Storia
di Giovanni Pugliese Carratelli, Giuseppe Galasso
STORIA
Storia di Giovanni Pugliese Carratelli
sommario: 1. Res gestae e historia rerum gestarum. 2. Wilhelm von Humboldt e Johann G. Droysen. 3. Da Giambattista Vico a Benedetto Croce. 4. Il materialismo storico. 5. Filologia e storiografia. 6. Storiografia positivistica e sociologica. 7. Le ‟Annales". 8. Definizioni della storia. 9. Euristica. 10. Aspetti e figure della storiografia del Novecento. □ Bibliografia.
1. Res gestae e historia rerum gestarum
L'ambivalenza, spesso rilevata, del termine ‛storia' (ἱστορία, hiytoria, e analogamente Geschichte), col quale si designa cosi l'indagine sulle res gestae come lo svolgersi di queste (intendendosi ovviamente come res gestae tutto ciò che è opera dell'uomo, τὰ γενόμενα ἐξ ἀνϑρώτων, dunque le idee non meno che le azioni nelle quali le idee si manifestano), è indice di una lunga esperienza: nel corso di secoli, infatti, ogni mente riflessiva ha constatato come le vicende umane si presentino, tanto nel loro proprio tempo quanto nei tempi successivi, nelle forme e nei termini in cui le vedono e descrivono, o le ricordano o ricostruiscono, i protagonisti, i contemporanei, i posteri. Non è dato, insomma, scindere τό γενόμενον dalla visione che ne ha e dall'interpretazione che ne dà chi lo ha vissuto oppure conosciuto, quale che sia il tempo intercorso: una necessità a cui non si sottraggono le idee, che una volta espresse vivono di vita propria, legate ai nomi ma non più agli intendimenti dei loro autori. Ma pur nella constatazione di questa inscindibilità, la diversità delle visioni e delle interpretazioni di un medesimo atto o pensiero implica una distinzione delle res gestae dalla loro historia.
Di ciò consapevole, lo storico sa parimente che le testimonianze, immediate o mediate che siano, sulle res gestae ch'egli considera, non seno ancora, per lui, historia; e che anche quando sia intervenuta un'indagine critica, e la notizia dei fatti gli pervenga per un tramite storiografico, nessuna autorità può esimerlo dal rinnovarne l'esame: perché l'indagine storica, che ha la sua fonte vera e primaria nella coscienza umana, non è quel che vuol essere se non è condotta con criterio individuale e quindi originale e con quell'impegno dialettico che solo può addurre a certezza.
Qui il discorso investe il problema di quel che è il compito dello storico e insieme il modo e la via per assolverlo. E il problema del compito del soggetto, lo ἱστοριογρὰϕος, è immediatamente connesso con quello della definizione dell'oggetto, la ἱστορία. Ovviamente questo duplice problema si è presentato, e ha trovato innumeri e differenti soluzioni, in tutto il corso della storiografia, dai giorni di Ecateo e di Erodoto ai nostri. È opportuno avvertire, preliminarmente, che non v'è pensatore che non si sia proposto di chiarire, sistematicamente o meno, il senso della storia. Ne è evidente la ragione: ogni filosofia, quando non si trasformi in teologia o in cosmologia metafisica, o in psicologia (spesso inconsapevolmente autobiografica), non può prescindere dall'esperienza degli altri uomini, in tutto il corso che ne è riconoscibile, e dai problemi che la ricognizione di essa pone, per tutto ciò che attiene ai modi del conoscere, dal reperimento dei dati all'accertamento della loro validità, intimamente connesso con la loro interpretazione. E se raramente avviene che gli storici dichiarino il loro debito alla filosofia, la loro indipendenza da questa è soltanto apparente, perché ogni indagine sull'esperienza storica degli uomini è naturalmente, per genesi e per metodo, indagine filosofica; e la coerenza logica di essa ne sigilla la validità.
Lo storico moderno esperimenta quotidianamente l'attualità della dottrina vichiana secondo cui l'uomo non può conoscere se non quello ch'egli ha fatto e può fare, vale a dire il mondo della storia, includente tutto ciò che è creazione della mente umana; e insieme la fondatezza dell'originale dottrina crociana, asserente che ‟la storia è filosofia, anzi [...] storia e filosofia sono la medesima cosa" e ‟filosofia e storia sono non già due forme, si bene una forma sola: si identificano" (v. Croce, 19285, pp. 224 ss.). Or più or meno chiaramente si avvede di ciò lo storico, qualunque sia il suo orientamento ideologico: o che faticosamente cerchi i lineamenti della sua ricostruzione attraverso l'esame di testi letterari, documenti e monumenti; o che proceda secondo schemi deterministici o ‛naturalistici'; o che alla sua ricerca sovrasti una fede religiosa o un'utopia o una speranza escatologica (non necessariamente oltremondana). Solo si estrania da questa esperienza chi in vario modo limiti l'opera sua a cronachistiche registrazioni, a classificazioni o a sillogi variamente ordinate di documenti: chi cioè rinunci alla storiografia. Come non si dà storia di fatti che non sia storia di idee, né filosofia che non sia storia di esperienze umane, non v'è un'accettabile definizione della storia che non sia quella che la identifica con l'interpretazione dialettica del reale: dunque una non mai acquietata tensione tra l'operare teorico e pratico e la contemplazione dell'eterno; una problematica perenne suscitata dall'antitesi, inerente all'umano vivere, di impulso vitale e di esigenza logica. All'indissolubile unità di ricerca e conoscenza ha posto mente Croce quando ha scritto: ‟Come [...] è potente stimolo e aiuto e controllo al filosofare sull'arte l'esercizio della critica d'arte, così tengo per indubitabile che meglio pongano i problemi della storiografia coloro che compongono storie e ne sperimentano e ne affrontano e superano le difficoltà" (v. Croce, 19603, vol. I, p. 162).
2. Wilhelm von Humboldt e Johann O. Droysen
Della validità di questo principio crociano, dettato da una straordinaria esperienza di vita e di studio, sono altresì documento le lezioni dedicate da uno dei maggiori storici dell'Ottocento, Johann Gustav Droysen - lo studioso dei processi di unificazione politica delle nazionalità, esaminati così nella storia di Alessandro il Grande e dell'ellenismo come nella storia della monarchia prussiana - ai fondamenti metodologici della disciplina storica, la Historik (1858-1882, edita postuma). Le sue riflessioni, che si alimentano di una vasta preparazione filologica e filosofica e di un'assidua partecipazione ai grandi problemi politici e culturali del suo mondo, segnano per la storiografia moderna un momento di chiarificazione e un avviamento nella direzione indicata da Kant con la sua critica del conoscere e da Hegel col riconoscimento della razionalità del reale. A Kant, appunto, s'è richiamato il Droysen quando si è proposto di chiarire i principi del metodo storico; ed esaminando la materia dell'empiria storica, nella consapevolezza che il contenuto spirituale del nostro Io è di natura storica (‟una quantità smisurata di resti del passato, i quali si trovano ‛qui' e ‛ora' riassunti in noi come nostro mondo di rappresentazioni"), rileva - sulla scorta delle Critiche kantiane - che ‟nel pensiero della ragion pura [...] l'Io prescinde totalmente da tale suo contenuto, e lavora soltanto come forza logica del singolo pensante, mentre in ogni azione interviene il contenuto globale dell'Io, quale è storicamente condizionato e divenuto e in virtù del quale noi vogliamo e agiamo e speriamo" (v. Droysen, 1936; tr. it., pp. 20 ss.). Così egli perviene alla formulazione del ‟primo grande principio fondamentale" della scienza storica che ‟quanto essa vuole apprendere circa le realtà passate, non lo cerca in queste, poiché esse non esistono più affatto e in nessun luogo, bensì in ciò che di esse, in qualsiasi forma, esiste ancora ed è quindi accessibile all'osservazione empirica" (ibid., p. 21). Il secondo principio fondamentale muove dalla constatazione che in ogni sua manifestazione l'uomo lascia ‟un'espressione del suo intimo essere, del suo volere e del suo pensiero"; e come in nessuna delle manifestazioni nel tempo l'interiorità che n'è all'origine si palesa mai interamente, la ἱστορία intende a riconoscervi e ricostruire l'energia formatrice. ‟Anche ciò che è lontano nello spazio e nel tempo, anche ciò che nel più remoto passato fu voluto, fatto, creato dagli uomini, si può afferrare come la parola di chi ci parla hic et nunc" (ibid., pp. 23 e 27). Terzo problema è per il Droysen quello del fine e del carattere scientifico o meno dell'indagine storica: ‟Cerchiamo, indagando, [...] di conoscere quegli uomini, la loro volontà e azione, le condizioni del loro volere e gli effetti del loro agire; [...] conoscere il loro posto nel corso generale del passato del genere umano, in questa sterminata ἐπίδοσις εἰς αὑτό [progressivo accrescimento: Aristotele, De anima, II, 5, 412 a 7], la cui somma effettivamente, ancorché in modo solo parzialmente consapevole, è il nostro presente e siamo in esso noi stessi" (ibid., p. 28).
L'indagine storica esige, oltre al particolare fornito dalla empiria, ‟un universale in base al quale si spieghi che cosa esiste e avviene, perché esiste e avviene": ora ‟quell'universale e necessario che collega i singoli fatti della storia e a ciascuno, nel suo carattere individuale, dà il suo valore" è la continuità del divenire storico, che non è sviluppo (perché ciò presupporrebbe che la serie fosse preformata in germe) ma assiduo lavoro creativo il quale in una serie di ‛presenti' attua quella ἐπίδοσις εἰς αὑτό che è ‟la caratteristica del mondo umano, cioè morale. [...] E mentre il nostro presente, come ogni altro presente prima di noi, muovendo dai risultati assommati di ciò che fu prima, i quali ne formano il contenuto, procede oltre con la volontà che ne determina l'azione [...], si conferma che l'idea della continuità progressiva, quale è valsa finora, così continua ad essere il vero palpito della vita morale, cioè storica" (ibid., pp. 30 ss.).
Nella prefazione al suo Grundriss der Historik il Droysen si contrappone a ‟coloro che chiamano la storia fable convenue", e afferma che ‟un certo sentimento naturale e l'indubbia concordanza di tutte le epoche ci dicono che [...] nelle umane cose c'è un nesso, una verità, una forza che quanto più è grande e arcana tanto più stimola lo spirito a conoscerla e indagarla". Considerando quindi il problema del rapporto del singolo con questa forza della storia, e l'acquisita certezza che l'indagine storica deve compiersi ‟nelle più ampie prospettive", conclude dalla sua stessa esperienza che lo storico, ‟che solo storicamente conosce quanto hanno elaborato la filosofia, la teologia, le scienze naturali, ecc.", per poter ‟penetrare più a fondo nel problema della nostra scienza, giustificarne il procedimento e il compito e [...] svilupparne la configurazione", deve aver chiara coscienza di ‟non potersi prefiggere un'attività speculativa, ma di dover invece procedere alla sua maniera empirica, partendo dalla semplice e sicura base di ciò che è accaduto e conosciuto". A questo punto dichiara: ‟Nelle ricerche di Wilhelm von Humboldt trovai le idee che, a quanto mi sembrò, aprivano la via; egli mi parve un Bacone delle scienze dello spirito. Se pure non si può parlare di un sistema filosofico di Humboldt, egli tuttavia possedeva in straordinaria armonia ciò che una formula classica attribuisce all'ottimo storico, ἡ σύνεσις πολιτική καί ἡ δύναμις ἑρμηνευτική [l'intelligenza politica e la facoltà interpretativa: Luciano, De historia conscribenda, 34]. [...]. Indagando le formazioni pratiche e ideali del genere umano [...] egli ne ravvisò la ‛natura spiritual-sensitiva' e la virtù della sua espressione, ulteriormente produttiva nel dare e ricevere". È significativo questo riconoscimento tributato da uno storico che guardò con favore alla politica prussiana, sia pure in funzione dell'unità germanica, al grande politico e teorico dell'idea liberale: della cui dottrina storiografica offre una lucida sintesi il discorso letto nel 1821 all'Accademia di Berlino, Sull'ufficio dello storico (Über die Aufgabe des Geschichtsschreibers, tradotto da B. Croce). Per Humboldt, ‟ufficio dello storico" è ‟l'esposizione dell'accaduto", ma subito egli osserva che ‟l'accaduto solo in parte è visibile nella sfera dei sensi, e il resto dev'essere aggiunto, inferito, indovinato": ‟col nudo sceveramento del realmente accaduto si è ottenuto appena lo scheletro dell'avvenimento, la necessaria base della storia, la materia per essa, ma non ancora la storia stessa [...]. La verità di ogni cosa accaduta consiste nell'integramento di ogni fatto con la parte invisibile [...]; e questa lo storico deve aggiungere. [...] Egli è attivo e perfino creativo, non già perché produca quel che non esiste, ma perché dà forma con la propria virtù a ciò che egli non potrebbe, con la sola virtù ricettiva, apprendere qual è realmente. In modo diverso, ma al pari del poeta, egli deve elaborare quel che, disperso, raccoglie, e deve farne un tutto [...]. Lo storico abbraccia tutti i fili dell'operare terreno e tutte le impronte delle idee sopraterrene [...]. Speculazione, esperienza e poesia non sono attività separate dello spirito che si oppongano e si limitino l'una l'altra, ma sono i suoi diversi aspetti radiosi". Coerentemente con l'assenta analogia dello storico col poeta (ispiratagli da Schiller) e in antitesi alla ‛filosofia della storia' cara agli idealisti suoi contemporanei, Hegel a capo, il geniale autore della Kawisprache sostiene che come l'artista rivela la ‟verità interna delle forme, oscurata nella realtà fenomenica", così lo storico rivela l'elemento ideale che è nella storia e che egli scorge nella individualità e concretezza dei fatti (i tucididei ἕκαστα): ‟Il numero delle forze operanti nella storia non viene esaurito da quelle che si producono immediatamente negli avvenimenti. Quando anche lo storico le ha indagate tutte singolarmente e nella loro unione [...], resta ancora un principio che opera più possentemente, che non si presenta nella visibilità immediata, ma dà a quelle forze stesse la spinta e l'indirizzo: restano cioè le idee, che per loro natura stanno fuori del circolo finito, ma reggono e dominano la storia del mondo in tutte le sue parti [...]. In mezzo alle vicende dei popoli, guidate da bisogni, passioni e in apparenza dal caso, continua ad operare, e più potente di questi elementi, il principio spirituale dell'individualismo [...]. Accanto alla direzione che popoli e individui danno al genere umano coi loro atti, essi lasciano forme di spiritualità individuale più durature ed efficaci che non siano i successi e gli avvenimenti". E così Humboldt riassume la sostanza del suo discorso: ‟In tutto ciò che accade domina un'idea non percepibile immediatamente, ma questa idea deve essere conosciuta soltanto nei fatti. Lo storico perciò non può escludere la signoria di lei dal suo racconto riponendo tutto soltanto nell'elemento materiale: egli deve, per lo meno, lasciare aperto il varco alla sua efficacia; e inoltre, andando in là, tenere il suo animo pronto a riceverla e vivace a presentirla e conoscerla; ma prima che verso ogni altra cosa, deve star guardingo a non configurare la realtà secondo idee di proprio arbitrio o anche soltanto sacrificare, per la ricerca della connessione del tutto, alcunché della vivente ricchezza del singolo. Questa libertà e finezza di sguardo bisogna che egli le porti nella considerazione di ogni fatto, perché nessun fatto è del tutto separato dalla connessione universale, e di ciascuna cosa che accade [...] una parte è fuori della cerchia della percezione immediata" (Humboldt, op. cit., in B. Croce, Conversazioni critiche, Serie quarta, Bari 19512, pp. 366 ss.).
La visione humboldtiana e droyseniana della storia dà ragione di un paradossale atteggiamento di un grande storico quale Leopold von Ranke, che dichiarava di esser pago, per i suoi interessi filosofici, di Platone e Aristotele e, per la storiografia, di Tucidide: in che trovavano espressione, non senza una punta polemica verso la storiografia e la filosofia idealistica (ch'egli chiamava ‛panteistica') contemporanee, quella esigenza di ricerca dell'eterno che l'autentico storico sente nell'atto stesso in cui si impone una precisa cognizione dei fatti, e insieme la vocazione propriamente scientifica alla certezza del conoscere, al τό σαϕὲς σκοπεῖν di che discorre Tucidide nei capitoli conclusivi della sua ἀρχαιολογία, ove asserisce la necessità di una ἱστορία dei dati concreti (τὰ ἕκαςστα) in adesione al metodo induttivo inaugurato nella scienza medica da Ippocrate. Nella dottrina humboldtiana ha le sue radici anche il paragone dello storico con l'artista (‟L'imitazione dell'artista procede dalle idee, e la verità della forma gli appare solo per mezzo di queste. Lo stesso deve accadere, perché in entrambi i casi la natura dell'oggetto da imitare è la stessa, anche nell'imitazione storica"): che ha esercitato particolare suggestione sul Ranke, ma ancora sul Mommsen (il quale ha fatto suo il detto humboldtiano circa la fantasia necessaria allo storico al pari che al poeta), e ha infine contribuito alla genesi, in funzione antipositivistica, di un famoso saggio di Croce, La storia ridotta sotto il concetto generale dell'arte (1893).
3. Da Giambattista Vico a Benedetto Croce
Lo svolgimento della dottrina humboldtiana e droyseniana è avvenuto in totale indipendenza dalla dottrina di Vico, che - trascurando il ‟mondo naturale [...] del quale, perché Iddio egli il fece, esso solo ne ha la scienza" - rivendica agli uomini, dei quali è opera il mondo della storia, ‟questo mondo civile", la conoscenza intellettuale di esso: vale a dire la consapevolezza delle idee che hanno diretto e illuminato l'agire umano; e questa conoscenza si attua mediante la conversione del vero e del fatto, vale a dire l'azione reciproca della filosofia e della filologia: ‟La filosofia contempla la ragione, onde viene la scienza del vero; la filologia osserva l'autorità dell'umano arbitrio, onde viene la conoscenza del certo" (Scienza nuova seconda, I 2 x). Come è noto, l'opera di Vico non ha assunto il posto che le spettava nella cultura storica e filosofica europea, finché un vigoroso impulso allo studio e all'intelligenza critica della Scienza nuova non è venuto da Benedetto Croce, non soltanto col classico libro su La filosofia di G. B. Vico (1911), ma con l'intera sua dottrina della storia, che della dottrina vichiana è interpretazione e originale svolgimento. Per la sua potenza speculativa, l'alta ispirazione, la varietà e complessità delle esperienze di cui s'è alimentata, essa segna il punto più alto del pensiero moderno sulla storia agli occhi dello storico che considera la propria indagine come un costante sforzo di intelligenza della ‛storia ideal eterna' e sente se stesso partecipe, nel profondo, della vita intellettuale e morale dell'umanità di ogni tempo e ne rivive pertanto le esperienze, respingendo tanto canoni astratti di stampo naturalistico o sociologico quanto interpretazioni ‛metastoriche' che costituiscono in definitiva una rinuncia al giudizio storico in favore di criteri di carattere metafisico. Il superamento dell'iniziale esperienza di erudizione storica; il rifiuto della visione positivistica della storia, ridotta a monotona ripetizione di schemi politici, sociali, economici entro una meccanica struttura di ‛leggi'; il riconoscimento del contributo apportato alla storiografia dal materialismo storico entro i limiti di un opportuno richiamo all'importanza del momento economico; l'esperienza politica e l'inflessibile difesa della libertà e della civiltà europea a fronte delle dittature trionfanti: sono stati i più visibili segni di un'inintermessa meditazione sul concetto e l'essenza della storia.
Una meditazione che ha pervaso tutto il pensiero crociano, presiedendo all'elaborazione della teoria delle quattro forme dello spirito e da questa ricevendo a sua volta lume e ulteriore stimolo, come è già evidente in ciascuno dei trattati che costituiscono la Filosofia dello spirito; per culminare nel libro su La storia come pensiero e come azione (1938) e nei successivi saggi filosofici, fino alle Indagini su Hegel e schiarimenti filosofici (1952). Principio fondamentale della dottrina crociana è l'identità di filosofia e storia: ‟Per fini didascalici filosofia e storia [...] vengono bensì distinte col considerare filosofia quella forma di esposizione in cui è dato risalto al concetto o sistema, e storia quella in cui il risalto è del giudizio individuale o racconto. Ma, per ciò stesso che il racconto include il concetto, ogni racconto vale a chiarire e risolvere problemi filosofici, e, per converso, ogni sistema di concetti getta luce sui fatti" (v. Croce, 19285, p. 209). ‟La filosofia, in conseguenza della nuova relazione in cui è stata posta, non può essere necessariamente altro che il momento metodologico della storiografia: dilucidazione delle categorie costitutive dei giudizi storici ossia dei concetti obiettivi dell'interpretazione storica. E poiché la storiografia ha per contenuto la vita concreta dello spirito, e questa vita è vita di fantasia e di pensiero, di azione e di moralità [...] e in questa varietà delle sue forme è pur una, la dilucidazione si muove nelle distinzioni dell'Estetica e della Logica, dell'Economica e dell'Etica, e tutte le congiunge e risolve nella Filosofia dello spirito" (v. Croce, 19435, p. 136). Non è dunque concepibile né una filosofia né una storia ‛generale', nel senso ch'essa sovrasti alle filosofie o alle storie ‛speciali', uniche concepibili perché ‟il pensiero in tanto pensa i fatti in quanto ne discerne un aspetto speciale"; ma è altrettanto vero che non esiste storia o filosofia che non sia generale, perché ‟l'astratta distinzione e l'unità astratta sono entrambe, del pari, misconoscimento della distinzione e dell'unità concreta, che è relazione. E quando non si spezza la relazione e si pensa in concreto la storia, si avverte che pensarne un aspetto è pensare insieme tutti gli altri" (ibid., pp. 106 ss.).
La dottrina crociana della circolarità dello spirito, vale a dire del continuo svolgersi di esso trapassando da una forma all'altra, si oppone a ogni caratterizzazione dell'attività storiografica secondo particolari punti di vista, i quali tutti necessariamente devono risolversi, quando non diano luogo a pseudostorie, in storia nel senso unitario e totale, al modo stesso che ogni indagine storica, da quella che si svolge intorno a un tema del più ampio respiro a quella che si è proposta il tema più circoscritto, per la ragione stessa che la storia è filosofia, guarda con pari intensità all'eterno.
La qualificazione di ‟etico-politica", che Croce ha dato alla sua propria storiografia, già contiene in nuce la dottrina della storia come pensiero e come azione, espressa nella fase più recente delle riflessioni crociane sulla storia: le quali il filosofo ha alimentato di esperienze di vita, di nuovi problemi sorti in un periodo di estrema crisi della civiltà, di rinnovate meditazioni su grandi ideali offuscati da incomprensioni e avvilenti deformazioni. Segna uno dei momenti più alti della civiltà moderna la memorabile dichiarazione del valore dello storicismo come teoria della storia quale ‟storia della libertà" una teoria che, in antitesi a visioni deterministiche della storia, riconosce in questa la creatività e la libertà che è del Tutto (‟del Tutto ossia degli individui bensì, ma nella reciprocità delle reazioni tra loro onde compongono il Tutto, e non degli individui astratti e della illusione in ciascuno di fare quel che è fatto dal Tutto": v. Croce, 1952, p. 174), e nel processo storico un'inintermessa tensione tra l'irrazionale della ‟vitalità irrompente e prepotente" e la razionalità suprema del concetto di libertà. Per essere meditato frutto di un'esperienza vitale nella quale l'amarezza di quotidiane vicende personali e comuni viene superata dalla filosofica contemplazione del corso della storia e degli ideali che perennemente lo illuminano, la dottrina della storia come storia della libertà ha in sé un afflato religioso in cui lo storico ha trasfuso quel sentimento animatore ch'egli ha descritto, con ispirate parole, come ‟la religione della libertà": ‟Perché è questo l'unico ideale che abbia la saldezza che ebbe un tempo il cattolicesimo e la flessibilità che questo non poté avere, l'unico che affronti sempre l'avvenire e non pretenda di concluderlo in una forma particolare e contingente, l'unico che resista alla critica e rappresenti per la società umana il punto intorno al quale, nei frequenti squilibri, nelle continue oscillazioni, si ristabilisce in perpetuo l'equilibrio. Quando, dunque, si ode domandare se alla libertà sia per toccare quel che si chiama l'avvenire, bisogna rispondere che essa ha di meglio: l'eterno" (v. Croce, 1932, p. 356).
4. Il materialismo storico
La dottrina elaborata da Marx ed Engels ha preso le mosse, com'è noto, da concezioni hegeliane, principalmente dal concetto della storia, che integra la realizzazione dello spirito ‛soggettivo', nei suoi momenti teoretici e pratici e in espressioni quali il linguaggio o il mito, con le realizzazioni ‛oggettive', quali si manifestano negli istituti politici e giuridici, e conduce alla libertà nel superamento ‛etico' dell'antitesi dei due momenti del diritto e della moralità: questo processo dialettico si riflette nel corso della storia, vista come ‛teodicea', attraverso le fasi della teocrazia orientale, dell'eticità greca non ancora consapevole di sé, dell'affermazione romana dell'autocoscienza personale di fronte all'astratta universalità, infine della realizzazione germanica della verità e della libertà nello Stato. La critica di Marx riconosce la validità della visione hegeliana del realizzarsi dell'uomo nello sviluppo storico del genere umano, ma indica i limiti di essa nel suo carattere puramente speculativo, nell'ispirazione teologica e nell'assenza in essa di ogni considerazione degli aspetti negativi della società capitalistica. Considerando invece gli ‛individui reali' e le forme del mondo in cui essi vivono, profondamente trasformandolo e producendovi le loro proprie condizioni di vita, Marx è giunto alla radicale inversione dei termini della dottrina hegeliana e ha ricercato nella storia dell'industria la chiave per interpretare il modo di vivere e di pensare degli uomini nelle varie fasi della loro storia: egli ha quindi concluso che la coscienza non determina i modi del vivere ma, al contrario, vien essa determinata dalla vita reale, dalla situazione in cui viene a trovarsi l'uomo nella sua società. Ne consegue che per comprendere lo svolgimento della storia è necessario esaminare nei suoi momenti successivi il conflitto tra capitale e lavoro, che si manifesta nel motivo dominante della ‛lotta di classe': un conflitto al cui superamento, attraverso l'eliminazione di ogni antagonismo di classe, è appunto teso il moto rivoluzionario in atto, nel quale le forme politiche e culturali assunte nel corso del tempo dalla lotta di classe, e designate come ‛sovrastrutture', non mancano però di incidere, in una col determinante fattore economico, nella vicenda storica, proprio perché la vita ‛reale' è prodotta e riprodotta dalle azioni così come dalle idee degli uomini.
5. Filologia e storiografia
L'idealismo hegeliano e la dottrina vichiana e crociana da una parte, il materialismo storico dall'altra sono state le principali energie vivificatrici della storiografia del Novecento, ovviamente col concorso delle grandi esperienze politiche connesse all'ideologia liberale e a quella marxista. Come, nella seconda metà dell'Ottocento, correnti filosofiche e moti politici hanno ispirato i maggiori storici, così le lotte politiche e i conflitti internazionali, le grandi rivoluzioni e le riforme, le crisi morali e religiose segnano di un'orma profonda l'odierna storiografia, non solo nell'interpretazione dei dati ma specialmente nella visione, per ciò stesso fattasi più penetrante, dei problemi, e nella coscienza, per ciò più acuta, dello storico. Questa coscienza critica e le vivaci polemiche ch'essa suscita hanno prodotto una più rigorosa esigenza d'informazione, col superamento della storiografia erudita o ‛filologica', come si suole impropriamente designarla, perché la vera filologia implica un tal senso del concreto da render attuabile la vichiana sua ‛conversione' con la filosofia: non è un caso, infatti, che il grande sviluppo della filologia, e specialmente della filologia classica, abbia coinciso con lo straordinario movimento di idee prodotto dalla filosofia postkantiana nella cultura europea. È un fatto che i maggiori progressi nella filologia sono stati realizzati da studiosi dotati di vivo senso storico, quali un Niebuhr, un Baur, un Boeckh, un Savigny, un Mommsen. In questi dotti la passione politica o la fede religiosa ha alimentato la vocazione alla storia; e in loro, come in ogni vero storico, si manifesta la validità della proposizione formulata da Croce, che ‟ogni vera storia è storia contemporanea" (v. Croce, 19435, p. 4). In un disegno della storiografia del Novecento devono quindi rimanere al margine le opere di mera erudizione e le ‛storie' cronachistiche, cui sono stati quasi estranei gli orientamenti ideologici e i loro contrasti.
L'esigenza di rigore filologico che s'è affermata nella storiografia dell'Ottocento, specialmente per opera di storici come Mommsen e Ranke, ha arricchito il repertorio dei dati e perfezionato gli strumenti per la ricerca; ma naturalmente lo sviluppo dell'euristica, se fornisce nuovi e maggiori sussidi allo storico e ne asseconda la vocazione, resta un elemento accessorio. Importante efficacia pratica, particolarmente nella storiografia concernente il mondo antico e quello medievale, hanno avuto del pari gli sviluppi delle filologie orientalistiche e dell'attività esplorativa archeologica e geografica, che hanno dilatato i tradizionali orizzonti temporali e spaziali e mostrato l'inconsistenza di schematiche divisioni e classificazioni e la molteplicità e intensità dei rapporti e degli scambi tra culture coeve e distanti nello spazio e nello spirito: lo straordinario incremento nella conoscenza del Vicino Oriente e in generale del mondo asiatico, frutto dei rapidi progressi della filologia e dell'archeologia orientali, e gli effetti delle esplorazioni geografiche e dell'estensione ecumenica delle relazioni internazionali, politiche ed economiche, hanno dato nuovo impulso all'inclinazione (di cui aveva già dato notevoli segni la storiografia del Sette e dell'Ottocento) verso temi di grande ampiezza, con predilezione per le ‛storie universali', nel senso di ‛storie dell'intera ecumene e per tutti i tempi'; nelle quali un desiderio di informazione enciclopedica, evidentemente connesso all'impostazione, ha suggerito una trattazione sistematica di tutti gli aspetti della vita e della cultura di ciascuna delle suddivisioni geografiche e cronologiche. ‛Storie universali' di questo tipo, che per la vastità e complessità del loro disegno vengono generalmente composte da più autori, per questo fatto stesso si presentano - quando non siano mere compilazioni - come aggregazioni di saggi di carattere, ispirazione e valore diversi: come osserva Croce, ‟in quanto veramente storie, o in quella parte in cui tali sono, si risolvono in nient'altro che in ‛storie particolari', ossia suscitate da un particolare interesse e incentrate in un particolare problema, e comprendenti quei fatti soli che entrano in quell'interesse e rispondono a quel problema". Né si sottraggono a questa inevitabile soluzione opere autorevoli quali le tre Cambridge histories (Ancient, Mediaeval, Modern), alla cui organizzazione ha presieduto uno storico come John Bagnell Bury: atomizzate in capitoli monografici, i cui autori sono stati scelti secondo la loro specifica competenza, mostrano una coerenza fittizia, data dall'esteriore unità dello schema e dalla periodizzazione.
Similmente la Propyläen-Weltgeschichte (nella sua edizione curata da Walter Goetz, non già nel rifacimento imposto dal regime nazionalsocialista), e altre meno articolate ma sostanzialmente analoghe, come la Histoire générale fondata da Gustave Glotz e la Weltgeschichte diretta da Ludo Moritz Hartmann o la Weltgeschichte in Einzeldarstellungen edita dal Bruckmann di Monaco - per citarne solo alcune - le quali raggruppano entro una cornice puramente esteriore volumi monografici rispondenti a tradizionali delimitazioni di periodi o di settori ‛nazionali'. All'origine di queste opere collettive, e di altre congeneri, è non tanto un proposito di ampliare l'orizzonte della storiografia di tradizione ottocentesca, che per l'antichità privilegiava il mondo classico e giudaico e per il Medioevo l'Europa cristiana, e in ogni caso insisteva sugli avvenimenti politici e bellici o sulle istituzioni religiose e giuridiche, quanto il desiderio di visioni unitarie, indice di una moderna consapevolezza della crescente rete di legami che si intesse tra le nazioni e che fa a tutte comuni le grandi esperienze di ciascuna: una consapevolezza che ha le sue lontane radici nella teoria greca, probabilmente prestoica, dell'unità del genere umano e che è riaffiorata nella cultura illuministica. Tale visione ‛unitaria' ha tuttavia assunto la specie di visione ‛sincronica': così già nella Geschichte des Altertums di Eduard Meyer, in cui l'autore (già collaboratore, per la storia dell'Egitto antico, della Storia universale di Wilhelm Oncken) si è giovato di una preparazione filologica di singolare vastità, classica e semitistica, per comporre un ben informato disegno della storia del mondo antico, collocando in ciascuno dei periodi dello schema cronologico adottato una trattazione per aree politiche e culturali. Un analogo principio ha diretto la costruzione delle citate Cambridge histories, com'è anche chiaro dalla frequente presenza di tavole sincroniche. Ma l'intento eminentemente didascalico e la connessa aspirazione a una completezza necessariamente di superficie sono di grave ostacolo a una visione veramente storica.
Se le opere di questo tipo obbediscono a un proposito di informazione ‛scientifica' (la storia ‟è semplicemente una scienza, né più né meno", asseriva il Bury), e nelle storie ‛filologiche' e cronachistiche il gusto dell'erudizione prevale sul senso storico, nelle ricerche propriamente storiche nelle quali è la coscienza dello storico che anima e dirige l'opera storiografica, le idee e le ideologie, le fedi religiose, le passioni civili fanno sentire la loro viva presenza, seppur in vario grado, secondo la sensibilità e il vigore critico dello storico. Perciò ogni storico degno del nome riflette più o meno distintamente - e più o meno icasticamente, secondo le doti dello scrittore - i moti ideali dell'età sua: così dal tempo di Ecateo ai nostri giorni. E nella storiografia del Novecento si riconoscono, in una con l'eredità del pensiero filosofico e con le grandi tradizioni dell'euristica degli ultimi secoli, le fedi e le speranze, le angosce, i disorientamenti e i contrasti che agitano la vita degli individui e delle loro organizzazioni politiche, e, in relazione con tutto ciò, le dottrine filosofiche, le tematiche e le forme d'indagine che ne sono nate. Scrive Croce a questo proposito: ‟Così abbiamo veduto la vita domestica e sociale, trascurata dai vecchi storici, non solo acquistare a poco a poco rilievo, ma gettare nell'ombra le guerre e i negoziati diplomatici: le cosiddette ‛masse' trascurate a pro dell'individuo geniale, riavanzarsi facendo quasi sparire nel loro ampio grembo gli eroi (il che non vuol dire che questi non prenderanno la loro rivincita) [...]. Esempi di codeste fluttuazioni offre anche la recente storiografia italiana, che nel periodo del Risorgimento giudicò sommamente importanti, e per eccellenza storici, la formazione delle nazionalità, il costituirsi delle borghesie e dei comuni, le ribellioni delle popolazioni contro gli stranieri o contro i tiranni; e ora, sotto l'efficacia del moto socialistico, si è volta di preferenza ai fatti economici, alle lotte di classe, alle ribellioni proletarie" (v. Croce, 19285, pp. 197 ss.).
6. Storiografia positivistica e sociologica
Le grandi idee di democrazia liberale che hanno caratterizzato la storiografia europea della seconda metà dell'Ottocento, in armonia con le lotte per l'unità nazionale in Italia e in Germania, con la ripresa di ideali della Rivoluzione in Francia, con la vigorosa polemica dei Whigs in Inghilterra, con la generale crisi delle autocrazie, hanno ceduto il passo ai problemi sociali via via che nella nuova Europa nata da quei conflitti (e come in altri gloriosi momenti segnacolo al mondo) operosi gruppi sociali rimasti al margine della vita politica hanno rivendicato la loro piena partecipazione a essa. Nella conseguente crisi dei sistemi politici e delle teorie morali la via alla soluzione dei rinascenti problemi è stata cercata in visioni positivistiche, e l'irrequieta e perennemente inappagata ricerca di stabilità e di certezza nel mondo delle realtà quotidiane ha espresso le sue ansie nella ricerca delle leggi da cui si immaginava (e si sperava) fosse regolata, analogamente alla natura quale disegnano le scienze fisiche, la vicenda umana: il mondo della storia è stato pertanto assimilato, in alcune dottrine, al mondo fisico, e la ricerca storica ha assunto il carattere di una indagine naturalistica, tesa a scoprire le regole del vivere sociale. La sociologia ha invaso così la storiografia: già d'altronde la Geschichte des Altertums di E. Meyer si apriva, nel 1884, con una Introduzione antropologica alla storia. Alla ricerca, propria della filosofia, di un ordine e di un ritmo logico della storia concepita come storia dello spirito umano e della sua διὰνοια, si sostituisce la ricerca di una meccanica non diversa da quella che è fatta oggetto di indagine nel mondo fisico, al punto che si è discusso e si discute della ‛previsione dei fatti sociali': una previsione affatto diversa da quella ippocratica πρόνοια che da Tucidide in poi ha legittimo posto nell'indagine storica, come necessario momento del τό σαϕὲς σκοπεῖν, del ‛conoscer certo' di là dai termini del singolo accadimento, in una visione del conoscere storico che sembra presentimento della vichiana conversione del certo col vero. Positivismo di naturalisti sfociato in sociologia (si rammenti la ‛previsione razionale' nella ‛fisica sociale' di Comte); fermento rivoluzionario procedente da fondate esigenze di realismo e alimentato da sentimenti umanitari ma fatalmente contesto di mitiche prospettive; sopravvalutazione (anch'essa di fonte positivistica) dei risultati ‛obiettivi' dell'euristica tecnicamente attuata: tutto ciò ha promosso una serie di studi che, se hanno ampliato e arricchito la tematica e prodotto un cospicuo aumento di dati con sistematiche ricerche ed edizioni di documenti (non limitatamente ai testi scritti e ai monumenti dell'arte), hanno privilegiato la storia economica e sociale, in armonia con un rinnovato orientamento positivistico o materialistico. Accanto ai saggi che si possono classificare come esempi di storia ‛filologica', quelli ispirati alle dottrine ora indicate costituiscono il gruppo più numeroso nella storiografia del nostro secolo; e alle motivazioni d'ordine politico e ideologico di questo singolare sviluppo si aggiunge, specialmente per i periodi più recenti, l'invitante copia di documenti di vario genere, archivistici e non, che offre materia di studio a naturalisti oltre che a filologi e non raramente incanta e disorienta ricercatori meno dotati di ingegno storico e li fa paghi di classificazioni e sistemazioni statistiche.
Proprio in antitesi a questa storiografia si manifesta la validità della dottrina idealistica che riconosce la vera ‛fonte' della storia nella coscienza dello storico e distingue quindi nettamente questo dall'istoriografo di stampo archivistico e dall'annalista; di là dal ‛metodo' (con cui viene spesso confusa la techne dell'indagine) o dalle premesse ideologiche, e indipendentemente da enunciazioni filosofiche non ripensate e fatte proprie, è la vocazione storiografica (che è vocazione alla filosofia e consapevolezza della ‛storia ideal eterna', ed è naturale come la vocazione poetica) l'autentica e sicura guida verso la storia, cioè verso il pensiero dell'universale: ‟dell'universale nella sua concretezza" (come ha scritto Croce) ‟e perciò sempre particolarmente determinato"; perché ‟non c'è fatto, per piccolo che si dica, che si possa altrimenti concepire (realizzare e qualificare), se non come universale". Temi amplissimi o temi estremamente circoscritti, siano essi considerati sotto il rispetto etico-politico o artistico o economico, si risolvono sempre, in quanto soggetti di storia, in conoscenza dell'universale. E pertanto vano ricercare la validità di un'opera di storia nei suoi postulati ideologici o nella qualificazione del suo tema o nell'analisi e nella sistemazione delle cosiddette ‛fonti'. Giova quindi considerare la storiografia del Novecento appuntando lo sguardo sui più significativi storici e sui loro orientamenti piuttosto che sulla varietà dei temi o sui progressi dell'euristica.
7. Le ‟Annales"
Un chiaro esempio di quanto s'è ora osservato è offerto da un cospicuo gruppo di storici contemporanei, non soltanto europei, che si è costituito intorno alle ‟Annales" (prima ‟Annales d'histoire économique et sociale", poi ‟Annales d'histoire sociale", infine ‟Annales. Économies, Sociétés, Civilisations"), la rivista parigina fondata nel 1929 da Marc Bloch e Lucien Febvre, e diretta dal Febvre dal 1944 al 1956, poi da Fernand Braudel fino al 1967. Come ha rilevato quest'ultimo - il quale ha curato due raccolte di saggi estratti dalle ‟Annales", allo scopo di illustrare ‟la portata di una complessa rivoluzione storiografica, il cui merito è di essere stata, come è tuttora, in continuo movimento" - ‟l'indagine dello storico si propone sempre nuovi traguardi: per raggiungerli egli deve crearsi metodi sempre nuovi. È questo il motivo per cui parole come ‛avventura' e ‛scoperta' ben si addicono al carattere di un'iniziativa che ha già visto impegnate tre generazioni di storici". E difatti le ‟Annales" hanno avuto collaboratori di varie tendenze, quali seguaci di dottrine economiche o sociali d'ispirazione marxista (ma in qualche caso anche liberale), quali guidati da un empirismo deliberatamente scevro da premesse dottrinali, quali intenti a escogitare nuovi ‛metodi' (o piuttosto tecniche) di ricerca, mutuati spesso dalle indagini fisiche o statistiche, oppure a esplorare, con l'ausilio di documenti solitamente trascurati o considerati pertinenti a discipline particolari, settori raramente toccati da ricerche sistematiche. Il proposito dei fondatori era stato appunto quello di sollecitare il reperimento e l'utilizzazione di ogni specie di documenti, in sussidio di una storia qualificata ‛economica' nel senso più ampio del termine, come indagine su tutti i modi e gli aspetti del vivere umano, anche nelle sue relazioni con l'ambiente fisico, e naturalmente sulle rispettive interpretazioni storiografiche susseguitesi nel tempo. Il desiderio di additar nuove vie alla ricerca ha portato a privilegiare di fatto temi che la storiografia classica ha solitamente considerato marginali o propri di sfere scientifiche a essa estranee: così le due raccolte curate dal Braudel includono studi sulla storia dei prezzi, su problemi demografici, su applicazioni della meccanografia e dei calcolatori elettronici a ricerche di storia economica e sociale, su applicazioni della fotografia aerea a ricerche di storia dell'urbanistica e dell'ecologia, sulle vicende di abitati in rapporto con situazioni geografiche, sull'utilizzazione della climatologia in ricerche storiche, sulla storia dell'alimentazione e sui comportamenti biologici, sulla ‛storia delle malattie', e inoltre su temi di storia della cultura e di vita religiosa, naturalmente proiettati su uno sfondo sociologico al quale non rimangono estranee la psicologia e la psicanalisi.
Come Bloch e Febvre hanno suggerito nella loro presentazione delle ‟Annales", temi e punti di vista e forme e modi di indagine possono facilmente moltiplicarsi; e a prima vista la loro copia e varietà può dar l'impressione di una radicale innovazione nella storiografia: ma indagini del genere non sono nuove, specialmente nell'ambito degli studi sull'antichità, nel quale per la penuria e frammentarietà delle testimonianze divengono oggetto di attento esame tutti gli aspetti sui quali i dati disponibili gettino una pur tenue luce. L'archeologia classica e orientale conosce da tempo le vie dell'indagine che vengono ora indicate allo studio storico di età meno antiche; e le va ora conoscendo anche la cosiddetta archeologia medievale, sorta nei paesi poveri o affatto privi di memorie dell'antichità classica, ma coltivata attualmente anche là dove l'archeologia classica ha le sue radici. È naturale che la storiografia si valga di ogni sussidio; e non v'è ricerca analitica nei cui risultati un intelletto di storico non sappia ravvisare lineamenti della storia vera e propria: ne danno un esempio i saggi di Michail Rostovzev culminati nelle due grandi storie economiche e sociali del mondo ellenistico e dell'Impero romano. Tuttavia, di fronte alla fortuna che hanno ottenuto i modelli delle ‟Annales", promotori di innumeri ricerche sulla vita quotidiana di individui e di società, sull'ambiente fisico e sui fenomeni naturali che gli appartengono, ivi comprese le variazioni climatiche e le calamità e le malattie, e alla miriade di indagini archivistiche e antiquarie esauritesi in sistematiche ricognizioni o classificazioni di dati, senza dar luogo a un'interpretazione propriamente storica, vengono alla mente certe opportune riflessioni di Croce: ‟La storia (per adottare l'incondito gergo dei positivisti e sociologi, al quale, per un momento, discendo) non è già un ‛fenomeno naturale', ma un ‛fenomeno morale', e non si spiega mercé una causa unica, quale che questa sia, e neppure mercé una molteplicità di cause, ma solo con ragioni interne, come sforzo spirituale [...]. Clima, ubertosità o avarizia di terreno, salubrità o insalubrità, posizione geografica, disposizioni etniche, strade e mancanza di strade, spostamenti di linee commerciali, e simili, sono tutte cose importanti, se considerate come condizioni o materia o strumenti tra cui e su cui e con cui si travaglia lo sforzo spirituale, che deve formare sempre il punto centrale della considerazione; ma tutte prive d'importanza prese per sé, fuori del centro, inerti e incapaci di condurre ad alcuna conclusione" (v. Croce, 19433, p. 287). Menti naturaliter historicae, come quelle di Bloch e Febvre, hanno saputo valersi di questi strumenti nelle loro meditazioni storiche, ricche di travagli ideali; ma l'insuccesso di altri pur diligenti ricercatori conferma che la soluzione dei problemi storiografici non dipende dall'analisi delle ‛fonti'.
Se le ‟Annales" hanno esercitato un'importante funzione di stimolo in una vasta area internazionale, non altrettanto benefico è stato l'indirizzo sociologico e comparativistico, che ha estesamente applicato, trasformandole in canoni d'interpretazione, certe intuizioni espresse in particolari contesti storiografici, e ha così favorito il ricorso a schemi, nella costruzione dei quali necessariamente la rinunzia all'infinita varietà delle esperienze storiche fa prevalere l'astratto sul concreto e fa cadere in oblio l'irrepetibilità del fatto storico: per tal modo la ricerca tende a riconoscere le ‛leggi' che governerebbero la vita delle società umane; e a fondamento della storiografia viene apprestata una tipologia dei fattori e delle strutture sociali. Anche in questo ambito si sono imposti, in accordo con la diffusa inclinazione a preferire l'assimilazione alla distinzione, indirizzi di ricerca ‛antropologica' che nella storiografia ottocentesca avevano informato specialmente gli studi sulle società primitive e sulle religioni classiche e orientali (nel quale ambito peraltro dotti come Erwin Rohde e James G. Frazer si erano valsi ditali strumenti con un acuto senso della misura), e avevano ricevuto alimento così dallo sviluppo dell'etnografia come dalla fortuna di dottrine positivistiche. I limiti, le carenze e i rischi della storiografia sociologica sono stati ben identificati da Antonio Gramsci: ‟La sociologia è stato un tentativo di creare un metodo della scienza storico-politica, in dipendenza di un sistema filosofico già elaborato, il positivismo evoluzionistico, sul quale la sociologia ha reagito, ma solo parzialmente. La sociologia è quindi diventata una tendenza a sé, è diventata la filosofia dei non filosofi, un tentativo di descrivere e classificare schematicamente fatti storici e politici secondo criteri costruiti sul modello delle scienze naturali. La sociologia è dunque un tentativo di ricavare ‛sperimentalmente' le leggi di evoluzione della società umana in modo da ‛prevedere' l'avvenire con la stessa certezza con cui si prevede che da una ghianda si svilupperà una quercia. L'evoluzionismo volgare è alla base della sociologia" (Quaderni del carcere, Torino 1975, vol. II, p. 1432).
Questa chiara diagnosi si applica a una divulgata opinione che afferma la perenne ripetizione dei fatti storici secondo un principio di uniformità e persistenza valido per il mondo degli uomini al pari che per il mondo fisico, e che in ultima analisi considera l'uomo come un'entità biologica e ignora la sua attività di essere pensante. L'opinione non è soltanto volgare: non pochi esegeti di Tucidide hanno interpretato un luogo famoso dell'introduzione alla sua storia (I, 22,4: ‟Quanti vorranno considerare con criterio certo le cose avvenute e quelle che in avvenire saranno ancora, per quel che attiene all'umano, simili e analoghe, questi mi basterà che giudichino utile l'opera mia") come una dichiarazione di pratica possibilità, per lo storico come per il politico, di prevedere per analogia lo svolgimento futuro di fatti politici, grazie alla immutabilità della natura umana: che così costituirebbe un'anticipazione di quella confidenza nella prévision des faits sociaux nutrita da sociologi e politici positivisti del primo Novecento. In una tale visione della storia come meccanica iterazione di motivi e di corrispondenti effetti è ovviamente implicita una negazione del progresso. Ora, come avverte Croce, ‟che alcune concezioni trascendenti e religiose, guardando al mondo e alla storia come a uno stato di male e dolore, che sarà risanato e sostituito solamente in un altro mondo, neghino il progresso perché negano la vita stessa, è cosa del tutto coerente. Ma non del pari coerente è la combinazione che si suol fare in talune filosofie, le quali risentono forte l'influsso dei miti religiosi e delle teologie, del concetto di progresso con quello dello stato terminale e paradisiaco, della vita intesa come attività con la vita intesa come stasi" (v. Croce, 19733, p. 40).
8. Definizioni della storia
Il disinteresse di molti storici di professione per la filosofia, peraltro raramente dichiarato, che in più casi si traduce in diffidenza verso le discussioni dei filosofi e nel contempo in una predilezione per soluzioni empiriche sollecitata dalla pratica della ricerca erudita, ha tenuto lontani dalle grandi dispute sui problemi storiografici non pochi scrittori di storia dotati di acuto ingegno: viene qui subito alla mente il nome di un finissimo storico, autore di avvincenti libri, qual è stato Johan Huizinga, che pure nella sua autobiografia (La mia via alla storia) ha insistito sulla sua ‟completa inettitudine e addirittura indifferenza per le scienze naturali, la matematica, la tecnologia e anche la filosofia". D. Cantimori ha richiamato in proposito le pagine che Croce dedicò al Ranke e al Burckhardt nel saggio sulla Storiografia senza problema storico. Anche se da elegante stilista lo Huizinga ha presentato la sua vocazione alla storiografia come espressione di una curiosità di umanista, e se la sua raffinata sensibilità e la capacità di nostalgica rievocazione di certi momenti e ambienti storici suscitano un'ammirata simpatia, nessuno dei suoi scritti, per ispirati e suggestivi che siano, opera sulla mente dei lettori con quella virtù maieutica che hanno gli scritti di un Droysen, di un Croce, di un Omodeo; né la nobiltà e la dignità dei suoi sentimenti hanno dato alla sua storiografia il vigore e la penetrazione critica che la lucidità delle idee animatrici ha dato alle grandi storie di un Grote odi un Mommsen.
Nell'ambito delle ‟Annales", invece, parimente estraneo ai dibattiti della storiografia idealistica e pervaso di esprit de géometrie oltre che di esprit de finesse, si sono prodotte formule originali e brillanti, che hanno avuto grande fortuna ma sono indici dell'ingegno arguto di scrittori di storia piuttosto che di un'approfondita meditazione di menti filosofiche: talvolta, anzi, è proprio il disinteresse di molti storici militanti per le teoriche della storiografia a conferire una patente di novità a formule che ripetono riflessioni di antica data o coincidono con considerazioni ormai ovvie: valga l'esempio della ‛pluralità del tempo sociale', con la distinzione del tempo breve della histoire événementielle, del tempo medio delle congiunture economiche, della longue durée in cui si rivela l'ampio e lento processo della storia e il continuarsi del passato nel presente e nel futuro: in che evidentemente si manifestano non già ipotetici ‛tempi' della storia, ma le varie visioni di uno storico secondo la sua capacità di cogliere la continuità dello svolgimento storico attraverso i nessi degli eventi e delle idee e di riconoscere il valore del particolare nell'universale, quale che sia l'orientamento e la definizione del tema della sua ricerca. L'antica dottrina tucididea della continuità e logica interdipendenza delle tradizionali scansioni del tempo (alle quali corrispondono l'ἀνὰμνησις, la διὰγνωσις, la πρόνοια) si dichiara ben altrimenti originale e vigorosa di fronte alla definizione blochiana della storia come comprensione del presente mediante il passato e del passato mediante il presente, ripresa nelle proposizioni braudeliane ‟il passato spiega il presente" e ‟il presente spiega il passato".
A queste e ad altre empiriche formulazioni, sostanzialmente valide, che sono appunto nate da un'intensa esperienza di studio avvivata dalla curiosità di saggiare nuove vie d'indagine in relazione con la problematica suggerita non solo dalla storia ‛economica e sociale', ma anche da nuovi orientamenti delle ‛scienze morali' (o, nella dizione oggi prevalente, ‛scienze umane'), non corrisponde però un impegno teoretico pari a quello dei contemporanei filosofi interessati ai problemi della storia: così che le formule ora citate e le pagine che le illustrano riescono deludenti al confronto con le penetranti indagini o le luminose sintesi in cui meglio si dispiega l'ingegno storico dei maestri che hanno presieduto alla nascita e allo sviluppo delle ‟Annales". Anche alla grande tradizione empirica della storiografia britannica è rimasto generalmente estraneo - nonostante l'impegno di un teorico di formazione inizialmente crociana come Robin G. Collingwood - il dibattito degli storicisti europei, principalmente italiani e tedeschi: un acuto storico come il Bury ha assimilato la storia alle scienze sperimentali; e uno storico che ha avuto maggior fortuna, grazie specialmente all'estensione tematica e cronologica del suo magnum opus (A study of history), è rimasto irretito in una visione spengleriana di circoscritte ‛civiltà vere', nella quale l'accento cade sistematicamente sulla fine di ciascuna, sulla ‛morte delle nazioni'.
È significativo che mentre il Toynbee segue lo svolgimento di una civiltà o di un ‛impero' con l'occhio attento al momento ch'egli considera conclusivo (e d'altronde chi vede la storia come somma di esperienze di entità definite e distinte, ‛civiltà' od organismi statali che siano, deve necessariamente guardare alla fine di ciascuna come al momento che segna il compimento della sua funzione e permette quindi di collocarla, col suo definito carattere, nel precostituito sistema), uno storico di ben altra tempra, Adolfo Omodeo, sente, di là dalle ‛decadenze' e dai ‛trapassi', ‟l'attrazione delle primavere storiche, delle grandi età creatrici, delle grandi eruzioni e dei grandi protagonisti della storia: [...] una specie di atto di fede nella Provvidenza, come si conviene a uno storico, che però si astiene dal redigere il sistema della Provvidenza stessa" (v. Omodeo, 19552, p. 13). La distinzione è fondamentale, e investe alle radici tutta la storiografia. Da una parte l'identificazione di ‛leggi storiche', di ritmi costanti, di ineluttabili destini, insomma una visione ‛naturalistica' se non fatalistica della storia, non sostanziata di speranze; e ciò accomuna tutti gli storici positivisti o ‛materialisti', dai marxisti agli spengleriani ai più recenti sociologi. Dall'altra parte una inesauribile fiducia nella forza creatrice della libertà, perennemente oppressa e perennemente risorgente; una fede consapevole nel passato ma tesa all'avvenire, attenta a non dissipare lo κτημα εἰς ἀεί: una visione animata da un sentimento propriamente religioso, la cui forza ispiratrice hanno ben riconosciuto i grandi pensatori europei, da Pitagora e Platone a Jacobi e Croce. Nella storiografia del nostro secolo le due concezioni si contrappongono con particolare forza, perché ambedue sono connesse con orientamenti di chiara connotazione politica; ed è evidente come la concezione della storia come storia della libertà sia inconciliabile con ogni dottrina dogmatica e con le ideologie politiche a cui Croce allude nel memorabile saggio oxoniense del 1930, intitolato Antistoricismo.
Gli esempi fin qui citati di definizione della storia e della storiografia e dei connessi orientamenti possono ovviamente moltiplicarsi fino a coincidere col numero stesso degli storici, maggiori e minori, o almeno di quelli che sono autenticamente storici: ognuno di essi infatti non può prescindere da un'intima riflessione sulla sostanza, il valore e i fini della sua attività di studioso e sui temi e problemi della sua ricerca, anche se a tali suoi pensieri non dà forma esplicita. Avviene così che si incontrano enunciazioni più o meno precise e perspicue, nelle quali si esprimono propositi, desideri, esigenze, talvolta in formule paradossali o incisive per la loro concezione. Valga l'esempio di un illustre e autentico storico come Lucien Febvre, che ha coniato la fortunata formula della histoire à part entiere per affermare la necessità di una visione unitaria dell'uomo e del suo operare, che rifiuti le storie per compartimenti e si sforzi di fare della storia la ‛scienza dell'uomo': ‟scienza del perpetuo cambiamento delle società umane, del loro perpetuo e necessano adeguarsi a nuove condizioni di esistenza materiale, politica, morale, religiosa, intellettuale"; e ha così esortato i giovani storici della École Normale: ‟Storici, siate geografi. Siate anche giuristi. E sociologi. E psicologi. Non chiudete gli occhi dinanzi al grande movimento che trasforma davanti a voi a una welocità vertiginosa le scienze dell'universo fisico" (v. Febvre, 1941). Inviti e propositi suggestivi, ma più facili a figurarsi nei vibranti appelli di uno spirito entusiastico quale fu quello di Febvre, che a realizzarsi da chi non si contenti di una sia pure affinata ricettività, ma voglia effettivamente praticare la ἱστορία.
È chiaro infatti che quel comprensibile desiderio di visione unitaria non può trovare appagamento in un'appropriata indagine su tutti gli aspetti ai quali un tema storico può suggerire di dilatarla: come è ovvio, e s'è già osservato, una ‛storia' di tal genere si risolverebbe inevitabilmente in una somma di osservazioni o di trattazioni particolari, le quali esigerebbero per giunta una competenza nei piu vari settori di indagine, quale non è immaginabile per alcuno; sicché si ricadrebbe nella compilazione superficialmente informata che caratterizza tante opere di storia ‛generale' o ‛universale' oppure in meccaniche associazioni di contributi di diversa origine se non di diversi autori. Ma tutta la genuina storiografia dimostra la fondatezza di quel che Croce ha chiarito più volte: che ‟noi non possiamo conoscere altro che il finito e il particolare, anzi sempre questo finito o questo particolare" (v. Croce, 19435, p. 45), e che ‟negare la storia universale non significa negare l'universale nella storia. Anche qui è da ripetere, come per il Dio cercato invano correndo per la serie infinita dei finiti e ritrovato in ogni punto di essa: Und du bist ganz vor mir! Quel particolare e quel finito è determinato, nella sua particolarità e finitezza, dal pensiero, e perciò conosciuto insieme come universale: l'universale in quella forma particolare" (ibid., p. 49). D'altronde è l'esperienza stessa a superare certe formulazioni: e Febvre, storico geniale, ha dato con tutta la sua opera un più definito senso alla sua histoire ò part entiere, alla quale tanti si sono richiamati con interpretazioni deformanti e talvolta depauperanti, dimenticando ch'essa è prima di tutto una legittima opposizione a ogni astratto particolarismo, che nulla ha a che fare con la conoscenza del particolare. Febvre ha opportunamente affermato, in polemica con un'asserzione di Fustel de Coulanges (‟L'histoire se fait avec des textes"), che ‟senza dubbio la storia si fa con documenti scritti: quando se ne hanno. Ma essa può farsi, deve farsi con tutto ciò che l'ingegno dello storico può permettergli di utilizzare" (v. Febvre, 1953, p. 428). Questa dichiarazione riflette esperienze di Bloch, di Febvre e dei loro discepoli, grazie alle quali s'è affermata nella storiografia contemporanea, e particolarmente in quella che non aveva respirato la vivificante aria crociana, un'esigenza di sintesi in contrasto sia con l'astrattezza dell'antiquata ‛filosofia della storia' (al quale proposito è significativa l'ironica frase di Febvre nella sua prolusione al Collège de France: ‟Me lo son lasciato dire spesso: gli storici non hanno grandi necessità filosofiche"), sia con una certa unilateralità della tradizionale ricerca accademica e archivistica, sia ancora con l'atomizzazione delle storie speciali di stampo positivistico.
È vero che l'auspicata varietà e complessità dei modi dell'indagine può offuscare, per la molteplicità degli obiettivi e la diversità dei dati, la prospettiva storica; ma qui interviene, a orientare lo storico, il suo ingegno, la sua vocazione e, per non trascurare un elemento caro a Febvre, la sua ‛sensibilità'. Uno storico di acume e cultura straordinari, Delio Cantimori, ha però giustamente osservato che la posizione polemica di Febvre lo conduce ad affermare che occorre penetrare nella situazione psicologica intima degli uomini e dei gruppi umani come unico sistema per poter comprendere la storia, lo spinge insomma a voler conoscere quel che veramente non si può conoscere, l'intimo della personalità; e cita il ‛vecchio e saggio Droysen': ‟La personalità in quanto tale non trova la misura del suo valore nella storia in quello che opera, fa e soffre nella storia. Alla personalità viene riservato un ambito più proprio nel quale [...] essa è in rapporto solo con se stessa e con il suo Dio [...]. Per il singolo la cosa più certa che egli possiede è la verità del suo essere, la sua coscienza. In questo santuario non penetra lo sguardo dell'indagine" (v. Cantimori, 1971, p. 227). Ma è ancora nell'inviolabile santuario della propria coscienza che lo storico trova la sua chiave per l'interpretazione dei dati, la soluzione dei problemi. Indicativa in proposito è la vicenda intellettuale di un altro grande storico, Friedrich Meinecke, l'autore di Die Idee der Staatsräson in der neueren Geschichte, un discepolo del Droysen e specialmente del Ranke, idealmente solidale con Burckhardt e legato da forte amicizia a Ernst Troeltsch: dal riconoscimento dell'antinomia tra la potenza e lo spirito egli è stato condotto a riesaminare lo storicismo e a ricercare il modo di evitare il rischio che la consapevolezza, scientificamente acquisita, dell'individualità della realtà storica si risolva in relativismo e in una ‛anarchia' dei valori; e nella ‛coscienza', dove ‟l'individualità si fonde con l'assoluto, l'elemento storico con quello attuale", la sofferta ricerca del Meinecke ritrova ‟ciò che nella storia è in diretta relazione con Dio": una conclusione a cui ha fortemente contribuito, come l'autore stesso dichiara, la meditazione delle dottrine di Platone e in particolare di Plotino. Questa intima esigenza della ricerca dell'eterno nell'attimo, propria dello storicismo idealistico, è veramente un segno dello ‟spirito perennemente operante del platonismo".
Contro la dottrina platonica dell'essere costituito da idee ha polemizzato Martin Heidegger, la cui concezione ‛ermeneutica' dell'esistenza investe il mondo della storia, in quanto la storicità è da lui concepita come il modo in cui si realizza l'esistenza, cioè ‟l'essere dell'uomo nel mondo"; e la storicità dell'esistenza è fondata su ‟la finitezza della temporalità", sull'immagine dell'uomo come ‟essere per la morte": una nota escatologica che ha esercitato una particolare suggestione su alcuni storici del cristianesimo (Bultmann in particolare), e se ha riproposto nella storiografia più recente l'antico problema del destino dell'uomo - problema presente, anche se non esplicito, nei maggiori storici, da Tucidide a Croce a Meinecke, in ognuno dei quali spira un affiato religioso - ha assunto tutt'altro significato nei teologi, ‟gli agenti terreni dei ‛superi'", che, come ha scritto Cantimori (ibid., p. 251), ‟sono venuti a filosofare sul lavoro degli storici"; senza però operare quel trasferimento nella sfera ‛metastorica' che per uno storico come Aldo Ferrabino ha segnato il termine di una meditazione sulla storia iniziata al lume dell'attualismo e divenuta infine alimento di una esperienza mistica cristiana.
9. Euristica
La visione della storia e della storiografia che è stata alimentata dallo storicismo idealistico ed è preminente nel mondo moderno - per il vigore e l'originalità, se non per il numero dei suoi sostenitori - non accorda spazio a quella precettistica dell'indagine storica che era di prammatica nella storiografia del positivismo e si insigniva spesso del titolo di metodologia o, più propriamente, di euristica. Quanto di fatto attiene al reperimento, alla descrizione, all'edizione dei documenti (testi scritti e manufatti) è materia d'indagine filologica, archivistica e archeologica, paleografica e bibliografica; ed è ovvio che lo storico debba essere in grado di orientarsi nelle discipline (e loro suddivisioni) concernenti le testimonianze di cui egli si avvale nelle sue ricerche.
Oggi si ode spesso parlare della necessità di ricerche ‛interdisciplinari': l'esigenza è tutt'altro che nuova, e non è difficile mostrare che essa è stata avvertita e in qualche modo appagata in ogni tempo. Ma oggi se ne discorre con maggiore insistenza; ed è pertanto necessario premettere che ogni seria ricerca storica è per sua natura ‛interdisciplinare', prima di tutto perché per la storia, che è pensiero, in nessun momento, diffuso o puntuale che sia l'oggetto della ricerca, possono aver valore distinzioni puramente pratiche quali sono quelle consuete delle ‛discipline', di ciascuna delle quali l'autonomia è fittizia e trova la sua unica ragione di essere nella didattica o in esigenze di carattere tecnico, nell'uso degli svariati e assai affinati strumenti a cui può far oggi ricorso un ricercatore. La mente dello storico si giova non già dei sussidi che le si offrono in astratto, ma di ciò che essa stessa sceglie, col suo criterio e secondo il suo intendimento; e con quei sussidi si foggia intelligentemente, caso per caso, gli strumenti idonei alla sua particolare ricerca: senza di che, il ricorso ai detti strumenti, ‛interdisciplinari' o non che siano, si risolve in una meccanica e sterile aggregazione di nozioni, dati ed esperienze tecniche (non molto dissimile dal modello pickwickiano del saggio sulla metafisica cinese composto col sussidio delle voci Metafisica e Cina dell'Encyclopaedia Britannica). A considerazioni non diverse danno luogo non poche trattazioni di ‛metodologia' o di euristica, che spesso si presentano nella forma di ‛introduzione alla storia' e non si appagano della pratica utilità che possono avere come manuali e repertori sistematici. Ogni studioso sa bene quanto sia vano aggiungere alla ‛precettistica' tecnica delle varie discipline filologiche una serie di suggerimenti, adattati a prevedibili casi, circa l'esame, la valutazione dei documenti in sede storiografica, le prospettive e i rischi d'errore dell'ermeneutica.
Certo, anche l'esperienza altrui può giovare, e l'esemplificazione può rendere più attenti, specialmente quando si presentino casi analoghi (ma anche sotto questo rispetto nulla può giovare meglio dello studio dei grandi storici): tuttavia, di là dall'elementare analisi filologica, ogni documento acquista un suo proprio valore e significato per opera del suo interprete; e la lettura che questi ne fa non è, neppure sul semplice piano descrittivo o su quello paleografico, indipendente dal contesto ideale in cui il documento viene collocato nel corso dell'indagine. Per ogni documento, i dati realmente ‛obiettivi' sono scarsissimi, e tutti esteriori; quel che attiene alla lettura, all'esegesi, all'uso che del documento viene fatto nella ricerca storica, non appartiene più al documento come ϕαινόμενον, ma all'intelletto dello storico. È stato giustamente detto, non solo in relazione all'ermeneutica, ma alla lectio stessa di un manoscritto difficile a decifrarsi (sia esso di pertinenza della ‛paleografia' o della ‛papirologia' o della ‛epigrafia', per servirsi di una discutibile nomenclatura invalsa nella pratica accademica), che un testo non si legge veramente (anche come spelling) se non quando lo si è compreso: che è un paradosso solo apparente, perché di fatto è la mente che guida gli occhi e ne perfeziona la visione. Allo stesso modo, i documenti parlano secondo le sollecitazioni che ricevono dallo storico; e queste sollecitazioni sono efficaci nella misura in cui le idee, i problemi, gli intendimenti dello storico sono chiari e precisi. Come ogni ricercatore, lo storico trova quello che cerca; ciò significa che la sua εὕρεσις è, come quella di Archimede, non già un ritrovamento accidentale, ma la logica conclusione di un'assidua e rigorosa riflessione; analogamente, come ha osservato Kant, nel metodo galileiano l'indagine segue un disegno delineato dalla ragione. Testi e monumenti noti da secoli possono acquistare, in un contesto storiografico originalmente elaborato, non solo un significato inatteso, ma addirittura un aspetto nuovo; particolari comunemente considerati trascurabili possono assumere, in una geniale interpretazione storica, valori imprevisti; e anche da documenti dei quali sia accertata la falsità lo storico può trarre elementi validi per la sua indagine.
Ogni studioso di storia che non si appaghi di compilazioni cronachistiche ha la consapevolezza che l'opera sua non consiste nel raccoglier dati né nell'analizzarli o classificarli, ma nel pensarli. Come ha mostrato Kant, pensare è giudicare; e come ha visto Croce, il giudizio non ha altra forma che il giudizio storico, ‟unità di un soggetto, che è una rappresentazione o intuizione che si chiami, e pertanto individuale, e di un predicato che è universale" (v. Croce, 1945, vol. II, p. 12). Sia o no convinto dell'identità di storia e filosofia, chi si dedica alla storiografia fa diretta esperienza di un intimo travaglio che è proprio della ricerca storica: un processo di διανόησις, del quale Platone fa cenno nella Lettera VII: ‟A forza di consumare l'uno contro l'altro gli elementi (del conoscere), nomi e definizioni, immagini e sensazioni, e di discuterli in discussioni serene [...] allora a chi vi intenda quanto è possibile a capacità umana, subitamente rifulge comprensione e intuizione intorno a ciascun oggetto"; e un ulteriore chiarimento viene da Croce: ‟Se il solo atto che meriti il nome di giudizio è quello che giudica dei vari atti spirituali e delle loro forme e determinazioni varie, unico vero giudizio è quello storico, e poiché altra realtà non v'è che la storia, la sola filosofia concreta e piena è la storiografia, e, in senso didascalico e professionale, la riflessione sulla storiografia, la quale peraltro è sempre in certo modo, e non può non essere, riflessione su se stesso, possesso dei propri principi e delle proprie categorie di giudizio" (v. Croce, 19662, vol. II, p. 142).
10. Aspetti e figure della storiografia del Novecento
Oltre che dagli orientamenti già indicati, la storiografia del nostro secolo è caratterizzata da una varietà di temi che, se non è del tutto nuova (perché antecedenti possono additarsi nell'erudizione storica dal Seicento in poi), ha avuto però un assai vasto sviluppo, anche per le nuove acquisizioni negli studi umanistici oltre che nelle scienze sperimentali e per i moltiplicati sussidi tecnici del tempo presente. Alla storia del mondo antico sono state dedicate opere cospicue, in armonia con i progressi della ricerca archeologica e con le grandi conquiste - che datano in gran parte dall'Ottocento (con la decifrazione dei ieroglifici egizi e delle scritture cuneiformi), ma per una parte non irrilevante dal Novecento - della ricerca linguistica e filologica. Se nel secolo scorso la storia del Vicino Oriente dall'Egitto alla ‛mezzaluna fertile' (Siria e Mesopotamia) aveva visto arricchirsi oltre ogni speranza la documentazione, per la scoperta di cospicui archivi e ‛biblioteche' di palazzi regi e di templi, e poteva valersi delle epigrafi in persiano antico, i primi anni del Novecento hanno visto dischiudersi alla ricerca il mondo anatolico, rivelatosi sede di insospettate lingue e culture, ‛ittite', preittite, hurriche. Alle tradizionali fonti greche, latine, ebraiche si sono aggiunte miriadi di documenti in più lingue, arie e anarie, che hanno svelato o illuminato di luce del tutto nuova, per il corso di due millenni, l'organizzazione politica e sociale, le relazioni internazionali, la vita economica, la religione: una documentazione che per copia e varietà non ha confronti nel mondo classico e solo è comparabile a quella degli archivi dell'Europa medievale e moderna.
Ma se tanti aspetti dell'economia e della società che nel Vicino Oriente sono ora ben illustrati restano tuttora in ombra nel mondo greco e romano, il primato di questo nelle grandi opere dell'ingegno, nel pensiero, nella poesia e nell'arte non è stato minimamente scosso, come il genio di Goethe aveva presentito; e nulla v'è in tutte le letterature orientali che sia comparabile alla storiografia classica. Superficiali, episodiche, acritiche, le registrazioni in varia forma fatte delle res gestae di monarchi orientali o di gesta deorum per homines offrono tuttavia un notevole sussidio anche alla ricerca storica sul mondo classico; e così da parte di classicisti come di orientalisti è stata avvertita l'importanza di una synopsis dei due mondi contigui e collegati, e non soltanto per le origini egee - al cui studio hanno dato nuovo impulso i grandi scavi di centri minoici e micenei e la recentissima decifrazione della scrittura micenea (‛lineare B') - e per l'età ellenistica. Alla ricordata Geschichte des Altertums di Eduard Meyer e alla Cambridge ancient history si sono dunque affiancate numerose opere analoghe di proporzioni minori, in alcuni casi come parti iniziali di ‛storie universali'. La storia dei singoli Stati ed ethne dell'Oriente classico è stata naturalmente oggetto di numerosi saggi e taluni di questi studi hanno un posto di rilievo nella storiografia contemporanea: vi si distinguono per originalità di concezione i saggi dedicati alla Weltanschauung del Vicino Oriente da un finissimo interprete dei monumenti, Henri Frankfort. Ovviamente, il tempo non lungo trascorso dalla decifrazione delle antiche scritture orientali, la conseguente necessità di approfondite analisi filologiche dei documenti, la minore accessibilità delle fonti scritte del Vicino Oriente rispetto a quelle greche e latine, in una con i rilevati caratteri e limiti della tradizione ‛storica' orientale, spiegano l'esiguità della storiografia sull'Oriente in confronto con lo sviluppo della storiografia sul mondo classico; e considerazioni analoghe possono farsi per l'Oriente Medio e, almeno in parte, per l'Estremo.
Criteri, metodi e tecniche di ricerca della storiografia occidentale si sono diffusi nei paesi di tradizione culturale non europea, e studiosi asiatici e africani la cui formazione si è svolta sotto il segno di grandi religioni non nazionali (il buddhismo e l'islamismo, per citare le maggiori) non solo attendono a ricerche sulla storia dei loro rispettivi paesi, ma - come avviene segnatamente in Giappone, ove non pochi dotti si dedicano allo studio della storia occidentale, antica e medievale oltre che moderna - sono interessati a problemi storici delle civiltà da cui sono stati educati all'esercizio della ἱστορία e alla critica della loro annalistica nazionale e delle trasfigurazioni mitiche subite da memorie storiche per influenze religiose. Come è naturale, nella storiografia non europea opera profondamente la suggestione degli orientamenti storiografici legati alle ideologie politiche più largamente divulgate, in reazione a reali o presunte forme di ‛colonialismo' piuttosto che per critica informazione dei fondamenti teoretici. Tuttavia, anche là dove la storiografia ha giovani radici, la lettura dei grandi storici del passato e la pratica della ricerca correggono le deformazioni che il fanatismo produce; anche l'esempio della filologia ‛europea' ha alimentato un più severo spirito critico nella pubblicazione e nell'esegesi dei documenti.
Nell'ambito filologico, accanto alla continuazione di sistematiche collezioni e di repertori di testi e documenti, che sono stati le patenti di nobiltà dell'erudizione storica del secondo Ottocento - i grandi corpora epigrafici greci, latini, semitici, i Monumenta Germaniae Historica, la riedizione carducciana dei Rerum Italicarum Scriptores (per ricordare solo i massimi) - e alla composizione di analoghe raccolte, il Novecento ha visto sorgere le grandi collezioni di papiri e, con la codicologia, un perfezionamento dello studio dei libri manoscritti. La filologia e l'antiquaria del Novecento hanno integrato quelle dell'Ottocento con raccolte e classificazioni di manufatti non solo dell'evo antico ma anche del Medioevo: l'archeologia medievale, sviluppatasi nei paesi europei esterni o periferici rispetto al mondo greco-romano, viene infatti coltivata in crescente misura anche nelle sedi delle civiltà classiche. Una sistematica esplorazione di importanti archivi e biblioteche è stata inoltre promossa dalle dolorose esperienze fatte nel corso delle due guerre mondiali, particolarmente della seconda, che ha distrutto biblioteche e archivi preziosissi mi: basti ricordare l'incendio di migliaia di documenti medievali e moderni, pubblici e privati, dell'Archivio di Stato di Napoli, insostituibili fonti per la storia non soltanto italiana ma europea. Questo e altri gravi episodi hanno dato la misura dei rischi a cui la moderna tecnica della guerra espone i documenti storici e i monumenti dell'arte, specialmente nei centri urbani; e si va quindi provvedendo ad assicurarne la conservazione almeno in immagine, mediante le riproduzioni fotografiche che le tecniche attuali hanno portato a gradi altissimi di precisione.
L'impegno e il rigore nell'apprestamento dei ‛materiali' per la ricerca storica, il connesso intenso lavoro di archeologi, filologi e archivisti, il parallelo sviluppo della storia delle scienze fisiche restano però fatti notevoli ma marginali rispetto alla storiografia vera e propria, che esige in più vocazione filosofica, sensibilità ai problemi etico-politici, spirito liberale: la facoltà intuitiva, che si alimenta di queste doti, sa supplire al difetto di documenti, mentre questi, per copiosi che siano, non bastano a fare storia. È esemplare il caso del libro di Omodeo su L'opera politica del Conte di Cavour, in cui il geniale storico ha ‛divinato' quel che attestano o suggeriscono i documenti a cui la commissione incaricata dell'edizione delle carte cavouriane non permise accedesse lo studioso indipendente e inviso al regime fascista; e appunto Omodeo ha scritto, polemicamente, che ‟i documenti non basta copiarli e stamparli, ma bisogna anche capirli e connetterli"; e ha ricordato ‟il canone propedeutico che è così elementare da parer banale", che ‟alla storia è tanto necessaria l'euristica quanto l'ermeneutica delle fonti".
L'inesauribile ricchezza della storia si riflette nella ricchezza e varietà delle interpretazioni dei grandi storici, che dei canoni storiografici dettati da una secolare esperienza si valgono con la libertà e l'originalità con cui gli artisti si servono dei loro strumenti tradizionali. Come il pensiero e l'opera dell'uomo, la storia non soffre né schemi precostituiti né formule dogmatiche. Sentimento della dignità civile o passione politica, sensibilità artistica o finezza psicologica sono insieme stimolo e sigillo all'opera degli storici, come alla loro formazione. Ne danno testimonianza, nel nostro secolo non meno che nei precedenti, i maggiori storici, quelli che segnano la via: Gaetano De Sanctis, storico di Grecia e di Roma, severo nella disciplina morale come in quella filologica; l'ucraino Michail Rostovzev, impareggiabile vivificatore di dati archeologici, le cui drammatiche esperienze nella Rivoluzione russa hanno lasciato un'impronta nell'interpretazione della decadenza dell'Impero romano; George M. Trevelyan, che ispirandosi alla sua domestica tradizione macaulayana è stato scrupoloso nello studio dei documenti ma ha assimilato l'interpretazione dello storico alla creatività dell'artista; Herbert A. L. Fisher, che alla vigilia della seconda guerra mondiale, nell'ultimo volume - L'esperimento liberale - della sua Storia d'Europa, ha acutamente riassunto la ‟malinconica eredità" della prima guerra (‟l'unità morale dell'Europa è, per il momento, spezzata; il paganesimo nordico si oppone al Cristianesimo. Un insano razzismo minaccia di lacerare l'inconsutile veste della civiltà"); Henri Pirenne, che ha ravvisato nella conquista araba della costa meridionale del Mediterraneo il momento di frattura del mondo romano, la cui unità egli vede permanere, nonostante le invasioni barbariche, fino a Carlo Magno; Lucien Febvre, storico del sentimento religioso e della fervida vita del Rinascimento europeo, ‟dotto e acuto ingegno", come lo ha definito Croce pur lamentandone ‟l'aberrazione nel concetto di ciò che sia storia"; Augustin Renaudet, spirito libero, storico dell'Europa dell'Umanesimo e del Rinascimento, di Erasmo e di Calvino; l'austero Gerhard Ritter, storico della riforma luterana e della Germania modema; Hubert Jedin, studioso del Seripando e del Concilio tridentino: Delio Cantimori, spirito inquieto, storico dottissimo dei grandi movimenti religiosi dell'Europa moderna.
Ai nomi ora ricordati, e a quelli precedentemente citati, sarebbe giusto aggiungerne molti altri, non meno degni di particolare memoria: ché le esperienze, i travagli, le speranze del nostro secolo hanno suscitato molte vocazioni alla ricerca sotto il segno di Clio. Ma nel limitato spazio che resta potrebbe trovar posto soltanto un elenco di nomi. Di uno, tuttavia, di un grande maestro della storia dell'arte, Roberto Longhi, deve essere citata una pagina che offre materia di meditazione a ogni storico: ‟Il mondo purtroppo non ha mai concesso che un artista, pure alludendo con l'arte sua a tutto il circolo spirituale, esprimendo cioè una nuova bellezza che a sua volta suggerisce una nuova ragione e presume una nuova moralità, faccia rivoluzione totale. Tanto vero che artisti come il Lotto, il Caravaggio, il Rembrandt, finiscono come dei vinti, al bando della società in cui si trovano ad esser ospiti indesiderati, perché in contrattempo, perché più moderni di essa. Così, per converso, le rivoluzioni meramente pratiche, sociali o programmatiche non hanno mai da dettar nulla agli artisti e ai poeti o soltanto il peggio che sarà una qualunque retorica fiancheggiante come si può rilevare dal David allo Sciostacovich" (Viatico per cinque secoli di pittura veneziana, Firenze 1952, p. 18).
Due nomi infine risplendono nella costellazione dei grandi storici del nostro tempo: Benedetto Croce e Adolfo Omodeo, uniti l'uno all'altro da ‟qualcosa di più obiettivo e più sicuro che non fosse l'amicizia personale: una cerchia di pensiero" (come ha scritto Croce commemorando l'assai più giovane amico). L'uno ha segnato del suo nome un'epoca della cultura europea; l'altro, non del pari noto né in Italia né fuori, ha vissuto una vita difficile. Da una giovanile ortodossia gentiliana è giunto, attraverso un'esperienza storiografica di inconsueta ampiezza e complessità e di eccezionale vigore e profondità, a una piena adesione alla dottrina crociana: una conversione che negli anni venti del secolo, in Italia, esigeva una forza d'animo singolare; e difatti non vi fu un altro esempio. Lo spirito che ha diretto l'opera di Omodeo - che si estende dalle origini cristiane, da Paolo e dall'evangelio giovanneo, alla visione europea del Risorgimento italiano, a Mazzini e Cavour, alla cultura francese della Restaurazione, a Tucidide e a Calvino - è quello che fa della storiografia un'esigenza irrinunziabile, della storia un bene perenne dell'uomo: ‟La storia sviluppata in un sistema di civiltà, in un patrimonio grandioso, che va dal patrimonio tangibile dei monumenti, delle scoperte e delle invenzioni, a quello, sempre più sfuggente ad un apprezzamento economico, delle idee, della sensibilità morale, della coscienza giuridica, del gusto artistico, non può da noi essere apprezzato se non in un sistema e in un organismo. È perciò sempre positiva, quale che sia l'incremento che noi vagheggiamo, e il nostro canone di valutazione: anche se il prezzo d'opere e di dolori d'ogni acquisto poté parer troppo grave alle passate generazioni; anche se ad esse poté essere doloroso il non conseguire quanto desideravano. Noi questa opera di civiltà la scopriamo interiore a noi, e ne prendiamo possesso, e la riconosciamo ineliminabile" (v. Omodeo, 19552, pp. 599-600). (V. anche filosofia, progresso e storicismo).
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Fonti storiche di Giuseppe Galasso
sommario: 1. La ‛dottrina delle fonti' e le sue origini. 2. La revisione della nozione di fonte storica e le tecniche moderne. La storia à part entiére. 3. L'uso del calcolatore e le sue implicazioni. 4. Le ‛nuove fonti' della storia contemporanea: a) le fonti audiovisive; b) le fonti orali; c) la stampa periodica; d) arricchimento della tipologia delle fonti; e) la fisionomia generale delle nuove fonti. 5. Progresso e innovazione nella tutela e conservazione dei materiali. 6. Considerazioni conclusive. La storia come ‛storia contemporanea'. □ Bibliografia.
1. La ‛dottrina delle fonti' e le sue origini
Nei suoi scritti di ‛enciclopedia' e di ‛metodologia' della storia Gustav Droysen fissò, nei primi due o tre decenni dopo la metà del XIX secolo, una ‛dottrina delle fonti' che riassumeva sostanzialmente il cammino compiuto in più di quattro secoli dalle discipline storiche in Europa. Droysen distingueva accuratamente le ‛fonti' (Quellen) vere e proprie dagli ‛avanzi' (Überreste). Fonti in senso proprio erano per lui i materiali trasmessi ad hoc dal passato e aventi come fine ‟la rappresentazione o il ricordo che ne è stato registrato". Ciò che in essi ‟per noi è essenziale si è che coloro da cui provengono si proponevano di dare notizia di avvenimenti o situazioni precedenti". Avanzi erano, invece, per Droysen, i resti di cose del passato tuttora ‟conservate nel nostro presente", per quanto ‟variamente trasformate o frammentarie e quindi sfigurate": ‟così un antico edificio, un antico istituto corporativo, la nostra lingua stessa" e cosi via per tante ‟altre cose, forse dissotterrate o che si sono conservate nelle macerie e anticaglie di vecchie chiese o di castelli a lungo disabitati". Queste cose sono ‟testimoni tanto più eloquenti di tempi passati" in quanto ‟cento o trecento anni fa sono rimaste ferme, come sopra pensiero", mentre la lingua, ad esempio, è anch'essa ‟un pezzo del passato", ma ‟tuttora vivo e in pieno uso". Un tertium genus di fonti storiche veniva poi individuato da Droysen nei ‛monumenti' (Denkmäler), ossia in quei materiali costituiti da avanzi del passato aventi lo stesso ‛fine' delle fonti, la registrazione e il ricordo: una iscrizione o una pietra, un edificio o un'opera d'arte, una moneta o una medaglia e così via (v. Droysen, 1936; tr. it., pp. 38-39). A questa tripartizione fondamentale Droysen accompagnava varie distinzioni, interne a ciascuno dei tre ambiti fondamentali. Dalla sua classificazione emergeva, per un verso, che ‟la differenza di valore delle tre specie di materiali dipende dallo scopo per il quale debbono servire al ricercatore"; per l'altro verso, che ‟le fonti, anche le migliori, danno, per così dire, soltanto una luce polarizzata", mentre lo storico ‟procede con piena sicurezza fin nei minimi particolari, quando si tratta di avanzi: più acutamente li scruta, più gli riescono fruttuosi, ma sono come frammenti casuali e dispersi" (ibid., p. 347).
La classificazione di Droysen è solo un esempio fra i molti possibili nella trattatistica, anch'essa frequente fino ai primi decenni del XX secolo, di teoria e metodologia della storia. Droysen aveva, tuttavia, assai vivo il senso della peculiarità del lavoro storiografico. ‟Per la natura dei suoi materiali - egli scriveva - l'empirismo storico manca dei grandi aiuti che l'empirismo fisico ha nell'osservazione e negli esperimenti. Ma il presente del mondo etico compie esperimenti di ogni specie e consente l'osservazione più approfondita, e ciò offre all'indagine storica il surrogato che consiste nell'illuminare con analogie l'oscura incognita" (ibid.). Se si tralascia la forma di pura e semplice classificazione dei modi di trattare il materiale storico (ricerca e scoperta divinatoria, combinazione, analogia, ipotesi), Droysen coglieva, quindi, appieno almeno il senso della complessità del problema sia epistemologico che teorico della conoscenza storica. In generale, le altre classificazioni delle fonti nei trattatisti o negli studiosi coevi o posteriori a Droysen (v. Bernheim, 1889; v. Langlois e Seignobos, 1898) non manifestano orientamenti o indirizzi sostanzialmente diversi. Esse sono generalmente incentrate sulla distinzione fra, da un lato, le testimonianze lasciate dagli uomini e dalle società del passato intorno al loro pensiero, alla loro vita, azione, attività e, dall'altro lato, la funzionalità di tali testimonianze ai fini della conoscenza del passato; oppure, fra testimonianze dirette e volontarie e testimonianze indirette e involontarie. Solo in qualche caso la nozione di fonte storica viene elaborata in base a criteri di potenzialità e di onnicomprensività assolute e tali, quindi, da conferire al materiale a cui lo storico attinge la plasticità e la varietà che gli sviluppi della storiografia posteriore avrebbero richiesto, anche a prescindere - ove fosse possibile - dalle esigenze che in questo senso derivano da un'approfondita concettualizzazione o teoria della storiografia. Una definizione di questo genere (le fonti come ‟materiale dal quale la nostra scienza attinge la sua conoscenza") offre, ad esempio, - accanto ad altre sue che si muovono nella scia di quelle consuete - Bernheim (v., 1889, p. 252). Non è tanto, però, il forte carattere descrittivo e classificatorio della trattazione quanto il presupposto logico-epistemologico generale della considerazione relativa alle fonti a costituire il punto più debole della concezione tradizionale, se si guarda a essa dal punto di vista dell'esperienza storiografica posteriore. È stato osservato per Seignobos che ‟egli ha voluto darci le regole che permettono di stabilire la realtà di un fatto ‛esteriore', cioè ‛che accade nella realtà oggettiva'. Bernheim e molti altri lo avevano fatto prima di lui: si tratta di confrontare le affermazioni'. Il principio di tali confronti [è che] più osservatori indipendenti non possono ingannarsi allo stesso modo, se sono davvero indipendenti, se cioè non vedono le cose dallo stesso punto di vista, sia in senso letterale (osservatori nello stesso luogo) che in senso traslato (osservatori con gli stessi pregiudizi o soggetti a deformazioni analoghe). Occorre, inoltre, naturalmente, che le testimonianze indipendenti vertano sul medesimo ‛fatto', sugli stessi momenti, sugli stessi luoghi, le stesse persone, gli stessi episodi di un avvenimento. Se tutte queste condizioni sussistono insieme, se tutte le testimonianze concordano, il fatto è ‛scientificamente' stabilito; se non c'è concordanza, bisogna ‛soppesare' le testimonianze [...], scartare quelle ‛sospette' e, se sono tutte sospette, ‛astenersi dal concludere'" (v. Marichal, 1961, p. 1345). Sia la nozione di ‛fatto' che quelle di ‛realtà oggettiva' e di ‛prova scientifica', costituenti l'impalcatura concettuale della teorizzazione non solo di Seignobos, ma di tutta la cultura del positivismo, sono venute via via cedendo dinanzi alle istanze critiche emerse nel corso del XX secolo.
Certo, non ovunque il processo è stato così articolato come si è potuto descriverlo per la Francia. Qui - è stato osservato - ‟la generazione posteriore a quella di Seignobos, la generazione dei Febvre e dei Marc Bloch, se ha fatto spesso di lui una sua ‛testa di turco' (soprattutto Febvre), professava tuttavia per lui ancora qualche indulgenza [...]. La generazione seguente fu più sdegnosa: ha studiato filosofia con Bergson [...]; ha letto, o avrebbe potuto leggere se avesse avuto, come dice Febvre, maggiori ‛bisogni filosofici', i primi scritti di Heidegger e di Jaspers; il ‛positivismo' di Seignobos le sembrava sommario. Si leggeva À l'ombre des jeunes filles en fleurs e la psicologia di Seignobos appariva sommaria. Si studiava la matematica elementare al tempo in cui Einstein andava a esporre la teoria della relatività al Collège de France e dialogava con Bergson sul tempo, mentre Planck e Bohr fondavano la meccanica dei quanti e Louis de Broglie la meccanica ondulatoria. I professori facevano del loro meglio per mettere la loro generazione al corrente di tutto ciò; ed essa, anche se non ne capiva forse gran che, ne coglieva abbastanza per trovare comico che un Seignobos potesse parlare di ‛Osservazione' e di ‛osservatore' a proposito di un Commynes, di un Tacito o anche di un Tucidide, e deplorevole che, ignorando così evidentemente i procedimenti delle scienze fisiche e naturali, egli si avventurasse a confrontarle con le scienze storiche" (ibid., pp. 1345-1346). In Germania l'ortodossia accademica e l'osservanza delle autorità stabilite da vecchie o da nuove tradizioni consentirono invece alla ‛linea Bernheim-Droysen' di mantenersi vigorosamente viva, al punto da rendere ineccepibile l'osservazione che ‟ci sono stati dei tentativi di critica alla classificazione di Bernheim, particolarmente all'interno della scienza tedesca, ma queste critiche (A. Feder, W. Bauer, E. Kayser e altri) hanno introdotto più confusione che utilità per lo sviluppo della teoria delle fonti storiche" (v. Topolski, 1973; tr. it., p. 452). In Italia la critica alla teorizzazione positivistica delle fonti passò, a sua volta, attraverso un vaglio filosofico più radicale, basato soprattutto sull'affermazione, sia neoidealistica che marxistica, della natura ‛ideologica' delle fonti, e ciò sia nel senso etico, politico e culturale sottolineato da parte neoidealistica che in quello degli interessi e delle classi privilegiate sottolineato da parte marxistica. Le fonti finivano così con l'avere legittimità e validità non per la loro genesi e per l'analisi filologica che ne stabiliva il fondamento, bensì, in una prospettiva-limite, per l'elaborazione attualizzante che ne faceva lo storico nella concretezza del suo condizionamento sociale e culturale.
La nozione di fonte storica elaborata dalla cultura positivistica rappresentava, in ogni caso, il culmine di un processo plurisecolare di fondazione della tecnica moderna della ricerca storica, processo che ha il suo inizio, simbolico e concreto a un tempo, con la dimostrazione dell'inautenticità della cosiddetta ‛donazione' di Costantino ad opera di Lorenzo Valla intorno al 1440. Le edizioni umanistiche degli scrittori classici segnarono un altro momento molto importante nella costituzione delle discipline moderne relative alla critica e alla storia delle tradizioni testuali. Un momento ulteriore si ebbe con le polemiche fra cattolici e protestanti, che le Centurie di Magdeburgo (1559-1574) e gli Annales ecclesiastici del Baronio (1588-1607) espressero nelle formulazioni più complesse delle rispettive tesi storiografiche: l'autenticità e la qualificazione delle fonti bibliche e dell'intera letteratura e documentazione cristiana spingevano necessariamente a rendere quanto più possibile indiscreto lo sguardo con cui da ciascuna trincea si spiavano le armi critiche e le risorse di autorevolezza testuale messe in campo dall'avversario. Intanto, fin dalla prima meta del XV secolo era incominciato lo scavo archeologico sollecitato dall'interesse umanistico di riportare alla luce le opere d'arte dell'antichità, ora assunta a modello etico ed estetico; e scritti importanti su argomenti che avrebbero poi figurato in primissimo piano nell'ambito delle discipline considerate ausiliarie della storia apparivano con sempre maggiore frequenza (dal trattato di decrittazione del Simonetta nel 1474 al Computus chirometralis dell'Anianus nel 1488, dalla Polygraphia del Tritemio nel 1518 ai Cinq livres sur l'as et ses parties del Budé nel 1514, dal prontuario delle medaglie di Rouille e Lyon nel 1533 al De re nummaria e al De emendatione temporum dello Scaligero nella seconda metà dello stesso secolo, dal De archiviis di Baldassarre Bonifacio nel 1532 fino alla raccolta di iscrizioni latine di Jan Gruter nel 1603, al De prima scribendi origine del padre Hugo nel 1617 e alla Histoire des grands chemins de l'Empire romain nel 1622). Contemporanee furono pure l'organizzazione e la legislazione dei grandi archivi, nuclei delle future imponenti raccolte della documentazione pubblica, e la nascita delle grandi biblioteche moderne: da quella Vaticana - per fare un solo esempio -, che si deve a Nicolò V intorno al 1450, agli archivi - per fare sempre un solo esempio - della sua Corona concentrati da Filippo II a Simancas nel 1567 e oggetto nel 1588 della prima regolamentazione archivistica moderna, così come nel 1571 appariva il primo trattato moderno di archivistica dovuto a Jakob von Rammingen. Anche gli archivi notarili fiorentini - primo esempio di archivi privati - furono riuniti e concentrati in una sola sede da Cosimo I nel 1569. A sua volta il Concilio di Trento regolava, dal 1563, la tenuta dei registri parrocchiali dei matrimoni e delle nascite, dopo le normative analoghe impartite dall'autorità regia in Inghilterra nel 1538 e in Francia nel 1539. Agli inizi del XVII secolo veniva stabilito in Toscana il diritto pubblico di prelazione sui documenti storici messi in vendita. Alla metà del XVII secolo iniziava, con l'attività dei padri bollandisti, la pubblicazione delle grandi serie di fonti storiche: risale al 1643 l'inizio di quella degli Acta Sanctorum. Tra il 1675 e il 1681, con la dissertazione del gesuita olandese D. van Papenbroeck sulla pubblicazione delle carte antiche e con la successiva risposta del benedettino Mabillon nel De re diplomatica, si avviava anche la trattazione scientifica della paleografia e della diplomatica moderne. Il supplemento dato dal Mabillon alla sua opera nel 1704 e la Palaeographia graeca di B. de Montfaucon nel 1708 fornirono a questa trattazione ulteriori, cospicui elementi. Ma ormai - si può ben dire - il quadro preparatorio e le condizioni intellettuali di fondo della grande serie moderna delle discipline antiquarie e filologiche erano sostanzialmente già tutti posti. L'avvio, nel corso del XVIII secolo, di una prassi delle rilevazioni statistiche sempre più organica e regolare vi aggiungeva un coronamento destinato a particolari fortune. Anche l'originaria limitazione all'ambito della tradizione greco-romana ed europea veniva rapidamente meno. L'antico Medio Oriente, soprattutto, e via via ben presto le altre civiltà extraeuropee antiche e moderne facevano il loro ingresso nella serie dei grandi campi di studio dell'archeologia e della filologia moderne. Il secolo che corre fra l'inizio dei primi scavi sistematici a Ercolano e il Précis du systéme hiéroglyphique con cui J.-F. Champollion completava nel 1824 la decifrazione dell'antica scrittura egizia segnava, da questo punto di vista, una svolta decisiva e simbolica. La cultura europea del romanticismo e del positivismo avrebbe dato le grandi collezioni di fonti, le grandi campagne archeologiche, le grandi ricerche geologiche e paleontologiche, le grandi sistemazioni degli archivi e delle biblioteche così come dei musei e delle gallerie, le scuole (come l'École des Chartes, riorganizzata su più solide basi nel 1846, che ne è un po' il simbolo più rappresentativo) e le accademie, gli istituti e le fondazioni con i loro grandi periodici, le elaborazioni metodologiche e tecniche, le grandi sintesi trattatistiche e manualistiche, il sistema delle rappresentazioni cartografiche e tutte le procedure e gli strumenti sui quali l'erudizione e la filologia storiche avrebbero riposato con la sicurezza di una base ‛scientifica', quale che potesse essere il senso in cui sarebbe stato di volta in volta inteso l'aggettivo. Si può, dunque, comprendere agevolmente come e perché la classificazione delle fonti elaborata da Droysen - e così pure le altre del suo tempo e del periodo posteriore - effettivamente rappresentasse, come si è detto, la fase finale e culminante del lungo processo che aveva portato alla costituzione delle tecniche moderne di indagine storica e della loro teorizzazione. A questo riguardo è, tuttavia, da notare ancora che in quelle tecniche - e anche nella loro teorizzazione - la nozione di fonte storica viene elaborata privilegiando nettamente le fonti scritte e, all'interno di queste, le fonti narrative. A esse viene in ogni caso assegnato il posto d'onore nella gerarchia della documentazione. Il presupposto è, naturalmente, quello ricordato da Seignobos: ‟L'histoire se fait avec des documents"; ossia un presupposto che fondava la ‛scientificità' su un metodo induttivo applicato a ‛prove' (i documenti, appunto) analizzabili e discutibili, e quindi sul ripudio di ogni ‛tradizione' o ‛autorità' e sul principio laico di un razionalismo senza eccezioni. Era in particolare per tale privilegiamento che la dottrina delle fonti incorreva più direttamente nella critica - soprattutto, ma non soltanto, idealistica e marxistica -, che definiva, invece, con rigore sempre più sofisticato il condizionamento storico, sociale, culturale delle fonti così privilegiate. Erano osservazioni che non potevano essere controbattute con l'imputazione di soggettivismo o relativismo, sulla quale si attestò in ultimo la cultura positivistica con le sue nozioni del ‛fatto', della ‛realtà oggettiva', della ‛prova scientifica'. Né si poteva ritenere che la questione del condizionamento potesse essere superata con lo sviluppo che effettivamente assunsero le discipline costituenti l'ambito critico definito come ‛esegesi delle fonti'. Non si trattava, infatti, di una pura e semplice questione tecnica, risolvibile tecnicamente con un adeguato affinamento delle procedure di indagine e, quindi, con un'ampia garanzia critica dei giudizi che ne sarebbero derivati. Si trattava, invece, di una questione che coinvolgeva (e coinvolge) la concezione generale della storiografia e, con essa, quella del suo carattere scientifico. Il campo è rimasto teoricamente diviso, da questo come da altri punti di vista, tra coloro che - su una base ritenuta comunque scientifica - assegnano alla storiografia un ruolo politico-sociale pregnante e ne fanno un momento più o meno essenziale della vita morale, sociale e culturale, dalla quale sarebbe a sua volta condizionata; coloro che considerano la storiografia come una scienza con un suo status metodologico e conoscitivo variamente interpretato e definito anche in relazione alle nozioni generali di scienza e ai rapporti teorizzati con le scienze matematiche e naturali; e coloro che della storiografia in varia forma propongono o ripropongono concezioni anti-intellettualistiche (letterarie, probabilistiche, utilitaristiche, pragmatistiche e così via). E, naturalmente, la dottrina delle fonti (e, in linea di massima, i relativi criteri esegetici) varia anch'essa in relazione al diverso fondamento concettuale attribuito all'attività storiografica (conoscenza più o meno pura? attività pratica, sociale o politica? attività immaginativa o figurativa? ecc.).
2. La revisione della nozione di fonte storica e le tecniche moderne. La storia à part entiére
Non è stato, tuttavia, tanto il dibattito relativo alla concezione generale della storiografia a provocare una revisione della nozione di fonte storica quanto, invece, l'esperienza concreta del lavoro storiografico quale si è venuto via via sviluppando alla luce di nuovi interessi e di nuovi atteggiamenti culturali e nel contatto diretto o indiretto fra le discipline storiche, nonché fra queste e altre discipline. Soprattutto per quanto riguarda i nuovi interessi, il processo è stato particolarmente chiaro e cospicuo. L'attenzione degli storici ha reso, infatti, non solo centrali (da periferici che erano), ma tendenzialmente addirittura esclusivizzanti o, almeno, dominanti i temi di studio concernenti la cosiddetta ‛cultura materiale', la vita quotidiana, le dimensioni materiali e psicologiche dell'esistenza sia individuale che collettiva. Da tali ampliamenti la storia della letteratura e quella dell'arte, quella del pensiero e quella dell'economia, quella della tecnica e quella delle strutture demografiche e produttive sono uscite trasformate profondamente nei loro procedimenti e nei loro metodi di ricerca. Per il ruolo centrale precedentemente tenuto dalle fonti scritte, soprattutto quelle narrative, ciò ha significato, se così ci si può esprimere, un indebolimento notevole. L'ampliamento della tematica storica comportava, infatti, una perdita di centralità per i temi di storia politica e istituzionale, intorno ai quali si erano costituite la dottrina e le grandi raccolte moderne delle fonti storiche. In linea di massima le cosiddette ‛fonti involontarie' ne hanno ricevuto un incremento di grandissimo rilievo. Si ritrova, invero, ancora affermata la vecchia posizione che (secondo la definizione del polacco M. Handelsman, che può essere considerata, malgrado tutte le possibili varianti, esemplare di tutto questo modo di vedere le cose) vedeva in tali fonti, perciò definite ‛dirette', le ‟tracce dirette conservate dell'esistenza e dell'attività dell'uomo nel passato", mentre i ‟documenti destinati a preservare la memoria dei tempi passati" costituivano le fonti ‛indirette', con una variazione soltanto semantica, come si vede, delle definizioni bernheimiane (v. Topolski, 1973; tr. it., p. 453). Ma si è certamente assai più generalizzata la convinzione che non solo le tracce che ci è possibile rinvenire dell'esistenza e dell'attività dell'uomo, ma il mondo tutto, così come noi lo possiamo leggere intorno a noi con ogni strumento possibile, è fonte storica, attuale o potenziale, senza limitazioni di sorta. La stratificazione geologica, gli anelli attestanti gli accrescimenti degli alberi, le variazioni del clima, le alterazioni naturali della superficie terrestre, le testimonianze paleontologiche come quelle della corrente vita vegetale e, animale sul pianeta terrestre, insomma la storia naturale della Terra e delle forme di vita da essa ospitate, sono elementi della ricerca storica da cui non si saprebbe più prescindere nel quadro di una definizione delle fonti storiche. Più specificamente, al di là di ciò, nelle stesse testimonianze volontarie, dirette o indirette della storia umana, l'attenzione alla ‛cultura materiale', alla vita quotidiana, alla storia delle mentalità e dei comportamenti ha promosso definitivamente a testimonianza storica qualsiasi tipo di oggetto o di traccia del passato, senza alcuna discriminazione, per questo aspetto, circa il suo significato o valore artistico o culturale. L'universalità del carattere di fonte storica ha, anzi, conglobato anche il patrimonio morale e mentale dell'umanità vivente. Ciò che, da un punto di vista indirizzato nel senso platonico della conoscenza come anamnesi, un autore come il Croce, orientato in tutt'altro verso (e, peraltro, con grande acutezza e apertura proprio nel senso del carattere delle fonti di cui parliamo), diceva su questo patrimonio considerato come fonte storica è diventato valido e generalmente accettato dal punto di vista di una storia condotta con interessi e su basi socio-antropologiche. Il Croce si riferiva, infatti, non solo alle ‟trasformazioni fatte della superficie terrestre", bensì a tutte ‟quelle fatte nella profondità degli animi, ossia negli istituti politici, morali, religiosi, nelle virtù e nei sentimenti via via formati lungo i secoli e ancor vivi e operosi in noi" (v. Croce, 1938, p. 109).
Può essere interessante osservare che gli sviluppi qui sommariamente illustrati hanno prodotto come una sorta di scivolamento dei tipi di fonti caratteristici di una periodizzazione o di un ambito storiografico a quelli successivi. Così il reperto materiale di tipo archeologico, proprio dello scavo preistorico e di quello consacrato alle antichità mediorientali e greco-romane, si è esteso fino all'arco della storia moderna e contemporanea nella quale il museo delle tradizioni popolari, le raccolte di attrezzi e strumenti o di macchine e di arnesi, le collezioni di arredamenti e di abbigliamenti, come pure di oggetti preziosi e decorativi, hanno ormai un posto consacrato dalla sensibilità generale prima ancora che dall'uso. A sua volta il documento notarile, fonte privilegiata della storiografia medievistica, ha fatto anch'esso il suo ingresso nella storia moderna e contemporanea, dove è diventato, fra l'altro, uno dei supporti principali delle tecniche quantitativistiche. A loro volta le grandi relazioni e inchieste dei poteri e delle amministrazioni pubbliche, che caratterizzano i primi momenti di maturità e di efficienza dello Stato moderno, sono rimaste anche alla base di procedimenti specifici della storia contemporanea. Inversamente, la fonte narrativa, memorialistica, epigrafica, di tradizione antica con prosecuzione medievale fino al Rinascimento, i regesti o le edizioni di intere serie notarili proprie della medievistica, le corrispondenze e i documenti diplomatici di tradizione modernistica hanno conosciuto un relativo declino della loro precedente egemonia. Gli apparati critici degli studi più significativi testimoniano con eloquenza gli effetti di queste variazioni. Negli archivi stessi, i fondi prima trascurati o reputati meno ‛nobili' di quelli della diplomazia o dell'alta amministrazione hanno acquistato una importanza affatto nuova e figurano, insieme con i fondi notarili, fra i più consultati. Parallelo è stato pure lo sconfinamento reciproco delle varie periodizzazioni e ambiti storiografici nelle loro tecniche e nei loro metodi di lavoro. Esemplare il caso dell'archeologia classica. Essa, ricordava R. Bianchi Bandinelli, ‟era un ramo della ‛Scienza dell'Antichità', la Altertumswissenschaft, formatasi nel secolo XIX nelle università tedesche e che ebbe, a suo tempo, un valore culturale, e politico, di non poco rilievo. Il suo valore culturale stava essenzialmente nella tendenza a formare una scienza unitaria, sintesi di tutto quanto riguardasse l'antichità classica; il suo segno politico fu (spesso inconsapevolmente) di conservazione e anche, francamente, di reazione. Fu un ‛umanesimo' ristretto che riprendeva non le posizioni progressive del primo Quattrocento, ma quelle conformiste dei primi umanisti italiani ed europei. Oggi la Altertumswissenschaft sopravvive qua e là come sterile gioco di problemi filologici, ma l'inevitabile specializzazione ha rotto quello che era il suo forse unico valore. Oggi la ricerca archeologica, congiunta a quella etnologica, si estende a ogni età e a ogni luogo. L'antichità classica non ne è che uno degli argomenti, e il suo intento è esclusivamente storico" (v. Bianchi Bandinelli, 1976, p. IX). Analogo può essere giudicato il caso della filologia classica. G. Pasquali, autore al riguardo addirittura canonico, e tra i primissimi a ‛sconfinare' dal campo della critica testuale dei classici greci e latini con esemplificazioni e paralleli fin della letteratura italiana del XIX secolo, faceva osservare che, intanto, ‟le condizioni di propagazione dei testi non sono essenzialmente mutate dalla tarda antichità per tutto il Medioevo sino alla diffusione dell'arte della stampa", e prevedeva perciò che, come infatti accadde, il suo, come ‟libro di un filologo classico che non si vergogna della sua filologia", avrebbe trovato ‟risonanza ancor più tra medievalisti, romanisti, germanisti, storici, diplomatisti che tra filologi classici" (v. Pasquali, 19522, p. XIV), con una estensione consapevole ai testi medievali e moderni dei metodi applicati nella filologia classica già nei primi decenni del XIX secolo. È sintomatico, anzi, che, trovatisi a pubblicare nel 1980 per ‟la prima volta [...] un'edizione critica entro certi limiti esauriente di tutta l'opera poetica di un autore contemporaneo", e cioè le poesie di Montale, i curatori di tale edizione abbiano dichiarato, nella loro Nota, di non poter ‟nutrire in nessuno l'illusione che, con un autore sempre presente a ogni richiesta davanti a un medesimo tavolino o, come dicono i francesi, all'altro capo del filo telefonico, le cose vadano, in filologia testuale, diversamente, e soprattutto più facilmente, che nel caso, fin qui normale, di forzosa assenza del produttore. L'operazione ha un'oggettività per la quale la parola del cosiddetto interessato ha un significato, quantunque ovviamente preziosissimo, informativo piuttosto che ultimativo" (cfr. la Nota dei curatori, in E. Montale, L'opera in versi, a cura di R. Bettarini e G. Contini, Torino 1980, p. 831). A sua volta un medievista di particolare sensibilità e finezza tecnica ha potuto sottolineare che, nell'interferire di storia e di etnologia, ‟la considerazione etnologica propone allo storico una documentazione nuova, diversa da quella alla quale egli è abituato. A sua volta, l'etnologo non disdegna il documento scritto, ma ne incontra così raramente che i suoi metodi sono fatti per non farsene carico. Qui lo storico è chiamato ad impegnarsi con l'uomo quotidiano, non impacciato, e che non si farebbe impacciare, da cartacce nell'universo senza testi e senza scrittura. Egli vi incontrerà innanzitutto l'archeologia non quella tradizionale volta al monumento o all'oggetto, intimamente legata alla storia dell'arte, bensì l'archeologia del quotidiano, della vita materiale, quella illustrata dagli scavi inglesi di M. Beresford nei lost villages, polacchi di W. Hensel e dei suoi collaboratori nei grods dell'antica area slava, franco-polacchi della VI Sezione dell'École Pratique des Hautes Études in diversi villaggi della Francia meridionale. Lo storico incontra inoltre l'iconografia, ma anche qui non tanto quella della storia dell'arte tradizionale, legata alle idee e alle forme estetiche, quanto quella dei gesti, delle forme utili, degli oggetti perituri e indegni dello scritto. Se, però, un'iconografia della cultura materiale ha cominciato a costituirsi, del tutto embrionale appare, invece, un'iconografia delle mentalità, difficile ma necessaria, implicita intanto nello schedario, ad esempio, del Dipartimento d'arte e di archeologia dell'Università di Princeton. Lo storico si imbatte, infine, nella tradizione orale, i cui problemi sono formidabili. Come fare per l'orale nel passato? Si possono identificare orale e popolare? Qual è stato nelle diverse società storiche il significato dell'espressione ‛cultura popolare'? Quali sono stati i rapporti fra cultura dotta e cultura popolare?" (v. Le Goff, 1977, p. 345).
Questi esempi potrebbero essere facilmente moltiplicati. Più importante è, però, aggiungere, alla constatazione dello scivolamento sopra indicato dei vari tipi di fonti dalle periodizzazioni più antiche a quelle successive, la parallela constatazione di un inverso e altrettanto significativo rivolgersi della tecnica più recente verso le testimonianze del passato. L'applicazione delle tecniche moderne (dai raggi X ai rivelatori chimici, dalla fotografia aerea alle elaborazioni statistiche meccanizzate e più sofisticate, e via dicendo) all'esame delle fonti storiche ha comportato rinnovamenti sostanziali della tecnica e dei metodi di ricerca in tutte le discipline storiche. In sostanza, l'ampliamento delle testimonianze e dei dati considerati come fonti storiche non avrebbe di per sé comportato tutte le conseguenze che effettivamente ha comportato, se non fossero mutati anche i metodi di trattamento delle fonti stesse. Più esattamente, i due processi, quello di allargamento del materiale considerato come fonte storica e quello di innovazione del suo trattamento, formano un unico svolgimento che va esso stesso considerato nel suo insieme. Già agli inizi del XX secolo si avevano non solo le prime applicazioni del metodo stratigrafico agli scavi archeologici, ma anche l'applicazione di procedimenti fisico-chimici alla tecnica degli scavi, del restauro e della conservazione. Tra il 1907 e il 1913 si operavano pure, al largo di Mahdia, i primi scavi sottomarini. Già dal 1904 veniva istituito a Berlino il Phonogramm Archiv, mentre dal 1 906 si costituivano i primi depositi di archivi economici, dovuti alla Camera di Commercio di Colonia e seguiti nel 1910 dalla istituzione degli Archivi Economici Svizzeri a Basilea. Nel 1911 veniva inaugurata a Pompei e a Ercolano la nuova tecnica di scavo consistente nel taglio orizzontale delle costruzioni; e venivano fondate a Parigi le Archives de la Parole (poi Musée de la Parole et du Geste), le cui prime missioni fonografiche avevano luogo l'anno seguente. Con la prima guerra mondiale sopravvenivano le prime utilizzazioni della fotografia aerea. Nel 1925 si procedeva in Francia all'applicazione dei raggi ultravioletti allo studio dei manoscritti. Nel 1930 una conferenza internazionale, tenutasi a Roma, era dedicata allo studio dei metodi scientifici nell'esame e nella conservazione delle opere d'arte. Fra il 1935 e il 1936 venivano costituite in Inghilterra, in Unione Sovietica e in Italia le prime cineteche e nel 1938 in Francia una Phonothèque Nationale. Numerose erano state, intanto, le fondazioni di musei foldorici, da quello di Cardiff nel 1907 al Musée National des Arts et des Traditions Populaires al Palais de Chaillot di Parigi, così come le scoperte di nuovi testi e di nuove scritture (da quelle delle epigrafi non decifrate nella valle dell'Indo, nel 1921, alle tavolette minoiche di Pilo nel 1938, dai documenti ugaritici di Ras Shamra del II millennio a. C., nel 1929, ai manoscritti del Mar Morto nel 1947), via via decifrati, e le sempre più ampie e antiche scoperte preistoriche (ad esempio, quelle americane degli scavi di Folsom nel 1926). Tra il 1949 e il 1950 si avvia a Parigi l'istituzione di un servizio di microfilm negli archivi. Il 1952 vedeva l'utilizzazione del detettore elettromagnetico negli scavi archeologici e preistorici, e tra il 1955 e il 1957 si aveva il primo impiego del periscopio di Nistri negli scavi etruschi. Con gli anni sessanta cominciava, infine, la marcia trionfale del calcolatore nel trattamento di serie massicce di dati di ogni genere. Parallelamente era, intanto, proceduto lo sviluppo della legislazione concernente archivi, musei, gallerie, ecc.; il deposito e la conservazione delle carte pubbliche e private; la conservazione e il restauro artistico, monumentale e ambientale; la copia di carte e la riproduzione di elementi documentari e monumentali; la circolazione nazionale e internazionale; il deposito legale di tutte le edizioni, ivi comprese quelle musicali; e così via. Sintomatica delle nuove istituzioni e dei nuovi regimi politici in questo settore è la formazione di musei nuovi, del tipo del Museo della Rivoluzione istituito a Mosca nel 1929 o del Museo Fascista istituito a Roma nel 1930. Nuove grandi tradizioni sono avviate nei paesi più importanti. Negli Stati Uniti erano fondati archivi nazionali a Washington nel 1934 e la National Gallery nella stessa città nel 1940, mentre nel 1949 e nel 1950 una speciale commissione provvedeva a riorganizzare gli archivi nazionali. Nell'Unione Sovietica, dopo un decreto del 1918, una nuova legge del 1941 regolava organicamente la materia archivistica. Altrettanto avveniva in Inghilterra col Public record act del 1958. In Italia l'istituzione del Ministero per i Beni Culturali e Ambientali comportava un nuovo inquadramento di archivi, biblioteche e musei nella pubblica amministrazione, e sottolineava, negli anni settanta, un'ultenore estensione della concezione di patrimonio storico. La salvaguardia di ambienti naturali e di strutture urbanistiche ed edilizie consentiva, infatti, di avere sott'occhio in misura apprezzabile l'entourage del passato e in maniera più viva e diretta di quanto non potesse accadere attraverso la riesumazione archeologica. Veniva confermata così, anche per questa via, la tendenza complessiva al massimo avvicinamento possibile di tutte le discipline storiche a quelle dell'arte e della letteratura nel loro privilegio di disporre delle proprie fonti essenziali le opere d'arte e letterarie -, almeno quando esse sono conservate, in maniera diretta e viva.
Lo spostarsi del tipo di approccio e di valutazione delle fonti storiche da una disciplina all'altra e la generalizzazione dei procedimenti tecnici moderni non hanno annullato, tuttavia, le esigenze dello specialismo. Si può, anzi, dire che queste esigenze siano cresciute proprio in rapporto agli sviluppi sopra illustrati, dato che, al limite, ogni tecnica di trattamento delle fonti esige la sua specializzazione. In tale senso si è, comunque, di fatto accentuato, proprio e soprattutto per la problematica delle fonti e in tutta l'attività storiografica, l'indirizzo generale della ricerca moderna e contemporanea, che si esprime nella segmentazione progressiva (cronologica, geografica, settoriale, tematica) delle competenze disciplinari. Riflessi metodologici più alti e più cospicui non sono mancati. La graduale transizione dell'oggetto storico da fatto o evento a processo o sviluppo, il conseguente metro della lunga durata come canone più adeguato all'impostazione dello studio di processi e sviluppi, la prevalenza dell'analisi quantitativa su quella qualitativa per gli studi da condurre con ampiezza soddisfacente sulla base sociale più larga sono altrettanti esempi di reciproca interferenza tra le nuove vedute, che spingevano a una diversa considerazione e trattamento delle fonti, e le tecniche sollecitate dalla nuova configurazione che le fonti assumevano proprio per effetto della nuova considerazione e del nuovo trattamento. Né questa situazione è priva di elementi contraddittori. Da un lato vi sono, infatti, la forte spinta alla storicizzazione, che deriva dalla prevalenza della dimensione di processo su quella di evento, dall'allargamento della considerazione storica all'ambiente naturale e all'influenza delle permanenze di più lunga durata, e la promozione storiografica di ogni ambito e momento della vita sociale a oggetto perfino privilegiato della considerazione storica. Tali elementi corrispondono all'esigenza storicistica che la cultura europea ha sentito più di ogni altra nel XIX secolo e che si è tradotta, nei diversi momenti e tendenze di quella cultura, in idee centrali come quelle di progresso, dialettica, civiltà, evoluzione e così via. La stessa aspirazione a una storia globale, à part entiere, totale, integrale, o come altrimenti veniva e viene detto, si trova già matura nella stessa fase della cultura europea. Andrebbe messo, anzi, in rilievo che idee fortemente storicizzanti, quali quella di progresso o quella di civiltà intesa come totalità storica, appartengono già al patrimonio intellettuale europeo nella fase matura dell'illuminismo. Da questo punto di vista il parallelismo o la sovrapponibilità fra molti modelli, idee e nuclei espositivi della storiografia illuministica, di quella positivistica e di quella della seconda metà del XX secolo sono addirittura macroscopici. Ulteriormente da notare è anche il legame fra questi modelli, idee e nuclei, già nella loro prima formulazione illuministica, con la curiosità, i metodi e le aperture dell'erudizione europea dalla metà del XVII secolo in poi tipico il caso del Muratori con gli interessi e i criteri seguiti nelle Antiquitates italicae Medii Aevi e nella collezione dei Rerum italicarum scriptores. L'idea stessa di una ‛scienza' storica è di netta ascendenza illuministica. Le forti connotazioni utopistiche dell'Esquisse di Condorcet non nascondono, anzi esaltano, questa componente scientistica nella maniera più esemplare. Dall'altro lato, però, alla forte spinta storicizzante si oppongono lo spirito di sistema, l'assimilazione scientistica della storia alle discipline matematiche e naturalistiche, la sua oggettivazione in una costruzione intellettuale presieduta da un concetto ‛puro', cioè astratto, di verità. Nella sua forma estrema tale indirizzo ha ispirato, nella storiografia della seconda metà del XX secolo, un privilegiamento assoluto (comprensibile, ma invero fin troppo corrivo) dell'elemento quantitativo, il più vicino al modello ‛scientifico' della storia. A sua volta, il privilegiamento della quantità porta a privilegiare le fonti che possono più adeguatamente permetterne l'esaltazione. Gli archivi notarili e quelli di amministrazioni (come quella militare, quella finanziaria, quella giudiziaria) che consentono lo spoglio di documentazioni assai estese, sull'ordine anche delle centinaia di migliaia di dati, e per periodi prolungati o addirittura secolari, appaiono così in primissimo piano. Uno dei più acuti e preparati fautori di tale orientamento ha potuto anche affermare che ‟al limite [...] solo il quantificabile può essere oggetto di una storia scientifica". È vero che lo stesso Le Roy Ladurie nota, per inciso, che si tratta di un limite ‟lontanissimo e in certi casi talmente fuori tiro delle attuali ricerche da poterlo soltanto immaginare" (v. Le Roy Ladune, 1973; tr. it., p. 18). Ma questa onesta e intelligente riserva non fa che confermare, come è ben chiaro, lo spirito e l'indirizzo dell'orientamento in questione. Lo stesso studioso ha messo in rilievo come un siffatto studio della quantità debba al calcolatore e all'introduzione delle tecniche computeristiche nella ricerca storica non solo un potenziamento enorme, ma anche la sua stessa praticabilità e, al di là di questa, la sua orientabilità ai fini e ai valori desiderati dallo storico.
3. L'uso del calcolatore e le sue implicazioni
Gli esempi e le considerazioni di Le Roy Ladurie meritano di essere ulteriormente seguiti sia perché illustrano un modo rilevante di trattare le fonti sia per le riflessioni che sollecitano. ‟Il calcolatore egli scrive ha finito per trovarsi al centro di una delle più feconde discipline della nuova scuola, la demografia storica. In questo campo il compito più arduo e, soprattutto, più faticoso consisteva nella rincostruzione delle famiglie vissute ad esempio nel XVII e XVIII secolo. I ricercatori che vi si accingevano erano costretti finora a compilare per un determinato villaggio, oggetto dei loro studi, schede di tutti i matrimoni, battesimi e sepolture annotati nel corso di due secoli nei registri parrocchiali tenuti dai successivi curati. In un secondo tempo bisognava riunire queste decine di migliaia di dati in ‛schede familiari', ricostruendo in tal modo per ogni coppia la nascita, il matrimonio e la morte dei genitori e dei figli. Si trattava di un lavoro di schedatura titanico e deprimente, per cui potevano occorrere mesi ed anni senza che all'orizzonte spuntasse il più piccolo bagliore di scoperta intellettuale. Solo quando finalmente le famiglie erano state ricostruite, si poteva procedere a calcoli illuminanti sulla fecondità, la limitazione delle nascite, la mortalità, ecc. È questo il motivo per cui molti ricercatori a Cambridge e a Parigi elaborano dei programmi grazie ai quali si può affidare al calcolatore tutta la fase preparatoria più ingrata, dallo spoglio iniziale dei registri alla ricostruzione e all'impiego statistico dei dossier familiari. Alla fine, il compito dello storico consisterà quasi unicamente nel pensare: cosa che, in realtà, dovrebbe rappresentare la sua specifica vocazione" (v. Le Roy Ladurie, 1973; tr. it., p. 5). Non meno eloquente è l'altro esempio addotto da Le Roy Ladurie e relativo alla ricerca di un gruppo della École des Hautes Études sugli affitti a Parigi dal XV al XVIII secolo. Anche per questa ricerca ‟la chiave del successo stava nel calcolatore. I dati di base, relativi a questi affitti, dormivano da secoli negli archivi notarili o nei registri contabili di ospedali e conventi. Grazie a quest'indagine, considerevolmente accelerata dall'uso dei calcolatori, si è riusciti a risvegliare quei dati polverosi dal loro lunghissimo sonno e a porgli le domande fondamentali che assillano la storia quantitativa, quali ad esempio in quale periodo si colloca a Parigi una vera e propria rinascita economica? Si è avuto in questa città uno ‛sviluppo del XVI secolo' o una ‛crisi del XVII secolo' o una depressione alla fine del Medioevo? Il calcolatore ha consentito di trattare questi problemi con un margine di sicurezza molto superiore a quello ottenibile con i procedimenti classici del calcolo manuale. Entro limiti di tempo relativamente brevi, si sono ottenuti, infatti, non già un unico grafico medio degli affitti parigini, bensì più di un centinaio di curve che si avvalorano reciprocamente e che inoltre mettono in luce un'infinità di altri aspetti curve degli affitti secondo la professione dei locatori, secondo i quartieri, secondo il tipo di immobile o di proprietario, ecc." (ibid., pp. 5-6). Vero è che precisa Le Roy Ladurie ‟nella storia, come in ogni altro campo, ciò che conta non è la macchina, bensì il problema. La macchina può interessarci solo nella misura in cui ci permette di affrontare problemi nuovi e originali per metodo, contenuto e soprattutto ampiezza" (ibid., p. 3). Si resta in dubbio, tuttavia, fino a qual punto possa essere considerata puramente ‛tecnologica' questa trasformazione dei metodi di indagine, anche se, ad avviso dello storico francese, ‟gran divoratore d'informazioni, il calcolatore-stonografo si adatta del resto alle problematiche e addirittura alle ideologie più diverse" a quelle dello storico sovietico, che vuole ‟stabilire il grado di sfruttamento cui i grandi latifondisti russi del passato sottoponevano i contadini" (è il ‟più puro marxismo-leninismo, adattato però all'elettronica") come a quelle degli storici americani che, per ‟rivalutare la rivoluzione del 1776" e per ‟trovarci un contenuto eversivo e magari castrista", analizzano col calcolatore ‟le centinaia di migliaia di cifre contenute nei documenti fiscali delle Tredici Colonie", tentando di ‟dimostrare che le prime sommosse della guerra di indipendenza furono causate da uno stato di crisi sociale", giacché ‟i piccoli agricoltori, vittime della depressione e ridotti in miseria dal frazionamento delle loro terre, polarizzarono i loro rancori contro i dominatori britannici" (ibid., p. 4). In realtà, non è l'‛innocenza tecnica' del calcolatore a essere in discussione, e nemmeno la centralità permanente dell'iniziativa storiografica che sottopone al calcolatore le sue fonti e i suoi problemi, bensì piuttosto, e più radicalmente, il tipo di problemi e di fonti intorno a cui il calcolatore porta a focalizzare l'attenzione dello storico. Da questo punto di vista le vecchie fonti (fonti narrative, fonti ideologiche come esposizioni di dottrine e di fedi -, fonti della diplomazia e della politica, epistolari, memorialistiche e simili) rappresentano, indubbiamente, un momento capitale di richiamo alle dimensioni non quantificabili, irriducibili comunque a elaborazioni meccaniche o ad analisi fisico-chimiche, di forze storiche essenziali: da quelle della volontà individuale, variante perenne di ogni permanenza o struttura, a quelle di piccole e grandi forze sociali, nei cui atteggiamenti e comportamenti il contingente, la necessità attuale o le circostanze immediate giocano un ruolo analogo a quello della volontà individuale per il singolo. E si può da ciò misurare la superficialità con cui suole, per lo più, essere liquidata la ‛storia politica', la ‛storia degli avvenimenti', la ‛storia dei re e delle loro guerre e trattati', la ‛storia delle battaglie e delle conferenze diplomatiche', la ‛storia delle amministrazioni municipali' e di tutti gli organismi che, a livello (come suol dirsi con sufficienza) ‛ufficiale', rappresentano le articolazioni formali del potere e della vita civile. A parte l'elemento decisivo che il potere come tale (ossia, anche come volontà immediata e contingente) gioca nella realtà umana di ogni tempo e di ogni paese, l'importanza della sua considerazione in sede storiografica non sta certamente nella banale opportunità di ‟buoni repertori, modesti, coscienziosi, comodi e maneggevoli" o di ‟liste di fatti ‛oggettivabili'" con nomi di sovrani e magistrati, loro itinerari, vicende, ecc. (v. Manchal, 1961, pp. 1348-1350), per quanto sia giusto auspicare che ciò venga in ogni caso fatto sempre di prima mano sulle fonti e con i requisiti imposti dalla critica moderna. Quella importanza sta, infatti, innanzitutto nell'alternativa metodologica e teorica che la vecchia storia purché, beninteso, ininterrottamente ‛svecchiata' - rappresenta nei riguardi della ‛nuova' storia. La frequentazione, la ricorrente proposta, la revisione testuale, l'approfondimento critico delle ‛vecchie' fonti e della loro genesi testuale, ideologica, sociale, ecc. ne conseguono di necessità, non fosse altro che per la medesima insoddisfacente giustificazione e fondatezza teoretica già indicate a proposito della considerazione che porta a liquidarle allo stesso modo della ‛vecchia' storia e insieme a essa. Ma a parte ciò c'è da valutare lo stimolo pratico che da quelle fonti deriva (foss'anche soltanto sul piano psicologico) a uscire dalla logica della reductio ad unum meccanica e quantitativa, delineantesi sull'orizzonte metodologico e concettuale delle nuove tecniche di ricerca. È, però, vero ed è di particolare importanza il fatto che, come ancora nota Le Roy Ladurie, ‟la storia basata sull'informatica non si esaurisce in una categoria di ricerche ben determinate, ma sfocia altresì nella costituzione di un ‛archivio'. Una volta trasferiti su nastro o in schede perforate, e dopo essere stati usati da un primo storico, i dati possono essere infatti conservati per futuri ricercatori, che vogliano trovare correlazioni inedite. [...] Ne emerge un nuovo tipo di archivista, una specie di ingegnere della storia molto diverso dai grandi eruditi formatisi all'Ecole des Chartes" (v. Le Roy Ladune, 1973; tr. it., p. 6). La novità documentaria e archivistica trova, quindi, un corrispettivo immediato nei centri di formazione degli esperti dei nuovi tipi di dati rispetto a quelli della consolidata tradizione degli studiosi di carte, diplomi, cronache, narrazioni, atti vari, di cui l'École des Chartes è l'esempio storico più simbolico e significativo.
4. Le ‛nuove fonti' della storia contemporanea
a) Le fonti audiovisive
Ciò che per le varie branche della ricerca storica configura un nuovo status delle fonti in rapporto al loro trattamento tecnico si traduce, invece, nelle discipline storiche dell'età contemporanea, direttamente in un nuovo tipo di fonti. Tali sono, innanzitutto, le riprese fotografiche, radiofoniche, cinematografiche e televisive degli avvenimenti contemporanei. La tecnica moderna offre qui allo storico una opportunità medita e impareggiabile quella di assistere dal vero, e anche a distanza notevole di tempo, agli avvenimenti da lui studiati. Nastroteche, fototeche e filmoteche compongono ben presto fondi archivistici di nuovo tipo, ancor più consistenti di quelli, pur così originali e cospicui, forniti dal calcolatore. Tra fotografia, da un lato, e cinema e televisione, dall'altro, sussiste, invero, una differenza fondamentale quella fotografica è una ripresa statica, laddove la sequenza cinematografica o televisiva introduce il movimento con una completezza dell'immagine eguale a quella fonica della registrazione radio, che a sua volta dal vivo fornisce le voci e i rumori degli avvenimenti. Naturalmente, anche qui non si tratta di sconvolgimenti radicali. La tranche de vie che la fotografia o la ripresa cinematografica o la registrazione radiofonica riproducono è sempre un frammento ristretto della realtà. Nessun documentario potrà mai offrire nella sua totalità lo svolgimento di una battaglia, di una manifestazione, di una giornata. È bensì vero che la ripresa audiovisiva offre documenti più diretti e immediati di qualsiasi cronaca, racconto o documento scritto, ma la collocazione della macchina da presa e/o del registratore non è meno unilaterale di quella dello scrittore che seleziona tra i tanti documenti quelli che obbediscono ai canoni del suo mestiere o al suo estro individuale. Anche le immagini e i suoni ‛in diretta' sono una selezione e una versione dei fatti osservati e riprodotti. Se non si tiene ben presente questo carattere selettivo e soggettivo (nel suo senso di ‛interpretativo' in base ai canoni e all'estro), si cade nell'errore, che è pure frequente, di ritenere il materiale offerto dai nuovi mezzi tecnici come garantito da una oggettività particolare. Lo sviluppo della fotografia è, per questo aspetto, il più significativo, forse, fra tutti quelli affini. Il progresso tecnico spinge alla massima ‛fedeltà' delle immagini. L'impressionabilità degli obiettivi e delle pellicole tocca col tempo punte esaltanti. L'intervento diretto, il ‛ritocco', ossia una modifica che si muove (e vuole muoversi) largamente sul piano di una elaborazione artistica - tra disegno e pittura - contraddistingue ancora fortemente tutte le prime tecniche fotografiche, a partire dal dagherrotipo e dal callotipo. Nei primi decenni del XX secolo il ritoccatore - che, con la sua arte manuale, dovrebbe portare la fotografia proprio a quella fedeltà di cui la macchina non appare capace - declina inesorabilmente. Ben presto la fotografia avrà dalla macchina anche il colore. Alla fine ne avrà addirittura lo sviluppo istantaneo l'immediatezza, il carattere diretto della ripresa appariranno definitivamente consolidati. Ma tutto ciò, ben lungi dal ridurre la dimensione selettiva e interpretativa della fotografia, la potenzierà ulteriormente. Già prima della fine del XIX secolo la fotografia recherà la firma dell'autore passerà, per così dire, da una presunta condizione di documento notarile, che conserva un anonimato di fondo, quasi di vocazione, pur portando nome e firma del rogatore, a quella di racconto d'autore. La mostra, l'esposizione di fotografie, così come si è venuta in ultimo delineando di gran lunga più vicina (anche quando vuol essere tematica o informativa e anche se associata a oggetti d'altro genere) alla mostra di arti visive che a una mostra documentaria, a un'esposizione di documenti ne è una ulteriore conferma. Perfezionamento tecnico vuol dire perciò insieme, ma non contraddittoriamente, maggiore aderenza del mezzo impiegato alla ‛realta' (o, come suol dirsi, fedeltà) e maggiore libertà e possibilità di espressione e di interpretazione che il mezzo consente all'operatore. D'altra parte, le fonti audiovisive della storia contemporanea non si riducono solo a quelle dirette e volontarie del documentario o del reportage foto-cinetelevisivo e della registrazione radiofonica. Esse comprendono pure la gamma assai ampia di tutta la produzione foto-cine-televisiva e radiofonica. Nel cinema, ad esempio, l'intero arco della produzione, da quella unicamente industriale e commerciale a quella detta d'arte o al cosiddetto cinéma d'essai, è una miniera incomparabile di volti, situazioni, abbigliamenti, arredamenti, costumi, comportamenti, stati di luoghi e di cose, attrezzature domestiche e pubbliche, strumenti del più vario ordine, avvenimenti riprodotti o ricostruiti e così via. Anche quando il fine dell'autore del film è tutt'altro che quello dell'analisi di una qualsiasi realtà storica o sociale, le condizioni tecniche della produzione assicurano anche al film di pura fiction o, addirittura, di sfruttamento di filoni narrativi di mera speculazione commerciale una capacità documentaria (intanto, della storia del cinema stesso), che - per quanto possa essere, come si è detto, indiretta o involontaria - richiede solo di essere interrogata e utilizzata in modo congruo. Ne questa capacità documentaria è limitata alla storia sociale, alla ricostruzione socio-antropologica, alla storia della cultura materiale o della vita quotidiana, come di primo acchito potrebbe apparire. Essa si estende alla storia politica, a quella degli istituti politici e amministrativi, a quella di fatti di grande e di piccolo rilievo. Basti pensare ai film dei ‛telefoni bianchi' nella produzione italiana degli ultimi anni del fascismo o a molti di quelli della produzione francese negli anni del Fronte popolare o di quelli del cinema espressionista germanico o di quelli prodotti dalla diaspora hollywoodiana di questo stesso cinema negli anni trenta o quaranta del Novecento per rendersene immediatamente conto. Inoltre, ed è un punto su cui non si è riflettuto affatto, è proprio il cinema che - se di una qualche forma di esperimento si può parlare in storiografia - ne offre una qualche concreta possibilità. Un film come La presa del potere di Luigi XIV di Roberto Rossellini sperimenta, ad esempio, da un lato la ricostruibilità di ambienti e situazioni del passato in modo dinamico e animato; dall'altro lato, la validità (anche in termini di verisimiglianza) che la ricostruzione storico-istituzionale o storico-sociale assume nel momento in cui viene fatta passare dalla pagina scritta a una condizione di più concreta rappresentazione e questo momento non ha importanza soltanto figurativa o immaginativa, ma anche tecnica e materiale (dalla sperimentazione di misure di ambienti a quella di durata, di tempi, di suoni, di atteggiamenti, gesti, ecc.). Alla sperimentazione stonografica - concettualmente improponibile e impraticabile - il cinema offre così un surrogato empirico, che pure non manca né di utilità, né di suggestione. E, comunque, è a questa enorme, ancorché indiretta e involontaria, capacità di documentazione, percepita generalmente ben al di là del mondo degli studiosi, che le fonti dei moderni mezzi audiovisivi debbono la loro grande fortuna anche commerciale, che va dal vero e proprio collezionismo all'acquisto casuale. Basti pensare alla fortuna, in questo senso, delle vecchie fotografie, tanto più ricercate quanto più appaiono anonime e routinières.
b) Le fonti orali
Parallele a quelle sulle fonti audiovisive sono le considerazioni sulle più specifiche fonti foniche che la tecnica moderna ha messo a disposizione della ricerca (ovviamente, non solo di quella storica). La questione principale riguarda qui la possibilità di raccogliere col registratore testimonianze, ricordi, esposizioni di fatti presenti e passati attingendoli direttamente dalla voce di coloro che ne sono stati o ne sono protagonisti, partecipanti, osservatori. Per la verità i ricordi, le testimonianze, le esposizioni delle generazioni giovani e anziane non hanno un bisogno assoluto del registratore per essere trascritte e riportate. Certo è, però, che nessuna trascrizione stenografica può pareggiare in fedeltà e in autenticità la conservazione della viva voce che quelle testimonianze, esposizioni o racconti ha originariamente pronunciato. Peraltro, anche per queste fonti orali specifiche sussiste un pregiudizio favorevole che va ridimensionato e sfatato, perché se ne possa cogliere più precisamente e più proficuamente il motivo di verità. Tale è il caso dello storico che ritiene per questa via di poter ‟finalmente [...] porre domande alle [sue] fonti, chiedere loro di spiegare meglio quanto non [gli] riusciva di capire"; e vede in ciò ‟un vantaggio enorme rispetto alle ambiguità o alle risposte silenziose che talvolta si ottengono dai documenti" e la possibilità di ‟fare una storia viva che non poteva venire sperimentata semplicemente leggendo un libro o un documento" (v. Ewans, 1975, cap. 1). In realtà, il diaframma che così viene indicato e denunciato nella muta freddezza del documento sussiste egualmente e va egualmente indicato nella personalità dell'interlocutore. Questi non solo non può essere considerato come eco passiva, una pura e semplice trasmissione di tradizioni e di fatti, ma, proprio in quanto fonte viva e reattiva, fonte emotiva e pensante, è, semmai, rispetto alle tradizioni e ai fatti riferiti, ancor più ambiguo e difficile a decifrarsi di quanto non lo siano le fonti scritte. Si può, quindi, esprimere ogni scetticismo anche riguardo all'affermazione per cui i testi orali sono ‟portatori inconsci della tradizione" e quelle che essi trasmettono non sono, ‟in un certo senso, conoscenze personali [...], ma conoscenze personali [filtrate] attraverso la loro memoria sociale" (ibid.). La variante della formulazione individuale, del prisma mnemonico ed espressivo della singola personalità assoggetta, anzi, le versioni orali del singolo a oscillazioni, variazioni, confusioni, sovrapposizioni, semplificazioni, trasformazioni, ecc., che il documento scritto per sua natura può comportare solo fino a un certo punto. La pratica di fonti siffatte lo dimostra senza possibilità di dubbio, date le differenze riscontrabili, oltre che fra versioni di soggetti diversi sugli stessi fatti, anche fra più versioni dello stesso individuo sullo stesso fatto. Per di più, come in ogni caso in cui si sottopongono quiz o domande o questionari, il modo stesso di porli può essere (e, in linea di principio, è) un istradamento alla risposta. Il condizionamento soggettivo dello storico rispetto alla ricerca è, su questo terreno, almeno potenzialmente, non solo non inferiore, ma addirittura superiore che sul terreno della documentazione scritta tradizionale. Lo stesso è da dirsi anche per quanto riguarda le mediazioni eventuali fra il raccoglitore della testimonianza orale e la sua fonte rispetto a quelle che di fatto si sono verificate (e che la filologia ricostruisce e valuta) fra le fonti originarie (archetipi, istruzioni o qualsiasi altro documento possibile) e le versioni narrative o documentarie offerte nelle fonti scritte pervenute a noi: le mediazioni della prima specie sono, almeno potenzialmente, maggiori di quelle della seconda. Dove - come si vede - è proprio la comparazione con le fonti della tradizione storiografica più antica a mostrare, nelle evidenti differenze con le fonti rese disponibili dalle nuove tecnologie, che queste ultime, nella loro specificità tecnica, presentano, oltre ai problemi ermeneutici propri di ogni fonte o documentazione, problemi ermeneutici nuovi e specifici per le fonti audiovisive, data la complessità dei loro procedimenti, ciò è vero in misura addirittura maggiore che per altri tipi nuovi di fonti. E, naturalmente, ciò che vale per la raccolta di fonti orali attinenti alle tradizioni, alla lingua, agli oggetti, al lavoro, alla mentalità, ai comportamenti, ossia alla vasta materia di un'antropologia o di una sociologia storica, vale altrettanto per le fonti orali attinenti alla vita politica, alle lotte sociali, alla biografia, alle esperienze varie e alla prassi della vita istituzionale. Il registratore, insomma, è sempre deposito di una fonte che va assoggettata alla critica, come ogni altra. È vero, invece, che la suggestione della ‛storia orale' si è esercitata nella storiografia anche come riflesso assai forte della ‟pratica corrente per gli antropologi [di] studiare le persone di prima mano, mentre gli storici le studiavano sui documenti". E, anche se già nella seconda metà del XIX secolo non era più del tutto vero che la storia venisse considerata come ‟una disciplina che si occupava unicamente di materiale scritto o stampato", e anche se in ciò si poteva vedere ‟solo una differenza di tecniche che aiutava a separare le due discipline", non si poteva negare che ‟era proprio questa tecnica del servirsi di testimonianze orali che manteneva la storia e l'antropologia più o meno divise". Anzi, la differenza tecnica costituiva un elemento di distinzione fra le due discipline maggiore, e non minore, di quello ravvisato nel fatto che ‟gli antropologi si occupano principalmente degli elementi inconsci o irrazionali presenti nelle persone che studiano", laddove gli storici avrebbero ‟sempre escluso l'irrazionale dal loro campo di azione e, dandogli una cattiva fama e scartandolo come folclore, [si sarebbero] preclusi la possibilità di prendere atto di una importante determinante culturale" (ibid.). Una informazione più estesa di storia della storiografia, oltre che della cultura europea, dimostra subito che l'interesse per l'‛irrazionale' - così come per tante altre ‛novità' della storia sociale presentata come quella più all'avanguardia - è già largamente presente sia nel positivismo che nell'illuminismo, come abbiamo, riguardo a problemi analoghi, già ricordato. La storia orale, in quanto fornisce una fonte suppletiva diretta e impreveduta per la storia contemporanea, non è però necessariamente limitata, a differenza di quella che attinge alla documentazione foto-cine-televisiva, all'arco dell'esperienza biografica dei soggetti intervistati. Essa presenta una retroflessibilità, una possibilità di proiezione nella dimensione del passato assai forte, anche se variabile da caso a caso. E ciò che giustamente ha messo in rilievo R. Romano, commentando le ricerche etnostoriche di J. Murra sul mondo andino. ‟Si è diffusa come egli nota - l'abitudine di intendere (come storia orale) l'armarsi di un registratore e andare ad interrogare l'operaio centenario o il contadino non meno vecchio per chieder loro dello sciopero del 1902 o della fondazione della lega nel 1903. Il che è certo utile; va fatto, ma non esaurisce l'immensa possibilità della storia orale. V'è più. Per esempio la possibilità di ricostituire una toponomastica vecchia di quattro secoli", come appunto è accaduto a J. Murra. L'esempio merita, anzi, di essere specificato per la sua esemplarità. Si è trattato, come riferisce Romano, della ricostruzione di tutto un sistema di toponomastica regionale. Si è partiti dal fatto che ‟nel 1562 Íñigo Ortiz visita tutta la regione intorno a Huànuco (Viejo) e dà l'indicazione di tutta una serie di villaggi. Di questi, oggi, non resta che un manay, una pietra miliare, o solo un orto che conserva l'antico nome del villaggio. Ora, intervistando informatori molto anziani, si è giunti ad ubicare più del 60 per cento dei luoghi. Sembra facile, evidente. Ma non lo è affatto, e John Murra mette in guardia ‛Lavorando con attenzione sul terreno, l'ubicazione non presenta problemi seri, malgrado i numerosi cambiamenti politici ed economici che si sono verificati, particolarmente negli ultimi anni. Questo indica che l'identificazione di siti, gruppi etnici e strati archeologici dell'Orizzonte Tardo è possibile nella nostra zona, con l'aiuto della visita che - naturalmente - abbiamo appreso ad usare, con ogni classe di precauzioni'. Debbo qui ricordare che questi ‛archivi della memoria' sono cosa delicatissima, fragilissima; che quasi sempre, nel porre la domanda, si rischia di offrire già la risposta all'interrogato; che questi informatori a volte - sono deformati da quanto un viaggiatore di passaggio gli ha detto erroneamente" (R. Romano, Introduzione a J. V. Murra, Formazioni economiche e politiche nel mondo andino; tr. it., Torino 1980, pp. XV-XVI). Anche in questo caso, insomma, non è tanto un nuovo vangelo documentario che deve essere bandito quanto la necessità di integrarlo immediatamente col suo codice critico.
c) La stampa periodica
Accanto a quelle foto-cine-televisive e a quelle della registrazione sonora, un terzo vastissimo settore di fonti nuove si offre alla storia contemporanea nel mondo vastissimo della stampa periodica, a cominciare da quella quotidiana fino alle riviste di meno frequente apparizione. La novità è qui, invero, assai più relativa. Il giornalismo attuale vanta un'esistenza regolare che si avvia a essere ormai trisecolare nei paesi che ne hanno più antica esperienza. Inoltre, anche in tempi e paesi diversi da quelli del giornalismo moderno, non è mai mancata, essendo un elemento indispensabile alla vita della società, una qualche informazione, di cui ci rimangono - organiche (è raro) o sparse che siano - le testimonianze scritte o, comunque, ricostruibili. È, tuttavia, soltanto col XX secolo che il giornalismo raggiunge la completa maturità della sua struttura tecnica e organizzativa e consegue la ricchezza differenziata e molteplice di articolazioni che ne fa un mezzo di comunicazione di massa vitalissimo e irriducibile, anche dopo l'avvento di mezzi di comunicazione tanto più rapidi e condizionanti come per esempio, e soprattutto, la televisione. Questa vitalità del giornalismo merita riflessione. Per quanto nguarda l'interesse ai fini di una panoramica delle fonti storiche, essa attesta che una particolarità di tali fonti per l'epoca contemporanea è la netta tendenza a una progressiva moltiplicazione della loro tipologia. Il progresso sta tutto nell'affiancare, ai vecchi, nuovi tipi di documentazioni possibili. Il giornalismo lo prova non solo rispetto ad altri tipi di fonti, ma anche al suo stesso interno. La specializzazione ne ha, infatti, moltiplicato le forme in maniera da farne un documento dei più fondamentali, e insieme dei più duttili, per l'analisi e per la comprensione del mondo contemporaneo. Soprattutto, il progressivo sviluppo ne ha accentuato l'inserimento nella società e, quindi, il valore di fonte per la conoscenza di quest'ultima. Basti pensare alla parte vastissima assunta nel giornale del XX secolo dalla piccola pubblicità, la quale, tranne che in inchieste sociologiche di tipo particolare, non ha ricevuto finora un trattamento storiografico adeguato. Vi si ritrovano, pure, gli elementi essenziali di una storia della società nei suoi aspetti materiali e quotidiani, con implicazioni e aperture di inapprezzabile valore sulle mentalità e i gusti, i comportamenti e la condizione socioeconomica. Per di più, l'uso del calcolatore permette ormai di affrontare con semplicità un lavoro scoraggiante dal punto di vista della quantità del materiale da esaminare, mentre la sua suscettibilità di trattamento quantitativo è praticamente illimitata. Negli sviluppi del giornalismo contemporaneo va, inoltre, tenuta presente una serie di tendenze di grande rilievo per fissarne il valore e il significato. È notevole, ad esempio, l'importanza assunta dall'‟interesse dell'utente dell'informazione alla conoscenza primaria degli avvenimenti geograficamente più vicini". Ciò ha portato ‟anche i giornali definiti di distribuzione nazionale a essere, a loro volta, giornali regionali, cioè della regione che gravita intorno al luogo dove è edito il giornale, per diventare, quindi, fuori di questa regione il secondo giornale, di commento". Prodottosi ovunque, ‟il fenomeno è stato particolarmente studiato in Francia, dove i grandi giornali francesi, parigini e nazionali, si sono trasformati a poco a poco in giornali regionali, della regione parigina; e; quando escono dai confini di essa, cercano il motivo dell'interesse da suscitare in qualcosa d'altro. ‟Le Parisien", ‟Le Figaro", ‟L'Humanité", in quanto giornali di massa, sono giornali di prima lettura solo nella regione parigina. Fuori di essa la loro importanza muta e su di essi, più che la notizia, si cercano i commenti. Alla regola non sfugge neppure ‟Le Monde", giornale di tutta la società francese, ma che diventa fuori di Parigi, appena a 60-80 km dalla capitale, per l'utente dell'informazione, giornale sussidiario di un'altra prima lettura" (v. Bernucci, 1969, p. 67). Ciò introduce un motivo di qualificazione del giornale da tenersi ben presente quando lo si considera come fonte storica. Ma si avrebbe torto a considerarlo più importante di altri elementi di classificazione. Accanto a quello della localizzazione geografica è emersa, ad esempio, una caratterizzazione sociologica assai forte. Nella stampa anglosassone, a cominciare da quella inglese, essa è particolarmente evidente basta riflettere al carattere ‛popolare' di quotidiani come il ‟Daily News" o il ‟Daily Herald" rispetto a quello ‛impegnato' di giornali come ‟The Times" o ‟The (Manchester) Guardian". Fuori della stampa quotidiana caratterizzazioni del genere sono ancor più evidenti dal settimanale tipo ‟Life", ‟L'Express", ‟L'Espresso" a quello che alimenta la presse du coeur o il fotoromanzo rosa o l'attualità canora e televisiva, le collocazioni sociali, socioculturali del lettore denunciano variazioni da cui non si saprebbe e non si potrebbe prescindere. Queste collocazioni alimentano anche altri aspetti della vita del giornale. Il lettore dei giornali della sera è incline a un interesse al sensazionale, alle notizie di cronaca, alle informazioni sul ‛che fare in città questa sera'; quello dei giornali del matti no cerca nel giornale un universo informativo assai più ampio: dalla politica alla cultura, all'economia, ecc. Inoltre, raramente la copia di un giornale è letta da una sola persona; assai più spesso, ogni copia passa per più mani, anche se non tutti i lettori cercheranno in quella copia le stesse cose e anche se è difficile fare supposizioni su ciò che ciascuno di essi andrà a cercarvi. Il giornale si presenta cosi come una fonte assai differenziata, con una complessità che si contrappone all'apparente unilinearità del prodotto informativo che il giornale rappresenta. Condizionamento del mercato e condizionamento sociale si riverberano anche sul giornale e ne fanno un registratore sensibile - ma proprio per questo da valutare con discrezione della realtà in cui si muove. Alcune condizioni meritano ulteriori sottolineature. In paesi come quelli anglosassoni o la Germania l'indice di lettura più alto tocca ai quotidiani, in altri, come l'Italia, esso favorisce nettamente i settimanali: sociologia dei lettori, trattamento e ricezione del messaggio giornalistico ne risultano, naturalmente, assai influenzati. Se non ne tenesse conto, lo storico del futuro potrebbe ritenere l'Italia un paese con intensità di lettura giornalistica inferiore al reale, anche se inferiore è di certo rispetto ad altri paesi. Dal punto di vista della tecnica compilativa del giornale, il XX secolo ha accentuato fortemente il rapporto col potere pubblico, rapporto di cui il giornale, per la verità, risente meno di altri mezzi di comunicazione di massa. Ne risente in misura di gran lunga maggiore il mondo radiotelevisivo. E ciò non è vero soltanto per i paesi a regime totalitario (del totalitansmo il XX secolo ha offerto esempi di un rigore senza precedenti); è vero anche in paesi a regime estremamente liberale, non fosse altro che per la necessità di ogni regime di disporre largamente di un canale di comunicazione e di condizionamento indispensabile per tanti motivi, tra l'altro per la sua incomparabile efficacia. Anche il giornale, tuttavia, è condizionato da un più forte rapporto col potere pubblico. Nel XX secolo e nei paesi a regime più aperto tale rapporto ha assunto spesso un carattere più indiretto, nel senso che i legami non corrono necessariamente in maniera diretta fra impresa giornalistica e potere, ma piuttosto fra i gruppi occulti o palesi che controllano l'impresa giornalistica e il potere. Né si tratta solo del potere pubblico, perché accanto a esso si manifesta il potere di partiti, sindacati, forze economiche, ecc. Tutto ciò rafforza i legami fra i grandi mezzi di comunicazione di massa e la società civile, ma ne accentua, come è ovvio, il condizionamento generale e specifico, un condizionamento che può diventare assoluto in paesi a regime totalitario o in settori (accade spesso per la radio e per la televisione), in cui vigono monopoli settoriali. Il progresso tecnico ha messo, inoltre, il giornale dinanzi a una sfida ancor più severa di quella che deriva dall'intensificazione del rapporto col potere. In tempi relativamente assai brevi, nell'arco cioè di un paio di decenni - fra il 1955 e il 1975 -, il mezzo televisivo ha fortemente incrinato o soppiantato il rapporto privilegiato dell'informazione giornalistica col pubblico. La sfida, riuscita vittoriosa per il giornale nei confronti della radio, è apparsa invece micidiale nel momento in cui a lanciarla è stato il piccolo schermo televisivo. Il ricorso, poi, ai satelliti ha sortito l'effetto di una facilitazione della trasmissione televisiva e, nei paesi a regime non totalitario o non monopolistico, di una liberalizzazione di fatto, che ha costituito un ulteriore vantaggio per il mezzo televisivo. Di questo mezzo indiscreto è stato detto a ragione che esso non penetra nelle case tanto per una scelta volontaria, più o meno meditata, come il giornale, quanto per sua propria forza di penetrazione. Allo stesso modo, esso appare il risultato o il prodotto delle esigenze del produttore dei servizi trasmessi assai più che il riflesso, come più spesso accade per il giornale, delle esigenze dell'utente di quei servizi. Le nuove condizioni hanno spinto a organizzare catene produttive che legano giornali e radiotelevisioni, con prestazioni reciproche di servizi e di informazioni, in modo da avere le più alte probabilità di tenere l'utente ancorato a tutti i momenti dell'informazione che la tecnica moderna rende possibili, senza sacrificio di alcuno di essi e con risparmio sensibile sui costi di produzione. Sull'orizzonte si è delineata la possibilità di far pervenire il giornale stampato nelle mani dell'utente attraverso lo stesso apparecchio televisivo. Ma, anche indipendentemente da ciò, il giornale ha mostrato una vitalità inaspettata. Nell'epoca dell'assoluto trionfo delle immagini e dei suoni in ogni ramo della trasmissione di messaggi, la carta stampata ha rivelato una insostituibile capacità di colloquio più personale e più diretto e di elaborazione culturale e informativa di gran lunga più articolata. Il giornale ha, anzi, riacquistato, con la pluralità televisiva consentita dalle trasmissioni via satellite, una maggiore possibilità di confronto con una televisione verso la quale l'utente ha scelte sempre più numerose rispetto a quanto avveniva in un primo momento. Una maggiore standardizzazione delle informazioni e dei servizi offerti è derivata, poi, sia nelle emittenti radiotelevisive sia nei giornali, dalla diffusione dei prodotti di agenzia o di altra fonte. Sono state giustamente distinte, in seno al mondo dell'informazione, due categorie: quella dei ‟mezzi di comunicazione sociale che indirizzano la massa delle loro informazioni direttamente alla moltitudine teoricamente senza numero degli informandi" (e bisognerebbe anche dire: degli informabili), e quella dei mezzi che si rivolgono ‟ad altri mezzi di comunicazione sociale e ad un ristretto numero di interessati" (v. Bernucci, 1969, pp. 70-71). Sul piano dell'informazione il processo è stato impressionante anche in connessione con il moltiplicarsi degli Stati indipendenti, per effetto della decolonizzazione e di altri processi, nella seconda metà del XX secolo. Un censimento pubblicato dall'UNESCO nel 1966 elencava 182 agenzie di informazione per la stampa; e tali agenzie sono solo una delle categorie del genere. Nello stesso anno al Tribunale di Roma ‟ne risultavano registrate, per la prescritta autorizzazione prevista dalla legge italiana in quanto edite nella giurisdizione di quel Tribunale, ben 421"; mentre va osservato ‟come 108 delle 182 agenzie di stampa segnalate nel riferito censimento condotto dall'UNESCO siano sorte dopo il secondo conflitto mondiale", nello stesso lasso di tempo in cui i paesi membri delle Nazioni Unite passavano da 50 a 126 (ibid., pp. 114 ss.). Ciò aggiunge, forse, ancora maggior pregio alla più antica data di fondazione di alcune delle agenzie più importanti ancor oggi attive: il 1846 per l'Agence France Presse, il 1848 per l'Associated Press, il 1851 per la Reuter, il 1858 per l'United Press International. Le agenzie sono state anche pronte nel seguire i progressi nella tecnica delle comunicazioni, passando per le varie fasi che vanno dal piccione viaggiatore al satellite per le telecomunicazioni, che dal 1962 si prese a utilizzare per scambiare tra continenti messaggi trasmessi per telefono e per telestampa" e come ‟intermediario di scambi fra giornali di Londra e di New York" (ibid., p. 117 e nota). Alla rapida crescita delle agenzie di informazione per la stampa ha senza dubbio contribuito l'interesse dei singoli governi e gruppi politici ad avere un portavoce, ufficioso o ufficiale, delle loro posizioni. Ma non è soltanto a ciò che il fenomeno può essere ricondotto. Accanto a quelle di informazione per la stampa altre se ne sono sviluppate, che offrono servizi culturali, tecnici, scientifici, sportivi, ecc., come anche inchieste, documentazioni, relazioni, reportages e altro materiale non puramente informativo nei singoli settori. Ciò rende addirittura possibile la compilazione di interi giornali che non hanno la possibilità tecnica, organizzativa, finanziaria di produrre da sé altro che non sia il puro commento. Il fenomeno è, del resto, l'analogo di quello che nel campo televisivo e radiofonico ha portato alla proliferazione di produttori di materiale per la messa in onda da parte di piccole e grandi catene o di singole società radiotelevisive. Tutto ciò va considerato attentamente nella fisionomia che sia il materiale giornalistico, sia quello radiotelevisivo presentano in quanto fonti per lo studio del loro tempo. Nel caso, infatti, del materiale non prodotto direttamente da giornali e radiotelevisioni vanno messi sul conto dell'esegesi della fonte, da un lato, i contenuti e l'impostazione del materiale pubblicato o trasmesso, in quanto dovuti a un produttore diverso dall'editore e, dall'altro, il coinvolgimento dell'editore, in quanto autore della scelta di quei contenuti e di quelle impostazioni, e i motivi della scelta stessa. A sua volta, la frequente aggregazione dovuta a ragioni politiche o a fenomeni economici come tendenze oligopolistiche di giornali, di radio e di televisioni in catene che offrono a pubblici non necessariamente omogenei, in maniere anch'esse non necessariamente omogenee, la medesima produzione dà luogo a un'ulteriore complicazione della fisionomia che il mondo dei mezzi di comunicazione di massa presenta, quando lo si consideri come fonte storica per il suo tempo.
d) Arricchimento della tipologia delle fonti
Nel quadro - notevolmente ampliato rispetto alla tipologia tradizionale - delle fonti della storia contemporanea, le novità non vanno riferite, peraltro, soltanto alle nuove possibilità assicurate dal progresso tecnico, bensì anche alle nuove esigenze a cui la vita sociale contemporanea impone di soddisfare. Il progresso tecnico ha già permesso, grazie al calcolatore, di dare una fisionomia assai più semplice e leggibile anche a documentazioni tradizionali, la cui consultabilità era fortemente condizionata dall'imponenza quantitativa. Basti pensare a ciò che è diventata, da questo punto di vista, la contabilità bancaria il calcolatore è in grado di fornire all'istante le schede di ogni conto e tutte le più sofisticate elaborazioni. Ciò non implica soltanto una semplificazione materiale del lavoro, secondo quanto abbiamo già avuto occasione di dire riguardo all'ausilio apportato in generale dal calcolatore alla fatica dello storico; nel caso di dati del tipo di quelli della contabilità bancaria le possibilità della loro organizzazione consentite dal calcolatore hanno in certo qual modo mutato la fisionomia stessa dei dati, in quanto già in partenza le banche ne hanno potuto disporre in modo diverso, arricchendone la raccolta e l'elaborazione. Ma, oltre a questo e agli altri casi analoghi, per i quali si può parlare più di trasformazione che di novità della fonte, vi sono i casi di vero e proprio incremento della tipologia delle fonti. Per quanto riguarda la storia economica e sociale appare, ad esempio, di grandissima importanza il vasto materiale di cui si è venuti a disporre con le molte inchieste degli studiosi di sociologia, con le ricerche degli uffici di pubbliche relazioni e di human relations nel mondo economico, con le analisi di mercato, con le inchieste promosse e realizzate dai poteri pubblici, con le informazioni e le elaborazioni che sempre più sono ritenute opportune o necessarie per l'attività religiosa, per quella politica e sociale, insomma per ogni aspetto o momento della società. Un altro esempio può essere attinto alla storia demografica e sanitaria i servizi moderni non solo hanno incrementato e variato in maniera radicale i dati relativi alla struttura e al movimento della popolazione, ma hanno pure assicurato una ricchezza senza alcun precedente di dati ospedalieri e clinici che permettono una visione fondamentalmente nuova del problema storico della malattia. È, anzi, da segnalare che la dispersione ingentissima della documentazione diagnostica, di quella connessa ai ricoveri ospedalieri e, soprattutto, di quella connessa alle cure private non basta a togliere importanza a una fonte di storia sociale che, già così come risulta negli archivi ospedalieri, si inserisce tra le grandi sezioni documentarie da tenere presenti nello sviluppo delle fonti contemporanee. Si tratta, comunque, soltanto di esempi, che potrebbero essere facilmente moltiplicati. C'è da aggiungere, semmai, che lo sviluppo delle fonti per la storia sociale non implica una perdita di importanza, e meno che mai una contrazione, del tipo di fonti tradizionali della storia politica. Il forte ampliamento dei relativi archivi, la forse ancor più accresciuta attività normativa e operativa della pubblica amministrazione, per effetto di un costante e universale allargamento delle competenze dei pubblici poteri, la moltiplicazione del numero dei centri di attività politica sia internazionale che interna a ogni paese, il crescente rilievo delle forze sociali e dei più vari tipi di movimenti quali centri ispiratori di volontà e di azione politica accrescono di gran lunga, rispetto al passato, la serie delle fonti qualificabili come politiche e pertinenti sotto questo aspetto. Appare anche da aggiungere la considerazione che gli aspetti sotto i quali la tecnica moderna non risulta - come di regola - amica della conservazione e dell'ampliamento della documentazione di interesse storico non nguardano esclusivamente la storia politica. Un caso tipico è la funzione assolta, da questo punto di vista, dal telefono. Le comunicazioni telefoniche, infatti, hanno largamente sostituito, come appare nell'esperienza di tutti, altri tipi di comunicazione, e innanzitutto e soprattutto quelle epistolari o, comunque, scritte. Non solo il telefono ha prodotto una rapidità di contatti senza confronto con quella dei rapporti tradizionali, ma a esso si deve la possibilità di adeguare lo scambio alle esigenze della conversazione, senza la rigidità dello scritto che deve attendere risposte, repliche e controrepliche e che consente solo in minima misura le ambiguità, le duttilità e la reattività proprie della comunicazione orale. Rapidità e funzionalità si congiungono, quindi, nel determinare la netta prevalenza assunta dalla conversazione telefonica in un campo una volta dominato dallo scambio massiccio di corrispondenza. Ora la registrazione delle conversazioni telefoniche è, presumibilmente, assai scarsa in rapporto alla massa effettiva dei contatti che avvengono per tale mezzo. Nessun apparato poliziesco o di controllo, né alcun sistema di record o di memorizzazione può reggere al confronto. Nella misura in cui vi si riesce, è ovvio che i nastri conservati delle registrazioni sono l'equivalente moderno della documentazione dei rapporti ottenuti per via tradizionale. Infine, analogo è stato l'effetto della celerità degli spostamenti resa possibile dai nuovi mezzi di trasporto. Grazie a essi in un tempo, ancora una volta, incomparabilmente più breve di quello dei rapporti tradizionali è possibile realizzare contatti sostitutivi dello scambio di lettere e di documenti, che scavalcano anche la mediazione telefonica e si affidano ai colloqui personali e diretti, consentendo di riservare l'oggettivazione scritta di accordi, pareri e volontà tutt'al più alla fase conclusiva o ad altre fasi determinanti dei rapporti così intrattenuti (molte volte si preferisce di non lasciarne addirittura alcuna traccia). Ovviamente, in funzione di tali nuove possibilità è scemata pure la necessità di ricorrere a mediatori o, comunque, a terze persone nella trasmissione e conclusione di condizioni, accordi, informazioni, ecc. Alla luce di tali considerazioni risalta molto più che per il passato l'esigenza di integrazioni disciplinari che rendano possibili l'acquisizione, il confronto e lo sfruttamento complessivo della tanto cresciuta e diversificata serie di fonti resa disponibile dagli sviluppi della tecnica e della società moderna. Le frontiere tra le singole discipline, già poste in crisi dalle nuove esigenze e dai nuovi modelli di una storiografia più aperta nei suoi interessi critici e nella sua capacità di concettualizzazione, vengono, quindi, ulteriormente indebolite dal nuovo apparato di informazioni a cui lo storico può attingere le risposte ai suoi problemi.
e) La fisionomia generale delle nuove fonti
Riassumendo, le caratteristiche principali dei nuovi tipi di fonti possono essere così sintetizzate a) specificità tecnica dei singoli nuovi tipi di fonte, la quale, come del resto già per i vari tipi via via affiorati nel passato, impone criteri ermeneutici peculiari, connessi appunto a tale specificità; b) relazione strettissima dei nuovi tipi di fonte con i temi di storia della vita quotidiana, della cultura materiale, insomma con i temi socio-antropologici; c) esaltazione dell'elemento quantitativo nella considerazione storica, a seguito non solo dell'accresciuto numero dei dati disponibili, ma anche della possibilità tecnica di dominarli e di elaborarli in funzione di tematiche anche assai complesse; d) spinta oggettiva alle connessioni interdisciplinari o, meglio, a più forti suggestioni reciproche fra le varie discipline; e) modificata documentabilità di molti aspetti e momenti della vita sociale; f) maggiore connessione, ma anche maggiore autonomia potenziale rispetto al potere politico, sociale, ideologico, economico.
Ciò non vuol dire che si possa giustificare una sopravvalutazione o una mitizzazione delle nuove fonti. Quando si parla, ad esempio, della forza condizionante dei mezzi di comunicazione di massa nella società moderna, si è tentati di pensare immediatamente che lo studio di quei mezzi risolva di per sé i problemi attinenti allo studio degli orientamenti politico-sociali. Si prenda il caso degli orientamenti politici. Per l'Italia uno scrittore particolarmente sensibile al problema faceva rilevare quanto fosse risultata scarsa l'influenza del maggiore giornale italiano anche in uno dei suoi momenti più felici. ‟Quando si trattava di farsi un'opinione, in materia politica soprattutto, scriveva infatti l'autore in questione quando veniva l'ora di prendere una determinazione, non si dava retta al giornale tanto ricercato e letto cosi volentieri. La tendenza antigiolittiana del ‟Corriere", con tutta la sua diffusione, non disturbò mai il cammino di Giolitti durante il decennio della sua ‛dittatura parlamentare'; nella stessa cerchia del Naviglio non ci fu una campagna elettorale a Milano in cui il ‟Corriere" registrasse una vittoria significativa non uscì mai dalle urne un deputato varato da esso. In un altro campo, tutti gli uomini d'affari lessero volentieri e discussero sulle generali, dopo pranzo, ma non tennero nessun conto degli articoli di Luigi Einaudi - i ‛consigli della suocera' - e fecero metodicamente tutto il contrario, premendo sul governo per una politica protezionistica, d'intervento statale e così via" (v. Vinciguerra, 1946, pp. 16-17). A sua volta, un altro autore osserva, a ragione, che ‟i giornali più diffusi a Firenze e a Bologna sono rispettivamente ‟La Nazione" e ‟Il Resto del Carlino". Nessuno dei due può essere considerato orientato da ideologie ‛progressiste'. Tuttavia, nonostante la loro diffusione nelle città dove hanno sede, i risultati delle elezioni politiche e amministrative tenute sino al 1968 stanno a dimostrare che le simpatie dei fiorentini e dei bolognesi sono rivolte, sia pure con diverse gradazioni, alle correnti e ai partiti di sinistra e di estrema sinistra" (v. Bernucci, 1969, p. 69). Il senso di queste osservazioni è, ovviamente, tutt'altro che limitato all'esperienza italiana. Nello stesso tempo, però, la capacità condizionante dei mezzi di comunicazione di massa appare fuori discussione in ogni campo dei consumi. La pubblicità commerciale coi suoi budgets, ovunque ingrossati dall'esigenza di assicurare all'offerta di beni e di servizi una efficace presenza sul mercato, è la dimostrazione materiale di questa influenza. Bastano queste osservazioni a mostrare come il problema sia passibile di configurazioni o di determinazioni diverse. Si può, ad esempio, presumere una suscettibilità maggiore, in generale, dell'opinione all'influenza dei grandi mezzi di comunicazione di massa sul piano del comportamento, dei costumi e del consumo, e minore, invece, sul piano degli atteggiamenti politici in senso stretto e, in particolare, di quelli elettorali. Egualmente si può presumere che l'influenza dei grandi mezzi di comunicazione di massa si eserciti in pari misura sul piano politico e sugli altri piani, ma che, dal punto di vista politico, essa faccia perno soprattutto sugli atteggiamenti etico-politici, sulla psicologia politica, sull'ideologia e così via, mentre la sua incidenza diventa molto più aleatoria quando si tratti di condizionamenti sociali più particolari e materiali, come quelli che possono esplicarsi, ad esempio, sul piano elettorale. L'interpretazione che alcuni studiosi del settore (come un McLuhan, ad esempio) danno di alcune delle ragioni di diffusione di fenomeni quali il terrorismo conforterebbe tale distinzione. In ogni caso, però, sia i problemi di valutazione che i dati di fatto più elementari implicano una serie di questioni di esegesi delle fonti offerte dai mezzi di comunicazione di massa sulle quali il tema generale appare da dettagliare articolatamente secondo i vari tempi, ambienti e settori considerati.
5. Progresso e innovazione nella tutela e conservazione dei materiali
Alla tecnica moderna non va riportata soltanto la possibilità di attingere a nuovi tipi di fonti o a nuove elaborazioni delle fonti tradizionali, bensì anche tutta una serie di nuove possibilità complementari rispetto tanto ai vecchi che ai nuovi tipi di fonti. Si tratta, innanzitutto, di nuove possibilità di tutela e di conservazione del materiale esistente. Fotografie, microfilm, microfiches, computerizzazione dei dati consentono una miniaturizzazione del materiale documentario rilevante per più aspetti. Nel momento in cui la produzione libraria ha raggiunto livelli quantitativi tali da rendere sempre più difficile, per ragioni di spazio, la formazione di biblioteche private - e talora anche pubbliche - autosufficienti, che abbiano dimensioni ragionevoli; in cui le esigenze di confronto di fonti tra loro lontane nello spazio e nel tempo, oltre che nella loro specificità settoriale o disciplinare, sono tanto cresciute; in cui la planetarizzazione dei grandi fenomeni di fondo connessi al progresso tecnico e la formazione definitiva di un mercato mondiale unico e di un unico sistema mondiale degli Stati, oltre che di un unica platea mondiale del dibattito ideologico, rendono inevitabile il frequente ampliamento del quadro materiale delle ricerche; in cui il recupero e l'ordinamento di materiali prima largamente dispersi è generale negli archivi e nei musei di ogni paese, la miniaturizzazione del materiale assume una importanza che non ha nemmeno bisogno di essere sottolineata tanto è evidente. Naturalmente, essa rappresenta anche una difesa in più contro la deperibilità del materiale documentario tradizionale. A sua volta, la deperibilità del nuovo materiale (specialmente di quello filmico e fotografico) è compensata dalla sua facile e rapida riproducibilità. Del resto, varie forme di diversa conservazione e sinottizzazione dei dati sono pure assicurate, in forma meno diretta e immediata, ma scientificamente di non minore validità, dalle rappresentazioni cartografiche, dalla tabulazione statistica, dalla schedatura automatizzata, dalla registrazione radiofonica e così via. In ciascuno di questi casi, poi, il procedimento adottato comporta una serie di passaggi tecnici che rendono sempre maggiore e sempre più mediata la distanza tra il dato originariamente tratto dalla fonte e il suo fissaggio nel contesto ultimo della sua utilizzazione. In definitiva, ciò viene a confermare la fisionomia generale che il problema delle fonti ha sempre più marcatamente assunto sin dalla fine del XIX secolo. A seguito di tale processo l'antichissima preminenza storiografica della scrittura come mezzo e dello scritto come oggetto dell'informazione, una preminenza equivalente a un vero e proprio monopolio, è venuta meno. La consuetudine aveva portato, a questo riguardo, a un'attenzione, anch'essa fin troppo largamente dominante, al contenuto delle informazioni anziché ai mezzi della loro trasmissione. Si può persino dire che un'attenzione più soddisfacente allo stesso mezzo di trasmissione delle informazioni scritte solitamente usate nella tradizione storiografica si è determinata soltanto quando l'esclusività dell'informazione scritta è andata riducendosi quando, cioè, la tipologia delle fonti ha preso gradualmente ad arricchirsi, con un incrocio di sviluppi fortemente significativo e parallelo all'avvento di sempre più complesse procedure di elaborazione delle informazioni e dei dati attinti alle fonti. L'esigenza di elaborazioni più complesse e la necessità di strumentazioni atte a conseguirle hanno, quindi, concorso a determinare, a loro volta, una cospicua trasformazione nelle attrezzature delle istituzioni destinate agli studi storici. Esse non fanno più riferimento soltanto a biblioteche, raccolte di manoscritti e depositi di carte, ma comprendono microlettori e proiettori, calcolatori, macchine foto-stampatrici e registratori, apparecchiature per tabulazioni e rappresentazioni cartografiche e così via. Perfino nella terminologia il mutamento si avverte in modo esplicito. La fortuna del termine ‛centro' per designare molte istituzioni nuove del settore rende in maniera persuasiva l'idea di una struttura più agile, più diversificata e meno chiusa nella sua autosufficienza.
6. Considerazioni conclusive. La storia come ‛storia contemporanea'
Una domanda a questo punto è necessaria. Il rinnovamento cospicuo che si è in tal modo avuto nella sostanza e nelle forme del problema delle fonti con uno spostamento decisivo di attenzione dal solo contenuto delle informazioni e dei dati alle forme di trasmissione e alla varietà di convergenze significative per la ricostruzione e l'elaborazione storiografica che deriva da materiali informativi completamente diversi da quelli della trasmissione scritta ha, tuttavia, fondamentalmente mutato i problemi logici, epistemologici, critici di quella dottrina delle fonti che nel XIX secolo ha rappresentato per la cultura europea l'indispensabile premessa e l'altrettanto indispensabile complemento integrativo e costitutivo di un discorso di teoria della storiografia? Questo interrogativo sembra sollecitare una risposta negativa. Quella dottrina delle fonti si articolava in due aspetti o momenti essenziali l'uno costituito dal riscontro dell'autenticità del documento, l'altro da quello della sua attendibilità. Il primo portava all'assicurazione di una piena corrispondenza del documento alla matrice da cui derivava. Da questo punto di vista potevano anche determinarsi condizioni e situazioni di autenticità mediata, nel senso che, pur non promanando direttamente e immediatamente dalla sua matrice naturale o primaria, il documento poteva venir ricondotto a essa da rapporti di derivazione, di cui si dovevano, in tal caso, ricostruire tutti i passaggi e gli elementi di variazione eventualmente prodottisi nel corso del processo. Con lo studio di tali elementi aveva già inizio l'esame dell'attendibilità delle informazioni e dei dati offerti dalla fonte. L'esegesi delle fonti riteneva fondamentale, al riguardo, la possibilità - quando si verificava - di controlli incrociati tra fonti indipendenti. Però, anche l'indisponibilità di elementi di questo genere non portava all'impossibilità di altre, e spesso assai sofisticate, tecniche di analisi e di controllo interno delle fonti. Specialmente nella critica testuale l'analisi aveva raggiunto livelli ermeneutici di grande complessità e finezza, elaborando procedure che formano un vero e proprio sistema di pensiero scientifico sull'argomento. La prova del fuoco delle tecniche ermeneutiche, dei canoni esegetici, dei criteri di analisi e di validazione, delle procedure di elaborazione, dei metodi di raccolta e di edizione delle fonti via via elaborati dalla cultura europea si era, del resto, avuta quando si era passati a realizzare lo stesso tipo di lavoro sulle fonti della storia extraeuropea. Con tradizioni letterarie e con strutture espositive profondamente diverse, con parametri di rilevanza e di significatività orientati in tutt'altro modo, con oggetti e contenuti narrativi fin troppo spesso divergenti da quelli a dominanza politico-militare della storiografia europea classica, con impostazioni cronologiche e con tecniche di misura e di valutazione specificamente proprie, le fonti storiche del mondo extraeuropeo, con le quali la storiografia europea ha preso a confrontarsi sempre più largamente e costantemente a partire dalla prima metà del XIX secolo, hanno confermato appieno la suscettibilità di applicazione generale propria della teoria e dell'analisi delle fonti elaborate nell'ambito europeo. Ciò non significa, naturalmente, che nell'applicazione ad altri contesti euristici e interpretativi quella teoria e quell'analisi non dovessero subire variazioni, modifiche, ampliamenti o restringimenti della loro ottica. Significa soltanto che le diversificazioni via via registrate si sono profilate e proiettate all'interno del sistema generale europeo di metodologia delle fonti. Né va sottovalutato l'altro elemento, per cui un impatto non meno incisivo di quello subito al contatto con le fonti extraeuropee si era già avuto, o si aveva contemporaneamente, nella tradizione europea con l'ampliamento del campo di ricerca, con la ‛nuova storia' (sociale, tecnica, quantitativa, economica, ecc.) opposta alla tradizione classica e umanistica dell'histoire-bataille, della storia dei re, del ‛palazzo', dei vincitori e così via. È da rilevare, semmai, che questo ampliamento, pur procurando comunque, di per sé, un decisivo superamento dell'ottica per cui la nozione di fonte storica coincideva pressoché completamente con quella di fonte scritta a contenuto essenzialmente politico, non si è, tuttavia, giovato fino in fondo delle possibilità di integrazione e di sviluppo della dottrina tradizionale delle fonti che avrebbero potuto derivare dalla contemporanea crescita della ricerca antropologica, etnologica, sociologica; dall'estensione della prassi di ricerche di mercato, di sondaggi elettorali, di rilevazioni statistiche; dalla progressiva accumulazione di documentazioni prima largamente soggette a dispersioni immediate, come quelle cliniche e ospedaliere o a un altro estremo quelle di circoli e associazioni private; e così via. In questo senso la dottrina europea delle fonti è largamente cresciuta e può ancora largamente crescere su se stessa e attingendo da se stessa. Solo che la questione è appena il caso di notarlo non è affatto di pura e semplice teoria delle fonti. I principi esegetici delle fonti elaborati dalla tradizione storiografica europea non bastano più, nel senso che nuovi tipi di fonti e nuovi tipi di trattamento e di elaborazione di vecchie e nuove fonti richiedono attrezzature e preparazioni tecniche del tutto estranee alla tradizione. La stessa nozione di deposito delle fonti ha subito variazioni e innovazioni di primaria importanza, passando da tipi più generali ed elementari (biblioteca, archivio, museo) a tipi nuovi che fanno parlare, ad esempio, di mediateca (fototeca, diateca, filmoteca, videoteca, discoteca, nastroteca e così via), di mirnaturizzazione del materiale, di sua selezione ed elaborazione mediante il calcolatore e simili. Al di là di tutto questo resta il fatto che è la concezione stessa della storia, la sua generale valenza filosofica, il suo status scientifico e disciplinare a determinare e a sostanziare poi gli esiti critici, la fisionomia conoscitiva, l'utilizzazione pratica e concettuale del materiale raccolto nelle fonti e, quindi, delle fonti stesse. E per ciò è tanto più significativo che, per quanto riguarda le fonti nella loro più immediata consistenza e natura, nella loro ‛datità', anche le trattazioni più innovanti di teoria della storiografia e di metodologia e tecnica della ricerca storica dopo la metà del XX secolo ripetono, nell'essenziale, con le naturali variazioni e rielaborazioni proprie di ogni nuova esposizione, la dottrina generale delle fonti già maturata nel secolo precedente, con le sue classificazioni (fonti scritte e non scritte, problemi di autenticità e di validità, e così via).
Le osservazioni testé avanzate richiedono, infine, un'ultima serie di considerazioni. Estremamente ‛forte' sul piano dell'approfondimento dei suoi presupposti tecnici e dei suoi canoni di raccolta e di interpretazione , sperimentata nella sua robustezza e raffinatezza critica al contatto con le necessità di ricerca in contesti extraeuropei e, nello stesso tempo, con gli ampliamenti dei suoi interessi e dei suoi strumenti e con le esigenze di nuove relazioni interdisciplinari, la dottrina delle fonti storiche subisce, come si è accennato, tutte le implicazioni della vicenda attraverso cui passano non solo la teoria generale della storiografia, la concezione del pensiero storico, la Weltanschauung storica, la visione generale della storia, ma la concezione della scienza, la teoria della conoscenza, quella dell'informazione e della sua trasmissione, l'epistemologia e così via. Per questo aspetto fondamentale, il concepire la dottrina delle fonti come un'arte combinatoria neutra, una tecnica asettica e univoca per quanto proteiformi e numerose ne possano essere le esperienze applicative, un contenitore indifferente e invariante in cui versare i materiali via via attinti ai magazzini della memoria umana per trarne fuori le schede che in bella evidenza ‛spiegano' i ‛fatti' (o processi o intrecci che siano o che si voglia dire) è una visione deformata e depotenziata della fisionomia e del ruolo reali riconoscibili alle fonti, alla loro produzione e al loro studio, nel contesto generale della storiografia e nella vita sociale. Ciò non va inteso soltanto nel senso politico e ideologico, in cui può intenderlo, ad esempio, uno Chesneaux. Va inteso innanzitutto e soprattutto in un senso, insieme, metodologico e pratico più complesso. Lo intende, sempre a titolo di esempio, in tal senso Becker quando scrive che ‟la realtà storica è continua e infinitamente complessa, e i freddi fatti, in cui si pensa di poterla scomporre, non sono fette materiali di realtà, ma solo aspetti di essa. La materialità della storia è sempre scomparsa, e i ‛fatti' della storia, qualunque cosa fossero un tempo, sono solo immagini ideali o quadri che lo storico compone per comprenderli. E come si formano queste immagini? Non certo dalla realtà direttamente, perché questa ha cessato di esistere. Essa, tuttavia, ha lasciato qualche traccia, e sono proprio tali tracce che ci aiutano a costruirne l'immagine" (v. Becker, 1962, p. 118). L'esemplificazione che Becker porta dell'ufficio di tali tracce, che sono, appunto, il contenuto delle fonti storiche, introduce nel pieno del significato del problema. ‟Qualcuno - egli scrive - vide Cesare pugnalato, e possiamo supporre che dopo l'avvenimento scrivesse così ‛alle idi di marzo Cesare fu pugnalato dai senatori nell'edificio del Senato, sotto la statua di Pompeo, che, durante tutto quel tempo, sanguinò'. E adesso suppongo me stesso che leggo questa affermazione, da storico. Nel momento in cui leggo mi si forma nella mente un quadro: parecchi uomini in una stanza, ai piedi di una statua, che pugnalano uno di loro. Ma non è soltanto l'affermazione scritta che mi rende capace di formare questa immagine; ad essa partecipa anche la mia personale esperienza. Ho visto e uomini e stanze e pugnali, e la mia esperienza di queste cose fornisce gli elementi di cui l'immagine si compone. Supponiamo che non sappia nulla di Roma antica il mio quadro sarebbe senza dubbio fatto della stanza del Senato a Washington, di uomini in stiffelius e forse di pugnali. È ben vero che se imparassi un po' di più sul mondo romano il quadro muterebbe, ma a ogni stadio di questa trasformazione sarebbe pur sempre la mia esperienza a fornire gli elementi nuovi. Fonti nuove mi porrebbero in condizione di combinare insieme più correttamente gli elementi dell'esperienza, ma sarebbe pur sempre l'esperienza a scegliere questi elementi". Sicché diventa vero che ‟i ‛fatti' della storia non esistono per lo storico fino a quando egli non li crea, e in ogni fatto che egli crea ha parte la sua personale esperienza" (ibid.). Il carattere idealistico, che corrisponde anche a un preciso e concreto processo psicognoseologico, della rappresentazione storica è, così, egregiamente fissato come preliminare logico essenziale e costitutivo della sua funzione e della sua fisionomia culturale e ideologica, politica e sociale. Prende un senso filosoficamente e materialmente, idealmente e praticamente corretto, l'affermazione, che vale in pieno anche per le fonti storiche, secondo la quale ‟la realtà della storia può essere raggiunta solo attraverso la porta dell'esperienza presente". E prende corpo, come ovvio corollario della precedente, l'altra affermazione per cui l'esperienza presente ‟non solo fornisce gli elementi per l'immagine che le fonti ci aiutano a formare, ma è anche la corte d'appello finale per la valutazione delle fonti stesse"; e ‟la storia si fonda su testimonianze, ma il valore qualitativo delle testimonianze è determinato, in ultima analisi, da esperienze sperimentate ed accettate". Per questa ragione ‟lo storico sa bene che non vi è massa di testimonianze che basti a stabilire come realtà del passato una cosa di cui non si trovi esperienza nella realtà presente": a ciò, anzi, non basta neppure ‟trovare nell'esperienza di oggi gli elementi del quadro di un fatto che si afferma essere accaduto nel passato". Anche se ‟gli elementi per formare immagini" come quelle di una statua che sanguina o di una flotta che viene arsa con uno specchio ustorio ‟ci sono ben familiari", essi non valgono se ‟le fonti ci chiedono di combinare insieme elementi a cui l'esperienza solita della nostra epoca non dà fondamento". In questo caso lo storico nega fatti, come, ad esempio, i miracoli, ‟non perché siano contrari ad ogni possibile legge di natura o ad ogni possibile esperienza, ma solo perché sono contrari alle relativamente scarse leggi di natura che la sua generazione considera provate" (ibid., pp. 119-121). Va da sé che, qualora o la scienza o altri sviluppi dell'esperienza presente introducessero altri elementi nel quadro di riferimento dello storico, questi ammetterebbe senza difficoltà gli elementi prima negati. Ciò che Becker afferma va solo esteso ben al di là dell'ambito di ciò che tradizionalmente viene ancora inteso per scienza, perché la legittimazione nell'esperienza presente di elementi prima negati in via critica può derivare da innumerevoli e imprevedibili sviluppi della stessa esperienza presente al di fuori delle conoscenze scientifico-naturalistiche. Una nuova moralità può vedere la luce dove prima era solo oscurità. I rapporti con l'antropologia e l'etnologia hanno portato lo storico a sostituire alla nozione di superstizione tutta una ramificata trama di posizioni storico-sociali ed esistenziali. E l'esemplificazione potrebbe indefinitamente continuare. Ma per ogni tipo di storia, per ogni tipo di storiografia, per ogni tipo di fonte storica rimane vero che ‟se non possiamo avere dimestichezza col nostro passato, esso non è buono"; e che ‟noi abbiamo necessità di un passato che sia il prodotto del presente, e non sappiamo cosa farcene di fonti che ci dicono che esso non era tale, o piuttosto costringeremo le fonti a dire che il passato era come vogliamo che fosse" (ibid.). Liberato da ogni versione in chiave di arbitrarietà logica o ideologica, di incondizionabile soggettivismo individuale o collettivo, il principio che la storia è sempre, in realtà, storia contemporanea si profila anche sul piano dei processi psicologici, critici ed epistemologici attraverso cui viene elaborata, sulle fonti, sulle tracce del passato grazie a esse selezionate, la rappresentazione storica.
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