dell'Histoire des révolutions d'Italie (1857), che, ripropostosi il problema dell'unità della storia italiana, già discusso dai neoguelfi, scoprì che tale unità era data dalle rivoluzioni italiane, cioè dalla perpetua lotta tra guelfi e ghibellini. Tale "scoperta" avrebbe potuto portare a un'interpretazione dialettica della storia d'Italia, liberata dalla staticità d'un solo "principio" se non fosse stata anch'essa uno statico dualismo, che riduceva, con violenza arbitraria e con abuso delle analogie, il movimento a uno schema sempre identico.
Se, come si è detto, la filologia italiana, che si sostituì alla "filosofia della storia" appare povera di pensiero, essa tuttavia rispondeva esattamente a quel periodo politico dell'Italia: periodo di ordinaria amministrazione, ma anche di proficuo e in parte oscuro lavoro di organizzazione civile ed economica. Vi è in questi lavoratori indefessi, che si rendono spesso conto della modestia dei risultati cui tendono, il culto dell'onestà, dell'ordine, della disciplina intellettuale. E vi è anche un sostanziale patriottismo, che spinge a sollevare la scienza italiana al livello di quelle straniere, specialmente della tedesca, e a liberarla da quanto poteva apparire romantica improvvisazione, faciloneria o sciattezza dilettantesca. Uomini come A. D'Ancona, A. Bartoli, G. Carducci, D. Comparetti, E. Monaci, P. Rajna, G. Vitelli, s'imposero, nel mondo scientifico europeo, non soltanto. per il rigore del metodo e la dottrina, ma anche per la solidità del carattere. Questa severità si manifestò anche nella caccia spietata alle false storie, ai falsi miti, alle false grandezze. Il volto del passato risultò meno poetico, ma più nitido.
Quando dalla critica ed edizione dei testi si passò alle opere di sintesi, anche la storiografia positivistica dovette ricorrere a principî direttivi trascendenti la materiale oggettività del documento. E qui si nota una grande pluralità di criterî e interessi: nella Storia di fra Girolamo Savonarola (1859-1861) e nel Niccolò Machiavelli e i suoi tempi (1877-1882) P. Villari seguì un criterio moralistico; G. de Leva nella Storia documentata di Carlo V in correlazione all'Italia (1863-1894) s'interessa sopra tutto della questione religiosa; nel suo Virgilio nel Medioevo (1872) D. Comparetti affronta il grande problema della sopravvivenza della cultura antica in quella medievale; G. de Blasiis nella Insurrezione pugliese e la conquista normanna nel sec. XI (1864-1873) descrive, esaltandola, la formazione del regno meridionale; F. Lanzani nella Storia dei comuni italiani dalle origini al 1313 (1882) segue il criterio della latinità contrapposta alla germanicità; F. Tocco apre un nuovo campo di ricerche con L'eresia nel Medioevo (1882-83), intuisce il valore storico del mito politico, ma non sviluppa questo concetto; E. Pais sottopone nella Storia d'Italia dai tempi più antichi alla fine delle guerre puniche (1894-1898) le fonti della storia romana a una critica sistematica insistendo sul carattere d'italianità di questa storia; A. Crivellucci nella Storia delle relazioni tra lo Stato e la Chiesa (1885-1886) segue il criterio della totale separazione di Stato e Chiesa.
Sta a sé La lotta politica in Italia (1892) di A. Oriani. Essa si riallaccia direttamente alle passioni del Risorgimento e insieme rappresenta la prima revisione critica del Risorgimento stesso, che intende come risultato d'un processo secolare e d'altra parte come un problema ancora parzialmente insoluto. Dal Ferrari l'Oriani tolse il concetto dell'antitesi di unità e federalismo, ma lo vivificò con la dialettica hegeliana. Egli si è posto l'ansiosa domanda del compito cui era chiamata la nuova Italia nell'Europa e nel mondo moderni, e della nuova idea di cui essa si sarebbe fatta portatrice. Con lui, ammiratore di Crispi, il periodo dell'assestamento interno sta precipitando alla conclusione. Naturalmente la sua opera, che ignorava le prudenze del metodo critico ed era animata dal pathos della storia, da un severo concetto della lotta politica come fatale conflitto d'idee e di forze, non fu presa in considerazione dagli storici professionali del suo tempo.
Contemporaneamente a questo primo risveglio d'un interesse politico, si ha il primo formarsi d'una coscienza dei problemi sociali. Delle condizioni economiche del popolo italiano, della cosiddetta "questione meridionale", dell'opera che ancora attendeva il nuovo stato italiano in questo campo, erano stati consapevoli un po' tutti gli uomini del positivismo a cominciare dal Villari. Ma soltanto la formazione d'un'industria e quindi d'una classe operaia negli ultimi decennî del secolo XIX, la nascita del partito socialista, le agitazioni e i tumulti che scossero il paese da Milano alla Sicilia, volsero l'attenzione degli storici all'elemento sociale-economico della storia.
Un discepolo della scuola hegeliana, A. Labriola, osò riprendere nel 1887 i problemi della filosofia della storia e nei suoi Saggi sulla concezione materialistica della storia (1895-1898) espose la dottrina del materialismo storico non come una nuova schematica filosofia della storia, bensì come un nuovo metodo di ricerca, risolutamente ripudiando ogni contatto col positivismo di H. Spencer. E ripudiava ogni facile costruzione, protestando il suo rispetto per l'indagine filologica, salvo però a vedere in questa solo una premessa della vera storiografia, che il Labriola intendeva essenzialmente come intelligenza dei problemi e degli eventi attuali.
La storiografia italiana prese immediatamente a rinnovarsi sotto lo stimolo delle nuove idee, ad applicare cioè quel metodo critico-filologico, che la scuola positivista le aveva recato, alle indagini sulla popolazione, le classi, l'agricoltura, i commerci, i prezzi, le industrie e le banche. G. De Sanctis, in 'Ατϑίς, Storia della repubblica ateniese e nella sua Storia dei Romani (1907) e M. Schipa nel Regno di Napoli sotto Carlo Borbone (1904) presero a tener conto del fattore economico, pur non aderendo alla dottrina materialistica. Vi aderirono invece F. Ciccotti, storico della Grecia antica, e G. Salvemini, che interpretò le vicende del comune fiorentino alla luce del principio della lotta di classe (Magnati e popolani in Firenze dal 1280 al 1295, 1899).
La storiografia del Novecento è caratterizzata dallo sforzo di superare il materialismo storico e, quindi, dalla riaffermazione del valore delle idee e della vita etico-religiosa. Non ha contestato la validità della scoperta della realtà economica, ma ha criticato la pretesa di voler trasformare una verità particolare, tratta da un determinato ordine di cose e di questioni, in un canone universale di spiegazione.
Quest'affrancazione avviene, in Francia, specialmente ad opera di H. Bergson, dal pragmatismo del quale G. Sorel ha tratto qualche ausilio per la sua revisione del marxismo (Réflexions sur la violence, 1907).
La rivendicazione della spiritualità della storia è stata compiuta in Germania dalla Geistesgeschichte, fondata da W. Dilthey, che ha esaltato l'opera dei poeti e dei filosofi, creatori di stati d'animo collettivi e di visioni della vita, e ha analizzato la storia d'Europa nelle sue grandi forze spirituali. Avendole però classificate in tre tipi di Weltanschauungen, ai quali ha conferito carattere permanente, ha recato alla storiografia tedesca il concetto sociologico di "tipo": così ha interpretato il Rinascimento come il violento distacco dei tre tipi, che nella metafisica medievale sarebbero stati tra loro inviluppati (Analyse des Men schen seit Renaissance und Reformation, 1913). La Geistesgeschichte, separando lo "spirito" dalla "realtà" politico-economica, che ha voluto ignorare, ha conferito allo spirito stesso una natura evanescente, e, applicandogli lo schema tipologico, ha aperto le porte al relativismo, cioè alla concezione di una pluralità di strutture mentali, tutte equivalenti. La storiografia tedesca ha pertanto acquistato carattere di sociologia o tipologia. M. Weber ritenne di avere trovato nel concetto di "tipo ideale" lo strumento per l'interpretazione della storia economico-sociale. E. Troeltsch ha impiegato il concetto di tipo nella sociologia delle chiese e delle sette cristiane (Die Soziallehren der christlichen Kirchen und Gruppen, 1912). Ma la tesi più clamorosa del Weber (Ges. Aufsätze zur Religionssoziologie, 1920-21), ripresa dal Troeltsch, è quella che pone le origini del capitalismo moderno nel dogma calvinistico dell'elezione e nel conseguente ascetismo puritano del lavoro e del profitto. In tal modo un fenomeno tipicamente economico, quale il sorgere dell'industrialismo moderno, risultava dovuto a un principio mistico-ascetico, cosicché la teoria materialistica veniva capovolta. La tesi sollevò molte obiezioni, in particolare da parte dei difensori dell'etica calvinistica (H. M. Robertson, The rise of Economic Individualism, 1933), ma rimase nella storiografia il concetto dello "spirito borghese". Così, nelle sue premesse etico-religiose, ha studiato tale spirito B. Groethuysen (Origines de l'esprit bourgeois en France, 1927). Anche altri storici dell'economia sono entrati in quest'ordine d'idee: G. v. Below e W. Sombart.
La storia della formazione del Reich tedesco, studiata fino allora prevalentemente nel suo lato politico-militare, è stata interpretata da F. Meinecke nel suo aspetto di storia d'idee, come trapasso dall'ideale cosmopolitico a quello dello stato nazionale (Weltbürger um und Nationalstaat, 1908). Sempre il Meinecke ha composto la storia dell'idea della ragion di stato (Die Idee der Staatsraison in der neueren Geschichte, 1924) e dell'idea d'individualità e di svolgimento, confluenti nello storicismo moderno (Die Entstehung des Historismus, 1936). A sua volta l'austriaco H. v. Srbik ha scorto l'unità della storia tedesca nella coesistenza dell'idea universalistica, della medio-europea e della nazionale (Deutsche Einheit, 1935). Dopo le ricerche degl'inglesi R. W. e A. I. Carlyle sulle dottrine politiche medievali (A History of mediaeval political theory in the West), A. Dempf ha tracciato la storia dell'idea dell'Impero Sacro dai primordî del cristianesimo al Rinascimento (Sacrum Imperium, 1929). K. Burdach in Reformation, Renaissance, Humanismus (1926) ha indicato l'origine comune delle idee di Rinascita e di Riforma nell'aspirazione a un rinnovamento interiore, precedente alla rivalutazione dei classici e avente le sue prime manifestazioni in Gioacchino da Fiore e Cola di Rienzo. Dell'idea di "renovatio" e della sua efficacia sulla politica degli Ottoni si è occupato P. E. Schramm (Kaiser, Rom und Renovatio, 1929). K. Vossler ha ricostruito il mondo d'idee dantesco (Die göttliche Komödie, 1907-1910).
La reintegrazione dei valori dello spirito è andata però trasformandosi in un'esaltazione dei fattori irrazionali, delle convenzioni e delle mode o addirittura degl'istinti delle razze. H. Wölfflin, lo storico dell'arte svizzero, ha fortemente influito sulla storia della cultura interpretando da prima l'arte del Rinascimento e del Barocco dal punto di vista dell'etichetta (Die klassische Kunst, 1898) e derivando poi la diversità di classico e barocco da due diversi "sensi della forma", italiano e tedesco (Italien und das deutsche Formgefühl, 1931). Seguendo questo indirizzo si è creduto di trovare delle affinità tra Barocco, Romanticismo e arte nordica primitiva, e si è contrapposta la dinamicità pittoresca del loro stile alla staticità plastica dello stile classico.
L'olandese J. Huizinga ha descritto l'ideale di vita bella, le convenzioni cavalleresche e cortesi del ducato di Borgogna, e la loro efficacia sulla vita sociale, religiosa, politica della fine del Medioevo (Herbsttij dei Middeleeuwen, 1919).
Il fastidio verso le interpretazioni sociali della storia ha provocato, come reazione, un'aristocratica ed estetizzante celebrazione della luminosa personalità. La scuola formatasi intorno al poeta St. George si è posta a rievocare la figura dell'eroe e ha finito col ridurre la storiografia a mitologia: vedi le opere di F. Gundolf, E. Kantorowicz, E. Bertram. Nietzsche medesimo ha avuto una rinnovata fortuna, specialmente con la sua accettazione tragica del destino, con la sua sarcastica negazione degl'ideali cristiani e umanitarî, con la sua distinzione di morale servile e morale signorile, che è stata adottata dagli scrittori del nazionalsocialismo per definire l'"anima nordica", come le teorie del Gobineau e di H. St. Chamberlain sono state riprese per interpretare la storia sulla base del "sangue" e della razza.
In generale tra il pubblico europeo, cui è preclusa la storiografia scientifica, si è andato ridestando negli ultimi anni l'interesse o addirittura la curiosità per i grandi personaggi storici. Non sono mancate le grandi biografie, condotte con serietà di metodo (J. Bainville, H. v. Srbik, J. Huizinga, C. Burckhardt), ma la voga predominante è stata quella delle "vite romanzate" (E. Ludwig, St. Zweig, L. Strachey, A. Maurois).
Una via propria, e tuttavia non indipendente dalle correnti della storiografia contemporanea, ha percorso l'indagine degli storici indipendenti.
Qui alle concezioni proprie del protestantesimo liberale si sono sostituite interpretazioni più larghe e concretamente storiche: dell'immagine di un Gesù puramente moralista e deista e della raffigurazione di uno sviluppo unilineare della Chiesa, della sua costituzione e del dogma, stanno prendendo il posto valutazioni più profondamentc religiose, ponendo - tra l'altro - in maniera precisa il problema dei rapporti tra il cristianesimo e la religiosità mistica dell'Oriente e del mondo ellenistico (A. Loisy, F. Cumont, W. Bousset, R. Reitzenstein, F. Loofs, H. Lietzmann). Un più vivo interesse per le questioni di storia religiosa si viene affermando anche in Italia.
Qui, dove G. Mosca, con i suoi Elementi di scienza politica (1895), aveva sostituito al concetto di classe economica quello di élite politica, rifiutandosi di scorgere nelle credenze e dottrine mere traduzioni astratte d'interessi economici, sul terreno proprio della storiografia si è sviluppata, dal seno del materialismo storico, la cosiddetta scuola economico-giuridica.
La stessa preparazione paleografica e diplomatica, che la scuola aveva ereditato dalla positivistica, ha dato modo a G. Volpe di avvertire l'estrema complessità e varietà della vita rendendo insofferente verso gli schemi di qualsiasi genere. I suoi Studi sulle istituzioni comunali di Pisa (1902) e in generale l'esame del problema dell'origine del Comune (Questioni fondamentali sull'origine e svolgimento dei Comuni italiani, 1904), rivelandogli la molteplicità delle istituzioni comunali, lo hanno condotto a una sorta di empirismo o nominalismo storico, che mira a cogliere non le cause, ma i momenti infinitamente varî di un fluido processo. Questo processo però gli si è andato presentando come un graduale sviluppo, come una lenta, ma costante formazione di novità, cioè come l'anonima e collettiva costituzione e ascesa del popolo italiano.
ll Volpe ha chiaramente riconosciuto come effetto della guerra il suo rinato interesse per la storia politica e ha mirato a una nuova sintesi sociale-politica (Momenti di storia italiana, 1925); soprattutto ha dato a quella visione organica del processo di formazione del popolo italiano, che già possedeva, il carattere di storia della nazione (Il Medioevo, 1926), esaminando l'azione dei ceti dirigenti del Risorgimento in L'Italia in cammino: l'ultimo cinquantennio (1927), che ha avviato i suoi studî sulla storia del fascismo.
La critica più rigorosa al materialismo storico, e indirettamente alla scuola economico-giuridica, la venuta dall'idealismo storicistico del Croce e del Gentile, che considera come forza viva della storia la cultura intesa come vita morale: circolo di pensiero e azione nel primo, identità nel secondo. La dottrina del Mosca dell'élite ha così acquistato nuova vita e soprattutto una giustificazione morale. Dopo una prima fase erudita, B. Croce è giunto attraverso la critica del marxismo (Materialismo storico ed economia marxistica, 1900), che ha ridotto a mero canone d'interpretazione, e una revisione della dialettica hegeliana (Ciò che è vivo e ciò che è morto della filosofia di Hegel, 1907: ora Saggio sullo Hegel), alla distinzione delle forme dello spirito. Ha in tal modo inteso la realtà economica non come un principio estrinseco, che determini la vita dello spirito, bensì come una delle attività fondamentali dello spirito stesso. E poiché queste attività - l'estetica, la logica, l'economica, l'etica - trapassano ciclicamente l'una nell'altra, nessuna di esse è centro, ma tutte assieme compongono l'unità-totalità della vita. Della dialettica hegeliana, cui ha tolto lo schematismo, ha conservato il concetto della storia come lotta e svolgimento. Però dal Vico (La filosofia di Giambattista Vico) ha ripreso l'esigenza della conversione della filologia in filosofia, cioè d'una storiografia filologicamente preparata e filosoficamente pensata. D'altra parte, esigendo che la storiografia nasca dai problemi del presente, appassionatamente sofferti, ha proclamato l'attualità di ogni storia (Teoria e storia della storiografia, 1916). Riallacciandosi alla tradizione del De Sanctis, ha scorto nei personaggi storici non individualità chiuse, bensì il concretarsi dell'universale nell'individuale. Infine proclamando che la filosofia non è altro che metodologia della storiografia, ha eliminato ogni trascendente metafisica, ogni dualismo, e ha conferito alla storia dignità di storia sacra dello spirito. Considerando lo stato come organismo pratico, che però incessantemente subisce l'azione della vita etica, il Croce è andato attuando il suo ideale d'una storiografia etico-politica (Storia del regno di Napoli, 1925; Storia d'Italia dal 1871 al 1915, 1928; Storia d'Europa, 1932).
Rivedendo a sua volta la dialettica hegeliana (La Riforma della dialettica hegeliana, 1913), G. Gentile è giunto al concetto del divenire come atto puro dello spirito, cioè perenne attuarsi e superarsi. Questa realtà instabile e irrequieta non è però arbitrario susseguirsi di stati d'animo fugaci, bensì sforzo e conquista progressiva realizzazione, sorretta e alimentata dal passato, che tuttavia nega e supera. E poiché tale vita è pensiero, che incessantemente si pone problemi concreti e compiti storicamente attuali, la filosofia cessa dall'essere mera contemplazione, si rifiuta di cedere agli uomini pratici il mondo, per farsi essa stessa vita, cioè creazione e azione, lotta politica. Si comprende quindi come il Gentile abbia voluto ridare una coscienza filosofica all'Italia, dandole prima di tutto nozione del suo passato speculativo, riprendendo cioè la tradizione dello Spaventa; dedicandosi a investigare la storia del pensiero italiano nella sua originalità e insieme nelle sue relazioni col pensiero europeo, egli non ha obbedito a semplice affetto o a mero interesse intellettuale, bensì all'energica consapevolezza del proprio concreto dovere di operare nella realtà storicamente definita, entro cioè la tradizione spirituale della nazione (Rosmini e Gioberti, 1898; Dal Genovesi al Galluppi, 1903; Giordano Bruno e il pensiero del Rinascimento, 1920; Il tramonto della cultura siciliana, 1918; Le origini della filosofia contemporanea in Italia, 1917-23; I profeti del Risorgimento, 1923; Gino Capponi e la cultura toscana nel sec. XIX, 1922).
L'influenza dell'idealismo sugli studî storici è stata vasta e profonda. Essa, pur in varia misura e determinando atteggiamenti diversissimi, si è fatta sentire anche sull'opera di storici che anche in opere della loro maturità avevano seguito indirizzi diversi, come G. de Sanctis, negli ultimi volumi della Storia dei Romani, P. Egidi, uscito, con P. Fedele, da quella scuola di E. Monaci alla quale si deve anche l'impulso alla raccolta e pubblicazione delle fonti (Fonti per la storia d'Italia, dell'Istituto storico italiano, onde le continuazioni più recenti; nuova edizione del Muratori: indirizzo cui è associato anche il nome di un paleografo insigne, lo Schiaparelli), N. Rodolico, M. Schipa. In rapporto alle indagini sulle minoranze dirigenti, e all'interesse sempre suscitato dalla storia del diritto - da Pertile a F. Schupfer a Brandileone - si è avuta una vivace ripresa della storia delle dottrine politiche, con l'opera varia di F. Ercole, di A. Solmi. La storia del Risorgimento, uscita già dalla fase "agiografica" per merito di studiosi quali V. Fiorini, M. Rosi, A. Luzio, è oggetto da più parti di una revisione critica, la quale pure non ignora - come tutti gli altri rami della storiografia italiana recentissima - le preoccupazioni teoriche e i problemi posti da una visione più concreta, più ricca, più larga. Il senso della romanità, ravvivato dal fascismo, ha dato nuovo impulso - insieme con la rinnovata filologia - agli studî sulla storia di Roma, e in particolare dell'Impero. Nel quale campo rimane ancora da segnalare, fuori d'Italia, la poderosa opera di M. Rostovtzeff (Social and economic history of the Roman Empire), che alla storia dell'Impero ha applicato il concetto della classe dirigente economico-politica, mentre per altri aspetti ha suscitato discussioni vivaci e feconde.
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