Storici e politici veneti del Cinquecento e del Seicento - Premessa
Questa raccolta di testi tra il pieno Cinquecento e il Seicento inoltrato costituisce il debutto di un progetto editoriale, ideato e coordinato da Gaetano Cozzi, che prevede più volumi dedicati a storici e politici del Cinque-Seicento, raggruppati per aree geografiche e insieme politiche e culturali (oltre a quella qui contemplata: Firenze; Genova, Milano, lo Stato Sabaudo; lo Stato Pontificio; i Viceregni di Napoli e Sicilia). In un'impostazione, dunque, che affida a Venezia un ruolo d'autonoma rilevanza, nasce l'allestimento della presente silloge, intesa a rispecchiare sia l'impegno della diffusa narrazione storica, sia le acquisizioni trattatistiche, privilegiando, in quest'ambito, le tensioni e le polemiche di un dibattito politico che è stato soprattutto aspro sul terreno giurisdizionale. Due dimensioni - storiografia e politica - separabili sul piano dei risultati, ma, di fatto, strettamente intrecciate e compenetrate, delle quali l'Introduzione generale si ingegna di fornire l'itinerario, nella speranza che essa permetta di situare in una più larga trama autori e brani, nella fiducia che essa compensi, almeno parzialmente, le lacune insite nell'evidente drasticità di una scelta dettata dalla qualità piuttosto che dalla quantità. Donde la rosa limitata delle inclusioni, ciascuna delle quali si presenta con porzioni il più possibile consistenti e compatte, si da risultare adeguatamente rappresentative (Paruta, Contarmi, Micanzio) o quantomeno indicative (Nani), quando non si mostri in edizione integrale (Querini). A un panorama, insomma, molto allargato, si è preferito l'attestamento su pochissimi scrittori, significativi per se stessi e insieme sintomatici di una più vasta situazione di contenuti e forme. La severa potatura vuol eliminare i rischi dell'appiattimento uniformante che sarebbe senz'altro risultato dalla giustapposizione di troppi pezzi. Opere date per intero o parti cospicue di esse finiscono - così è parso - coll'essere più sollecitanti di un pulviscolo, a prima vista più allettante, di schegge.
Certo, può stupire l'assenza di taluni nomi. Manca, per citare l'esempio più vistoso, Sarpi; ma valgono, a tale proposito, ovvie ragioni di «collana», che al servita, sempre per i tipi Ricciardiani, è dedicato un intero volume. Manca - ed è carenza di non lieve entità - Enrico Caterino Davila, suddito veneto e ufficiale al soldo della Repubblica, cui si deve una notevolissima esposizione delle guerre «civili» di Francia. Ma il suo inserimento sarebbe stato fuorviarne in un'antologia come la presente, costruita non solo con autori veneziani, ma anche con testi «veneziani», nei quali, cioè, Venezia circola come Leitmotiv. Lo stesso dicasi per l'assai più modesto Alessandro Campiglia, l'avvocato vicentino che pure rievocò le «turbulenze» francesi; o, su altro fronte, per il suo concittadino Galeazzo Gualdo Priorato, la cui attività di poligrafo si pone sotto l'egida imperiale. Quanto poi alla storiografia municipale, fiorente in terra veneta, i suoi risultati - come spiega l'Introduzione - non sono tali da togliere, per farle posto, spazio all'asse centrale della «pubblica storiografia». Indubbiamente privilegiata quest'ultima, giusta l'ottica venetocentrica che ha ispirato la silloge: Venezia non quale semplice dato anagrafico, ma come tema e problema.
Voluta, al pari dell'opzione selettiva condotta sulla base dei criteri sopra enunciati, la differente stratificazione delle note in calce ai testi. Più folte in occasione delle opere inedite, le Istorie contariniane e le Annotazioni micanziane, di per sé bisognevoli di un'adeguata rete di riferimenti, chiarificazioni e rinvii, le glosse relative agli altri autori sono meno stipate, si limitano alla sobria esplicazione di dati ed elementi poco perspicui al lettore odierno. Commentare con impegno generoso entrambi gli inediti è parso doveroso, anche perché è ambizione di questa antologia rendere credibile la convinzione maturata nel corso del suo allestimento: Contarini è uno storico d'altissimo livello, senz'altro tra i primi del Seicento italiano, certo il più grande tra i «pubblici storiografi» di Venezia; Micanzio è non solo il discepolo devoto a Sarpi, ma una vivace, risentita, polemica personalità degna d'autonomo spicco, il cui rapporto con il maestro è articolato e complesso, di intensa, appassionata e talvolta ombrosa collaborazione, più che di dipendenza.
Due i curatori del volume, Gino Benzoni e Tiziano Zanato, che si sono spartiti il lavoro in base alle specifiche competenze. Al primo si devono la scelta degli autori e dei testi, il relativo profilo introduttivo, l'Introduzione generale e - in sede di commento a piè di pagina - le chiose propriamente storiche e geografiche (identificazione di personaggi, estremi biografici, datazioni, documentazione archivistica, fonti storiche e/o storiografiche, localizzazioni topografiche). Al secondo si devono, invece, l'edizione critica dei testi, la finale Nota filologica, e - nel commento - le note linguistiche, esegetico- esplicative, filologiche e l'individuazione delle fonti culturali non strettamente storiche (poetico-letterarie, filosofiche, teologiche, bibliche, patristiche, giuridiche, erudite in genere). Ma, al di là di questa distinzione di compiti, la fatica d'entrambi i curatori ha mirato ad un risultato unitario, si è attuata, nel suo integrato procedere, in termini di costante amalgama, non già nella ricucitura - a cose fatte - del versante filologico con quello storico.
A lavoro ultimato, un fervido ringraziamento va rivolto a quanti - in particolare Alberto Tenenti, Gerry Slowey, Laura Momigliano Lepschy, Manoussos Manoussakas, Edward Muir, Francesca Cavazzana Romanelli - sono stati d'aiuto nelle ricerche. Chi ha esperienza di lavori di questo genere sa quanto sia prezioso l'ausilio derivante dalla varietà delle competenze e (non sembri irrispettoso) delle residenze. Mai inferiore alla sua consolidata fama la cura rivolta al volume dall'editore; viva nel partecipe interesse con cui Gianni Antonini ne ha seguito il progressivo divenire, si è dispiegata con solerte tenacia nella vigile, intelligente revisione di Paola Slavich, che ha sollecitato e suggerito puntuali chiarimenti per la miglior comprensione dei testi: di qui il non piccolo debito di gratitudine contratto nei loro confronti. Un grazie particolare, infine, a Gaetano Cozzi, per il suo illuminante incoraggiamento e appoggio: a lui i curatori si permettono di dedicare il risultato della loro comune fatica, come segno di riconoscimento di una carriera di studioso che, proprio in merito alla storia e alla politica veneziane del Cinque-Seicento, ha segnato dei punti fermi, ha offerto contributi che sono, a pieno titolo, dei classici.
Introduzione
Intenso sino alla congestione, a Venezia, dal secondo Cinquecento a tutto il Seicento, l'esercizio della scrittura; e nettamente individuabili, all'interno pur intrigato e avviluppato di questa abbondantissima produzione solo parzialmente pervenuta alle stampe, due filoni, uno persistente e tenace nel suo ininterrotto esprimersi, l'altro, dopo l'ambizioso debutto, via via infiacchito e svaporante. Quello della narrazione storica il primo, calante a metter ordine nell'altrimenti confusa costipazione dei fatti; il coacervo delle notizie s'illumina nel chiarificante procedere dell'esposizione, sospinta dall'insopprimibile esigenza di disporle, dopo attenta valutazione, gerarchicamente, in base alla loro importanza. Il secondo, compresente, è quello della «considerazione» su «diverse materie», che non vuole essere spicciola, contingente, limitata ad appunti sparsi e disadorni, ma punta alla compiutezza, se non altro eufonica, dell'aforisma e della massima, e soprattutto aspira - quando si precisa il nucleo tematico - a fissarsi nella struttura robusta e rassicurante della trattazione sistematica, che suppone e sciorina ad un tempo un coerente sistema di valori. Ché, laddove altri inclinano a «chimerizzar nel letto», a lasciar fantasticare il «capriccioso cervello», sussiste la convinzione che Aristotele o Platone o entrambi mescolati forniscano l'«optimum philosophandi genus»; donde, malgrado il controcanto dei «cicalamenti», delle «baie» e delle «chiacchere», l'abbondanza dei trattati. Anche se il mondo è «serraglio stuporoso», «mostruoso», accozzaglia senza connexio di «mostri», «prodigii», «sogni», «miracoli», «maraviglie», anche se l'uomo integrale si spacca in un'infinità di «professioni» e «mestieri», anche se la mente si scheggia in un'allucinante varietà di «cervelli», «cervellini», «cervelluzzi», «cervelletti», il «doctor humanitatis» continua imperterrito a proporre l'eccellenza umana. Se non altro ai giovinetti impegnati «in studiorum primordiis» si può far credere che gli studia humanitatis la costituiscano, che, per loro tramite, possano «ad humanitatem informari».
Irripetibile, comunque, dopo le convulse tensioni e gli sconvolgimenti devastanti del primo Cinquecento, l'orgoglio umanistico, ridicolizzata la sua presunzione di signoreggiare mondo e fortuna, di modellare microcosmo e macrocosmo in un potente afflato d'avvalorante armonia. La totalità è ormai infranta. Impietosamente strattonata dalla furia procellosa degli accadimenti la fiducia; le si para davanti il muro invalicabile dei fatti colla sua ombra oscurante ogni solare ottimismo. Non v'è riguardo per gli intellettuali; i tempi sono sordi alle loro dotte perorazioni, insensibili all'orbo della loro doctrina ordinata, alla dignitas hominis che risulta dalla loro scientia rerum. Ed essi sono impotenti di fronte allo scatenarsi della forza. È questa, infatti, che plasma il mondo, non lo «scrittoio». «Scellerata e nefaria» la via del potere, che incede stritolando l'esigenza d'una libertà fattiva dispiegata in «cose buone» e «leggiadre». La storia è tragica, non armoniosa: essa consente l'instaurarsi d'un ordine atroce, all'interno del quale Chiesa e Re esigono perentori l'allineamento della cultura. Essa deve assecondare, non guidare. Il «letterato», se ha fortuna, diventa «secretario»; «s'ingegni», allora, d'«essere sempre con la persona del prencipe o poco lontano», per essere lesto nell'obbedienza «quando verrà chiamato». Non il mondo salvato dalle lettere realizzanti gloria, sapere, felicità, virtù, ma queste in quello integrate, così com'è, a celebrarlo, a riverirlo. Donde l'inquadramento disciplinato del ceto dei colti, l'adattamento subalterno, l'intrupparsi - a parte sporadiche fughe solitarie - in un avvilente destino d'ossequio. I «grandi» sono «in così alta parte locati e tanto dalla comune condizione lontani che, scorgendosi solo a Dio tributari», hanno diritto alla «venerazione di tutti» senza «alcun riconoscimento prestarne», teorizzano gli uomini di lettere. Essi sono, dunque, «dèi fra gli huomini»; il principe è «dio terreno». Confinata la parola nello spazio mortificante della piaggeria cortigiana, dello squittire encomiastico. Dissolta nel «gran teatro» dell'universo la civitas dei vagheggiamenti umanistici, essa non incita più alle «buone operationi» ed alle «virtù»; in un «mondaccio» che è come un «pallone gonfio di pazzia» e «buffalagine», s'obbedisce solo alla sferza d'un potere insindacabile.
Non così a Venezia, ultima spiaggia per il regnum hominis; non vi si ode il tonfo del clamoroso fallimento umanistico; supponibile ancora l'uomo libero in libera città. La cultura vi è ancora produttrice e banditrice di valori, indispensabile intelaiatura concettuale d'una classe dirigente per la quale è «turpe [. . .] nescire patria instituta et non habere memoriam illustrium virorum qui in [. . .] republica fuerunt». Storiografia e trattatistica conservano e potenziano il loro ruolo: strumenti efficaci, bloccano l'avvizzimento della parola, la salvano mentre altrove scivola nella fangosa palude della «cortigiania», degrada nella loquacità servilmente illustrativa ed amplificativa delle presunte «attioni heroiche dei potentati». Procedendo appaiate (i trattati hanno nella storia il loro brodo di cottura: sguazzano nei fatti, vi pescano casi tipici da cui spremere esempi, strizzare insegnamenti), edificano, in un traboccante crescendo affabulatorio, la «dignità» ed «eccellenza» di Venezia, la città «grande» «inclita» «eviterna» «illustre» «regina» «famosissima» «gloriosa» «sempre felice» «centro del mondo» «d'oro» «de Dio» «alma» «vergine» «illustrissima» «occhio del mondo» «magnifica» «potentissima» «nobilissima» «singolare».
Scampata al disastro d'Agnadello, sfuggita alla furibonda collera del vendicativo Giulio II («fatale instrumento», per dirla con Guicciardini, «de' mali d'Italia»), Venezia non si è semplicemente risollevata, non ha solamente evitato l'altrui dominio. Imboccato il cammino d'una vigile neutralità, nutrita d'accortezza diplomatica e garantita da un rispettabile apparato difensivo (Paruta vanta le «fortezze» elevate con «regale spesa»), la Repubblica è rimasta indipendente salvaguardando altresì i margini d'autonomia ancora possibili nel resto della penisola. Solo Venezia «sta alquanto in piedi», esclama dal pulpito Bernardo Ochino, a cui «pare contenga in sé tutta l'Italia». «Vero lume», perciò, dicono altri, «splendore» della penisola; «unico rifugio», «porto sicuro» per tanti; «tempio di religione», «vero albergo di pace e di tranquillitade», «illustre domicilio di gloria», insistono i riconoscimenti. «Solo ricetto dell'honore et della libertà italiana»: così Sperone Speroni. Una libertas verso gli altri stati non risolta in se stessa, ché vale, pure, come dato fondamentale d'una città la quale si propone ed è proposta come esemplare modello di libertas interna, di regime cioè non dispotico, al mondo intero. «Regina», dunque, della «libertà e madre della giustizia»; «specchio», perciò, «d'Italia e splendor del mondo». «Savi signori» la governano; «uomini prudentissimi et ottimi», dal portamento «grave», d'«aspetto reverendi», dalla «fronte carica di pensieri publici», «atti» e «degni» a «reggere et comandare a tutta Europa», si riuniscono in senato, che è «onore e decoro non solo di tutta Italia, ma di tutta la Cristianità». La città più giusta, più salda, più ricca, più splendida che sia mai esistita: «iustitia, imperio, opulentia et civium splendore, non modo in omni Italia, verum in universo quoque terrarum orbe praeclarissima habetur», s'entusiasma Francesco Patrizi. Depositaria della ricetta della «felicità», ha scoperto la pietra filosofale del buon governo che in lei si svolge beneficamente, pienamente persuasivo, senza lo stridore vociferante delle «dissensioni», senza la minaccia ribelle delle «rivoluzioni». Una libertà opportunamente distribuita, dosatamente calibrata, fissata al punto giusto, frenata prima che diventi «troppa», prima che rovini in «licenza» e mini il «buon ordine». Ben «poco c'importa», osserva il giurista friulano Cornelio Frangipani, «che qui gli offici et magistrati si diano a' senatori [. . .] nati in questa Republica solamente». E proprio questa la «gran ventura»: «albergar in loco» ove si gode d'ogni «frutto del bon governo, senza il peso de la sollecitudine». Sono gli ampi spazi privati apprezzati dal pur critico Bodin; la douceur de vivre per quanti aspirano a vivere con la «massima libertà», una incoraggiante cornice di «tranquillità» operosa per la «mercatura», le «manifatture », gli «studi». «Siamo liberi come la città», gioiscono i sodali dell'Accademia Peregrina.
Persino naturale, pertanto, oltre che doverosa, l'obbedienza alle «buone leggi», le quali, insegna Paruta, «formano» a loro volta «i buoni governi, e similmente istituiscono bene i cittadini». Non l'arbitrio del sovrano, ma la cristallina giustizia di leggi «sancte»; non i variabili umori della «moltitudine» e le intemperanze perniciose della «licenza popolare», ma l'«autorità», rispettata, della «legge», nella «sicurtà di ognuno». Mirabile questa realizzazione: «la forma della Republica» è «tale che», così il medico Andrea Marini, Platone ed Aristotele sommati non riuscirono a «fingere una così bella». Venezia, allora, come utopia realizzata all'insegna della moderazione, vale a dire anche con drastica compressione delle spinte utopiche provenienti dal basso, con severa potatura d'ogni punta radicalmente estrema affiorante dall'urgere dei bisogni. Una libertas anzitutto giudiziosa, col corteggio della dignitas e dell'honor. Ecco la «vera immagine di perfetto governo», incalza Paruta, concentrato di «leggi accomodate a bene e felicemente vivere». Senza «seditione di populo», senza «discordia de' patritii», entrambi, anzi, unanimi nell'«accrescerla», Venezia è «per durar perpetua», esempio ammonente di pace e giustizia in un mondo incapace di stabilità, diviso dalla frattura religiosa, agitato da egoismi, dominato da ambizioni esasperate, sconvolto dalla violenza, dilaniato dai contrasti. Meno potente dell'antica Roma, Venezia tuttavia è di lei più valida. L'aveva fatto dire a tutte lettere Donato Giannotti all'umanista e patrizio veneto Trifone Gabriele: «quantunque i Romani possedessero tanto maggiore imperio [...], non però giudico la Repubblica [. . .] meno beata e felice. Perciocché la felicità d'una repubblica non consiste nella grandezza dell'imperio, ma sì bene nel vivere con tranquillità e pace universale. Nella qual cosa se io dicessi che [. . .] la Repubblica fusse alla romana superiore, credo certo che niuno mi potrebbe giustamente riprendere». D'altronde già Sabellico, sia pure con più generici argomenti, l'aveva affermato: «sanctitate legum, caeterisque sanctioribus institutis res venetae cum romanis collatae [. . .] meliores reperientur».
Asserzioni da far inorridire lo scorbutico Machiavelli; egli, che si vantava d'aver stimato «poco i Venetiani», prima ancora della severa verifica d'Agnadello, «etiam nella grandezza loro», è stato forse l'unico a rimanere insensibile di fronte alla sirena della costituzione veneziana. Il fascino di questa ha invece catturato uno storico «mal affetto» verso la Serenissima come Guicciardini: «a me pare che il governo viniziano per una città disarmata sia così bello come forse mai avessi alcuna republica libera». Ma è proprio la configurazione della «città disarmata» ad essere estranea a Machiavelli. L'assenza di conflittualità interna, orgoglio della Repubblica, è per lui indice di torpore, laddove «la disunione della plebe e del senato» rese «libera e potente» Roma. Produttivi per Machiavelli i suoi «tumulti», cui riconduce, quali «effetti», l'«ampliare», l'«acquistare». Ma egli non ha chi sviluppi le sue considerazioni sulla vitalità dinamica delle tensioni tra patrizi e plebei e le complementari riserve sugli assetti che non le contemplano. S'impone la valutazione di Gasparo Contarini, poi dipanata da Paruta, il quale, giudiziosamente, non intende affrontare di petto un autore «condannato dalla Santissima Sede apostolica all'oblivione perpetua». Sconcertano la «confusione» della Roma repubblicana, la sua perenne agitazione, che la rendono così «tumultuaria». A Venezia, invece, ove - come rileva, in una sua lettera a Camillo Paleotto del 1° agosto 1565, il genovese Gabriele Salvago - «l'una potestà» è «dall'altra temperata» sì che «alla dignità non si paté difetto e all'autorità non è dato eccesso», si realizzano quelle particolari «temperanza» e «moderanza nel reggere» che escludono il «disordine», la «mutatione». Mai vi si è verificato, si commuove Contarini, qualche «tumulto popolare overo disturbo». Impagabile merito della costituzione veneziana, che comporterebbe i tre tipi fondamentali di governo d'aristotelica memoria, l'assopimento d'ogni contrasto, il conseguimento della pace sociale, la «molta obbedienza» del popolo. Un equilibrio che non va violato, la cui esaltazione si presta ad una dilatatissima gestione ideologica.
Questo il mito che aureola Venezia nel Cinquecento, che si mescola ai bagliori della sua «singolare» unica bellezza: la città più bella del mondo è, pure, la forma-stato più perfetta; armoniose le facciate dei palazzi che si riflettono sulle sue vie acquee; del pari armoniosa l'architettura costituzionale che si rispecchia nel fluire ordinato della vita collettiva, nella stabile coesione politica e sociale. Contemperanza d'autorità e libertà, compenetrazione di bellezza e saggezza, sintonia di scenografia urbana e giusto mezzo avallate da una favorevolissima situazione climatica. Financo la meteorologia diventa ingrediente del mito! L'autorità d'un autore venerato come Vitruvio autorizza a proclamare salubre l'ambiente lagunare. Cornelio Frangipani decanta il «felicissimo clima» offerto dall'«aere temperato ove gli huomini vivono vita lunga et sana». Non vi è «horrido il verno», non vi è «ardente la state». Un «dono de l'onnipotente Dio», per Cristoforo Sabbadino, il «bonissimo aere, non grosso, non subtile, ma temperato», che va assicurato con la salvaguardia della laguna. Un clima, a dire il vero, «umido», ma «disseccato in qualche parte» dalla «salsedine», che lo rende, di fatto, «saluberrimo», precisa Andrea Marini, che, al fine di non guastarlo, esorta a «restituire la grandezza del flusso e del reflusso» lagunari, a impedirne, comunque, a tutti i costi, la «debolezza»; altrimenti l'«aere» diventa «morbido e infermo». Un'ombra di preoccupazione ignota al famoso e discusso medico bolognese Leonardo Fioravanti, che a Venezia si stabilisce nel 1558: l'«aere» è «temperato»; non solo non è «sottile», ma, ne è sicuro, «né manco humido». Ben presto «quivi si sanano [. . .] le ferite di testa ed ancora il mal delle gambe et ogni altra infermità». Perciò «in tutta Europa non vi è città che le genti campano più e vivono più sani quanto fanno in Venetia». E questo si deve, appunto, alla particolarissima «benignità dell'aere di quel sito». Ancora più categorico di Fioravanti è l'«eccellentissimo fisico», ravennate di nascita e a Padova docente e a Venezia residente, Tommaso Rangone, pittoresco impasto di dottrina e azzardo, di scienza e astrologia. Detto «Philologus» per la sua erudizione, ritenuto «medicus clarissimus» e, in particolare, conoscitore di tutti i «modi» per curare il «malum gallicum», non si limita a garantire, in latino e in italiano, che ai Veneziani è dato di «vivere sempre sani». Rileva, in più, il presunto dato d'una eccezionale longevità: «gli Venetiani soli nell'occidente sono vivuti longamente», grazie al «dominio delle qualità active» del clima «sopra le passive», per cui il caldo vince il freddo, l'umido atterra il secco. Ne deduce sia possibile, a Venezia, oltrepassare agevolmente i cent'anni. Propala questa sua convinzione attorno alla metà del Cinquecento e gli si presta un certo credito se, verso la fine del secolo successivo, si ristampa il suo opuscolo in proposito quale Svegliarino alli signori veneziani per poter con sicurezza viver di continuo in sanità, fino gli anni cento e dieci (Venezia 1691). Alla «natura» s'aggiunge - merito del commercio - la presenza di «nutrimenti [. ..] buoni [. . .] nuovi [. . .] insoliti», anch'essi latori di salute. Per Fioravanti Venezia non è solo il «centro del mondo», affidato al governo dei «più savii huomini che siano sulla terra»; è la capitale della farmacopea, ove confluiscono «canella, reabarbaro, l'aloe, il turbit, la siena, la scamonea et tante cose solutive che farieno cacare una grandissima squadra di vacche, ancor che fossero pregne». Insomma, vi è «il fiore di tutte quante le sorti di semplici che si trovano nel mondo». «Ogni cosa», cibo e medicamenti, «in abbondanza» in lei «si ritrova», concorda Rangone: è «terrestre, anzi celeste paradiso».
«Perfetto», dunque, come lo qualifica Alvise Cornaro, l'«aere»: a Venezia si respira bene, meglio che altrove. Non basta: circola pure la persuasione che il veneziano sia il linguaggio migliore; non dialetto, ma lingua con dignità pari alla fiorentina. E c'è pure chi si spinge ad asserirla a questa superiore. Il veneziano - l'afferma Maffio Venier - «è una lengua che ha ogni saor» ; inutile ricorrere al «toscan». Dall'aria salutifera alla lingua sapidissima: tutto sembra congiurare per fare della città un caso speciale. Si sente diversa perché più bella, perché migliore; e gli altri la ritengono tale. Città «felice», città «sana». Per crederlo e farlo credere è indispensabile una convinzione alimentata da memorie storiche meticolosamente rinfrescate (il «miracolo» della nascita, le reliquie di san Marco, il dominio sul mare riconosciuto da Alessandro III . . .) e potenziata da una consapevolezza duttilmente e inventivamente argomentante, capace di produrre una costante elaborazione ideologica, una cattivante sponsorizzazione. Perciò, nel caso di Venezia, la cultura non è orpello, ma dimensione costitutiva: a lei la città deve quella «riputatione» che sembra crescere pur nel concomitante diminuire, rispetto alle grandi potenze, del suo peso relativo. «La Republica nostra (se vogliamo dire il vero) è maggiore di reputatione che di forze», dirà, senza tanti complimenti, un senatore in una «renga» pronunciata nel giugno del 1606, «per l'occasione dell'Interdetto». Un altro senatore, nello stesso torno di tempo, rileva come ad essa, «per le molte inhabilità sue a imprese belliche», convenga «l'attender a conservar l'imperio anzi con la prudenza civile che con il valor militare»; infatti «del Veneto è più proprio il consigliare che il combatter [...], è più proprio», insomma, «l'adoperar la testa, cioè il cervello, che le mani; et vincere [. . .] sedendo, cioè con l'ingegno et prudenza sua».
Nella città prudente, nella città intelligente, storie e trattati paiono conservare un'incidenza reale, un senso complessivo: a loro Venezia affida il suo significato, la sua credibilità. Anche se le lettere non salvano il mondo, a Venezia ambiscono ancora a comprenderlo e guidarlo. C'è la pacatezza persuasiva di Paolo Paruta, tutta intenta ad analizzare i vantaggi della «pace e tranquillità» interne ed esterne; segue lo stringente argomentare di Sarpi, a difesa della «quiete e tranquillità» dell'azione di governo contro le inceppanti interferenze pontificie. Gli «studi delle buone lettere» si coniugano con la «prudenza delle cose civili»; strettissimo il rapporto tra quelli e la politica. Ciò vale anche quando s'avverte un che di guasto nell'illusoria fosforescenza del mito, quando circola una certa stanchezza per il miele dell'autocompiacimento e si fa strada l'esigenza d'un'identità più precisa: una Venezia collocata a pieno titolo nel disegno complessivo della Controriforma o, invece, come vorrebbe il settore più vivace e insofferente del patriziato - quell'«insolente gioventù», indigesta alla Santa Sede, «il straordinario numero della quale prevale alla prudenza de' vecchi e pii senatori» -, dislocata rispetto a questo sino a contrastarlo uscendo dalla neutralità e alleandosi coraggiosamente con le forze antiasburgiche. Una scelta drastica, non risolvibile discettando sull'eccellenza del governo misto, che coinvolge anche gli intellettuali: li sottrae alla separatezza, li obbliga alla cultura militante, specie nel primissimo Seicento, quando nella «guerra delle scritture» culmina e si sfoga l'antagonismo veneto-pontificio. È franata da un pezzo ogni umanistica supponenza. Ciò malgrado, le parole tornano a contare. «La materia de' libri par cosa di poco momento perché tutta di parole; ma da quelle parole vengono le opinioni nel mondo, che causano le parzialità, le sedizioni e finalmente le guerre. Sono parole sì, ma che in conseguenza tirano seco eserciti armati». La stessa attività storiografica assume di qui una dirompente forza d'urto: «non ci è forse cosa più necessaria, quanto manifestar al mondo la verità delle cose passate». Così Sarpi - scovato dall'«occasione» nell'apparente quiete dello studioso appartato - è immesso nel vivo delle lotte del tempo, con responsabilità di pronunciare «parole» determinanti i comportamenti pratici d'un intero ceto politico. Nel suo caso l'intellettuale non s'accoda, ma diventa punto di riferimento e d'orientamento.
«Il est excellement docte [...]: la Republique l'ais pris à ses gages», valendosi, con scorno dei gesuiti che «luy veulent un gran mal», de «son conseil depuis ce differend», scrive, il 28 giugno 1606, al segretario di Stato de Villeroy l'ambasciatore francese a Venezia Canaye de Fresne; lo stesso il quale, il 16 giugno 1607, informa l'arcivescovo d'Urbino Giuseppe Ferreri che il servita «possede tutto questo senato et è uomo di grandissimo valore et prudenza». Quando sicari tentano d'ammazzarlo, ci sono «dimostrationi verso questo frate, che maggiori forse non si farebbono se fosse stata offesa la persona» del doge, rileva, non senza dispetto, il 16 ottobre 1607, l'agente sabaudo a Venezia. Impensabile altrove una siffatta incisività della dottrina, irreperibile un simile peso delle «parole», una tale loro compenetrazione coi fatti; unica quest’eccezionale sintonia tra azione di governo e uomo di lettere. «Parole» incandescenti che possono scatenare la vampata sommovente della guerra: «il vous puis [. . .] asseurer sur tout ce que i'ay de cher en ce monde que s'il ne plaist à sa Saincteté boucher ce traicté sur ce que luy porte [. . .] le cardinal de Joyeuse, il n'y a plus de moyen d'empescher que devant la fin d'avril l'Italie ne se voye toute en feu et Dieu sfait qui l'esteindra», confida, angosciatissimo, Canaye de Fresne, il 31 marzo 1607, al rappresentante francese a Roma barone d'Alincourt. Ma, proprio in aprile, la mediazione francese ha successo, il pericolo di guerra rientra, le grandi potenze, loro malgrado tirate in ballo, respirano sollevate. A nessuna, infatti, delle «prime corone», poteva «tornar bene il vedere un tanto fuoco acceso»: sarebbe stato «inestinguibile», di «grande detrimento del cristianesimo e della divina gloria».
Subentra, per Venezia, un lento e contorto ripiegamento e, in questo, la sua peculiarità inizia a stingersi. Non basta Sarpi, colla sua sempre più ridotta «cabala», ad invertire il corso, a mantenere largo l'orizzonte. Le parole contano, purché, però, non siano disgiunte dai fatti. Altrimenti - è Sarpi stesso a mettere sull'avviso - sono solo attestazioni d'inazione, sintomo d'impotenza: «quando li valent'huomini scrivono, è manifesto indicio che non possono operare», osserva seccamente, in una lettera a Jean Hotman de Villiers, il 16 novembre 1612. Il rispetto e la deferenza che lo circondano non gli impediscono d'avvertire l'incipiente sfaldatura d'un gruppo compatto ed egemone nella direzione dello stato; non sente più dietro a sé il supporto d'un consenso combattivo; gli manca il corroborante conforto del rapido travaso dei suoi suggerimenti nelle delibere senatorie. Frettolosamente smantellati gli entusiasmi suscitati dalla contesa dell'Interdetto, isolato e circoscritto il focolaio d'un più vasto incendio sovversivo, deperisce la possibilità - da Sarpi agognata - del rilancio europeo di Venezia, s'affloscia la bandiera della libertà repubblicana. S'appalesa crudamente la debolezza della Serenissima: non ha «nel sangue la passione della guerra», rileva William Bedell; è impari al ruolo attivamente antipontificio ed antiasburgico affidatole da Sarpi. Non si scrolla di dosso l'ottundente torpore dell'«ozio» per insidiare la «quiete» vischiosa favorevole alla Santa Sede e alla Spagna; si rafforza, così, l'«ordinario corso delle cose». Smentito l'auspicio sarpiano d'uno scossone salutare: «e sarà guerra in Italia, va bene per la religione» riformata, «averà corso» la ventata purificante dell'«Evangelio», aveva scritto a Jéróme Groslot de l'Isle il 27 aprile 1610. Cocente delusione il fiacco andamento della guerra di Gradisca; timide le operazioni militari, prive della spinta d'una convinta decisione politica. «Chi ha il governo», commenta Fulgenzio Micanzio, è disposto alla «pace con ogni conditione». Indubbia la conclusione: la Repubblica «non è da guerra». La cultura, da strumento di polemica si stempera in connivente accettazione; s'adatta, in concomitanza coll'accentuarsi della marginalità veneziana, alla partitura del disarmo ideologico. A ridosso della mediocre prova fornita nel conflitto con gli Arciducali, in un trattatello del 1620 dall'indubbio sapore ufficioso (l'autore, Giuseppe Bonfadio, insegna ai giovani avviati alla carriera cancelleresca) si sbandierano intenti remissivi. Proprio quando è ormai innescata la guerra dei Trentanni, si proclama che il «Venetorum ingenium» è, di per sé, «abhorrens a bellis». Di lì a non molto la guerra di Mantova lo confermerà clamorosamente.
C'è, il 25 maggio 1630, l'ignominia della rotta di Valeggio: fuggono a gambe levate - inveisce il poeta Gian Francesco Busenello - i «Venezianazzi»; anziché «mostrar al nemigo un poco el viso», le «squadre» marciano, «co' fa i gamberi», leste all'indietro. «No è nostro pasto el guerreggiar», ammette un più tardo verso dello stesso. Bolle ancora, nella pentola, il lesso del mito; ma il brodo è annacquato, la carne sfilacciata, insipida. Si continua a dire che la «forma dello stato» racchiude «tutte quelle conditioni che si ricercano in una ottima republica», si ripete che le possiede «in somma eccellenza et perfettione», si ribadisce che la Serenissima è «vera imagine dell'eternità», «compendio della grandezza celeste», che su di lei «ogni raggio il sommo sole aduna», ma l'accento non cade più sulla contrapposizione. Gironzola retorico attorno a genericità; senza scrupoli d'accertamento evita accuratamente approfondimenti autocritici. Evidente, dopo la scomparsa di Sarpi, l'impoverimento ideale; senza più remore il ronzio del vaniloquio sparpagliato nelle tante troppe Accademie. Dette e scritte a iosa, le «parole» non contano più, non impegnano più: sciamano leggere, svolazzano irrilevanti, turbinano a vuoto. Il gusto si scapriccia dopo la scomparsa di Sarpi. Imperversa la futilità; sottintesa, nei più consapevoli, l'ammissione della sconfitta; avvertibile, talvolta, nel ricorso al non senso, un sentore di disperazione; in ogni caso nessuna idea è estraibile da tanto chiassoso vociferare.
È in atto il declino seicentesco della Repubblica: alla ristagnante guerra gradiscana e al troppo pavido sostegno concesso al duca di Mantova Carlo I Gonzaga Nevers succedono la protratta difesa che contrappone a Candia il «veneto leone» al «terribil mostro» ottomano, l'effimero revival della riconquista della Morea, quando ci si illude che «Epiro [...] Peloponneso [...] Grecia» restino per sempre «prostrate avanti il [. . .] seggio» dogale. Pesantissimi per le finanze pubbliche gli oneri bellici, addirittura sgomentante l'arretramento economico, ché al pauroso calo produttivo delle manifatture si somma la vistosissima rarefazione dei traffici. Altrettanto evidente lo scadimento culturale: sempre più stonate le vibrazioni della già ricca orchestrazione cinquecentesca esaltante la «vita civile» (questa, fuggita dalla Firenze medicea, aveva ripreso fiato e colore ai bordi della laguna), irrobustita poi - di contro alle turbanti e sottili obiezioni controriformistiche - coll'innesto della perentoria affermazione sarpiana della «sopranità» anche nelle «cose sacre ed ecclesiastiche», ravvivata dalla vigorosa rivendicazione del servita dell'autorità laica, cui spetta «disponere» di «qualunque cosa e persona» quando l'esigano «la necessità ed utilità del bene publico». Surrogato troppo modesto, nell'allentarsi complessivo della tensione ideologica, l'idealizzazione della gestione aristocratica delegata all'enfasi banalizzante di letterati chiacchieroni, malamente ricoprenti la vacuità concettuale con altisonanti iperboli e spesso propensi a vellicare, al di là dell'omaggio esteriore alle istituzioni, orgogli individuali. Ma nel giulebbe complimentoso affoga la vitalità del mito. La città reale è anche città mentale; se l'alterità di questa s'appanna e si appiattisce, una patina grigia si stende anche su quella. Se ne scapita il significato, la bellezza è meno fulgida, suggerisce meno, stimola meno. È l'identità stessa a risentirne. Venuta meno la polifonica pienezza dell'autovalorizzazione tardorinascimentale, il dominio patrizio può sembrare, più che fermamente orgoglioso, nervosamente protervo. Le formule esageratamente gratificanti escogitate da penne corrive non gli restituiscono la perduta luminosità. Qualcosa resta, semmai, nella narrazione storica, che si ostina, con risentite impennate, a difendere la peculiarità della vicenda veneziana, ad inseguire il filo rosso della presenza qualificata della nobiltà, a sentirla come continuità di dedizione. Ma non basta a ridare alla «vita attiva» lo smalto dell'autoconvincimento, la grinta aggressiva degli entusiasmi svaniti.
C'è il logorio d'una plurisecolare tradizione di governo, l'usura d'un geloso accaparramento della cosa pubblica. S'approfondisce, in seno al patriziato, il solco tra ricchi e poveri: i primi tendono ad una direzione sempre più ristretta ed accentrata, i secondi si danno all'arrembaggio disordinato delle cariche contemplanti un minimo di retribuzione. Una classe dirigente che tale rimane, ma corrosa da contrasti personali, segmentata dalla contrapposizione tra poche famiglie opulente e altre al limite dell'indigenza, spesso perplessa, dubbiosa, come tarlata dall'indebolirsi dell'orgoglio collettivo. Si diffondono private pratiche libertine; si scatenano spinte prepotenti all'affermazione individuale. Non vale più quanto aveva fatto dire, nei Marmi, Doni ai «Peregrini»: «chi loda [...] un gentiluomo viniziano loda tutta la Republica [...] e chi onora la [...] Republica fa riverenza a ciascun gentiluomo viniziano». Sembra invece smagliarsi il tessuto costituzionale, anomali sussulti paiono espropriare il pregadi delle sue prerogative decisionali: «il Morosini, non il senato, ha ceduto Candia al Turco», prorompe in un'orazione (che sarà edita, a cura di Bartolomeo Gamba, assieme ad un'altra di Giovanni Sagredo, a Venezia nel 1833) Antonio Correr. «Che confusione», insiste, «sia questa di principe e ministro in uno congiunti io non so, né arrivo a distinguere quale sia il principe, quale il ministro».
Se alla demolizione bodiniana dell'immagine, indubbiamente artefatta e mistificata, dello stato misto, l'aristocrazia ha saputo opporre la concreta energia dello scatto antiromano contrassegnante la contesa dell'Interdetto, alle punzecchiature acidule dell'Histoire du gouvernement de Venise (Paris 1676; e segue, nel 1677, la ristampa) di Abraham Nicolas Amelot de la Houssaie essa replica innervosita con la richiesta di provvedimenti amministrativi. E in effetti l'autore è rinchiuso, per un po', alla Bastiglia. Una reazione, quella veneziana, che indica più fragilità che forza: un'implicita ammissione di scarsa fiducia. Per quanto irritante, la critica non induce a restaurare la propria immagine, a sottoporla prima alla verifica d'un animato dibattito. Troppa polvere la ricopre, troppa stanchezza l'invecchia. Manca, nel tardo Seicento, l'accensione d'una difesa entusiasta ed entusiasmante del reggimento repubblicano. Ormai conservazione, ormai, malgrado gli intermittenti conati d'adattamento e di correzione, ripetizione, esso non è più proponibile in termini di libertà, non è più percepibile quale alternativa. Ed è troppo macchinoso per giustificarsi, più modestamente, sul terreno della funzionalità e dell'efficienza. Si dispiega in Francia il disegno uniformante dell'accentramento monarchico. Un ambiziosissimo progetto questo della regia potestas, rispetto al quale il caso veneto non è più competitivo. Gli spazi si chiudono: politicamente marginale, la Repubblica lo è anche ideologicamente. E a chi sta ai margini la storia concede anfratti in cui nascondersi, non senza, tuttavia, irrompervi, talvolta, devastante. È ciò, appunto, che capita a Venezia nel primissimo Settecento, quando, nella sua disarmata neutralità, subisce l'indisturbato accamparsi di truppe imperiali e francesi nel suo territorio, assiste allo scorazzare protervo di navigli francesi nel «Golfo». Penosa la sua mugugnante impotenza: uno spettacolo che la nebbia ipersedimentata del mito non riesce ad occultare. Se nel Cinquecento essa ha avuto un ruolo perché le «cose» restassero «bilanciate», se allora Paruta ha potuto teorizzare, laddove «i partiti sono dubbiosi e difficili», la bontà dell'«appigliarsi a quello che si ritira dal fare alcuna cosa», ora questo ritrarsi significa accettare la presenza altrui nelle proprie terre e nelle proprie acque. Non solo la «bilancia» non dipende da Venezia, ma le si rovescia addosso.
Fin qui, a grandi linee, la valenza ideologica di Venezia dal secolo XVI sino all'inizio del XVIII : attestatasi nelle rassicuranti formulazioni parutiane, s'è inarcata al massimo dell'antagonismo durante l'Interdetto; è uscita da questo come stremata da un eccesso di tensione, per poi ritrarsi, quasi spaventata dalla sua stessa audacia, in un sempre più grinzoso rattrappimento segnato dall'immiserimento delle idealità motivanti. Un processo che meglio si coglie nelle battute man mano più stanche della trattatistica, via via ipotecata dall'improvvisazione di letterati disponibili, piuttosto che nell'assiduo raccontare, tutto immerso nei fatti, ove, invece, prosegue l'impegno del patriziato. Nobili, infatti, quanti si cimentano, per pubblico incarico, a fornire gli spezzoni con i quali costruire l'edificio rammemorante della continuata versione ufficiosa. La «prudenza», loro precipua qualità, è conoscenza del presente, previsione del futuro; ma, proprio per questo, poggia su «il ricordarsi delle cose passate». «Partecipi del governo», con «auttorità» cioè di «eleggere» e possibilità d'«essere eletti a pubblici magistrati», sentono vivissimo il bisogno di ricostruire le tappe salienti della loro direzione, rievocando i successi, meditando sulle sconfitte. Autorispecchiamento la pubblica storiografia e, perciò, tentativo d'autocomprensione; e, insieme, strumento d'una propaganda che s'indirizza, all'interno, verso le élites dei nobili delle città suddite e della borghesia urbana, e, all'esterno, ai governi e all'opinione pubblica in genere. Autogiustificazione sottilmente gratificante, autoesaltazione accorta e controllata, l'immagine di sé che il patriziato disegna evita le insidie d'una spietata severità autocritica, preferisce, ovviamente, il fluire ammorbidito e smussato della durata agli accidentati percorsi della discontinuità.
V'è il continuum del dominio aristocratico che si esercita, ad esempio, nell'Adriatico «continuamente senza interrutione», che sottopone alla propria giurisdizione il clero per «immemorabile consuetudine». L'ammira anche Sarpi, uomo di per sé restio ai facili entusiasmi: «inestimabile» la perdita del doge Donà, scrive ad Achatius von Dohna il 19 ottobre 1612, ma tuttavia «le cose pubbliche per quella non hanno fatto mutazione benché minima», tanto «è ben ordinata la Repubblica»; infatti «continua il medesimo governo, li istessi fini, li istessi concetti». Una continuata uniforme persistenza, dunque; pur negli sbalzi dovuti ai sussulti del quadro europeo, pur nella realtà delle difficoltà interne, l'aristocrazia veneziana intende offrire di sé una rappresentazione che insista sulla stabilità e l'armonia. Ciò non toglie che dagli interstizi della confezione narrativa non siano stanabili elementi di differenza e contrasto. Il riflesso storiografico non è mai completamente appagante: o la realtà risalta anche nelle sue sgradevoli rughe o un eccesso di cosmesi l'agghinda troppo a scapito della credibilità della versione. Come far combaciare l'esigenza di verità con il bisogno d'autocompiacimento?
Certo è una versione governativa, senza l'altra faccia della storia, senza tentazioni di controstoria. Donde la sua evidente lacunosità. Dei sudditi dice, passim, che sono contenti. Capitoli non scritti quelli della miseria contadina, dell'indigenza urbana. Nessuno squarcio sulla fame. Appena sfiorato il nesso tra carestia ed epidemia. Sorvola la falcidie della peste, si sofferma sul provvido intervento delle autorità, si compiace del recuperato favore divino. Rarissimo l'affiorare del popolo: c'è il suo «furore» che esplode contro la «congiura» di Bedmar, legittima espressione in tal caso di «publico sdegno»; c'è il «moto popolare» del 1676 contro l'elezione a doge di Giovanni Sagredo (che questi bolla in una sua Relatione, reperibile manoscritta nella Biblioteca Correr di Venezia, quale «impeto seditioso di corrotta canaglia» prezzolata da nobili a lui ostili, quale «tumulto in piazza» suscitato ad arte da «barcaruoli di gentiluomini»), uno «strepitoso tumulto» peraltro «indegno di consideratione». Ma sono ignorate le inquiete torme di vagabondi e mendicanti; è taciuta la disperazione delle masse senza cibo. Occorre perciò ricorrere ad un memorialista per sapere che, ad esempio, nel 1569 «si videro cose stravaganti in materia della carestia percioché, oltre il non vi essere ne' fontechi delle farine, le gienti impazzite et arrabiate da fame caminavano per la città cercando le botteghe de' pistori». Né è possibile apprendere alcunché sull'andamento della giustizia. A tal proposito dicono di più i versi di Busenello: «contro el povero [. ..] tutti congiura» e «el tribunal xe fatto mercadante». Una storiografia che riporta quanto la classe dirigente ritiene sia accaduto; e, insieme, visto che non espone tutto ciò che sa, quanto, dell'avvenuto, reputa opportuno si sappia. Non accenna pertanto al diffusissimo malcontento nella terraferma per la sfrenata penetrazione economica veneziana, per una sistematica appropriazione delle terre migliori avvertita come espropriazione. Lo richiama, invece, in un'arringa Angelo Badoer, il quale fa presente come l'eventualità di una guerra con Roma - da evitarsi, perciò, a tutti i costi - possa trasformarsi, per i sudditi, in un'occasione, da non perdere, di ribellione generalizzata. L'ammonimento è del tutto interno al punto di vista governativo, finalizzato alla linea remissiva con la Santa Sede, di cui, all'epoca dell'Interdetto, Badoer è uno dei fautori più esposti. Resta il fatto che la storiografia scivola sull'argomento; suppone un pubblico privo di curiosità in proposito.
Obbediente all'impulso all'autovalorizzazione, la pubblica storiografia mira alla edificazione d'un corpus di vicende comuni nel quale tutti - governanti e governati - si riconoscano, tende alla costituzione d'un retroterra fertilmente omogeneo di memorie ove seminare ulteriori fattori di fusione e d'armonia; eppure è, suo malgrado, un'involontaria attestazione di disarmonia. Quanto meno non è coperchio bastevole a comprimere il ribollire di questa. Non esiste la città felice; per quanto ci si adoperi a scriverne e a riscriverne la vicenda, si tratta, pur sempre, d'una storia di dominio, di controllo, di repressione. Stato e società non si fondono. Il primo sta sopra la seconda. La narrazione s'illude d'investire i fatti di tutta una collettività; di fatto è autobiografia della classe dirigente, storia di comportamenti governativi. E, poiché il patriziato non ha fronteggiato compatto i crescenti compiti dello stato, l'altalenare del potere decisionale tra la «soverchia auttorità» del Consiglio dei Dieci «col tempo abborrita et odiosa» e quella, costituzionalmente più corretta, del senato, gli umori devianti del costume, il serpeggiare di tentazioni eterodosse, le pressioni e i condizionamenti d'una situazione internazionale dominata dalla presenza corpulenta di massicce entità statali, il doloroso contrarsi dei traffici, l'allargamento delle aree coltivabili, le sue oscillazioni e divisioni si riflettono nell'esposizione storica. Vorrebbe essere continua uniforme omogenea; invece è fortemente differenziata.
Sintomatico, ad ogni modo, questo prepotente bisogno della nobiltà veneziana di esprimersi storiograficamente. Non occorre si alzi in piedi un Ugo Foscolo per incitarla, roboante, alle «istorie». In queste ha sempre sguazzato sin da quando la cronachistica da lei ispirata ha ammannita la versione d'una città sorta miracolosamente dalle acque; così la versione ufficiale dell'ondo, per sventare - tale lo scopo della testarda insistenza sull'assoluta originalità dell'esordio lagunare - rivendicazioni e contestazioni, nei confronti dell'affermarsi sempre più deciso della città come ordinamento sovrano, da parte dell'Impero e della Chiesa, i due eredi di Roma. E non a caso l'acre Squitinio della libertà veneta [...] (Mirandola 1612 e, nuovamente, 1619) proclamerà l'originaria soggezione di Venezia a Roma. La città, invece, così Sarpi riassume vigorosamente la tesi ufficiale, è «nata nel tempo dell'imperio di Onorio e Teodosio [. . .] libera, non soggetta ad alcun principe né alle leggi loro». Né, rispetto a Roma, sono reperibili a Venezia complessi d'inferiorità. C'è l'obiezione parutiana che in quella «non fu né ugualità né ordine tale, quale in una republica mista si desidera»; c'è l'orgoglio del «nostro bel reggimento moderno», superiore «d'assai» (l'assicura, senza fatica, Pietro Aretino ai «giustissimi padri» del senato) a quello romano; c'è l'incontrovertibile dato dell'eccezionale durata che diventa presunzione d'eternità. «Niun governo di republica durò mai millecento e più anni come il felice governo di Venezia, il quale è con tali leggi stabilito che si può sperare che duri quanto il mondo» esclama Andrea Marini. Ma viene persino avanzata l'ipotesi, ancora alla fine del secolo XIII, d'una Venezia antecedente a Roma, di lei più antica, oltre che più longeva: l'avrebbero fondata alcuni «liberi» Troiani giunti prima d'Antenore! Sulla memoria storica, incluse le sue leggendarie propaggini, poggia l'indipendenza, si fonda l'autonomia, si legittima l'esercizio del potere; in essa questo ha modo di continuamente rinfrancarsi. L'aristocrazia ne è da tempo consapevole: vanta con Andrea Dandolo un doge archivista e cronista; può esibire con Bernardo Giustinian un autore di robustissima tempra in grado d'integrare, con un'avvertita lettura comparativa, fonti letterarie e documentarie, di sottoporle al vaglio d'un criterio interpretativo attento ai dati archeologici e ambientali. La ricostruzione storica permette la superba asserzione della nativa libertas, la logica deduzione della pienezza del conseguente imperituri, l'individuazione delle virtù costitutive della sua grandezza; autentica l'assetto costituzionale, esalta la saggezza legislativa, rileva la profonda ortodossia della Repubblica di San Marco, inneggia alle sue lotte antiturche. Tutti meriti della nobiltà nel suo assieme: «si legge e si dice» - così Botero, cui pare «opera heroica e sopra humana, anzi celeste e divina, il mantenersi» della città «tanti secoli invariabilmente nel suo stato» - «che i Venetiani hanno fatto questa cosa e quella, non il tale o il tale». Il che non esclude la compiacenza individuale del singolo patrizio ravvisante lo stemma familiare nei blasonari che corredano le cronache (li riprenderanno e li abbelliranno le raccolte di «arme overo insegne», di «scudi et arme», di «gentilizie insegne»), l'orgoglio per le gesta degli antenati, la preoccupazione di arricchire di dettagli il già frondoso albero genealogico.
S'aggiunge, non scalfita da dubbi, la convinzione che la storia costituisca un impareggiabile magistero: «nel governo delle cose di stato niuna cosa apporta maggior benefitio a quelli che, havendo cura della re publica, sogliono con amore diligentia et prudentia governarle, quanto la cognitione delle cose passate et massime la verità delli termini et modi con li quali sieno stati trattati li negotii», osserva, attorno al 1570, Francesco Barbaro, il futuro patriarca d'Aquileia. Dalla storia derivano «gli ammaestramenti per ben reggere noi stessi, la famiglia e la città», proferisce autorevole Paruta. Nella «lodevol opra» della «cura del publico bene», il «buon cittadino di republica» trae da essa un «eccellente servigio», ritiene Francesco Patrizi. E «lux [. . .] ac magistra vitae», ripete l’Oratio de studiis recte instituendis venetorum civium [. . .] (Venetiis 1616) di Giuseppe Bonfadio, «ut ex praeteritarum rerum observatione et aperiantur praesentia et colligantur futura». Persino alla fine del Seicento, quando il genere storia viene aggredito dal dilagare di scettici sarcasmi uscendone malconcio, c'è Nicolò Beregan che non esita a definire «i fogli degli storiografi» sorta di «carte da navigare che, per lo mezzo degli altrui naufragi o delle prospere navigation, scoprono le sirti, segnano gli scogli e mostrano i porti». La storia è una «erudita scuola d'anatomia aperta a' principi»; infatti sui «corpi delle già morte e spolpate repubbliche e su' squarciati cadaveri delle monarchie già spolpate s'impara l'arte di preservar le presenti». Una potenzialità didattica da veicolare verso l'incarico pubblico, da marchiare col sigillo della ufficialità; una forza d'ammaestramento da istituzionalizzare. La storia non ha soltanto una collocazione privilegiata ripetto alle altre artes, non solo sa «philosophos [...] instruere, oratores adornare, poetas illustrare, grammaticos informare», come osserva Antonio Riccoboni. È la madre della «prudenza», senza la quale non sussiste arte di governo; come può esserci valutazione del presente e prefigurazione del futuro senza la nozione sicura dei «tempi andati», la vivida memoria delle «cose passate»?
I fatti, allora, con la coscienza che la Repubblica ne ha; ecco la pubblica storiografia. Non può limitarsi alla celebrazione. L'esposizione sostanzialmente propagandistica dei Rerum venetarum ab urbe condita libri [. . .] (Venetiis 1487) di Marcantonio Sabellico s'era risolta in un semplificante encomio calato dall'esterno, insostenibile dopo il terremoto d'Agnadello, quando la laus deve fronteggiare l'ondata distruttiva della vituperatio, forte della sconfitta veneziana. La magnificazione deve tener conto delle detrazioni malevole. La si affida alle capacità letterarie d'Andrea Navagero; invano, perché di tanto compito non resta, alla morte del poeta, che un banale fragmentum. Né la «riputazione» emerge netta e imperiosa dall'Istoria di Pietro Bembo: i colori stilistici, avvertibili soprattutto nelle orazioni, e una certa libertà di giudizio su singole figure non ravvivano l'opacità della scarsa penetrazione storica; s'avverte la pesantezza d'un'impresa non congeniale. D'altronde il rilancio cinquecentesco di Venezia politicamente ridimensionata rispetto ai suoi precedenti appetiti - «immoderata dominandi cupiditas» era solita definirli la propaganda avversa - impone una concezione più complessa e articolata; non basta l'addobbo letterario a fondare la «reputation», a consolidare l'«extimation». Allo «stil buono et eloquente» debbono accompagnarsi la «sincerità» rispettosa dei fatti, il «giuditio» valutativo d'una storia veneta inquadrata in quella italiana ed europea. Ma la morte precoce impedisce ad Alvise Contarini d'oltrepassare la troppo sbrigativa sintesi della sua Delineatio del periodo 1513-1570. Resta, comunque, la richiesta d'un'esposizione che spieghi, che contribuisca all'intelligenza del presente. È significativo che l'incarico di storico ufficiale, connesso dapprima con quello di bibliotecario della Marciana, sia collegato, a partire dal 17 settembre 1601, con quello, ben diverso, di soprintendente alla Cancelleria secreta. S'è appurata l'insufficienza dello storico genericamente colto ed elegantemente letterato della tradizione umanistica; l'ufficio di soprintendente obbliga allo scrupoloso accertamento archivistico. Ma già prima Paruta poteva vantare, in una lettera a Riccoboni, la «licenza», che nemmeno i «senatori» avevano, a lui concessa di «poter andar sempre nella Cancelleria secreta et vedere tutte le scritture pubbliche». Una svolta di 180 gradi rispetto a Bembo, al quale era stato negato l'accesso ai documenti.
Di fatto la pubblica storiografia consiste in una pluralità di tentativi, in una varietà di esiti difformi nei toni e nei contenuti. Riproduce più le oscillazioni (che investono anche la concezione della storia) della classe dirigente che la sua stabilità e compattezza; è mutevole e cangiante più che persistente. Destabilizzante, la realtà scompiglia la superba pretesa d'una narrazione che la domini, non s'adatta all'ambizioso progetto dell'aristocrazia d'apparire - al di là dei nomi dei singoli da lei incaricati - autore complessivo. I contributi, anziché comporsi ed integrarsi nell'ambito d'una unica imponente versione, tendono a scollarsi in tanti separati pezzi narrativi. Risalta più l'individualità degli autori che la loro riconducibilità alla predisposta continuità espositiva. Non il discorso continuo, allora, ma lo scompenso dell'intermittenza; un andamento sussultorio, non senza colossali slabbrature. L'apporto singolo prescinde dal precedente, più che poggiare su questo. Non v'è nemmeno preoccupazione per la saldatura cronologica. Talvolta l’explicit della storia ultimata non vincola l'incipit della successiva. Uno scrivere che è un riscrivere. Un corpus, questo della pubblica storiografia, costruito e, anche - per quanto edito tutto assieme (ad eccezione di Pietro Garzoni, pubblicato separatamente da altro editore) all'inizio del Settecento nella raccolta, in 10 volumi, «degl'istorici delle cose veneziane che hanno scritto per pubblico decreto», ospitante, nell'ordine, Marcantonio Sabellico, Pietro Bembo, Paolo Paruta, Andrea Morosini, Battista Nani, Michele Foscarini -, scostruito. Non un fluviale racconto che scorre unitario e ordinato, ma un tortuoso andare e riandare.
Le Historiae di Sabellieo s'erano spinte dalle origini al 1487; a queste si riallaccia l'Istoria bembiana, che giunge al 1513. Subentra, a coprire gli anni fino al 1552, la Historia vinetiana di Paolo Paruta, con la sua valutazione politica degli eventi, ritagliati all'interno d'un ben più complicato mondo storico, sì che ne risulti il ponderato agire della Serenissima. Sin qui il Consiglio dei Dieci, l'organo committente, è riuscito ad imporre una sorta di corsa a staffetta: per quanto differenti, per quanto stese a tanta distanza di tempo l'una dall'altra, le tre opere sono, sul piano cronologico, incollabili. Ma questa esile sutura temporale salta con Andrea Morosini, successore di Paruta. Egli non si accontenta di proseguire la narrazione in modo diverso. Mutato, rispetto a Paruta, il punto di vista, vuole risalire all'indietro. Il già scritto va riscritto. La staffetta, se così si può dire, cessa di funzionare. Morosini infatti non inizia là dove - col 1552 - il predecessore ha concluso. Arretra al 1521 per esporre, di nuovo e altrimenti, il trentennio in cui Venezia brucia le ultime scorie di residue aspirazioni espansive e perfeziona le forme e i contenuti della sua neutralità. «Operae pretium me facturum existimavi, si altius scriptorum meorum exordia ducerem [. . .], ut ea, quae dicenda sunt, facilius intelligantur [. . .], paulo altius initio repetito nobis explicandum videtur», si giustifica. Un periodo nel quale Paruta ha rilevato l'avveduto cabotaggio veneto, valorizzandolo quale sapienza politica. Troppo poco per Morosini: occorre, invece, caricarlo di moralità, saturarlo di buone intenzioni. E gli episodi bellici sono enfatizzati, utilizzati a conferma del valore veneziano: se Paruta trascorre rapido, Morosini si sofferma giustificando gli insuccessi, insistendo sui successi anche se modesti. Una lettura dei fatti, la sua, dislocata rispetto a quella parutiana. La svolta intellettuale e morale della Controriforma, se ha appena lambito Paruta storico, investe in pieno con tutta l'onda turbante dei suoi scrupoli e delle sue preoccupazioni Andrea Morosini. Mentre per il primo l'«amicizia» e la «buona intelligenza con la Sede Apostolica» sono politicamente opportune, utili all'equilibrio italiano ed europeo, mezzo precipuo per Venezia di «conservarsi in quiete e con maggior dignità», per il secondo i buoni rapporti con Roma assurgono a valore eticamente fondante.
È il favore divino che stende la sua ala protettrice su Venezia; esso conta ancor più delle sue pur ottime istituzioni. Già Agostino Valier, il vescovo di Verona e cardinale ascoltato da tempo quale mentore spirituale dai giovani patrizi più desiderosi d'un criterio morale cui ricondurre vita e studi, aveva espressa la convinzione che fosse possibile addentrarsi nella franosa stratificazione dei ricordi traendone un insegnamento travalicante i termini, per lui angusti, d'una accresciuta esperienza politica. L'«utilitas» desumibile «ex rebus a Venetis gestis» va ben oltre: «ex Venetorum potissimum historiis» balza quanto mai eloquente il monito all'impegno che la «politica prudentia» si coniughi sempre «cum Christiana pietate». In concreto la storia della Serenissima si risolve nella fedeltà a Roma, ruota attorno all'accordo con questa. Ad esso deve i successi. È, comunque, moralmente necessario prima ancora che politicamente opportuno. Uniti, i destini di Venezia e Roma. Formulazioni tradizionali diffuse e sbandierate per cui Venezia è la città dell'eccezionale «frequentation del culto divino», e perciò «città di Christo» e quindi «eterna» come la sua «fede», sono riprese con slancio e rivisitate con entusiasmo. Morosini inzuppa di religiosità la millenaria storia della Repubblica: Venezia è baluardo della fede; è protagonista delle Crociate e irremovibile bastione antiturco; è città benedetta, città dell'evangelista Marco. È persuaso essa debba sintonizzarsi colla Roma della Controriforma, debba concorrere, con tutta la ricchezza della sua tradizionale religiosità, allo slancio di rinnovata ortodossia da quella promossa. Una persuasione da molti non condivisa, da taluni irrisa.
Morosini assiste sgomento alla penetrazione e alla diffusione tra le file patrizie d'un'aggressività antiromana e antispagnola che mira a fare di Venezia un elemento dinamico del contesto europeo, che non esita a prospettare spregiudicate alleanze con la ribelle Olanda, con la scismatica Inghilterra. «Entrerà in Collegio», paventa Fulgenzio Micanzio, in una lettera dell'inizio del 1613 all'ambasciatore inglese Dudley Carleton, «et, che è peggio, lo governerà il Moresini, che predica l'assioma voler più tosto che si ruini Venetia che mai si facia lega con protestanti». Né si stanca di proclamarlo con ossessione maniacale: «Oda» - così, ancora, Micanzio a Carleton il 20 agosto 1615 - «questa: venerdì in pregadi, trattandosi di certo punto, Andrea Moresin disse voler più tosto che la Republica vada in ruina che faccia mai trattato né lega con eretici». V'è, in questo esasperato diniego d'una linea politica comportante irricucibili rotture, una non casuale consonanza con i moniti intransigenti di Roma. «Io voglio più tosto vedere la Italia serva et cattolica che libera et heretica», aveva esclamato, ancora nel 1604, Clemente VIII. Che Venezia perisca piuttosto che l'inquini l'eresia! Un catastrofismo assimilabilissimo al punto di vista della Controriforma: la «libertà» va, se occorre, sacrificata all'ortodossia che emana da Roma e a Roma si rapporta. «Buon gentilhuomo», «senatore di gran pietà et bontà», a detta del nunzio Gessi, Morosini. Si capisce come per lui l'Interdetto sia stato una bruciante sofferenza. Deve averlo vissuto come un incubo. Aveva assistito al manifestarsi dell'irriverenza più sconsiderata persino durante le sedute del pregadi, allo scatenarsi dai pulpiti della foga ciarliera di frati avventati; e deve aver percepito con angoscia quanto di corrosivo e di sarcastico sottintendeva il pur controllato magistero sarpiano. Stavano saltando, in quell'arroventata atmosfera, persino gli argini del rispetto formale per il papa. Profondamente accorato, Morosini aveva avvertito il prosciugarsi di quella linfa devota che doveva, a suo avviso, alimentare la vita della città. La stessa che, poco prima della rottura con Roma, in uno scritto dedicato al doge Marino Grimani, Giovanni Botero aveva fissata tutta umidiccia di morbidezza religiosa, tutta rorida di pietà, tutta vibrante di preghiere e opere di bene, con innumerevoli chiese, con tanti conventi, pullulante di preti frati monache: un assiduo rivolgersi a Dio e ai santi mischiato al costante circolare d'una prodiga carità dei ricchi contraccambiata dalla remissiva gratitudine dei poveri. Una Venezia che rischiava d'essere snaturata e travolta irreparabilmente dall'esplosione delle tendenze anticuriali. Perciò Morosini s'era adoperato con tutte le forze per il superamento della vertenza dilaniante con la Santa Sede, propugnando una soluzione non umiliante per il pontefice, opponendo all'intransigenza di principio della «cabala» sarpiana la moderazione conciliante suggerita dalla prudenza e dalla «Christiana pietas».
Un dramma corrusco, l'Interdetto, che impallidisce nelle pagine pur circostanziate dedicategli da Morosini nelle Historiae venetae (Venetiis 1623). Egli sorvola sulla violenza della contrapposizione, tralascia la spaccatura tra moderati e intransigenti da quello accentuata. Diventa un infelice malinteso - nessuna intenzione, da parte di Venezia, di menomare la dignità della Sede Apostolica -, da dimenticare e seppellire al più presto. Un episodio chiuso, per fortuna risolto. Si riaprono gli ostruiti canali diplomatici: il «legatus» veneziano, partito per Roma, «in itinere», per disposizione dello stesso Paolo V, «singulis in civitatibus perhonorifìce est exceptus»; e, una volta giunto a destinazione, non solo è accolto «eximio populi concursu atque acclamationibus», ma, nell'udienza, «nullam [. . .] signifìcationem amoris ac benevolentiae [. . .] non obtinuit» da un pontefice tutto grondante amore «in Rempublicam». La sua affabilità rende benigno il volto un anno prima avvampante di furore; finalmente il papa non è più «irarum fluctu exaestuans ». E «Venetias [. . .] internuncius missus est» il vescovo di Rimini Berlinghiero Gessi. La storia della Serenissima può riprendere - ora che si è placata la passeggera bufera - di nuovo inalveata nel congeniale solco dello «zelo di religione» già «dimostrato negli avi», richiamato da Morosini ne L'imprese et espeditioni di Terra Santa et l'acquisto di Costantinopoli fatto dalla Republica [. . .] (Venetia 1627); si ricolloca tra le rassicuranti coordinate del patriottismo e della devozione. Nuovamente risplende «senatus [. . .] in catholicam religionem studium»; Morosini può, senza tema di smentita, rilevare come «patres [. . .] summo semper studio in catholicam religionem incubuerant». Ed ecco che Paolo V, «suopte ingenio et senatus consiliis», si volge alla conciliazione dei «reges». La pace europea ha bisogno del congiunto intervento del monito romano e della saggezza veneta. Religio in Deum ac pietas in patriam sono i due cardini ideali e convenzionali del patriziato che governa la Repubblica devota. Non a caso tra le sue benemerenze brilla - così pare a Morosini - anche la pressione esercitata per il successo del concilio tridentino, i cui decreti vengono prontamente accolti. «Senatus ad provinciarum urbiumque magistratus literas dedit quibus in iis exequendis [. . .] operam praestare iubebantur; ac mox in [. . .] basilica, dum [. . .] divina celebrarentur, [. . .] decretum senatus de promulganda ac recipienda synodo recitatum est». È su questo versante che Morosini si ritrova: quello dell'accordo veneto-pontificio.
Pietosa la sorte lo fa morire nel 1619, prima della pubblicazione delle sue Historiae. Certo l'avrebbe sconvolto sapere del negato imprimatur da parte del Sant'Uffizio e dell'intervento determinante d'un uomo da lui tanto distante come Micanzio per indurre il senato a stamparle; sicuramente avrebbe sofferto nel vedere l'accanita opposizione alla sua opera dei nunzi Zacchia e Agucchi.
La secca inappellabile sconfessione dell'Indice è una brutale irrisione dei suoi intenti. Le Historiae - tutte pervase di sensibilità per i valori religiosi, tutte improntate dalla sottolineatura dell'importanza politica e della necessità morale dell'armonia, la più concorde, tra Venezia e la Santa Sede - diventano, di fatto, un ulteriore elemento d'attrito col pontefice. Il destino sembra divertirsi beffardo: accesi fautori dell'opera sono proprio quelli alla cui politica Morosini s'è sempre opposto. Sono i «cattivi di cotesta repubblica» - scrive il nunzio Giovan Battista Agucchi il 1° febbraio 1625 - a volere, con «farisaica ostination», che «i librari tenghino e vendino l’Historia del Moresini». Circola, in più, una fosca diceria sulla fine dell'inquisitore, Paolo Canevari da Gabbiano: avrebbe tracannato con troppo entusiasmo un vino dolce donatogli da un nobile veneziano, il quale, per punirlo del rifiuto d'approvare la storia morosiniana, vi avrebbe versato del veleno. Uomo intimamente devoto Morosini - lo dimostrano vari suoi scrittarelli: meditazioni sul Cristo che lava i piedi ai discepoli, che viene crocefisso, che risorge; una vita di san Tommaso d'Aquino, un trattatello su delle reliquie ritrovate nella basilica di San Marco, un encomio della Vergine -, ha composto una storia preoccupata di contemperare e fondere patriottismo e fede. Ma nei confronti dell'opera Roma si rivela molto più esigente ed esclusiva di quanto egli abbia saputo supporre: ha il monopolio della religio; vorrebbe stritolare lo stesso amor patrio. Non aveva, allora, tutti i torti Sarpi con i suoi ormai negletti appelli contro il totatus papale: senza limiti la sua intolleranza se non sa nemmeno sopportare la pur discretissima quasi timida formulazione delle ragioni venete contenuta nelle Historiae morosiniane. Una fortuna, per l'autore, che l'opera esca postuma: avrebbe dovuto altrimenti assistere al vilipendio irreparabile delle sue buone intenzioni. È un soprassalto di sapore sarpiano - tant'è vero che l'ispira il consiglio di Micanzio - a farla pubblicare; il senato ritiene, infatti, convenga alla «dignità et autorità della Republica di ordinare quello li piace si stampi nel stato di lei». E il povero Morosini, avversario esplicito della linea politica che Sarpi aveva propugnata, è addirittura accostato al servita nelle istruzioni al nunzio Agucchi: deve impedire - gli si ordina in queste - l'erezione del monumento a Sarpi, deve, con altrettanta energia, opporsi alla diffusione della storia di Morosini.
Succede a Morosini, nella carica di pubblico storiografo, Nicolò Contarmi, il futuro doge. Anch'egli spirito fortemente religioso, ma senza preoccupazioni d'avalli romani, senza benemerenze d'opuscoletti umidi d'unzione devota. Un singolare cattolicesimo il suo, atridentino, se così si può dire. Come storico non mira a correlare la Repubblica e la Sede Apostolica; si tratta, per lui, di due poli contrapposti, non suscettibili di coniugazione. La sua scelta morale e politica cade su Venezia, alla quale dedica, di fatto, la milizia di tutta la sua esistenza. Una militanza nella quale rientra l'impegno storiografico; anche questo ha un chiaro segno antiromano e antiasburgico. Come già Morosini rispetto a Paruta, nemmeno Contarini ha preoccupazioni d'incastro; non fornisce un'opera da depositare sulla precedente. Così, ancora una volta, la pubblica storiografia ondeggia fallosa; non riesce a proporsi come monumento unico capace d'imporre agli artefici una disciplina costruttiva. Anche Contarini rivanga all'indietro, tratta ciò che ha già esposto Morosini. Coerente la data d'avvio, il 1597, con l'ottica dell'autore, che pare consapevole dell'inesistenza di un punto di vista rappresentativo di tutta la classe dirigente; la pubblica storiografia s'è illusa d'attestarlo e di rafforzarlo; ma, dai suoi svolgimenti concreti, emerge proprio la scarsa tenuta d'un punto di vista generale, il suo liquefarsi volta per volta. Nessuna pretesa, in Contarini, di parlare in nome della patria (vale a dire di tutto il patriziato). Semmai un austero patriottismo, spigoloso, senza indulgenze. Un'asperità che si presenta per quello che è, che non ignora la spaccatura creatasi nelle file patrizie. Meglio, per Contarini, esplicitare le divergenze interne ed evidenziare, senza diplomatici occultamenti, la propria posizione, chiarirla sino in fondo, anche se può apparire di parte, tendenziosa. Una tendenziosità capace d'autovalorizzazione; il che significa, in sede storiografica, possibilità d'autodeterminazione. Non il punto di vista superiore della Repubblica, presente solo nella banalità scipita delle prose apologetiche, ma quello del settore più combattivo della nobiltà che s'è agitato per ridare a Venezia slancio e creatività, che s'è arrovellato per sottrarla alle spire d'un accantonamento imbalsamante, per scuoterla da un isolamento letargico, splendido solo nelle menzogne panegiristiche. Incolmabile perciò il divario tra Contarini e Morosini. «L'anima dell'istoria è la verità», asserisce il primo; un'espressione logorata dall'uso, svuotata dall'abuso, ma che in lui rinasce con rinnovata carica polemica. La verità «sarà portata», promette, «senza riguardo di chi si voglia»; verrà esposta com'è, burbera, disadorna. Già gli accesi dibattiti del ridotto Morosini s'erano rivolti - è da supporre con qualche preoccupazione del padrone di casa - alla «cognitione della verità». Libere franche « disputationi » nelle quali Contarmi s'era irrobustito. Da Sarpi aveva altresì imparato che la verità va guardata in faccia; per quanto amara, è dovere dell'intelletto conquistarla.
Non s'ispessisce Istorie di Contarini l'impiastro del mito: è maschera falsante da strappare. Può essere salutare rinunciare alla squillante cromia dell'involucro, lacerare i luccicanti paludamenti stesi a coprire l'asfissia d'una iniziativa politica subalterna, denunciare la fittizia aulicità d'una «libertà» pesantemente condizionata, non «dissimile» - così un nobile anonimo, ma certo schierato come Contarini - «da quella de' Greci a tempo di Filippo re di Macedonia, che, sotto spetie di essa, erano comandati in tutte le cose, poiché questi Spagnuoli ci fanno girare a' cenni loro». Perciò le Istorie contariniane diventano, talvolta, una dura impietosa requisitoria. Sono troppo ruvide, dallo «stile» troppo «libero» per essere fatte proprie da un ceto di governo che non sa rinunciare a proporsi come esemplare, che alla storiografia chiede motivi di soddisfazione più che di dubbio. Una propensione che Contarini non asseconda. La stessa Venezia si rimpicciolisce nelle sue pagine. Anche se nell'itinerario che da Sabellico porta a Morosini Venezia monumento aveva ridotte le proprie proporzioni non dominando più isolata, essa vi era rimasta, tuttavia, il perno attorno al quale ruotano e si raggruppano i fatti. Non più in Contarini: l'ansia di contestualizzare lo spinge alla comprensione di realtà diverse - l'Inghilterra d'Elisabetta, l'Olanda ribelle alla Spagna, il mastodontico Impero Ottomano - più importanti e, anche, più interessanti della Serenissima. La centralità, perché sia credibile, occorre sia pure potere temibile. Anziché coagularsi attorno a Venezia, la storia sembra, invece, evitarla; né la Repubblica, nella sua sclerosi operativa, pare in grado di raggiungerla, d'agguantarla. Proprio nello sforzo di Contarini d'immergerla in un contesto più vasto s'appalesa la sua marginalità. Si hanno quasi due racconti che non si fondono: la grande storia che calamita l'autore e, ai bordi, una storia più modesta, meno incisiva meno dinamica, quella di Venezia, cui ritorna, di volta in volta, non senza fastidio. La «verità» è una tortura per il suo patriottismo. Purtroppo Contarini non giunge all'Interdetto: forse, allora, questa seconda storia, fattasi da rigagnolo sonnolento torrente impetuoso, avrebbe avuta la forza d'irrompere nel fiume della grande storia. In quell'occasione la Repubblica si misura col massimo sistema normativo e concettuale dell'epoca; il confronto sembra voler riassumere l'impatto perenne tra la forma-stato e la chiesa-istituzione. Finalmente Venezia è la grande protagonista d'una vicenda dalla portata internazionale: la «più importante discordia che sia nata da lungo tempo in qua», come ebbe a dire il cardinale du Perron; il «dissidium» che turbò tutta l'Europa, come confermerà de Thou. Poteva essere l'avvio all'aggancio della Repubblica all'asse centrale della storia europea, la ripresa d'una vita all'unisono col ritmo più intenso di quella, la fuoruscita dall'alveo sonnolento della neutralità, l'inserimento in un vivace fronte antiasburgico. In fin dei conti è il fantasma di questa possibilità - definitivamente perduta quando Contarini scrive - che ancora aleggia nelle Istorie. Una svolta di 180 gradi che il patriziato non seppe e non volle compiere. Certo avrebbe imposto modificazioni strutturali alla Repubblica ben più sommoventi di quanto lo stesso Contarini sarebbe stato disposto ad ammettere. Rimprovera alla sua classe di non essere moralmente ineccepibile, intellettualmente desta, politicamente coraggiosa ed inventiva; ma ne è pur sempre membro e tale si sente. Si può rimproverargli di non averne ipotizzata la destituzione? È una congettura che non sfiora nemmeno Sarpi. Resta, comunque, di Contarini, la «verità» inquietante della sua opera. È talmente anomala e sconcertante che la stampa venne ritenuta inopportuna: «può», altrimenti, «parere che sia voce e sentimento della stessa Repubblica», osservano i due consultori in iure interpellati in proposito. Una rimozione così decisa che, all'inizio del Settecento, Pietro Garzoni, anch'egli storico ufficiale, tracciando un veloce schizzo della pubblica storiografia, afferma che «al Morosini non si die il sostituto [. . .] se non nel 1652 [. . .] e fu il Cavalier Nani». Di Contarini non sa nulla - ma è improbabile, vista la massiccia circolazione manoscritta dell’Istorie - o, peggio, finge di non sapere nulla.
Inconcludenti i due pubblici storiografi successivi a Contarini: il primo, Paolo Morosini, fratello di Andrea, eletto l’8 maggio 1631, anziché proseguire l'opera del fratello, preferisce rifare il verso, in italiano, a Sabellico, stampando, per suo conto, una Historia [. . .] di Venetia (Venezia 1637) dalle origini al 1487; il secondo, Giacomo Marcello, nominato il 29 dicembre 1637, pare abbia preferito, prossimo alla morte, far «abbruciare i suoi scritti». Occorre attendere il 1652 perché, con la scelta di Battista Nani, la macchina ansimante della pubblica storiografia riprenda il suo cammino. Scomparsa la generazione dell'Interdetto, sepolte, con lei, le ambizioni di più vasti orizzonti, l'esigenza d'una versione riaffermante la presenza di Venezia si rifà, sgombra di autocritici ripensamenti, all'immagine consegnata dalla tradizione, ingegnandosi di riproporla con qualche ritocco d'aggiornamento. L'Istoria della Republica Veneta (Venetia 1662, per la prima parte; del 1676-1679 l'edizione completa), relativa agli anni 1613-1671, di Nani, s'apre, infatti, ribadendo la connotazione usuale di Venezia «consecrata sino» dall'«origine alla religione et alla libertà», ben presto necessitata a volgere contro i turbatori della sua « quiete » ed insidiatori della sua «libertà» le sue «prime armi», già allora, come sempre, ispirate dalla «pietà» e dalla «giustitia». Con ritmo ascensionale la narrazione perviene ad attestarsi sulla strenua difesa di Candia: sola, prima, e poi malamente aiutata, la Repubblica di San Marco è, ancora una volta, avamposto cristiano, bastione antiottomano. C'è la sconfitta finale. Ma è alleggerita da un'esposizione magniloquente la quale rileva più il valore della resistenza che l'amarezza della perdita; e questa è indorata dal sapiente indugio sulle modalità - del tutto rispettose della dignità della Repubblica - con cui si svolge la cessione dell'isola. Ed è, poi, come diluita in un racconto attento alle vicende coeve d'Europa, nelle quali Nani, l'osserverà Marco Foscarini, «largheggia un po' troppo», non già perché si dilunga in «materia straniera, ma perché ella è tale che manca di ragionevole attaccamento onde associarsi alla nostra, e formarne un corpo solo». Ma è proprio questo il dato che ci si ostina a non vedere: che Venezia conta poco; che la storia parte e si muove altrove; che non esiste «ragionevole attaccamento» il quale incolli la vicenda veneta al procedere di quella.
Scomparso, il 6 novembre 1678, Nani, il 19 dicembre viene nominato a sostituirlo Michele Foscarini. Una figura modesta se raffrontata col predecessore. Persino ingombrante, infatti, il prestigio personale di Nani; un'autorevolezza che l'aveva consacrato «il Giove» del senato. Foscarini s'era, comunque, fatto apprezzare come oratore persuasivo; aveva, in particolare, suscitato consensi la sua calibrata difesa di Francesco Morosini, furentemente attaccato da Antonio Correr. E passava per uomo colto, svezzato all'eloquenza da una non distratta frequentazione delle Accademie. Giovanissimo già bazzicava con gli Incogniti. Appena diciottenne aveva saputo «subtexere» delle «adnotationes» biografiche e bibliografiche per il Museum illustriorum poetarum qui ad haec usque tempora latino Carmine scripserunt (Venetiis 1651) del palermitano Onorio Domenico Caramella, membro della stessa Accademia degli Incogniti. E una sua plumbea novella, ulteriormente appesantita da una chiusa di moralistica condanna degli «amori dishonesti», figura nell'antologia, curata da Maiolino Bisaccioni, che raccoglie le prove narrative del sodalizio. Dignitosa, nel suo stile che mira alla gravità, ma senza eccessi d'affettazione - la si giudicherà, semmai, troppo stringata e disadorna -, l’Historia della Repubblica Veneta (Venetia 1696) di Michele Foscarini s'estende dal 1669 al 1690. «Filo principale» dell'esposizione - le cui pagine più interessanti sono, forse, quelle dedicate alla correzione del Consiglio dei Dieci del 1677 - l'irrigidimento antiturco di Venezia, mentre ad occidente imperversa prevaricante l'espansionismo di Luigi XIV.
Morto, il 31 maggio 1692, Foscarini, gli succede, il 10 giugno, Pietro Garzoni. Con una spruzzatura di studi filosofici e una laurea giovanile alle spalle, esperto in fatto di leggi, buon parlatore, è politico influente in fama di severità (sarà lui ad esigere la punizione d'Antonio Zeno per aver abbandonata Scio al Turco; e questi, processato e condannato, morrà in carcere nel 1697), oltre che di dottrina. Ponderosa, la sua Istoria della Repubblica di Venezia (Venezia 1705-1716), dopo un rapido excursus per gli anni 1664-1682, abbraccia il periodo 1683-1714, suddividendosi in due parti: la prima incentrata sul «tempo della Sacra Lega contra Maometto IV e tre suoi successori», la seconda soprattutto volta alla «guerra per la successione della Spagna al re Carlo II». Orgogliosamente esibiti nella prefazione a quest'ultima i criteri cui s'è attenuto: Inesatta investigazione de' fatti», perseguita collo scavo nell'«erario de' segreti archivi»; la «gravità di stile», come s'addice alla storia, la quale, «giudice del tempo andato e maestra dell'avvenire», non può che «procedere [. . .] con pesantezza e decoro»; «purità di lingua», nel rispetto delle «regole» e nel ricorso al lessico trasmesso da «autori venerabili». E, in effetti, quello dell'«idioma» costituì un problema per Garzoni, deciso - è egli stesso a dirlo in sue annotazioni manoscritte - a «valersi della favella migliore»: approdo per lui appagante la soluzione di «non spendere parole se non della Crusca o d'autore ricevuto in quella Accademia» e di scartare, nel contempo, i termini troppo arcaici. Non gli sfugge il divario tra le due parti: quasi baldanzosa la prima, coi «prosperi avvenimenti» della Repubblica che, aggressiva, adopera le «armi contra il nemico del nome cristiano»; molto meno esaltante la seconda, tutta risolta nell'arduo «maneggio» diplomatico della Serenissima, la quale, nel bellicoso accanimento dei contendenti, rappresenta l'autorevole richiamo alla pace. Tèsi di questa parte, dunque, quella che - così viene riassunta nel tomo 29 (1718) del «Giornale de' letterati d'Italia» - per «tutto il corso» della prima guerra di successione Venezia mantenne «una costante neutralità, per cui, avendo più eserciti ne' suoi stati, fece godere un fermo riposo a' suoi popoli». La bellicosità antiturca e l'estraneità ai conflitti successivi sono, per Garzoni, due fasi diverse d'un'unica coerente politica che saprebbe, a suo avviso, «prevenire gli attentati ostili» e «conservare» l'integrità del territorio. Di fatto non può tacere che l'invadono, all'inizio del Settecento, le truppe d'ambo le parti. «Tutta l'offesa cadeva a danno della Repubblica neutrale», commenta, suo malgrado. La neutralità è scavalcata, irrisa, calpestata. Il provveditore generale in terraferma Alessandro Molin, di fronte allo scempio dell'irruzione di soldatesche saccheggianti, invoca, disperato, nel 1704, istruzioni dal senato. Ci sono i «tedeschi», ci sono i «francesi», entrambi «insofferibili». Nella «ragunanza de' Savi» subito convocata per dibattere «del che risolvere», taluni, narra Garzoni, vorrebbero rinunciare alla «massima violata della neutralità», schierarsi a fianco d'una - non si precisa quale - delle forze in conflitto, «farsi», così, «parteggianti»; altri propendono per una reazione energica che cacci ambo gli invasori. Prevale, tuttavia, la cautela: «i più», infatti, sostengono che la calma va mantenuta, che non è il caso d'indulgere a gesti sconsiderati. Occorre «combinare la pazienza con la prudenza». All'uopo un senatore cita «l'elogio dato nel libro primo de' Maccabei a i Romani», che «possederunt omnem locum Consilio suo et patientia». Badasse, perciò, Molin a «tener unite le forze», a «custodire le terre difensibili»; «donasse la possibile tutela a' sudditi, e non cessasse d'insistere co' generali forestieri che ripigliassero la marcia». In parole povere il provveditore deve ritirare le sue truppe (non si sa mai: nel vederle i Francesi e gli Imperiali potrebbero sentirsi provocati!) e attendere, sperando le operazioni si svolgano sollecite, che gli occupanti se ne vadano. Il «parlar senatorio» e la storiografia pubblica che lo registra sono ormai strumento d'autoinganno, eludono la presa di coscienza d'una, pur evidente, debolezza: l'impotenza si maschera da prudenza romana; l'acquiescenza veste pomposi panni curiali. Tremebonda, succube, la neutralità; ma la storiografia s'ingegna di mascherarla quale dignitosa saggezza, fermezza avveduta.
S'accentua, nei fatti, la fragilità veneziana; è uno scacco il trattato di Passarowitz del 21 luglio 1718, che sanziona la perdita della Morea, la cui conquista aveva scatenato illusioni di rimonta. Sempre più difficile il sussistere d'una storiografia magniloquente. Eppure la classe dirigente non desiste: muore nonagenario, il 24 febbraio 1735, Pietro Garzoni, e senza indugio, il 5 marzo, Marco Foscarini viene collocato al suo posto. Ma il prodotto che egli fornisce - la Storia della letteratura veneziana (Padova 1752), accolta, peraltro, di buon grado dal Consiglio dei Dieci, «come se fosse stata composta d'ordine pubblico» - è ben difforme da quello richiesto: qualcosa di totalmente diverso. Indicativo il gradimento dei Dieci, forse sfiorati dalla consapevolezza che è meglio una robusta compatta aderente trattazione di ciò che esiste - un'imponente stratificata tradizione culturale, un fertile humus di «studi» e d'«antica erudizione» -, che è afferrabile, ripercorribile, piuttosto che rabberciare l'edificio d'una identità smarrita, che mettere insieme i cocci d'una grandezza infranta. Se la neutralità cinquecentesca è stata un prestigioso modo d'essere, una particolare forma di presenza e come tale Paruta l'ha teorizzata e narrata, una siffatta possibilità frana nel Settecento. La presenza è divenuta assenza. Che storia si può farne? Ancora il 12 gennaio 1764 verrà eletto storico ufficiale Nicolò Donà; gli succederà - poiché Girolamo Grimani e Girolamo Ascanio Giustinian, eletti rispettivamente il 24 settembre 1765 e il 24 gennaio 1766, vengono subito dispensati -, il 27 gennaio 1775, il figlio Francesco. Proseguono dunque le nomine, ma sterili di risultati: i due Donà si limitano ad un tentativo di sintesi generale, dalle origini al 1713 il padre, di nuovo dalle origini al 1716 il figlio. Uno sforzo superfluo, ché già erano usciti, nel 1751, i quattro tomi della pregevole Storia [. . .] di Venezia dalla [.. .] fondazione sino Vanno 1747 di Giacomo Diedo. D'altronde c'è una diffusa stanchezza per la storia politica, l'interesse nei suoi confronti scema vistosamente. La storia della cultura, che Marco Foscarini ha affrontato di petto, attira di più; in fin dei conti «svela il genio, i pensieri e la varia attività della nazione». S'impongono, nel pieno Settecento, con forza altre sollecitazioni, altre esigenze. È il momento dell'«istoria civile», quella «parte» cioè «d'istoria che», giusta la definizione di Marco Foscarini, «s'aggira intorno alle leggi e spiega l'interna costituzione dei principati». Preceduti dagli inediti lavori di Muazzo, che già ha tentato di tracciare l'evoluzione del diritto pubblico veneziano, escono, a Venezia tra il 1755 e il 1772, i 9 volumi dei Principii di storia civile della Repubblica di Venezia dall'inizio al 1767 di Vettore Sandi. L'attenzione vi si sposta alle leggi, alle istituzioni, alle magistrature, alla «polizia civile», all'«ecclesiastica disciplina»; le «parole» si sottomettono alle «cose». Non c'è solo Venezia; c'è anche il territorio, ci sono le città suddite. Ne parla l'abate spagnolo Cristoforo Tentori nei 12 volumetti del suo Saggio sulla storia civile, politica, ecclesiastica e sulla corografia e topografia della Repubblica di Venezia [. . .] (Venezia 1785-1790). Attivissimi inoltre i fervori eruditi: lo attestano i 18 tomi delle Ecclesiae venetae e torcellanae (Venetiis 1749) di Flaminio Corner, gli 8 volumi Delle memorie venete [....] (Venezia 1795) di Giambattista Gallicciolli. Decisamente spiazzata la pubblica storiografia. Il «lodevole istituto» - così Garzoni - «della Repubblica [. . .] che scrivasi la sua istoria e con filo non interrotto compaia al mondo il registro delle azioni e la regola del suo governo», ha nello stesso Garzoni il suo ultimo epigonico esponente. Dopo di lui è come una tromba sfiatata: inattivabile, non suona più.
Valutata nell'insieme, come risultato complessivo, la pubblica storiografia appare un'eterogenea sommatoria d'apporti disparati, tra i quali proprio il più ribelle ad essere ricondotto sotto la sua egida, quello di Contarini, è anche il più penetrante. Opportuno cercare altrove il corpus in cui la classe di governo sia riuscita con più agio nel suo tentativo d'esprimersi come soggetto collettivo, ad attestare i comuni livelli di crescita e consapevolezza. Esso non manca. Lo offre, nella sua compatta omogeneità, la serie sistematica delle relazioni degli ambasciatori veneziani (è noto come questi siano stati ritenuti i migliori del mondo: anche nel Settecento già avviato passavano, a detta di Jacopo Martello, per così «magniloquenti e facondi», da far apparire gli inviati «delle potenze più rinomate» quali un qualsiasi tartagliante «Tuberone» di fronte a «Cicerone»), «solite a formarsi» al loro rientro, a missione ultimata: in queste, riconosce Scipione Ammirato, «le cose» dello stato ospite paiono «più a loro manifeste» che ai suoi stessi governanti ed abitanti. Illustrano il «sito» e rilevano le «qualità» del territorio; si soffermano sull'indole sugli usi sulle attività degli «abitatori»; esaminano la forma e il funzionamento del governo; valutano la potenzialità bellica; specificando entrate ed uscite e abbozzando accorte quantificazioni calcolano lo stato della finanza pubblica; accennano all'amministrazione della giustizia; tracciano accurati profili di sovrani e ministri, addentrandosi nelle rivalità e nei contrasti che torturano gli ambienti di corte. Evidenziano, perciò, se è il caso, il coagularsi di contrapposti gruppi di pressione; esemplari a tal proposito le istantanee sul collegio cardinalizio per il lucido panorama degli interessi e calcoli, per il frugare radente dello sguardo nell'animo dei suoi membri più ambiziosi. Sbrigativo, nelle relazioni, il colpo d'occhio sul sentimento religioso, sorvolato il tema della pietà a meno che non si traduca in vistosa devozione; soppesati, invece, i riflessi politici e approfondito - specie se il paese è cattolico - l'aspetto giurisdizionale, il terreno cioè dove lo Stato e la Chiesa s'incontrano e si scontrano. Largo lo spazio dedicato alla politica interna ed estera. Circostanziate, dettagliate, stilisticamente accurate - gli autori tendono a sfoggiare bravura letteraria, talvolta ricorrono all'ausilio di uomini di penna -, le relazioni, nel loro puntuale sedimentarsi, costituiscono una fitta continuata sequenza d'immagini sulla vita dei singoli stati - dalla Spagna alla Porta, dalla Francia a quelli italiani, dall'Inghilterra all'Olanda e all'Impero - con i quali la Serenissima ha intrattenuto stabili rapporti diplomatici. Tutte insieme formano - travalicando l'immediata intenzionalità dei pezzi individuali, oltrapassando gli stessi scarti tra gli autori (alcuni brillano di luce propria, altri, più modesti, s'accontentano della luce riflessa che deriva dal prestigio ormai collaudato di questi rapporti impostisi come vero e proprio genere) - una storia europea e mediterranea (a questa concorrono le relazioni dei consoli in Levante) di potente respiro: informazione e comprensione vi si fondono. Finalmente un amplissimo maestoso racconto non sbriciolato nell'événementiel: si intravvedono i rocciosi fondali delle permanenze al di là delle increspature mutevoli delle superfici; si coglie, oltre i vivaci guizzi del pittoresco, quanto persiste nel vissuto quotidiano. S'intuiscono strutture, s'avvertono congiunture in questa narrazione a più voci geograficamente dilatata, dai tempi lunghi, dai movimenti rallentati, non distratti dalle più veloci contingenze politiche. Ne affiorano intuizioni antropologiche che muovono qualche passo nella direzione della psicologia collettiva, anche se prevale l'avvincente avventura della rapinosa incursione nella mente di chi comanda o di chi serve sperando di comandare. Un'unica mastodontica scrittura a più mani, con illuminanti accensioni e ripetitive opacità, che tale si presenta perché s'attiene ad un prefissato criterio distributivo, ad un'affinata e sapiente scaletta degli argomenti: prima le coordinate ambientali, e in queste, poi, l'umana operosità che vi si insedia usandole e trasformandole e, infine, a coronamento, la sede del dominio e gli uomini del comando, talvolta con appendici di sapidi pettegolezzi. Fattore altresì unificante, che impronta e salda le varie relazioni, una prospettiva la quale ha in Venezia il suo centro. Efficace la sua forza genetica. Ogni diplomatico ha scolpita nella mente la città da cui è partito e alla quale ritorna; ai suoi governanti si rivolge il suo racconto. Apertura verso l'esterno la relazione è, anche, un confronto, più o meno esplicitato, col diverso, visto, comunque, da Venezia. Da questo punto d'osservazione si muove lo sguardo. Senza alcun mandato in tal senso, gli ambasciatori hanno finito non solo col fornire alla storiografia futura una fonte canonica e per taluno - è il caso di Ranke - entusiasmante, ma collo scriver essi stessi un'unitaria storia europea scrutata dalla specola lagunare. Un unico osservatorio che ha amalgamato in visione generale le occhiate parziali d'innumeri diplomatici. Ogni relazione diventa un tassello congegnato e rifinito per essere collocato in un grandioso mosaico in progress. Proprio quello che, senza riuscirvi, voleva essere la pubblica storiografia.
«Storici componimenti» - così l'azzeccata definizione di Marco Foscarini -, dunque, le relazioni degli ambasciatori. Non altrettanto può dirsi di quelle dei rettori delle città suddite. Fonti preziose per la storia dell'amministrazione veneziana dall'Adda all'Isonzo, dal Piave al Po, in Istria, in Dalmazia, nelle isole, non tessono - per quanto cucite insieme - una storia. Troppo diverse l'una dall'altra per valore ed estensione - alcune sono diffuse trattazioni, altre scheletrici appunti -, è impossibile trasformarle in capitoli d'una sola vicenda. Ma la differenza con i testi conclusivi dei diplomatici non s'esaurisce sul piano dell'elaborazione formale. Si tratta d'una diversità intrinseca. Nel riepilogo finale il rettore schizza una situazione immediata, preoccupato di giustificare quanto ha fatto e di suggerire quanto sarebbe, in futuro, opportuno fare. La tinteggiatura chiaroscurante cui ricorre è finalizzata all'esigenza di porre in luce il proprio operato. Una stesura, la sua, incrostata di una partecipazione ravvicinata assente invece nel diplomatico. In fin dei conti, il rettore parla di ciò che ha fatto, l'ambasciatore riferisce quanto ha visto, espone quanto è riuscito a comprendere. Meno coinvolto - tanto più che col tempo, diminuendo il peso relativo di Venezia, i suoi ambasciatori sono semplici osservatori di situazioni rispetto alle quali la Repubblica è ininfluente -, guarda con distacco, giudica con discernimento. Una condizione ottimale per innalzare la relazione a pacato esercizio storiografico. Penetrante osservatrice del mondo che l'attornia tramite l'efficienza d'una mirabile rete diplomatica, l'aristocrazia veneziana non s'è saputa analizzare altrettanto lucidamente. Ha meglio capito i governi altrui che il proprio. Perciò - tra le scritture di governo - la palma spetta alle relazioni dei suoi ambasciatori: in quelle la classe dirigente ha scritto le sue pagine più limpide ed acute.
Come mai la pubblica storiografia - anch'essa, in qualche modo, assimilabile alle scritture di governo -, fatta eccezione per l'accantonato e non pubblicato Contarini, non s'è attestata sullo stesso livello? Vale la pena di tornare sull'obiezione di Foscarini a Nani: l'assenza di collegamento tra la diffusa esposizione della «materia straniera» e la veneziana. Fondata o meno che sia, poco importa. Va presa come spia di quello che doveva costituire un rovello costante per lo storico ufficiale, la cui mancata soluzione forse spiega il fallimento settecentesco (proseguono regolari le nomine, ma nessuno fa la sua parte) della pubblica storiografia. Sua ambizione impastare assieme storia veneta e storia europea, confondere le acque adriatiche con quelle oceaniche. Ma esiste - man mano ci si allontana dal Cinquecento - veramente la possibilità di «ragionevole attaccamento»? O non c'è, invece, il rischio che Venezia anneghi nella macrostoria? Certo è duro accettare che la storia di Venezia sia, ad un certo punto, fattibile solo in termini di circoscritta monografia locale. Emblematicamente istruttiva la vicenda dell'emporio realtino: da grande porto internazionale a porto regionale. Sono problemi che l'ambasciatore, nella relazione, può bellamente eludere: suo compito è riferire su di una precisa situazione da lui direttamente sperimentata senza infarcire il testo di collegamenti. Perciò il suo discorso fila e si snoda molto meglio che nelle «istorie». In fin dei conti la relazione è una monografia. Ma la storia di Venezia vuol essere anche storia d'Europa. Aver data per scontata questa possibilità è il vizio che corrode la pubblica storiografia, che le preclude il ragionevole sbocco monografico. Lo stesso Foscarini rilutta a prendere atto che la storia europea, dal secondo Seicento, se non prima, prescinde da Venezia. Forse è proprio la ricerca del bandolo, introvabile, dell' «attaccamento» che gli fa eludere l'impegno di storico pubblico. Si dedica, come s'è visto, alla più confortante, perché descrivibile in termini di progresso, storia della cultura veneziana; ne valorizza, con solida informazione, l'asse erudito. E la cultura europea del suo tempo è tutta condita di eruditi sapori, tutta tramata d'eruditi epistolari, tutta fervore d'erudite ricerche. Riesumare il glorioso capitolo dell'erudizione veneta significa imporla alla «repubblica letteraria» d'Italia, di cui Foscarini - Timeo Leutronio in Arcadia - si sente parte, proporla all'Europa dei dotti e dei letterati. C'è, allora, in pieno Settecento, «ragionevole attaccamento» tra cultura veneziana e cultura europea; ma è cosa diversa da quello che Foscarini, pubblico storiografo mancato, avrebbe voluto veder istituito dai suoi predecessori ed istituire egli stesso tra la Repubblica e l'Europa degli stati.
Tentativo di rispecchiamento e di amplificazione d'una classe dirigente incalzata dalle spinte divaricanti della «verità» e della sponsorizzazione, la pubblica storiografia è capitolo fondamentale ma tutt'altro che esaustivo, in una città la cui intensissima produzione editoriale è particolarmente ricettiva nei confronti delle «istorie». In questo la cultura veneziana profonde con prodigalità il suo impegno, verso queste convoglia il grosso dei suoi interessi. Nelle accoglienti braccia della storia si collocano tutta una fioritura di testi, una varietà d'argomenti, una pluralità d'interventi, una molteplicità d'approcci, una screziatissima gamma d'espressioni. Una variegatissima impressionante sovrabbondanza in qualche modo dipanabile inseguendo nella selva delle stampe e dei manoscritti linee di tendenza, ipotizzando sottogeneri del genere storia, saggiando raggruppamenti tematici, verificando irrequiete increspature.
Negli ambienti patrizi e, talvolta, in quelli contigui della burocrazia cancelleresca, si riscontra una propensione per l'annotazione diaristica, la registrazione frettolosa d'episodi grossi e minimi movimentata da commenti personali e persino umorali. Uno spazio, quello del diario, che è un po' una zona franca per riflessioni e geremiadi private. Sgombra da preoccupazioni d'ufficialità e da impacci di stile alto, la memorialistica offre pagine scabre, talora pungenti ed aspre. A monte il risentito giudicare di Girolamo Priuli, che, quasi Savonarola in veste mercantesca, aveva inveito contro i «pecadi» della città intorpidita dalle rendite terriere e s'era scagliato contro l'irreparabile guasto d'una dissennata tralignante espansione in terraferma. C'erano stati, altresì, i Diarii di Marin Sanudo, coll'inesauribile ricchezza d'una prensile attenzione al vivere quotidiano, coll'immediata resa dei fatti inseguiti e catturati senza dosaggi gerarchizzanti. Una sterminata scrittura paratattica col libero accavallarsi delle notizie, un'intatta miscela di macrostoria e microstoria colta nella sua ampiezza di raggio, inglobante l'arrivo d'una nave e la recita d'una commedia, il discorso noioso d'un senatore e le convulsioni religiose in Germania, l'ammontare d'una dote e il fallimento d'una banca, la ribellione dei contadini tedeschi e singoli prezzi e singoli valori monetari. Un policromo vivacissimo impasto: acuti odori di spezie stipate nelle navi, acri sentori agresti giungenti dal terragno radicarsi dell'economia, geli invernali, calure estive, cortigiane sfrontate, passioni amorose, pranzi voraci, fami lancinanti, processioni e feste, allegri carnevali e quaresime deprimenti. Tutto ciò che la storiografia aulica non vuole e non sa dire è cacciato alla rinfusa nei Diarii come in un enorme magazzino ricolmo, come in un fondaco zeppo e straripante. Circola un vissuto ignoto alle elaboratissime confezioni umanistiche.
Certo l'aggressivo sermoneggiare di Priuli, l'ansia di dir tutto di Sanudo sono eccezionali, irriproducibili. Ma ne resta pur sempre qualche traccia in taluni lampeggiamenti vivaci ed immediati d'autori successivi. E, di per sé, della «verità» sanudiana che segue, in «vulgar», umilmente «l'ordine delli anni, mesi et zorni», nessuno «scrittor», nemmeno il più paludato, d'«historie moderne» dovrebbe fare a meno; come può accingersi al «componer in latin» ignorando i grumi di fatti da Sanudo generosamente predisposti ? Diversi dall'«istoria», i «diari», i «zornali», le «memorie», le «cronache», i «ricordi», gli «annali» testimoniano malinconie, ombrosità, scatti, risentimenti, rancori, entusiasmi altrimenti inafferrabili. Ci sono poi dettagli, «minuzie», cui - lo nota Sarpi - s'addice «la forma del diario». La memorialistica conserva, dunque, particolarità e sapori che nel travaso storiografico vero e proprio svaniscono; il tono alto è micidiale per la loro incondita schiettezza. Fruttuosa la caccia tra i manoscritti delle biblioteche veneziane: non c'è che da scegliere. Disparata la congerie d'annotazioni delle Memorie, dal 1558 al 1598, di Francesco Molin, dalle manifeste simpatie per la linea dei «giovani»: dall'imbarco dodicenne in una galea alla predicazione, del 1578, di Panigarola, dagli incendi alla peste, dai soggiorni in campagna agli imbrogli d'un «ciurmatore» quale «Murmagna». Di segno opposto l’animus degli Annali d'Alvise Michiel, un «vecchio» acrimonioso. Sotterranei murmuri di tendenzioso brontolio vengono alla luce dai ricordi di Zuan Antonio Venier, che tenta di tracciare una Storia delle rivoluzioni seguite nel governo [. . .] di Venezia con particolare attenzione alla vicenda del Consiglio dei Dieci sino al 1628. Disadorni gli Annali e i Diari del futuro doge Francesco Contarini, ove la vita politica s'addomestica in un casalingo ritmo quotidiano: «si disputò la matina», «il dopo disnar fu pregadi». Ricche di dettagli le Materie trattate in Collegio e senato nel 1622-1624 d'Alvise Contarini; e i dibattiti senatòri del 1685-1688 sono pure riportati in un diario continuato d'un patrizio, forse anch'egli un Contarini. Anche Pietro Garzoni, il pubblico storiografo, tiene un Diario del senato dal 1693 al 1732; vi si apprende tra l'altro che, alla fine del Seicento, a Benedetto Cappello, memore della fermezza dimostrata nella «controversia» con Paolo V, i più obiettano l'inopportunità d'«impuntarsi con Roma», poiché, «se la Republica s'impegnasse» in tale direzione, «doverebbe», poi, «ritirarsi con rossore». Lo scrupolo e il rigore con i quali Leonardo Donà, il futuro doge, affronta i compiti assistenziali connessi con la «procuratia [. . .] de S. Marco de citra, alla qual dignità [. . .] primaria [. . .] fui eletto per Dio gratia con consenso del[ . . .] benignissimo Maggior Consiglio», balzano evidenti dal relativo Diario. Ma, al di là dei «disordini» contabili ivi denunciati, si vedono abitazioni malsane, «luochi immondissimi», «numero grande di povertà», estremi d'abbrutimento umano in calli maleolenti. Quando mai la pubblica storiografia se n'è occupata? Ballottazioni, nomine, risse, costi, «renghe», strani accidenti, elemosine, piogge a dirotto «con vento grande che pareva cascar il mondo», tasse, scarsità di raccolto, pubbliche esecuzioni, decessi, amoreggiamenti di nobili con monache, qualche «intacco de cassa», cortigiane addobbate con più lusso delle «gentildonne nobili», cerimonie, naufragi, imprese banditesche, circolazione di cattiva moneta si mescolano nella Cronaca veneta (finita alla Nationalbibliothek di Vienna) di Girolamo Priuli, omonimo e discendente del grande diarista. Discontinua ed intermittente, essa si estende dal 1600 al 1615. Se ne apprendono notizie curiose: arriva, ad esempio, nel 1611, un fiammingo con una ragazzetta quattordicenne, priva di braccia, con una sola minuscola «gambeta con la quale mangia e beve» e fa tutte le operazioni che le servono; inoltre è poliglotta e canta «gratiosamente». E vi sono altresì dati meritevoli d'attenzione, quale l'immobilizzo di capitali per le collane delle nobili: «due millioni di cavedalli di perle [. . .] stavano», attorno al 1608, «indisposti a pregiuditio publico e privato». S'avverte, infine, un battagliero fremito antispagnolo che s'esprime con una veemenza impensabile in un'opera a stampa. Ma l'antispagnolismo avvinto all'anticurialismo pervadono soprattutto le Materie politiche, un meticoloso diario del primissimo Seicento, in cui l'autore, un ignoto patrizio accostabile a Nicolò Contarini, travasa tutta l'appassionata e polemica carica d'un'intensamente emotiva partecipazione alla vita dello stato. Non si nasconde le carenze della sua classe, è critico nei riguardi del cattivo funzionamento delle magistrature. Impietoso rileva, volta per volta, il parlare a vanvera di senatori che ostentano, pomposi, «pretensione di saper». Si sente tutta l'insofferenza per il loro «discorso assai tedioso», interrotto, talvolta, per fortuna, «con spesso rumore» e con «strepito» dai colleghi. Non sopporta i patrizi la cui azione è ispirata dal «fine particolare dell'avvicinarsi», con ostentata cedevolezza nei confronti di Roma - questa è sempre informata «degli affetti e degli offitii de' nostri cittadini» -, alle «prelature»; troppi nobili favoriscono i «preti» - e il termine è nel diarista sempre carico di astio - «pretendendone segnalato merito con la Sede Apostolica». Tra punte di corrosivo sarcasmo e pause d'accorata riflessione emergono l'inquietudine e il disagio e, insieme, la volontà di lotta d'una generazione prossima alla prova decisiva dell'Interdetto. La cautela è, con angoscia, percepita quale debolezza che rasenta l'ignavia. «È stimato effetto di prudenza il conoscere la propria debolezza et con quella trattenersi in modo che si portino in sicuro le cose proprie»; dunque - ammonisce Leonardo Donà - i Veneziani non sono «tali da contender con un re tanto potente e tanto formidabile» come quello di Spagna. Ma qual è il confine tra la prudenza e l'acquiescenza? Di fronte all'ennesima provocazione di Fuentes, il protervo governatore di Milano, Giacomo Foscarini insiste che «bisognava pensar molto bene quello che si faceva». L'appoggia Giovanni Dolfin, perorando «perché si differisse». Così due «vecchi». Al che il «giovane» Antonio Priuli osserva che «il non far alcuna provisione» è segno palese che i governanti hanno «cangiata natura et, di solleciti et prudenti», sono divenuti «pigri et irresoluti», oppure che hanno «deposto il pensiero della diffesa de' sudditi». Ciò, «quando si credesse, basteria allienarci tutto il stato nostro». Occorre una reazione energica: «fatevi conoscer per prencipi» - esclama, rivolto ai colleghi, Priuli - «prencipi grandi, atti alla difesa e protettione de' [. . .] sudditi, gelosi della salute loro». Se il «rispetto a Fuentes» è tale che «non osate ancor di armarvi, non occorre che vi prendiate cura de' sudditi, lasciate che si diano ad altri». Con sdegno rattenuto il diarista informa che a larga maggioranza «fu preso il differir, tanto proprio del senato venetiano, quanto talhora suole essere nocivo nelle deliberationi che vogliono celerità».
Se dalla memorialistica confinata nei depositi dei manoscritti si passa alle opere a stampa, consistente si presenta il manipolo delle storie di Venezia stese per iniziativa personale, ma pur sempre spalmate di patina ufficiosa e con dediche preoccupate di rilevarla. Racchiudibili tra la grezza ma editorialmente fortunata storia ab urbe condita (del 1560 la prima edizione) di Pietro Giustinian e i due tomi della Historia veneta (Venetia 1680-1684) di Alessandro Maria Vianoli costellata di orazioni piuttosto pompose, si succedono le compilazioni del poligrafo bellunese Giovanni Nicolò Doglioni, del canonico padovano Giambattista Vero, dei nobili veneziani Francesco Verdizzotti e Giovan Battista Contarini: tutti intenti a narrare, più o meno compendiosamente, le vicende della città dal suo sbucare dalle acque. Li agevola una dichiarata finalità celebrativa, che li induce a circoscrivere l'esposizione senza le velleità di contestualizzazione della pubblica storiografia. A sé stante la già menzionata Historia [. . .] dalle origini al 1487 di Paolo Morosini, un doppione in volgare con qualche accrescimento rispetto a Sabellico.
Dramma plurimo polivalente sfaccettabile a piacere - l'attacco proditorio dell'Infedele crudele e assetato di sangue cristiano, il revival effervescente della Crociata, la «vittoriosa et miracolosa» giornata di Lepanto, lo strascico di recriminazioni sulla successiva condotta delle operazioni, il defilarsi, con pace separata, da un'alleanza infida -, la guerra contro il Turco del 1570-1573 è subito oggetto di numerose concomitanti versioni, parte prontamente pubblicate, parte rimaste inedite. Paolo Tiepolo, Bernardo Sagredo, Federico Sanudo, Giampiero Contarini, Francesco Longo, Fedel Fedeli sono tra quelli che più direttamente l'illustrano. A parte il Cyprium bellum [. . .] dell'irrequieto Pietro Bizzarri, estraneo all'ambiente veneto, la trattazione meglio organizzata resta quella parutiana, di gran lunga eccellente sulle altre, che, peraltro, proprio perché meno limate, a volte conservano un più accentuato timbro personale. Ad esempio, il veneziano Emilio Maria Manolesso, autore d'un 'Historia dei successi del conflitto (Padova 1572), descrivendo l'eroica morte d'un valoroso difensore di Famagosta - il vescovo di Limissò, che cade, mentre, con la croce in mano, esorta sulla «muraglia» alla resistenza -, si lascia andare ad un commento impensabile nella controllatissima prosa di Paruta. «Questo», così Manolesso, «è l'ufficio di bon pastore [. . .] e non il cogliere in tempo di pace l'entrate». Spunto sintomatico: autorizza a supporre che una certa animosità nei confronti del clero alla caccia di prebende non era propria solo dei «giovani», ma anche di uomini non appartenenti all'aristocrazia. È il caso appunto del «dottor» Manolesso, che nobile non è. Lunga altresì la serie degli autori illustranti singoli episodi - assedi, conquiste, scontri navali - o qualche parziale tratto della venticinquennale guerra di Candia. L'abbracciano in tutto il suo arco cronologico sia l'Historia dell'ultima guerra tra Venetiani e Turchi [. . .] (Venetia 1673) del rodigino Girolamo Brusoni, sia l'Historia della guerra di Candia [. . .] (Venezia 1679) d'Andrea Valier, un nobile che, dopo aver combattuto in prima persona, si sforza di presentare il prolungato conflitto con veridicità, senza «lodi soverchie» per la Serenissima, senza ricoprire «col silenzio» le «fortune [. . .] avverse». Rilevabile nel primo la cocciuta persuasione che la mancata ripulsa dello sbarco ottomano vada addebitata agli stessi Candiotti, rei di non aver opposto resistenza alle truppe infedeli e d'aver, anzi, preferito il «giogo» della Porta. Anche Valier costata la scarsa combattività della popolazione (la si era già appurata, nel secolo antecedente, a Cipro; e nel primo Settecento si dovrà lamentare la propensione alla resa di «cattiva gente» in Morea), ma - al contrario di Brusoni, che inveisce contro il suo «cuore guasto» e avvelenato, che la degrada a infingarda accozzaglia degna della schiavitù - cerca d'intenderne le ragioni. Responsabile, a suo avviso, la disaffezione provocata dagli «insoffribili trattamenti» d'un dominio, quello veneto, che è stato così oppressivo e iniquo da indurla a confidare in una meno abbrutente «conditione ancor sotto a quei barbari». La guerra, infine, della Sacra Lega è accompagnata da un fitto tambureggiamento esaltante «acquisti», «conquiste», «gloriose vittorie», con ragguagli e relazioni; s'ingegnano di rappresentarla, invece, nel suo complesso, e allargando il quadro soprattutto alle imprese imperiali, Nicolò Beregan e Camillo Contarini, mentre sui meriti di Venezia si sofferma in ispecie Alessandro Locatelli e le gesta di Francesco Morosini sono scolpite a tutto tondo nelle monografie a lui dedicate.
Ma non ci sono solo i grappoli di storie suscitate dagli stimoli bellici. V'è, pure, l'intensificarsi dell'attenzione verso il Turco, la volontà di penetrare nel suo mondo diverso, nei suoi tenebrosi misteri, nella sua sconcertante empietà. La curiosità dapprima rabbrividisce di fronte alla crudeltà dei supplizi, alla perfidia delle torture, per poi concentrarsi morbosa sullo sterminato Serraglio: brulica d'eunuchi e vivandieri; immense le cucine e ricolmi i depositi; splendide fanciulle godute e vecchie via via relegate; strangolamenti, pugnali, veleni; tesori e lusso inauditi; grondar di sangue in un'atmosfera allucinata, satura d'erotismo etero- e omosessuale. Ma alla fine subentra anche la considerazione delle «leggi», degli «uffici», dei «costumi», della «militia» di quel mastodontico impero. Con l'occhio anche bene attento - da buon stratega della carta stampata - al mercato librario, Francesco Sansovino s'improvvisa, nel Cinquecento, turcologo ed esordisce con una divulgazione non priva d'intuizione e intelligenza. Scritte «con il solo oggetto di giovare al cristianesimo» e di fornire alla «nave cristiana» gli strumenti per «applicarsi al risarcimento» e munirsi d'«apprestamenti», le Memorie istoriche de' monarchi ottomani (Venetia 1673) di Giovanni Sagredo risentono troppo dell'odio antiturco suscitato dalla appena conclusa guerra di Candia per non essere intrise di rifiuto esorcistico nei confronti della «barbarie». Ma in Della letteratura de' Turchi [. . .] (Venetia 1688) di Giambattista Donà il «barbaro» non è più tale, se gli si riconosce uno spessore culturale; un succoso «libretto», questo di Donà, che dà il via, come riconoscerà quasi un secolo dopo Alberto Fortis, allo smantellamento del coriaceo «pregiudizio» pronto a giurare sull'irredimibile inscalfibile «ignoranza» di quella «nazione». Prima, comunque, di Donà, e con un'apertura mentale di cui non v'è sentore nel pur posteriore Sagredo, l'isolato apprezzamento contenuto nelle Istorie di Nicolò Contarini della macchina statale turca, non inceppata da interferenze religiose, anzi agevolata dalla fede islamica, era stato un'anticipata avvisaglia d'una disponibilità a capire e ad accettare che solo nel secolo dei lumi potrà tranquillamente svolgersi e svilupparsi.
Aguzza cima rocciosa, svettante irraggiungibilmente alta rispetto alla bassura di tumuli sabbiosi e alla modestia di verdi collinette, l'opera storica di Paolo Sarpi si colloca d'un balzo ai livelli più elevati della cultura europea. Sugli intricati andamenti dell'assise tridentina - di cui già il segretario Antonio Milledonne aveva abbozzata una succinta narrazione che esprime il distacco senza entusiasmo con cui ad essa s'era guardato da Venezia - s'imprime indelebile il marchio della sua Istoria, che vanamente la tardiva replica d'ufficio di Sforza Pallavicino tenterà di sbiadire. Un'esposizione tendenziosa epperò possente nella sua implacabile triturazione di fatti e intenzioni, che nasce dall'intima persuasione che a Trento siano state tradite stravolte distorte le speranze degli «uomini pii», tanto adoperatisi per costringere la Chiesa al concilio. Lì si consuma il sogno d'un rinnovamento autentico all'interno della chiesa-istituzione: deturpato lo spirito di carità, si tesse e si perfeziona l'avviluppante ragnatela di concetti e leggi che soffoca la religione asservendola alla brama romana di dominio e potenza. Una «forma e compimento», l'esito, antitetici al generoso entusiasmo delle premesse. La corruzione e la degradazione che hanno segnato il tortuoso cammino della Chiesa medievale si sistemano in un edificio coerente, si saldano conferendo al papato moderno una proterva aggressività, legittimando la sua sfacciata prepotenza. Una logica perversa ingloba, distorcendole e falsandole, le istanze ingenue e sincere degli uomini «sensibili», le manipola furbesca grazie agli abietti servigi di «cortigiani» proni all'«opinione alli padroni comoda». La mala pianta, che affonda le sue radici nel plurisecolare tralignamento medievale, s'aderge pienamente, senza pudore, come insana potenza politica ed economica. Una monarchia torva, tirannica, senza amore, trasudante soperchieria, s'accampa sulla «congregatione» dei credenti «in Christo». Non più i «fratelli», ma le rigide barriere tra clero e fedeli; non la parola di Dio, ma un mastodontico apparato burocratico. Un tronfio riepilogo delle deviazioni antecedenti riproposto come assieme organico, compatto. Una «catastrofe» per gli uomini di fede. Non il ripristino del «buon uso», ma l'«abuso» istituzionalizzato; non il reintegro delle «antiche istituzioni incorrotte», ma le «corruttele» incorporate, legittimate. Desolante spettacolo il concilio: una assise politica senza afflato di Spirito Santo, un indaffarato meschino intrigare, un irrespirabile incrociarsi di miserabili calcoli. Trento, la città destinata al ristabilimento della «general concordia» nella cristianità, è divenuta, invece, «seminario di maggior discordia», propalatrice di tossici gerarchici e mondani. E degna, perciò, di «odio universale»; «ha causato la maggior deformazione che sia mai stata da che vive il nome cristiano». Ha vinto la curia intrigante e famelica. Il papa ne esce signore assoluto: spossessati di ogni autonomia i vescovi e - peggio - « interessati [. . .] nella loro servitù». Nella visione sarpiana il male non è solo l'azione cattiva e, appunto, malvagia, le rapine e gli omicidi che impastano di sangue e furti la vicenda umana. E anche atmosfera: quella che si respira a Roma; è tanfo di anime asservite, burbanza imperante di vertice. Tutto si sporca: la bontà diventa ipocrita unzione; gli uomini di chiesa si riducono a servi pigolanti a gara benefìci, entrate, privilegi, prebende, la cui distribuzione dall'alto sembra dipendere da un arbitrio apparentemente capriccioso, in realtà capace d'una strategia sagacemente corrompente. Alla purezza d'intenti si sostituiscono gretti interessi, calcoli contabili, formalizzazioni da legulei; il diritto canonico al posto dell'amore e della carità.
Impossibile in questa Controriforma essere veramente buoni.
Ogni genuinità è distrutta. Solo l'abbattimento dell'ammorbante simbiosi romano-asburgica - ecco il «giogo imminente sopra il collo d'Italia», ecco la duplice monarchia «sopra i corpi» e «sopra le anime» - può farla tornare in vita. Per organizzarlo bisogna essere doppi, sottili, accorti, finti, mascherati di consenso. Occorre un lavoro paziente, sott'acqua, da svolgere con cautela. Va iniziato a Venezia, che, pur cattolica, ha saputo opporsi al pontefice. Per non suscitare allarmi è opportuna la reticenza in fatto di «verità»; pur rifiutando di contribuire al dilagare della «falsità», pur evitando la menzogna - due poli ben distinti per Sarpi il vero e il falso: nessuna confusione, in lui, quale quella per cui, come asserisce Francesco Fulvio Frugoni, la «verità va in maschera» -, essa, la «verità», non va detta «tutta», non va pronunciata «in ogni caso». Comunque, «il falso mai». Una linea di condotta nella lotta sotterranea senza tregua contro la Roma enfiata e truce costruita a Trento. Una «potestà», questa, «senza termini, senza freno, essorbitante e spaventevole». Un'incredibile protervia: gli «ecclesiastici» si arbitrano di «commandare a tutti li cristiani quello che stimano conveniente e di riprendere quelli che non li ubidiscono». Se si scardinano, la «verità» irromperà purificante, liberante; come un fiume impetuoso spazzerà via immondizie e detriti. Irresistibile, l'«Evangelio» diroccherà il totatus papale cementato a Trento. Solo dopo sarà possibile essere ingenui puliti semplici schietti limpidi, insomma veramente buoni. Se questa è la convinzione sarpiana, se tale è il programma del servita, la tendenziosità e la violenza critica dell' Istoria si giustificano, diventano anch'esse «verità». La minuziosa disamina de «la Iliade del secol nostro» non è, allora, acrimonia di giudice angustamente risentito, ma s'incardina come memoria in un progetto di riconfigurazione, s'incarna come monito nella tensione che spinge alla lotta per attuarlo. Non realizzate - si sa - le speranze di Sarpi. Sono inattuabili facendo leva su Venezia; sono incompatibili - molto più di quanto Sarpi riesca a supporre - collo stesso regime patrizio, al quale il servita, troppo rispettoso, sa solo obiettare il risvolto gerontocratico, cioè il «mos» d'affidare il «regimen rerum senibus». E rispetto a questi i giovani sono bloccati da un eccesso di «reverenda». Sarpi evidentemente spera nei giovani d'anni e nel partito dei «giovani» in senso ideologico. In realtà le sue speranze sono troppo radicali anche per i più impetuosi tra i giovani - d'età e d'idee - veneziani. Ad ogni modo a quelle va ricondotta l'Istoria; ne è la premessa riflessiva, la fissazione del punto di non ritorno. Rinserrare il concilio in un percorso che, dalla fiduciosa incubazione dell'attesa, sbocca nel suo ghignante capovolgimento finale è uno schema indubbiamente rigido, chiuso: eppure, pur dentro le sue maglie così poco duttili, circolano le pagine altissime d'una tesa acuminata storiografia militante, che s'avventa come un'unghiata leonina sull'orgoglioso rimodellamento romano. Aspra e tagliente, la prosa di Sarpi ferisce anche dopo la sua morte. Roma avrà sempre di fronte come un incubo la sua versione della vicenda conciliare: non le sarà dato di rimuoverla, d'esorcizzarla. «Stabilita», «confermata», «radicata » la potenza della Santa Sede; ma la Istoria rimane a ricordare «le cause e li maneggi» d'un siffatto «compimento tutto contrario» alle attese iniziali della cristianità smarrita. La voce del servita continua ad ammonire: la fede non si riduce nel «credere al papa»; è subdolamente «artificioso» il «discorso» dei «romanisti»; disonesto il loro «istorcere la Scrittura»; falsante la citazione di «luoghi de' padri troncati o figurati». Certo l'esercizio storiografico realizza con Sarpi il massimo delle sue capacità ricostruttive e, insieme, il massimo dell'incidenza. Un caso eccezionale: quello d'una storiografia che, rievocando un capitolo di storia - nella fattispecie il concilio di Trento -, è produttiva, a sua volta, d'ulteriori sviluppi storici. Sarpi, infatti, impedisce la digestione pacifica del concilio, l'assimilazione indolore. A lungo alimenta il rinnovato vigore polemico di marca protestante, a lungo suscita disagio e irritazione nel mondo cattolico. Quando mai un gigantesco fatto storico è rimasto così ingombrato dal fantasma d'un suo interprete? Tuttora è impossibile riandare, sia pure fugacemente, all'assise tridentina senza che si sovrapponga - quasi per automatica associazione d'idee - l'ombra del servita. È come un incantesimo che è impossibile rompere, una maledizione cui non si sfugge: il concilio rinvia a Sarpi, e viceversa: sono avvinti da un legame inscindibile.
Dopo tanta altezza, un gran ruzzolone: le «istorie» che escono a frotte dopo la morte di Sarpi paiono pettegoli centoni. Irriverenti e, anche, blasfemi i libertini veneziani, facenti, più o meno palesemente, capo all'Accademia degli Incogniti; ma nelle loro opere storiche, a cominciare da quelle di Giovan Francesco Loredan, vi sono solo esili indizi delle presunte audacie dei loro segreti conciliaboli. Un supplizio leggerli dopo esserci abituati a Sarpi! La sua orma si ravvisa semmai quale gusto per il dettaglio circostanziato e, insieme, larghezza d'orizzonte nelle Istorie di Nicolò Contarini, riottose a circoscriversi a Venezia, pressate da quanto avviene fuori, in Inghilterra, in Transilvania, in Anatolia, in Spagna. Indubbia in quest'amico di Sarpi l'ansia di uscire da Venezia, magari per meglio capirla. Dimenticare, per un po', la laguna può essere operazione salutare. Una spinta in tal senso l'aveva già data la storia universale con le sue istorie del mondo, dal «principio», o con quelle limitate, più saggiamente, ai fatti «memorabili» avvenuti ai «tempi» dell'autore. Soluzione, la seconda, che finisce per prevalere, vista l'impossibilità d'un vertiginoso viaggio cronologico che si concreti in un'opera condensante, come vorrebbe Campanella, « ab origine mundi usque ad nos omnia omnium nationum exordia, progressa, gesta, interitus mistionesque». C'è il rischio di riproporre una bizzarra summa medievale; meglio, allora, saltellare di «natione» in «natione» e scegliere, in un periodo limitato, nella contemporaneità: allargare la geografia, insomma, rinunciando all'avventura di un'improbabile cronologia. È quanto fa, ad esempio, Cesare Campana, un abruzzese trapiantato in terra veneta, che preferisce agli incerti della storia antichissima - suo un collage di fatti e fatterelli dalla fondazione di Roma a Tarquinio Prisco (dal 3213 al 3361 secondo i suoi criticati computi) - la sicurezza delle date fornite dalla storia moderna. Comunque, uscendo da Venezia, ben più produttiva della dispersione nel mondo la delimitazione di un argomento preciso che supponga una scelta, che comporti un'interpretazione. Si tratta dell'Ungheria o della Transilvania, si illustrano particolari «rivolgimenti» e guerre. Si affrontano situazioni di altri paesi e, nello sforzo di comprendere questi, si affina l'intendimento della stessa realtà veneta. È dalmata di nascita e suddito della Serenissima quel Giovan Francesco Biondi, che, «eretico marcio», era finito in Inghilterra, autore dell’Istoria (edita a Venezia nel 1637-1644) della guerra delle Due Rose, ove la monarchia inglese, felicemente sortita dagli scannamenti tra le «case di Lancastro e Iorc», è qualificata «aristodemocratica»: un'autorità regia poggiante sulle leggi accette ai sudditi, non sulla «volontà» dispotica del sovrano. Una connotazione che rimanda alla laguna. Indubbiamente lo studio delle «cose esterne» è approfondimento delle proprie.
Al vicentino Alessandro Campiglia, che a Venezia esercita l'avvocatura, fornendo nel contempo servigi all'Ambasciata francese, si deve la pubblicazione, nel 1617, di una voluminosa storia delle Turbulenze della Francia in vita del re Henrico il Grande [. . .], dalla quale, malgrado la zavorra dell'esaltazione dell'Ercole Gallico, emerge con nettezza una considerazione delle lotte di religione quale scontro di interessi politici. Non basta: scrivendo della Francia, Campiglia annusa una diversa forma-stato - quella monarchica - che si profila sgombra da medievali condizionamenti e impacci legalitari. «Il governo della monarchia», spiega, ammette soltanto la «superiorità» d'un solo «capo», si risolve nell'«arbitrio independente di Sua Maestà». La prosa farraginosa di Campiglia qui è chiarissima. Che abbia letto Bodin? Certo, per il suo tramite, i lettori (che dovevano essere numerosi se egli può vantare la «tanta vendita» dell'edizione uscita «in grandissima copia») orecchiano qualcosa della legibus soluta potestas. Di gran lunga superiore a Campiglia, Enrico Caterino Davila, uomo d'armi al servizio della Serenissima, con la sua Storia delle guerre civili di Francia, che vede la luce nel 1630, ne ribadisce la tesi. E, in più, l'approfondisce, la rende sistematica. In Francia - ecco il canone interpretativo - si è verificata una truce, sanguinosissima guerra civile, non religiosa; la religione non è stata che «pretesto», «opportunità», «velame», «mantello», «apparenza», «colore». Buona per l'ingenuità del volgo, essa serve a «coprire gli interessi di stato»; è, appunto, usata per «colorire» di nobili tinte «l'interesse» inconfessato; è adoperata per mascherare la brutalità di un'atroce lotta per il potere, per giustificare la carneficina. Né, immergendosi nel sangue della guerra civile in Francia, Davila scorda Venezia: rileva, anzi, il ruolo da lei giocato con l'«intercessione» per la soluzione della crisi, ne costata la saggezza. È «interesse», infatti, della Repubblica vigano «la quiete e l'unione del Regno di Francia», sì che, saldamente in pugno al re, «unito di forze», funga da efficace «contrappeso alla soverchia grandezza d'altri potentati cristiani». Con Davila si tocca con mano la proficuità di una storiografia non circoscritta alla vicenda veneta. Come s'era intuito nelle riunioni del ridotto Morosini, come aveva insegnato Sarpi, è necessario guardare al di là dei confini: si comprende meglio Venezia se la si rapporta all'Europa. Ma la contestualizzazione è anche ridimensionamento. È convinzione, infatti, di Davila che le «qualità della monarchia», purché solida e assoluta, siano le più idonee a favorire i disegni degli aspiranti a «dilatazione di dominio e a grandezza d'acquisti». Già Paruta se n'era reso conto; ma aveva anteposta la nobile e benefica missione di pace della Repubblica, superiore perciò agli altri, a loro maestra proprio perché immune da ambizioni di grande potenza. Ma - ora che gli addobbi sontuosi del mito si sono sgualciti, ora che gli arredi sono spelacchiati e stinti - rilevare come la monarchia meglio sviluppi la dimensione della potenza può suonare amaro. Implica la deduzione che Venezia - così com'è - è fuori gioco, spettatrice del braccio di ferro tra «potentati», in inerte attesa del risultato. Né, nella Venezia del Seicento inoltrato, così preoccupata della legge e dell'ordine interni, si risemantizza lo stimolo alternativo della libertà dei cittadini da contrapporre alla supina obbedienza dei sudditi dei grandi regni. Questo vale per l'Olanda, ove è avvalorato da una vincente energia d'intrapresa mercantile; non per niente è di conio olandese la tesi del mare libero che a Venezia viene avversata anche e soprattutto da Sarpi. Decisamente la libertà ad Amsterdam respira meglio.
Allontanarsi da Venezia per dipanare i labirintici meandri del concilio tridentino o per ripercorrere l'insanguinato cammino del riaffacciarsi sulla scena internazionale di una Francia nuovamente temibile sono - lo si è detto - operazioni essenziali alla consapevolezza del presente. Si aggiunge, fondamentale, puntualmente registrato dalle relazioni degli ambasciatori, il dato del precisarsi di disegni unificanti ed uniformanti: burocrazia, finanze, milizia, diplomazia fondano l'autocrazia del re; nelle sue mani si sommano e si concentrano i poteri: il concreto esercizio del governo, libero da ogni controllo, ha nel corpo dei funzionari, direttamente dal re designati e perciò direttamente da lui revocabili, il suo apparato esecutivo. Ma cos'è la Repubblica? Stato composito, frutto di successive giustapposizioni, con giunture volta per volta escogitate; un laborioso incollamento all'insegna d'un'ingegnosa empiria; un sottile svolgimento di coste ed isole ad oriente, un massiccio affondo - bloccato una volta per tutte dal furibondo assalto dei collegati di Cambrai che scaraventa su Venezia «grandissima ruina et jactura» - nel territorio ad occidente. Un impianto divaricato, una dissimmetria squilibrante. Compiacente, comunque, l'iconografia (anch'essa storiografia: la storia non è solo «scrittura» o «scriptio», insegna Francesco Patrizi; può essere benissimo «dipintura» o «depictio», specie a Venezia, coi suoi nobili costretti a vedere nella «sala del Maggior Consiglio», ogni giorno, «dipinta la historia di Alessandro III»), nella sua pregnanza ora sottilmente allusiva ora squillantemente didascalica, ora trionfalisticamente superba ora pudicamente suggerente. Tutta la tastiera di una ricchissima strumentazione figurativa contribuisce al quadro, orgoglioso ed idilliaco ad un tempo, d'una Venezia raffigurata come splendida donna, incoronata dalla vittoria, signora di castelli e città, regina del mare, attorniata, a mo' di dame di compagnia, dalla pace, l'abbondanza, la sicurezza, la giustizia, la fama, la felicità, l'onorevolezza, la libertà, la bellezza. Anche le città suddite sono avvenenti gentildonne omaggianti lo splendore della città lagunare, col volto radioso di riconoscenza, liete perché su di esse piove la manna d'un provvido governo. L'opulenza tripudiarne delle carni femminee è dorata immagine di serenità, che spira invitante dai dipinti dei soffitti e delle pareti ad infondere fiducia ai patrizi assidui frequentatori del Palazzo Ducale. In realtà, l'allargamento del dominio in terraferma è stato sentito come uno strappo lacerante con la tradizione marinara (a questa richiama, nel 1500, la stessa celeberrima pianta prospettica di Jacopo de' Barbari: Nettuno e Mercurio non sono lì per caso; significano la navigazione e il commercio cui la città deve la sua grandezza), come una folle avventura piombata nell'abisso d'Agnadello. Un'esemplare punizione per l'ingordigia di nuovi territori, una sconfessione per l'affievolirsi dell'impegno in mare, per l'impigrente propensione al godimento di rendite terriere. Girolamo Priuli si era scagliato con veemenza sia contro l'espansione occidentale, sia contro le concomitanti inclinazioni agli investimenti immobiliari. Le aveva viste strettamente avvinte come due facce d'uno stesso fenomeno aberrante, fatto di avventatezza sul piano politico e di tradimento (che è, pure, scadimento morale) della costitutiva vocazione mercantile su quello economico. Una colpa, questa, di fronte a Dio e di fronte agli uomini, per il severo diarista. In realtà, la crescente importanza dell'agricoltura è una tendenza di fondo che nessun moralismo può frenare. Sia pure sfrondata di qualche propaggine, Venezia si salva dall'aggressione dei collegati di Cambrai. Resta un ragguardevole stato territoriale, e - contraendosi progressivamente i traffici - il ruolo dell'agricoltura si fa sempre più decisivo, la terraferma diventa fondamentale. Le bonifiche estendono la superficie coltivabile, l'arativo s'estende esasperatamente; sempre più consistente la proprietà fondiaria della aristocrazia, attentissima nell'accaparrarsi i terreni di più alta resa produttiva. Una Repubblica, in conclusione, diversa da quella esclusivamente marittima di un tempo, la cui economia è sempre meno plasmata dall'attività mercantile, sempre più incentrata nella produzione agricola, sempre più condizionata dai flussi di «vittuaria» provenienti dalla terraferma. Un profondo mutamento rispetto al passato che accentua e acuisce le contraddizioni di una città-stato la quale non riesce a fondere le spinte divergenti della terra e del mare, a trasformarsi in capitale di un saldo e unitario organismo politico. Assente una coeva riflessione storiografica. Eppure i Diarii sanudiani rigurgitano di informazioni sulla palese ostilità verso Venezia dei nobili di terraferma e sulla coraggiosa guerriglia dei contadini «marcheschi». In seguito questi ultimi saranno refrattari all'inquadramento nelle «cernide», le quali, a loro volta, si dimostreranno più leste nella fuga che pugnaci nel combattimento. E i nobili di Padova e di Verona, di Vicenza o di Brescia, pur favoriti nel loro predominio nei Consigli locali, tenderanno a far istruire i figli oltre confine, ad impiegarli nelle corti, ad arruolarli sotto le insegne imperiali. Perché? La pubblica storiografia evita di chiedersi seriamente se la Serenissima sia veramente amata, non indaga sulla disaffezione dei sudditi. Né lumi in proposito offre la pur folta e, talvolta, dignitosa storiografia municipale, forse inibita dall'esibito lealismo che la informa. Quasi copione prefissato, accomuna i vari centri la stessa rigida scansione: dall'origine antichissima alla colonizzazione romana; dal buio dell'alto medioevo al travaglio comunale con le sue eventuali appendici signorili; e da questo alla panacea della dedizione, spontaneissima e in concorde e festosa letizia di tutti, a Venezia. Una storia di Vicenza uscita nel 1591 proclama sin dal sottotitolo che esporrà «come» la città sia stata «retta, dominata, tiranneggiata et afflitta infino alla volontaria ricoveratione nel grembo dell'eccelsa Venetiana Repubblica». Ne L'istoria di Verona (Verona 1596) di Girolamo dalla Corte si assicura che, all'atto di consegna, nel 1405, a Venezia, «furono veduti molti a pianger per allegrezza, perché vedevano che per l'avvenire erano per goder la patria loro salva, pacificata, vota e libera di tante discordie e sedizioni, sicuri che quel giorno apportava principio alla tranquillità e fine a' travagli loro». L'Historia [. . .] di Belluno [. . .] (Venetia 1607) di Giorgio Piloni non è da meno: la cittadina «era volontariamente venuta [. . .] sotto il felicissimo dominio venetiano, [. . .] et se mai città dimostrò animo fedele et desideroso della grandezza de' Venetiani», questa è, appunto, Belluno. Pure l’Historia quadripartita di Bergomo et suo territorio (Bergomo 1617-1618) del cappuccino Celestino Colleoni vanta «la spontanea deditione e volontario passaggio sotto la Republica [. . .] della patria nostra». Due Leitmotive nella foresta della storiografia municipale: il medioevo, specie il periodo comunale, sentito come convulsa età di «baruffe» «danni» «rapine» «uccisioni» «incendii» «abbruggiamenti» «stragi»; l'assunzione sotto le ali protettive del «temperato incomparabil dominio» veneziano latore di «tranquillità felicissima». Possano, allora, i sudditi rimanere «perpetuamente nel seno di questa gloriosissima et immortal Repubblica»; sotto di lei «in dolce pace riposano et lieti vivono». Eppure, proprio quando gli storici locali ringraziano commossi la Serenissima d'aver creato tali felici condizioni, impazza nelle città suddite - specie a Brescia e anche a Vicenza - la violenza facinorosa d'una incarognita nobiltà neofeudale. La denunciano le relazioni dei rettori, la si desume da altre testimonianze: padovano e nobile, il poeta Carlo de' Dottori non esclama forse contro lo spadroneggiare, nella sua città, di nobili armati seguiti da un codazzo di bravi, «gregge iniquo e maledetto» di assassini prezzolati? Quale pace, dunque? Ma il filovenezianismo delle storie municipali non va solo giudicato alla stregua di piaggeria d'intellettuali in vena di ingraziarsi i governanti: in Venezia i governati ripongono le loro aspirazioni alla quiete, ad essa rivolgono richieste di giustizia; è meglio il rettore inviato dalla Serenissima della prepotente aristocrazia locale; egli è l'unico in grado di metterla a freno. Certo, non si tratta d'amore di sudditi; si sceglie, semplicemente, il meno peggio: il dominio di un padrone illustre come la Serenissima è pur sempre preferibile alla soperchieria quotidiana dei nobilotti del luogo. Nel restringersi dell'alternativa tra i secondi e la Repubblica è scontato che l'intellettualità delle città suddite opti per questa: in fin dei conti è meglio la legge - una qualsiasi legge - della prepotenza. Quanto agli elogi esagerati, essi rientrano nella congenita subalternità degli intellettuali, la quale, peraltro, non è a tal punto ossessiva da escludere qualche timido accenno critico. Setacciata con attenzione, la storiografia locale ne contiene più d'uno. C'è poi, alla fine della Storia [. . .] di Vicenza (stesa nel primo Seicento, ma pubblicata, in 14 volumi, ben più tardi, nel 1783-1822) di Silvestro Castellini, addirittura una protesta esplicita nei confronti dell'eccessivo fiscalismo della Dominante, dal cui « rigore [. . .] molte famiglie furono rovinate ed altre costrette ad espatriare». Qui il quadro idillico non regge: esplode il contrasto tra la bardatura dei «dazi» e il «traffico della seda», insofferente di lacci e d'inchieste «per rivedere li conti»; le spinte propulsive dell'economia locale cozzano contro l'occhiuta vigilanza statale, non sono armonizzabili col suo interesse fiscale. E sembra uno spiraglio nostalgico d'una smarrita possibilità d'autonomia il rapido cenno, nell'Historia [. . .] di Rovigo [. . .] (Brescia, senza data; la dedica, comunque, al vescovo d'Adria Giulio Cornano, è del 1° settembre 1582) di Andrea Nicolio, al breve periodo, nel 1514, nel quale la città, sgomberata dagli Imperiali, si resse, anche se stremata, «a republica», fidando sulla «vivacità dei cuori» degli abitanti. Ed è, infine, sintomatica l'assenza d'ogni omaggio alla Repubblica nella trattazione De antiquitate [. . .] Patavii [. . .] (Basileae 1560) di Bernardino Scardeone: la città d'Antenore recalcitra quando sventola e garrisce il vessillo di San Marco.
Alla pullulante varietà delle «istorie» corrisponde la molteplicità pluridirezionale della trattatistica. Allucinata vertiginosa furente catalogazione esce a Venezia, nel 1585, La piazza universale di tutte le professioni del mondo di Tommaso Garzoni: ogni «professore» potrebbe, di per sé, discettare sulla propria «professione». Amplissimo il ventaglio del trattabile, fittissimo il succedersi dei trattati, mentre - dietro le quinte - Aristotele resta il nume cui ispirarsi per serbare un minimo d'unità, per illudersi che la dispersione abbia parvenza d'articolazione. Di ogni genere, dunque, e su tutti i campi il brulicare dei «discorsi» trattatistici: medici, farmaceutici, matematici, geometrici, fisici, utopici, magici, devoti, meteorologici, astronomici, giuridici, idraulici, cavallereschi, cronologici, demonologia, retorici, pedagogici, forensi, culinari, geografici, cosmologici, musicali, filologici, speculativi, meditativi, nautici, merceologici, botanici, pittorici, architettonici, tecnologici. Cosa scrivere e cosa leggere? «Aricordi» sulla regolamentazione delle «fiumare» per «conservar la laguna» e la «profondità» portuale o ammaestramenti sulla «fabrica et uso» di «stromenti» quali l'«astrolabio», il «quadrante», il «planisferio»? Premono dal basso i saperi dei mestieri: anch'essi vogliono sboccare alla luce del sole, anch'essi ambiscono - con maggior o minor fortuna - all'udienza della dotta sistemazione. Ci sono i «secreti» dell'«arte profumatoria», le «ricette» i «colori» le «paste» le «tinture» di pertinenza dei «tentori». Delineabili il «modo» e la «regola» per «fabbricar la bella seda». Veneziana l'edizione postuma, del 1540, d'un classico quale il volume De la piroteclinia [. . .] del senese Biringucci; ed è «gentilhuomo veneziano» quell'Agostino Soderini che pubblica, nel 1716, delle «lettere» nel «Giornale de' letterati d'Italia» a proposito dell'«arte metallica». Settore trainante, nel diversificato panorama delle manifatture veneziane, la fabbricazione del sapone; da un noto passo del De morbis artificum (Patavii 1713) di Bernardino Ramazzini s'apprende parecchio in merito. Gelosamente custoditi i procedimenti della produzione vetraria, un'«arte», così Garzoni, «hoggidì [. . .] tanto in colmo a Murano [. . .] che non è cosa imaginabile al mondo che col vetro et col cristallo non si operi». Tacciono gli artefici, ma per fortuna il prete fiorentino Antonio Neri che li ha visti al lavoro può divulgarne l'abilità ne L'arte vetraria [...] (Firenze 1612; ma seguiranno ben quattro ristampe veneziane, due nel Seicento, due nel Settecento), ove svela i «maravigliosi effetti» e i «segreti bellissimi del vetro nel fuoco». Inconsapevole balbetta una potenziale storia del lavoro e della tecnica.
Pure il commercio ha i suoi sbocchi trattatistici. Tra le difficoltà dei «cambi» e dei «recambi» urge qualche «specchio lucidissimo» che vada «disgarbugliando» ed «illuminando» l'«intelletto» ai «negotianti». Non esiste solo la «praestantia» delle discipline umanistiche; vi sono anche l'utilità d'un capace «maneggio» del proprio «havere», la «necessità» del «saper ottimamente contiggiare». In particolare gli operatori commerciali abbisognano d'ammaestramenti su «ogni ragion mercantile», di tariffari, elenchi di «pesi e misure», istruzioni «in materia di monete», ragguagli sulle fiere, suggerimenti su «tutti i modi et ordini de scrittura» da «menar nelli negotiamenti», spiegazioni sul «valor della partita del Banco Giro», introduzioni alla casistica della partita doppia, avviamenti alla tenuta dei libri contabili. A loro, ad esempio, Simone Grisogono, un nobile zaratino, propone con baldanza il suo «trattato al stil moderno di Venetia» Il mercante arricchito dal perfetto quaderniere, ovvero specchio lucidissimo nel quale si scopre ogni questione che desiderar si possa per imparare perfettamente a tener libro doppio [. . .] (Venetia 1609), cui aggiunge l'appendice di «tre trattati» soprattutto utili all'aspirante «ragionato» della Serenissima. Un'opera «profittevole» a tutti: nobili cittadini mercanti negozianti «fattori» «quadernieri». Di certo occorre ci sia chi si prende la briga d'insegnare - come fa, nel Cinquecento, Giovanni Mariani, un «ragionato alla Camera de l'Imprestiti» - come «si ritrovan le ragioni di qualunque sorte di mercantia che vadi a peso [. . .] overo a numero [. . .] et le ragioni si fanno a moneda venetiana [. . .] imperiale [. . .] bressana». Più complessi naturalmente gli scritti che affrontano problemi di circolazione monetaria e di intervento regolatore dello stato; è il caso, ad esempio, de La secca in consulta di stato, del 1683, di Geminiano Montanari. Qui le acquisizioni teoriche dell'economia politica si candidano a criteri direttivi della politica economica statale.
Mentre quanti si preoccupano d'introdurre gerarchie tra le disciplinae e le artes creano una cornice ideologica di pieno appagamento per il proprietario terriero, rallegrato dal vedere anteposte l'agricoltura ai traffici, la rendita alla ricerca affannata di lucro, si sviluppa, rilevantissima, la trattatistica agronomica in sintonia colla terrierizzazione accentuata dei capitali e col febbrile processo della riduzione di «tanti luoghi incolti a coltura» che investe la terraferma veneta. Ha ragione Alvise Cornaro: «li paluti si possono atterrare et asciugare et le campagne adacquare». Un invito pienamente recepito, soprattutto in termini di prosciugamento e drenaggio più che di coerente e sistematica irrigazione. Imponente per estensione e impegno tecnico e finanziario la bonificazione: un'«impresa», ammette stupito e soddisfatto Cornaro, che «io non pensava di veder in vita mia». Grazie, anche, alla potente leva della bonifica, s'impone sempre più determinante - nel quadro complessivo dell'economia veneta - l'agricoltura. Ciò non senza riflessi editoriali: ai classici, più volte editi, de re rustica e ai loro volgarizzamenti (quali l'Agricoltura [. . .], pubblicata, da Francesco Sansovino col nome di Giovanni Tatti, l'originario cognome paterno, questo, a Venezia nel 1561) s'affiancano via via opere fondate sull'esperienza diretta dense di suggerimenti per incrementare e qualificare la produzione. Escono, infatti, gli scritti di Agostino Gallo, Camillo Tarello, Giovan Battista Barpo, Giacomo Agostinetti, tutti sudditi della Serenissima. Mentre Cristoforo Sabbadino osserva con rammarico il diminuire delle «grandi navigationi che si soleano fare ne' tempi passati», suonano sottilmente persuasivi e accattivanti i versi d'Andrea Calmo: «de' lassa andar chi è savio la nave / e stage in terra per viver in pase». Un vero trionfo, anche ideologico, per la «santa» agricoltura. Il «cavedal» va sempre meno «a torno»; non vuole più le peripezie del «risigo». Preferisce essere investito a «caxa», nell'acquisto di «campi». I testi agronomici insistono all'unisono sul «piacere et utile della villa», ché la campagna offre generosa «grandissima dilettatione et vaghezza». Alle certe «delitie» si sommano, egualmente sicuri, i «frutti». A questi mirano i «notevoli» e «utilissimi» «ammaestramenti» degli scrittori d'agricoltura. Essi dimostrano che la terra «ottimamente» coltivata - con l'«arare» e il «piantare le viti e gli arbori» (complementare condizione quella del «governare bene i bestiami») - concede «grandezza» di «raccolta», «profitto abbondante». Al vantaggio privato s'aggiunge quello pubblico: dalla fertile terraferma confluisce alla città vorace la «vittuaria»; si placa l'angoscia urbana del «mancamento del pane»; cessa l'emorragia di «grandissima somma d'oro» per acquistar, a caro prezzo, «formenti» da «paesi alieni».
Frequentatissimo altresì il versante della trattatistica militare. Spicca, per forza di riflessione, il dialogo Della milizia marittima di Cristoforo da Canal: steso nel 1553-1554, discute della galera, dell'equipaggio, delle doti d'ardire ed astuzia necessarie al comandante. Si possono ricordare, inoltre, tra i testi di maggior ambizione, l'Arte militare terrestre e marittima (Venetia 1599; edizione postuma curata da Cesare Campana) di Mario Savorgnan, e II corso di guerra [. . .] (Venetia 1601) di Pier Maria Contarini, che si pone il problema della possibilità, per un «minor esercito», di fronteggiarne uno «di gran lunga maggiore». Moltissimi, poi, gli scritti su la disciplina, le fortificazioni, i cavalli, la « pratica del soldato», le prerogative dei graduati (si tratti del «sargente maggiore» o del «governatore dell'armi»), le armi bianche e, più ancora, da fuoco. Si riallacciano a queste ultime gli svariati manuali per i « bombardieri » o « bombisti », le istruzioni agli « artiglieri », le esemplificazioni balistiche volte - tramite il ricorso alla «trigonometria» e all«'uso», connesso, «de' logaritmi» - alla corretta impostazione del tiro.
Fioritura, dunque, di scritti direttamente riconducibili ad uno specifico professionale e perciò - per modesto che sia il livello di molti tra questi - pur sempre garantiti da un minimo di concretezza, pur sempre agganciabili alla realtà, tangibile ed eloquente, delle manifatture, della coltivazione, della guerra. Una tendenza, per quanto foltissima di titoli, minoritaria, quasi sopraffatta e sommersa dalla straboccante proliferazione di testi etici filosofici politici e letterari, oscillanti tra il «favellar» di questioni e «questioncelle», sì da «trapassar» il tempo in «piacevoli ragionamenti», e l'impegno, intenso e concentrato, d'un'autentica riflessione. Fa ressa una folla agitata di temi e problemi: l'imitazione, l'invenzione, l'ornatus, la dispositio, l’elegantia, il corpo e l'anima, la beltà fisica e spirituale, la poesia, la musica, il teatro, la sapientia, l’eloquentia, l’elocutio, il nesso tra res e verba, l'amore, le passioni, la felicità, le virtù, la verità, la divinità, la voluptas, la donna, la morte, il bene e il male, il sacro e il profano, la vita attiva e la vita contemplativa, l'amicizia, la sobrietà, la prudente legislazione, la nobiltà come status e come qualità, la magnanimità, il senso della storia e il miglior modo per esporla, il perfetto ambasciatore, l'ottimo uomo di stato, il migliore governo, l'intelletto, i sensi. Mosso, variabile, il fondale di tanto discettare: c'è chi è persuaso, come il cretese Marco Condarato, l'autore del De bono universi (Patavii 1593), che «admirabilis [. . .] mundi est constitutio», che nell'uomo «omnia natura conclusit sui opificii munera», che «supra omnia est Deus, qui omnium supremus existens subdita habet omnia», donde «tota est ratio ordinis illius in quo bonum universi» consiste; ma c'è pure chi impasta magia e scienza, matematica e sortilegio, Pitagora e ermetismo, geometria e filtri. Finissimo studioso di geometria, docente di matematica a Padova, addentro in problemi quali quello degli asintoti dell'iperbole, commentatore di Proclo Euclide Erone, Francesco Barozzi è anche colui che chiede agli spiriti «le cose future et secrete» e che viene processato per stregoneria nel 1587. Tendere ad una rappresentazione-valutazione generale, che inglobi cosmo e significato della presenza umana, non sempre implica l'ormeggio nel fido porto dell'ortodossia; può spingere a stralunati pasticciamenti. Certo, tra gli spigoli aguzzi d'un accidentato percorso, alletta l'approdo d'una soluzione ottimisticamente allineata, ben accetta allo Stato e alla Chiesa. Rimossi i dubbi forieri di pericolose sbandate, si è più attenti all'uso sapiente della «buona arte retorica di tutte le arti reina», come vuole Sperone Speroni, si è paghi d'una teorizzazione risolta in levigata eleganza. Una meta conquistata pagando il pedaggio dell'elusione e dell'infingimento. Alcuni a ciò riluttanti, restii ai dialoghi e ai ragionamenti col lieto fine assicurato, insofferenti di finti dibattiti manipolati in partenza, preferiscono la lateralità del commento amarognolo, la trasversalità dell'annotazione scabra. Intuiscono falsante l'edificio sistematico, sembrano loro friabili i monumenti eretti con la «dignità», la «grandezza», la «nobiltà» al posto della calce. Meglio la saggezza sbriciolata in osservazioni sparpagliate, frammentata in «pensieri» senza pretesa di collegamento, espressa in «avvertimenti» pronunciati con tono dimesso, alleggeriti da ironici tocchi. Non è detto la storia sia edificante, inesauribile pozzo dal quale attingere «ricordi» da assemblare ad istruzione della gioventù «patricia veneta». Può essere una lezione durissima per tutte le fiducie, devastante per tutte le certezze. Tra le rovine della saccenteria aristotelica e i detriti delle supponenze rinascimentali traluce lo zigzagare aforistico d'un'amarezza neostoica, d'un distacco neoepicureo. Se i sistemi troppo orgogliosi crollano, sono questi atteggiamenti i più adatti a resistere alle severe repliche dei fatti. Un saggio disincanto ben percepibile in Sarpi; con probabilità, per qualche verso, estendibile a Micanzio. Grande la sua utilità pratica: aiuta a vivere anche quando sono risucchiati tutti i margini di speranza; può inaridire la vena ottimistica della scrittura, intristire la sua poliedrica versatilità, congelare i suoi entusiasmi; ma evita anche un capitombolo come quello del Soliloquio parutiano. Se c'è da contemplare il disastro, suggerisce una composta decenza: tra le macerie impassibilità stoica e ironia epicurea porgono l'àncora d'un minimo di stile; una disperazione introiettata, senza urla, senza scorrere di lacrime, suscettibile di trasformarsi in lucida rabbia dalla lunga durata e, nel contempo, capace di fissarsi in una disillusa tranquillità interiore fermamente preparata a tutto. Sarpi, appunto, e, anche, Micanzio.
Indubbiamente Paruta è l'uomo che più s'è prodigato perché il concreto esercizio di governo della sua classe si fondasse e si giustificasse in una elaborazione concettuale aspirante ad infondere costantemente orgoglio ed entusiasmo. Storico di Venezia, ne è, anche, stato l'ideologo. Ha individuato nel nobile veneziano politicamente impegnato la forma più alta di realizzazione umana: «operazione virtuosa», infatti, il suo agire organico alla crescita del bene comune, tradotto in «civile felicità», collocabile su di un piano ben più alto dell'«ozio onesto di una vita privata e virtuosa». Perché vivere rinserrati - si chiede nella Perfezzione della vita politica - nella solitudine? L'uomo - e il patrizio veneto in particolare - non è «a sé solo nato», ma per la «famiglia», per la «patria». Non si collochi tra statue «mutole», senza «sentimento»; viva, invece, «insieme» agli altri, nella temperie della «vita civile», produttivamente, apportando «beneficio». Nella dedizione del servizio politico pare sciogliersi il dissidio tra persistenze umanistiche e preoccupazioni controriformiste, si potenziano cultura e moralità, all'uomo è dato d'assurgere al massimo della compiutezza. Instaurandosi all'interno delle coordinate repubblicane, l'individualità esce dal bozzolo della privatezza, s'attua nella dimensione pubblica. Idealità e prassi s'integrano e s'inverano in creativa compenetrazione nel quadro della «mistione» delle varie «maniere» di «reggimento» realizzante il miracolo del «perfetto governo». Paruta ha rovistato accuratamente la storia antica e recente, le ha valutate e confrontate per convincersi che l'«imagine» dello stato ideale è come calata a Venezia da platonici cieli. Una tangibile utopia operante e pulsante nelle lagune racchiude il meglio della storia e del pensiero. Un'utopia, beninteso, che esclude le aspirazioni radicali - le vere utopie, in sostanza - quali l'estinzione dello stato, la vanificazione del comando nell'eguaglianza, totalmente contrapposta al sogno messianico del Vangelo realizzato nella storia. Una moderata utopia ad uso e consumo della classe dirigente veneziana, digeribile per i ceti colti e privilegiati europei, indisgiungibile dalla necessaria obbedienza popolare. Al limite è un modo - sia pure il più indolore, il più elegante - per «tenere i popoli bassi». Il buon governo significa anche questo.
Che, in fatto di governo, Venezia abbia toccata la perfezione, è persuasione che fa da perno al vario considerare dei parutiani Discorsi politici e già presente, a chiare lettere, nel veneziano Gasparo Contarini e nel fiorentino Donato Giannotti, sulla cui scia si situano i successivi proclami filoveneziani di Bartolomeo Cavalcanti, un altro fiorentino. Un tasto battuto e ribattuto in più d'un discorso, da quello del nobile veneziano, nonché narratore, cultore di numismatica, traduttore di Platone, Sebastiano Erizzo a quello di Aldo Manuzio il giovane. Molti i possibili «governi civili»; ma l'«eccellenza» è lagunare. Un «ordine» attuato con «somma sapienza», asserisce Giovanni Maria Memmo in un suo Dialogo nel quale [. . .] si forma [. . .] una perfetta republica (Vinegia 1563). Non è più un problema il «modo» di formare «una perfetta republica»; si può, anzi, «perpetuarla», schivando con «oportuni rimedii» le «discordie civili»: lo dimostra Venezia col suo «governo» poggiante sui tre «fondamenti principali» della «giustitia», dell«'abondanza», della «pace», come sostiene il Compendio universal di republica [. . .] (Venetia 1602) di Pier Maria Contarini. Se l'uomo è «animale civile», è impensabile possa «acquistar la sua propria perfettione in se stesso». Gli occorre il nutrimento ambientale d'«un'ottima republica»; Venezia, per l'appunto, che supera - così nella Breve institutione dell'ottima republica [. . .] (Venetia 1578) di Giasone de Nores, il dotto esule cipriota - quanto, in merito alla «perfetta idea dell'ottima republica», gli «antichi philosophi» abbiano «saputo» e «potuto» volere, siano stati capaci di «desiderare». «Chiara et luminosa», dunque, la «forma» di Venezia, al di là d'ogni vagheggiamento, al di sopra d'ogni fantasia. Utopia realizzata, allora, che vince (ma ciò significa, pure, che esorcizza) la più potente immaginazione utopica. Non già la «verità effettuale» sbattuta in faccia da Machiavelli ai «molti» che «si sono immaginati repubbliche e principati che non si sono mai visti né conosciuti essere in vero», ma una presunzione gigantesca che è, pure, reazione, contortamente sotterranea, all'esagerato immaginare, fuoco di sbarramento ideologico contro le inquietanti latenze insurrezionali di questo. È inutile fantasticare: c'è Venezia. La sua realtà delimita i territori della fantasia, ne segna le colonne d'Ercole. Valicandole, si precipita! «Quam gubernationis ideam philosophica mens non concepit, hanc Veneta Respublica non adumbratam, veruni absolutam expressit», dirà, nel Seicento, Pompeo Caimo, un medico con presunzioni di politologo. Ordinata utopia, allora, la Repubblica contro i disordini delle utopie; maestà della legge contro le tentazioni eversive. Di fatto una « divisione [. . .] uguale et proportionata al stato di ciascaduno», un'eguaglianza risolta nella gradualità avvertita e attenta della distinzione fissata una volta per tutte: ai «nobili» gli «ufficii di comando», ai «cittadini» taluni «ufficii inferiori», al «popolo» alcuni «officietti» e le «industrie delle arti», spiega Antonio Milledonne in un Ragionamento [. . .] (reperibile manoscritto alla Marciana) che suppone avvenuto, il 15 gennaio 1581, tra due nobili, uno romano, l'altro veneziano. Tutta qui l'utopia? E come dire che l'immaginazione coincide coll'esistente - sia pure quello, diverso e migliore, di Venezia -, aderisce a questo, non l'oltrepassa. Una fantasia che vola bassa, che è riproduzione mimetica. Irrimediabilmente moderata, vuole ciò che già c'è; auspica, perciò, che così sia anche in futuro. Raramente l'ideologia d'una classe dirigente ha toccato tali culmini di sofisticazione: l'autoconservazione come utopia, come massimo d'immaginazione per sé e per gli altri.
Anche quando le bordate critiche si fanno pungenti e mordenti, partono da autori del calibro di Bodin, Lipsio, Barclay, la Repubblica non vacilla in questo suo convincimento. Deve tuttavia accontentarsi d'un paladino piuttosto modesto come Giuseppe Bonfadio, autore della De civilis administrationis optima forma. Disputati adversus oppugnantes aristocratiam (Patavii 1611). Un dibattito, comunque, non inutile, perché sgombera il campo d'un fuorviante equivoco, quello dello stato misto. Venezia finisce col presentarsi per quello che è: un'aristocrazia. Si tratta di dimostrare che sono assenti pericoli di degenerazione oligarchica, che sussiste una gestione dello stato scrupolosamente rispettosa della legge e tecnicamente competente da parte d'una nobiltà depositaria delle capacità e attitudini proprie del buon governo. Donde una serie di argomenti da tempo già affrontati: è necessario stabilire «qui mores in cive veneto requirantur»; va precisato con cura l'itinerario formativo del giovane patrizio. Deve conoscere la «filosofia», deve saper parlare e quindi apprendere, prima, come «variari potest argumentatio». Si risponde, insomma, all'interrogativo - a dire il vero più pacifico che drammatico - «quibus in artibus adolescens venetus debeat excellere»; in tutte, naturalmente, purché non voglia poi abbracciarne una esclusivamente. Altrimenti diventa poeta, filosofo o altro e diserta le magistrature. Si indicano così le discipline «urbe libera liberoque iuvene» degne; e l'esclusione, già dichiarata nel secondo Cinquecento, del commercio dalla lista delle artes nobiles è indice d'attecchimento, anche nell'aristocrazia veneziana, dell'ideologia neofeudale. Tracciata la via «ad humanitatem» che fondi l'attività politica, resta da discorrere attorno ai «costumi del nobile di questa città per acquistarsi gloria et honore». Irrespirabile ormai la corte per il «cortegiano» concentrato di virtù vagheggiato, con lo sguardo rivolto all'indietro, da Baldassare Castiglione; ma sussiste, per fortuna, la pienezza umana del nobile veneto. E il «perfetto gentil'huomo venetiano» schizzato nel 1584 da Aldo Manuzio il giovane, ritratto nel 1610 da Giovanni Olcinio, solerte nel suggerirgli «ciò che deve fare et da che guardarsi» per «conseguire», a tempo debito, «honori et gradi». Di spicco, tra questi, la missione diplomatica. E da tempo, nei De legato libri duo (Venetiis 1566), Ottaviano Maggi, un segretario volgarizzatore di Cicerone e traduttore di dialoghi platonici, s'è ingegnato d'abbozzare la figura dell'ambasciatore ideale: una «dignitas» adeguata all'importanza dell'«officium». Estremamente impegnativo essere nobile, a Venezia! La «nobilitas» deve coniugarsi «cum virtute»; solo così è «vera», pronta a «refulgere». Disserta, a tal proposito, ad esempio, sotto la guida di Francesco Piccolomini, Sebastiano Venier, un giovane alla lontana parente dell'omonimo vincitore di Lepanto; e dedica questa sua fatica - che esce a Padova nel 1594 - ad Agostino Valier. Il giurista udinese Servilio Treo, in una Lettera di copioso discorso [. . .] (Trevigi 1610), insiste sui benefici d'una preparazione allargata sì da includere «belle lettere» e «scienze», «esercizi cavallereschi» e circostanziata conoscenza dell'«esempio» degli avi. La «prudentia senatoria» esige un severo tirocinio, ne è il risultato. Mirabile l'eloquenza con cui si esprime. L'oratoria conosce i suoi fasti nel « parlar senatorio». E il culmine del «genere deliberativo», su tutti gli altri «eccellente», a detta di Cornelio Frangipani, perché investe contenuti di capitale importanza: «arme», «danaro», «legge», «consuetudine», «confederatione», «merito». Non c'è da stupirsi se la «rettorica veneziana» viene antologicizzata, proposta ad esempio dell'«arte del ben parlare».
«Eloquentia a veneto aestu numquam refluens», dunque, giusta il titolo d'un'oratio, uscita nel 1661, di Jacopo dall'Amore. Si può concedere: avvertendo, però, come il suo frondoso turgore seicentesco sia un espediente per occultare un crescente vuoto di significato. Impossibile, dopo l'impietosa disamina di Jean Bodin (le cui osservazioni alimentano non solo la pubblicistica ostile a Venezia, ma sono assimilate anche da quella a lei favorevole), la versione mitizzante dello stato misto conservi un minimo di credibilità. Disarcionata questa, traspare - al di là delle ferme difese dell'accezione aristocratica - il fondo duro del regime oligarchico. Una variante dell'oppressione, un modo tra gli altri di sovrastare la popolazione, di mantenerla sottoposta. A ben misera cosa si riduce la vantata contemperanza delle bilanciate forme di governo se - per ammissione della stessa pubblicistica filoveneziana - la Repubblica è definita «mista di aristocrazia e di regno» e, a loro volta, i «regna» sono blanditi quali «rei publicae quoddam genus ». Si consuma l'orgogliosa contrapposizione cinquecentesca tra libertas veneziana e regia potestas; Venezia non è più il «rimprovero» all'ingiustizia di questa. Rientrano le punte dei suoi sentimenti antimonarchici; meno schizzinosa nei confronti dell'insindacabile arbitrio del sovrano - a suo tempo identificato da Paruta colla monarchia assoluta -, ritiene la tirannide estranea al mondo cristiano, la considera una repellente aberrazione orientale del barbaro Impero Ottomano, tutta concentrata tra gli orrori del Serraglio. La lotta antiturca del secolo XVII, colla connessa esigenza d'alleanze e aiuti, induce la Repubblica all'attenuazione della propria peculiarità, allo smussamento degli spigoli ideologici. Cade la diffidenza nei confronti della figura del monarca. Si accetta che il «principe regio e paterno» sia considerato «più che huomo», poiché partecipa «più d'ogni altro de i raggi divini»; Dio «è in essenza imperio» e, perciò, chi delibera, chi «nasce al commando, è della famiglia d'Iddio». Sono espressioni d'un silvestrino con pretese di pensatore politico, Tommaso (Gian Filippo, però, il suo vero nome) Roccabella, i cui scritti sono tutti dedicati a patrizi veneti. A Francesco Grimani appoggia l'opuscolo definitorio degli Acroamata politico moralia (Venetiis 1628), alla «sublimità del nome» di Domenico Molin affida il Prencipe deliberante (Venetia 1628), a Nicolò Lion, «un modello de' grandi», il Prencipe prattico (Venetia 1633), a Giovanni Pesaro, la cui «virtù [. . .] è domestica d'ogni regia de prìncipi», la seconda parte (dedicatario della prima è l'ambasciatore francese a Venezia d'Avaux) del Prencipe morale (Venetia 1645). Vuol ben dire qualcosa che un frate, in fregola di teorizzazione smaccatamente filomonarchica, voglia e possa proporre la sua trilogia con l'avallo della dedica a nobili veneti, cui, inoltre, per meglio omaggiarli, riconosce una statura potenzialmente regale. Non c'è da stupirsi, allora, se la Repubblica, da antagonista ideale della corte, è ridotta ad una sorta, sia pure anomala, di regno: è, sì, un «corpo di molte teste», ma s'esprime unitariamente indivisibile nell'univocità del comando; come tale è «nell'autorità, nel fine e nella maniera del governo ad altri prìncipi assoluti non difforme».
Ma se è così, se il «santissimo nome di libertà» non commuove più, se non suscita più indignazione la condizione altrui di «servi» e fierezza la propria di «liberi», il problema dello stato si circoscrive a quello della sua efficienza, della sua funzionalità. Se la libertà non è più lo stendardo della Serenissima, per quale ragione questa deve ritenersi ed essere ritenuta migliore? Sviante l'antitesi tra libertà e servitù, tra corte ed anticorte; non dovrebbe essere più questo il tema della disputa, l'argomento del contendere. Lo dovrebbe sostituire un interrogativo così formulato: è efficiente, funzionale il regime aristocratico? Sempre che - beninteso - sussista effettivamente un solco incolmabile tra questo e l'oligarchia, tra «prencipato degli ottimati» e «dominio di pochi». La visione diretta delle «corti» e dello «stato degli altri mi fa ogni giorno di più stimar il nostro», aveva detto Leonardo Donà ambasciatore a Madrid. Difficile ripeterlo con altrettanta convinzione nel Seicento; certo non se ne trova traccia nei vari discorsi de' aristocrazia e del perfetto governo. Sono scritti che, una volta decongestionati i toni agiografici, si ammosciano inerti. Poco mordenti, s'attardano in un falso problema: la Repubblica è aristocratica al cento per cento oppure reggono le accuse d'oligarchia? Eludono quello vero: Venezia, comunque sia definibile il suo assetto, è adeguata ai propri compiti? sa svolgerli? Accantonata la libertà come idea forza, ormai palesata e da tutti condivisa la realtà - quella della ristrettissima base su cui poggia, a Venezia, la «sovranità» -, la presunta esemplarità della forma-stato non ha più puntelli credibili, robuste stampelle morali. Perché ostinarsi nell'illusione sia ancora la migliore? Perché non chiedersi se questa proclamata superiorità regga in termini d'efficacia e razionalità? L'accentramento monarchico tendenzialmente investe tutto il territorio, vorrebbe sottoporlo ad un processo linearmente sistematico d'unificazione che riguarda e ingloba tutti i sudditi; un comando ovunque esteso e ovunque attuato senza l'imbarazzo - tipico dei reggimenti aristocratici - per le sperequazioni istituzionalizzate, per le differenze riconosciute e accettate. Compattamento territoriale, giustizia spedita con sanzioni immediatamente esecutive, burocrazia competente con personale tratto da una borghesia vivacemente emergente, esercito equipaggiato, fiscalità uniforme, attività produttive promosse e coordinate. Un disegno costruttivo, insomma, che parte dall'alto e viene sostenuto da ceti d'ascendenza borghese in basso. Un tema che non sfiora l'agiografia panegiristica, tutta intenta a tributare omaggi al «temperatissimo governo» della Serenissima, di cui il patriziato veneziano continua - non senza ottusità - a compiacersi.
Ben altra aria circola nel puntiglio argomentativo dei consulti di Sarpi: la sovranità ridiventa un fatto concreto di tutti i giorni. Sono scritti condotti con rigore e vigore che riecheggiano anche in quelli di Micanzio, di cui resta traccia pure in altri consultori in iure. Una direzione che si lascia decisamente alle spalle i belletti mitizzanti e imbocca - con piglio moderno - la via della difesa dell'autorità del «prencipe» contro le insidie interne e i condizionamenti esterni. Si sente che può avere ancora sapore l'asserzione sarpiana essere Venezia la «sola» nella penisola la quale «sostiene la dignità e li veri effetti di prencipe indipendente». La consulenza richiesta per i singoli spinosi casi si traduce in interventi precisi, pertinenti, sottesi d'accurata ricognizione storica e di cogente dottrina giuridica. Ciò vale, soprattutto, pei consulti di fra Paolo, nei quali v'è, inoltre, un di più di tendenziosità volta a dislocare - impercettibilmente, caso per caso - la classe di governo su posizioni di maggior fermezza e coraggio. Non si tratta di discettare sul tipo migliore di stato più o meno riconducibile agli schemi aristotelici, ma di fornire consigli per decidere, argomenti per deliberare. Ci sono «parti» del pregadi che portano impresso il marchio sarpiano, dietro le quali si avverte la presenza di questo eccezionale consultore. Forse nelle migliaia di consulti - solo quelli di Sarpi superano i mille! - del fondo, presso l'Archivio dei Frari, dei Consultori in iure sta scritto il capitolo più mordente del pensiero politico veneziano. Certo è il meno aduggiato da rifritture ideologiche. In un consulto suonerebbero superflue, fastidiose. Preciso il compito, infatti, del «consultor», non ammette divagazioni e cincischiamenti: egli deve, come spiega Sarpi, impadronirsi «pienamente» di «tutta la continenza del fatto» per predisporre all'azione governativa tutti gli elementi «di ragione». Una consulenza assidua, quasi tallonante la prassi: ora la stimola ora la rallenta. Si sedimenta la meditazione storico-giuridica d'intellettuali sottratti all'astrattezza cavillosa dell'insegnamento di materie legali a Padova o alle beghe anguste del convento e cacciati nel vivo d'una questione reale, coinvolti nelle situazioni in cui lo stato deve o vuole decidere. Una carrellata di aspetti giurisdizionali; incrociarsi di diritto pubblico e privato; tradizioni feudali, consuetudini, privilegi, ius veneto e ius cesareo. Una sfaccettata varietà d'approcci: chi usa gli attrezzi della scientia iuris, chi preferisce l'empiria; chi cita antecedenti, chi suggerisce l'innovazione. Si divaricano o si sommano lo scrupolo filologico e l'intuizione politica; si combinano o si disgiungono rassegne di giurisprudenza e riesumazioni di fatti. Affiora, comunque, il senso dello stato di cui si difendono le prerogative, e taluno, prescindendo dalle chiusure insite nella gestione aristocratica, lo vorrebbe fonte di garanzia ed equità per tutti. Embrionali figure di funzionari pubblici, queste dei consultori in iure; dietro le quinte dell'agire della Repubblica stanno anche i loro pareri; forse tra le loro pagine si nasconde un bozzolo di dottrina dello stato depurata da intenti propagandistici e agganciata alle necessità ed esigenze del quotidiano esplicarsi della sovranità. Per impulsi occasionali - sono i singoli casi, appunto, a richiedere singole consulenze - si costruisce via via, a mosaico, un abbozzo di carta dei diritti e dei doveri della Repubblica, si profila la mappa delle sue astuzie e delle sue sollecitudini, s'appalesano i suoi meriti e i suoi demeriti. Uno stato patrizio visto da esperti, da tecnici del diritto e ricercatori d'archivio che al mondo patrizio non appartengono. I frutti delle loro analisi storico-giuridiche dovrebbero anche dirci sino a che punto riescono ad immedesimarsi, sino a che punto si spinge l'accettazione.
Cultura sommersa, comunque, quella dei consulti, sapienza riposta ad uso e consumo governativi, senza sbocchi tipografici, senza riflessi apprezzabili nella pur incontinente editoria veneziana. Scarsa la comunicazione con la selva delle stampe; una competenza quasi impercettibile sul terreno dell'edito, che non corregge la troppo facile vena d'una trattatistica ciarliera e improvvisata. Quest’ultima commenta Tacito con petulante sicumera, mescola astuzia e unzione nelle sue chiacchiere sulla ragion di stato, allestisce centoni di sentenze, incolla in massimari proverbi e frasi isolate d'autori antichi e moderni. Si stampano vademecum per corsi rapidi e intensivi di sagace e preveggente comportamento, libri imbottiti di «concetti politici», «avvertimenti», «considerationi civili», «oracoli» più o meno «curiosi», massime per lo più «gravi», «detti arguti». Sono tutti «ammaestramenti» insieme «politici» e «christiani». Una tendenza ovunque dilagante in Italia, e che confluisce alle ricettive tipografie della laguna. Non è certo un addebito da muovere alla Serenissima il fatto che i letterati cicalano e ricorrono soprattutto ai suoi torchi; ma si può altresì osservare che non ha nemmeno pubblicizzato il tipo di cultura espresso dai consultori in iure. Forse avrebbe fatto un po' da argine di contro alla marea del chiacchiericcio. Venerato, ma anche imbalsamato, Sarpi. Tenuti sotto chiave i consulti. «Al lettore benigno» la stampa perciò propone scipiti campionari d'apoftegmi, ovvietà messe in bocca a qualche grande: la storia sacra e profana distilla per lui essenze di svaporante saggezza. Questa è come una barca veleggiante in un mare d'«infiniti essempi». A riva l'attende l'approdo della corte più che la libertà della Serenissima.
D'altronde sono venute meno, nel patriziato, quelle contrapposizioni programmatiche nelle quali s'era inserito Sarpi ispirando e orientando la linea più pugnace dell'anticurialismo. Esplode, disordinatamente, il disagio dei nobili poveri, subentra alle ormai smorzate fratture ideologiche, scompagina i gruppi dei «vecchi» e dei «giovani» da queste determinati. L'evidente dato che la nobiltà non è economicamente omogenea, che ci sono frange schiacciate dall'indigenza, una maggioranza angustiata da preoccupazioni economiche, una minoranza privilegiata, sin troppo pingue di beni accumulati e di ricchezze esibite, è fattore destabilizzante. «Questa polizia è retta da tutto il corpo della nobiltà», aveva scritto, il 19 ottobre 1612, Sarpi ad Achatius von Dohna. Il che è vero solo teoricamente, poiché è sempre più lampante la preponderanza politica dei patrizi economicamente più provvisti. Donde la protesta dei meno abbienti, esclusi dall'accesso al Consiglio dei Dieci, a tal punto contrassegnato dal «predominio» di «quelli solamente che sono de maggior fortune» da divenire «odioso a poveri et a mediocri». Una situazione torbida: appetiti ed egoismi si scontrano, raggruppano effimere e mutevoli coalizioni. Filocurialismo ed anticurialismo non sono più tratti distintivi. A capo dei nobili impoveriti un leader pasticcione come Renier Zeno; contro di lui, in imbarazzante compagnia con «papalisti» e ricchi protervi, anche un uomo esemplare per integrità e dedizione come Nicolò Contarini, disturbato dalla demagogia di Zeno, preoccupato anzitutto dal calo d'autorità e di serietà complessive. È lo stato stesso che vacilla per la rancorosa avventatezza che agita il Maggior Consiglio. Affondano, comunque, nello scontro, le residue possibilità di tenere insieme i reduci della lotta dell'Interdetto. Uomini e idealità si sparpagliano mentre tra la mediocre prova data attorno a Gradisca e la grottesca rotta di Valeggio si consumano le superstiti velleità antiasburgiche. Accomuna, nella nobiltà, ricchi e poveri la convinzione dell'intangibilità del reggimento patrizio: affatto interno a questo il protestare dei secondi. Ma proprio per ciò il contrasto ha un che di squallido, di scomposto: il patriziato rischia d'apparire una banda accampata sullo stato che litiga per la spartizione del bottino, divisa tra l'egoismo di chi ha già arraffato e l'avidità di chi, a mani vuote, vuol strappare anch'egli qualcosa di consistente.
Certo il prevalere dei ricchi ha il suo punto di forza nel Consiglio dei Dieci. È questo l'organo di «pochi principali e potenti», un «magistrato di smisurata possanza», con «eccesso d'autorità», dal procedere immerso nella più totale segretezza, dal «giudizio finale» inappellabile. Ma non riesce a trasformarsi nel polo decisionale ed unificante dell'intero organismo statale, la cui autorevolezza sia riconosciuta - al di là della riverenza per la liturgia costituzionale - perché necessaria al funzionamento di quello. Frutto d'uno strisciante allargamento dei suoi interventi, inficiato e indebolito dal sospetto di contrabbandare l'accresciuto peso politico delle grandi famiglie, d'essere troppo sensibile al loro tornaconto, troppo sottoposto alle loro pressioni, il Consiglio dei Dieci non riesce a legittimarsi come perno fondamentale d'una struttura organizzativa, come sede d'un comando al di sopra delle parti, come fattore coesivo e accentratore di una macchina - quella dello stato - che vuole essere più rapida e tempestiva. Il suo privilegiamento è avvertito come prepotenza, come prevaricazione di classe - i ricchi sono, rispetto alla nobiltà nel suo insieme, una classe nella classe! -, non già come risultanza d'un riassetto imposto da esigenze d'efficienza. Una crescita anomala, svoltasi di soppiatto, che la nobiltà stessa, ossificata nel rispetto costituzionale, sente come vicenda tenebrosa; ma così elude il problema d'una più adeguata ridistribuzione delle competenze. Ossessivo, nell'assetto ottimatizio, il fantasma della degenerazione oligarchica, di deviazioni e involuzioni in tal senso. Ma ci si attarda in dispute terminologiche, in questioni definitorie. Ben pochi hanno la lucidità di giudizio e il coraggio d'accorgersi che l'oligarchia è già da un pezzo viva, operante, e non solo e non tanto nello strapotere dei Dieci, ma, anche e soprattutto, nella manipolazione preventiva della volontà del consesso istituzionalmente cardine. L'oligarchia c'è, dunque; ma va anzitutto cercata là dove meno la si suppone, nelle apparentemente libere sedute del senato. D'altro canto sanno i suoi membri quello che vogliono? Sono in grado di decidere? Indubbiamente cruda un'anonima relazione, con tutta probabilità d'un nobile, del 1676 circa, sulla «organizzazione» di Venezia, che sarà pubblicata solo nel 1856 a Vicenza: «opinione» dell'autore la città «penda assai all'oligarchia, ma in modo tanto segreto e latente che la maggior parte dei senatori non se ne avveggono». Sono come tante «statue animate»: possono gesticolare, parlare, ma in testa non hanno niente. A monte, in «Collegio», l'effettivo dibattito: ben pochi quindi discutono veramente, decidono realmente. Nell'ambito ristretto dei «Savi grandi» va individuato il monopolio delle deliberazioni. Queste arrivano, formalmente come proposte, in senato tramite il « Savio di settimana». E da «grand'anni in qua non è succeduto che il senato abbia rigettata una proposizione del Collegio». Nella sua «scarsa avvedutezza» non ha la forza e l'orgoglio dell'autonomia propositiva: «per se stesso non discerne il bene dal male». Preconfezionate le sue «parti»; ed è, comunque, il «Collegio» [. . .] l'ultimo a parlare». Il che dà adito all'affermarsi d'un abnorme potere personale in termini d'influenza e di suggestione. Poco importa se la legge non lo contempla; essa non lo può punire perché, di per sé, non la viola. L'anonimo richiama la memoria dello scomparso Domenico Molin, non a caso in «continuo servizio nel Collegio». Era l'«oracolo del senato»; «misero» il nobile che, investito d'una qualche carica, «non avesse prima scritta una lettera privata a lui» nell'atto dell'«ingresso», e quindi «una pubblica al senato». Una vera fortuna, commenta l'anonimo, che quest'«uomo latentemente ambizioso ed estremamente creduto» non abbia avuto né discendenza né «patrimonio opulento». Altrimenti, dati il suo «sapere» e «credito», avrebbe, con tali «mezzi», potuto «facilmente [. . .] alterare, se non interamente mutare, il governo presente». Un regime allora - quello di Venezia nel pieno Seicento - formalmente aristocratico, ma di fatto imbottigliato in una gestione oligarchica e incrostato di suggestionanti, non imbrigliabili, influenze individuali. Quanto ai nobili poveri, sempre meno temibili i loro sussulti d'insofferenza, sempre più addomesticabili i loro conati di protesta. Più o meno scalpitanti, s'acconciano ad un destino subalterno: «les riches achetant les sufrages des pauvres, qui deviennent par là les valets de leurs égaux», osserva, senza riguardi diplomatici, Amelot de la Houssaie.
E la trattatistica? Proprio quando vocifera la ribellione capeggiata da Zeno, essa insegna che è superfluo a «Vinegia» l'ostracismo; vi è, infatti, «prescritto egual modo di vivere, di vestire, di trattarsi in pubblico, che può il povero comodamente arrivare e non può il ricco trascendere». Lo dice l'udinese Pompeo Caimo, un medico d'una certa notorietà, «primiero lettore di theorica ordinaria» a Padova, autore d'un Parallelo politico delle republiche antiche e moderne, che esce a Padova nel 1627, seguito, nello stesso anno, da una «seconda impressione» arricchita di ulteriori «considerazioni». Uno scritto tutto giocato sull'usuale raffronto coll'antico, tutto imperniato sull'ormai trita valorizzazione dell'esperienza costituzionale veneziana, con una spocchia, però, che segna un passo indietro rispetto alle argomentazioni cinquecentesche. In queste, almeno, la convinzione della superiorità della Repubblica era in certo qual modo diluita in un abbozzo di storia comparata delle istituzioni; la silloge sansoviniana Del governo dei regni et delle repubbliche così antiche come moderne (Venetia 1561) aveva ben rapportate le «leggi» alla «natura degli abitanti» nella consapevolezza, appunto, che «l'architetto» dell'«edificio» costituzionale deve tener conto delle «qualità» e «costumi» degli «abitatori». Plateale, invece, Caimo, sin dal sottotitolo: «coll'esame de' veri fondamenti de' governi civili si antepongono li moderni a gli antichi e la forma della Republica Veneta a qualunque altra forma delle republiche antiche». Ma non è tanto la sua piaggeria che impressiona, quanto il fatto essa sia ben accetta, addirittura sollecitata. L'«impressione», infatti, è «frutto di obedire a' soli cenni de' padroni», i «senatori veneti» che, letto il «discorso», l'hanno voluto «publico». Caimo, cui si deve anche un Dialogo delle tre vite reputate migliori (esce, postumo, a Padova nel 1640: in esso un «amante», un «politico» ed uno «scolare» sostengono, rispettivamente, il «piacere», l'«honorevolezza», il «savere»), incoraggiato propina, di lì a qualche anno, un trattatello De nobilitate (Utini 1634), a dimostrazione che quella di Venezia è la migliore, dal sangue più limpido: «Venetiis vera floret nobilitas, vera viget claritas, verus micat familiarum splendor». Sembra la classe dirigente abbisogni della più banale complimentosità, la gradisca per quanto esagerata ed iperbolica. Sempre più incapace d'esprimersi in prima persona - sono il siciliano Scipione Errico, il genovese Raffaele della Torre, il modenese «Zoroastro Roiter» a replicare al velenoso Squitinio [. . .] -, si lascia volentieri accarezzare dal vento degli elogi, sguazza compiaciuta nella pozzanghera degli encomi. Li desidera l'aristocrazia nel suo assieme, i suoi membri vanno a gara per collezionarne. Domenico Molin si costruisce - a colpi di dediche - una reputazione europea. «Giove terreno», «vivo oracolo», a lui gli autori si inchinano «tamquam [. . .] propitio numi- ni». Se la «fama [. . .] col mezo di tante bocche celebra in ogni luogo la persona» di Molin - così gli scrive, il 15 settembre 1630, Tommaso Stigliani -, non può che essere «fondata in effettivi meriti e reali». Non solo, infatti, è «padre della patria», ma è reputato in Italia e in Europa «unico protettor delle lettere e de' professori di quelle, [. . .] arbitro irrevocabile di tutte le letterarie occorrenze».
Superalimentata rigonfia tronfia di siffatti omaggi, la nobiltà veneziana - pur abbondante di membri inclini e avvezzi alla penna - finisce col disertare il genere trattatistico, coll'abbandonarlo alle interessate incursioni dall'esterno. Non solo non produce più scritti politici, ma nemmeno quelli tra il filosofico e l'edificante con i quali, nel corso del Cinquecento, i giovani patrizi solevano attestare il profitto tratto dagli studi. La filosofia eccita gli «spiriti», aveva detto Paruta, li rende «meglio disposti e pronti alle operazioni civili». Grandi, nel Cinquecento, i vantaggi della cultura: «iuvenis bene institutus toti rei publicae commodum affert». La diligente frequentazione di corsi d'insigni docenti stava lì a dimostrare «philosophiam esse vitae magistram ingenuorumque iuvenum parentem et formatricem». E i nobili allievi s'erano cimentati in «sententiae», «theoremata», «conclusiones» stimolanti «ad amplectendam virtutem», «ad scientiam», «ad parandam gloriam». Quasi tutti infarinati di quelle discipline «quae ad recte loquendi, subtiliter disputandi et bene dicendi rationem pertinent», taluno era riuscito a pubblicare testi, anche se non originali e appesantiti dalle cadenze della compilazione scolastica, d'un certo decoro espositivo, d'una certa chiarezza e sistematicità. Oscillano tra Platone ed Aristotele, oppure tendono a combinarli, sempre, ad ogni modo, subordinandoli «decretis christianae religionis». Si possono ricordare i libri De priscorum sapientia [. . .] (Patavii 1567) d'Alvise Pesaro, Academicarum contemplationum [. . .] (Venetiis 1576 e, di nuovo, 1590) di Stefano Tiepolo, Peripateticarum de anima disputationum [. . .] (Venetiis 1575 e, di nuovo, 1587) di Pietro Duodo, nonché De perfectione rerum (Venetiis 1576 e Lugduni 1587) di Nicolò Contarini. Più o meno soggiogati dagli insegnamenti patavini, più o meno ripetitivi rispetto a questi - Tiepolo e Duodo erano considerati portavoce, se non, addirittura, prestanome, di Francesco Piccolomini! -, restano pur sempre indice d'un apprendistato culturale di rilevante serietà. Un livello che non prosegue nel Seicento. Ci sono patrizi che verseggiano, che imbastiscono racconti, ma mancano quelli che s'impegnano nella fatica d'una sistematica dissertazione. Ma così vien meno l'esigenza d'una cultura che conservi vivo il senso della sua funzione civile. Si preferiscono le «primizie» e le «bizzarie» delle riunioni accademiche, gli «amori infelici», le «novelle amorose», i «dubbi» più o meno tormentosi: cos'è «il bacio alla fiorentina»? Perché a Cipro s'è dipinta Venere con la barba? Il rossore è indizio di virtù? Conta di più la «medicina» o la «legge»? E ricavabile qualche «moralità» dal gioco delle carte? L'amore è «medico» o «soldato»? Un addensamento sconcertante di «deliri», rime più o meno «giocose», «scherzi» più o meno «geniali»; e, nelle pause del cuore e dei sensi, meditabonde ruminazioni devote. Una lacuna questa, in fatto di trattatistica, malamente otturata da letterati più o meno casualmente capitati a Venezia o a Padova e comunque interessati ad ingraziarsi i suoi governanti. Ma è ben grave che un retore torrenziale e inconsistente come il teatino milanese Giuseppe Maria Maraviglia sia chiamato ad insegnare filosofia morale a Padova, e, «senatus beneficentia», sia ascritto alla cittadinanza veneziana. Assemblatore di Leges honestae vitae, di altre prudentiae spiritualis moralis et civilis, non si trattiene dal formulare anche le Leges prudentiae senatoriae (Venetiis 1657). S'allarga il campo della sua trattazione; sempre più enfiata la sua incompetenza, sempre più generico il suo vaniloquio. Di lì a poco esce un suo voluminosissimo Proteus ethicopoliticus (Venetiis 1660), grondante «leges [. . .] ad omnium fere artium, disciplinarum ac scientiarum notitiam institutae»; la Repubblica vi figura a mo' di «multiformis virtutis regnum», vale a dire «religionis», «sapientiae», «prudentiae», «iustitiae», «fortitudinis», «temperantiae», «munificentiae», «magnificentiae», «maiestatis», «humanitatis», «magnanimitatis», «benevolentiae», « clementiae », «solertiae», «disciplinae politicae», «gloriae militaris», «beatitatis». Ogni possibilità di decenza intellettuale si spappola in tale lutulento scorrere laudativo che tutto attribuisce perché non sa esprimere nulla di preciso. Se nel secolo XVI l'esaltazione di Venezia s'aggancia ad un'elaborazione concettuale, ora la sua specificità repubblicana è svuotata dall'irresponsabile cianciare di «civile filosofia» d'una pubblicistica incompetente.
Cos'è, ormai, Venezia? E cos'è lo stesso patrizio veneziano? A forza d'essere inzuppati nella brodaglia d'una panegiristica senza nerbo finiscono collo sbiadire, col dissolversi nell'indistinto. Precettore privato e quindi pubblico insegnante di retorica a Venezia, il siciliano Antonino Colluraffi non s'accontenta di dire «quidquid ad perfectum spectat oratorem» nel manuale Perspicua totius dicendi artis [. . .] explicatio [. . .] (Venetiis 1619), ma propone la figura del patrizio di Venezia per ben due volte, dapprima ne II nobile veneto (Venetia 1623), poi, con pretesa d'ulteriore approfondimento, ne L'idea del gentilhuomo di Republica nel governo politico, ethico ed economico overo il nobile veneto (Venetia 1633). Ne esce fuori uno stinto personaggio, tranquillamente assimilabile alla nobiltà del resto della penisola. Desolantemente generica la somma di qualità richieste. La preoccupazione poi che la «nudrice» non offuschi la «nobiltà e l'innocenza» del neonato è indicativa dell'imbarbarimento del concetto di nobiltà che pur tanto s'è affinato nel corso del Cinquecento. Né va taciuto che Colluraffi, già smaccato celebratore della «maestà sempre augusta» dell'imperatore Ferdinando III, sarà nominato «cronografo regio» da Filippo IV di Spagna e preferirà tornare a Palermo, dove esalterà lo «scettro» della «prudenza regia», la gloria della «maestà del re». Dettagli non trascurabili, se si pensa che, nel Cinquecento, Venezia ha avuto i suoi intellettuali, nessuno dei quali s'è poi dedicato al panegirismo filomonarchico. Se il patriziato si riconosce nell'Idea di Colluraffi e se ne compiace, vuol dire che le sue esigenze sono facilmente accontentabili ; se i suoi ideologi sono - concettualmente e biograficamente - così camaleontici, vuol dire che il suo stesso repubblicanesimo non ha più la saldezza d'un tempo, non è più nutrito d'intimi convincimenti. Effimero, perciò, poco significante perché poco vincolante asserire, per l'ennesima volta, come fa Baldassare Bonifacio in Dell'aristocratici. Discorso (Venetia 1620), che essa - l'aristocrazia - è «ottima sopra tutte l'altre forme di governo civile». È il «governo nobile di molti», si dilunga il benedettino piacentino Vincenzo Sgualdi, un ammiratore roboante della Serenissima, ben antitetico al «dominio infelice di pochi». Ciò proprio quando preoccupanti si manifestano sintomi oligarchici. Pare il panegirista debba, per essere tale, dire il falso: si sta protestando contro il lusso e la prepotenza delle grandi famiglie e Sgualdi assicura che a Venezia la «libertà» è solo «prigioniera de gli ordini e del costume», che «un eccesso di ricchezze [...] non dà nell'eccesso del fasto, né della boria». Il senato s'accoda supinamente alle direttive di pochi e Sgualdi lo definisce «un publico di Catoni senza un Cesare». Un entusiasmo intellettualmente sprovveduto; concettini friabili scivolano sul fondo sdruccioloso e molliccio d'un misero argomentare. «Augusta adunanza di tanti prencipi, nobilissimo senato di tanti re»; è giusto «adorar il governo politico di quella patria della quale ambiscono d'esser cittadini i medesimi coronati»; da più d'un millennio «se ne sta in piedi ancora salda e vigorosa, giovane nella vecchiaia e vecchia nel consiglio e nelle determinazioni». Turgide efflorescenze verbali emanano un odore dolciastro: l'aristocrazia lo respira; chiude gli occhi di fronte alla decomposizione.
Resiste il dominio patrizio, ma senza un corrispettivo apprezzabile sul versante dell'ideologia. Dispersa la «cabala» di fra Paolo, scomparsa politicamente prima ancora che fisicamente la generazione dell'Interdetto, Venezia iscrive la propria neutralità in un quadro da altri composto, si adatta allo spazio riserbatole, senza obiettare, senza accampare pretese. La guerra di Candia accentua il suo allineamento: vigorosa e, talvolta, eroica ad oriente, è altrettanto remissiva in occidente. L'impari confronto con la Porta la sospinge ad un'affannata ricerca d'aiuti e d'appoggi dalla Spagna, dall'Impero, dalla Francia. Ottiene la comprensione romana, ma questa comporta il pesante pedaggio della riammissione dei gesuiti. Ciò facilita l'imposizione di contributi finanziari al clero, ma il rientro dell'ingombrante intrigante Compagnia di Gesù scalfisce la sua immagine, debilita ulteriormente la sua residua carica ideologica, la priva d'ogni parvenza alternativa. E i pubblicisti, al solito, fungono da sensibile termometro. Giacomo Fiorelli, un agostiniano nato a Venezia e suddito della Repubblica, appronta, ad esempio, una silloge di Detti e fatti memorabili del senato e veneti patritii (Venetia 1672), deponendo ai piedi del doge «attioni» ed espressioni di «tanti nobilissimi Alcidi» che, nel passato e nel presente, «hanno reso invidiabile appresso le nationi tutte il veneto nome». Ciò non toglie che lo stesso, di lì a qualche anno, dedichi La monarchia d'Oriente (Venetia 1679), ove compendia le vicende dell'Impero bizantino, all'imperatore Leopoldo I; mentre l'opera «si prostra al solio [. . .] dell'augusta maestà», egli, l'autore, se ne proclama «divotissimo servo». La pianta della letteratura cortigiana attecchisce, ormai, anche nel clima lagunare.
Avvertibili altresì in questo calo di tono complessivo, in questo liquefarsi dell'orgoglio collettivo, prepotenti bisogni d'affermazione individuale, impulsi a conseguire un personale rilievo in certo qual modo sganciato dalle vicende pubbliche. E, nella partecipazione a queste, il proprio successo sembra contare più della sorte della Repubblica. Ha un bel lodare Luigi Manzini, ne II leon coronato (Venetia 1633), la «polizia» della Serenissima che non contempla emergenze singole, che «sbatte ogni cima di sollevato papavere». Il caso - già richiamato - di Domenico Molin, posto su di un piedistallo da una pioggia di dediche e riconoscimenti, basta a smentirlo. Al posto della mancata possibilità d'un grande ruolo politico per Venezia c'è il surrogato d'una statura personale artificiosamente ingigantita, d'un'autorevolezza dilatata a dismisura. «Inter venetos proceres [...] enites», si dice a Molin. E il prestigio culturale accortamente conseguito ed abilmente usato diventa rilevante influenza politica. La propria fama come scopo della vita, la gloria non nella Repubblica e coti la Repubblica, ma malgrado la Repubblica. Un diversivo nel quale le penne dei letterati assumono una funzione determinante. Essi costruiscono il personaggio famoso, lo rendono glorioso, incanalano verso di lui i flussi esaltanti dell'ammirazione. «Di divotione e di riverenza colmi» offrono all'«immortalità del nome» dell'omaggiando «tutti gli spiriti» del loro ingegno, tutte le acrobazie del loro stile. L'amicizia tra due modeste personalità quali Marco Trevisan e Nicolò Barbarigo già è vista da Sarpi come «fabrica di virtù civile». Non basta: ma, col tempo, fa «schicherar tanta carta» - l'ammette Micanzio in una lettera, del 15 settembre 1635, a Galilei - che assurge ad un'altezza sublime e grottesca ad un tempo: «mostruosa» nella sua «perfettione», si trasforma in «eroica». Morto Barbarigo, è l'«amico eroe» superstite a sbracciarsi per rinfrescare la memoria del loro vincolo; annaffiandola instancabile, salvaguardandola ringhioso, ad essa affida la propria identità. La dimensione privata al posto di quella pubblica e, insieme, la pretesa d'un grande rilievo in questa. Enfatizzazione del singolo, ipertrofia dell'individuo che s'esasperano nel corso della guerra di Candia, quando il senato barcolla e sbanda di fronte alle clamorose rivalità tra i comandanti; frastornato non riesce ad imbrigliarle. Un'incontenibile litigiosità vanifica qualsiasi tentativo d'impostazione generale che coordini tutti gli sforzi. Gli aspiranti eroi non si tollerano a vicenda: ognuno vuole per sé il trionfo della vittoria, ognuno scarica sull'altro la responsabilità dello scacco. Una ridda d'imputazioni e controimputazioni, di destituzioni e di processi, di condanne e riabilitazioni. Circolano accuse di mancato soccorso, inettitudine, viltà, tradimento. Si creano clans contrapposti: ci sono i fautori di Francesco Morosini, ci sono i suoi oppositori. Un rumoroso tracotante personalismo. Non c'è spazio, in tanta furia d'innalzare e denigrare, per un ripensamento, da parte dell'aristocrazia, degli ingredienti del vivere collettivo. Rimpolpata numericamente dall'ammissione di nuove famiglie, così premiate dei cospicui esborsi a sostegno delle necessità belliche, essa non riesce, tuttavia, a riqualificarsi, a rinnovarsi in meglio. Impietoso il ritratto, fattole, attorno alla metà del Seicento, da un anonimo forse proveniente dal suo stesso seno: ne esce una deprimente galleria di meschini personaggi. C'è l'«ottuso», il «cammaleonte», l'«inabile», il «bestiale», il «bamboccione». Parecchi sono «senza cognizioni proprie», più d'uno è «di corti talenti». Pochi si salvano per doti spiccate d'ingegno, per forte tempra, per consistenza morale. Certamente, da questa e numerose altre testimonianze contemporanee, la nobiltà non pare più una grande classe di governo.
Ma più che la mediocrità impressiona lo scollamento provocato da uno scomposto scatenarsi di spinte centrifughe; più che all'assolvimento di compiti e doveri comuni i patrizi mirano ad una eccezionalità che li isoli. L'orgoglio collettivo è come travolto dal galoppo di individuali superbie. Ognuno vuole esistere per proprio conto al di sopra degli altri, conseguire una fama ad essi inaccessibile, che oltrepassi la barriera angosciante della morte. La meticolosa predisposizione in vita d'un grandioso monumento funebre è la soluzione a portata di mano. Ad esso il patrizio consegna la fissazione dei propri «meriti» e «rimeriti». Spasmodica soprattutto l'autoglorificazione emanante dal marmoreo prospetto di Santa Maria del Giglio, che Antonio Barbaro - un nobile che s'è battuto con coraggio contro i Turchi, che ha astiosamente contrastato Francesco Morosini - fa erigere, sulla base d'un disegno che reca la sua firma d'approvazione, a propria esaltazione, senza tema di spesa. Nulla è omesso: il grande stemma di famiglia attorniato dalle virtù cardinali; i bassorilievi rammentanti la sua vita con le battaglie e le piante delle sei città - Zara, Candia, Padova, Roma, Corfù, Spalato - che sono state teatro del suo protagonismo o di guerriero o di rettore o di diplomatico; le profonde nicchie con le statue dei quattro fratelli. Episodio principale di tutta la facciata, nel mezzo, sopra il maestoso portale d'ingresso, più grande di tutte le altre, campeggia la sua statua, con a lato quelle dell'onore e della virtù, a loro volta affiancate da quelle della fama e della sapienza. Egli stesso ha disposto perentorio debba figurare «al naturale», in veste generalizia, tutta armata, col «beretton» sul capo ed il «bastone», simbolo di comando, in mano. Eroe sempre, in pace ed in guerra. Che importa se, nel frattempo, la Repubblica ha perso Candia? Strana facciata di chiesa, questa di Santa Maria del Giglio: vi giganteggia solitaria e declamatoria la grandezza d'Antonio Barbaro; non c'è Dio, non c'è nemmeno la patria. Un arco di trionfo per l'eroe, più che un edificio sacro; un eroismo allucinato nella sua solitudine, irriconducibile alle coordinate delle benemerenze pubbliche. Una vaneggiarne testimonianza di se stesso, non un servizio alla Repubblica, e, insieme, un disperato bisogno di sopravvivenza in un mondo dominato dalla morte. Una delirante contrapposizione della statua alla decomposizione del corpo, alla sua ammorbante putredine. Sfrenata, in effetti, impazza, nella rutilante Venezia barocca, l'autoesaltazione: si sfoga, con forsennato dispendio, nel fasto profuso di marmi sontuosi, mentre scrosciano gli applausi corrivi di letterati a corto d'argomenti, di frati in vena di scrittura.
Se i fatti prossimi e remoti, lontani e contemporanei, nella loro consistenza oggettiva, costituiscono ancora il terreno che la storiografia vanga e rivanga, la tentazione febbrile della fuoruscita individuale agisce distruttiva: il patriziato non è più soggetto e promotore d'una meditazione che conservi un minimo di potenzialità fondante e legante. Non per niente s'afferma Giovan Francesco Loredan, il nobile che adopera la penna con maggior disinvoltura e che meglio compendia le propensioni e i gusti dilaganti, una volta ammainati gli ideali della lotta dell'Interdetto, una volta scordato l'ammonente magistero sarpiano. «Cicero venetus», «sole» in un firmamento d'innumeri «stelle», «gran lume della laguna», «la miglior penna d'Italia» in «un secolo colmo di scrittori», «idolo della virtù», «principe de' letterati», «autorevole per fecondar gl'ingegni coll'aura semplice della sua voce»; e, a detta di Amelot de la Houssaie, il suo «esprit» e la sua «éloquence» parevano a tal punto «dominer dans les Conseils», che si preferì allontanarlo da Venezia relegandolo in un modesto provveditorato di terraferma. Tacito moderno per taluni, Seneca per altri, è il «nuovo Mecenate», animatore dell'Accademia degli Incogniti, mentore riconosciuto al centro d'un gremitissimo crocevia d'autori e di stampe. Un effervescente spumeggiare di spiritose invenzioni agli antipodi della cultura militante di Sarpi e della sua «cabala», un effimero crepitare di artificiose trovate; Sarpi ha una sua «verità» da «manifestare al mondo» per rompere la crosta imprigionante dell'«ignorantia rerum», Loredan è pago d'intrattenere, di «ingannare il tempo». Un orizzonte ridotto, non senza che ne sia consapevole. Ne L'anima di Ferrante Pallavicino - un'operetta ascrivibile allo stesso Loredan, stampata e ristampata semiclandestinamente, con anno e luogo di stampa falsati (quella di «Villafranca», datata 1643, prima, cioè, della decapitazione del libellista, è addirittura presentata come «ultima impressione») - lo spirito dello sventurato poligrafo chiede al suo interlocutore, pure questo identificabile con Loredan, notizie sull'Accademia degli Incogniti. «Ha stampato», dopo che egli è stato giustiziato, «cosa alcuna di nuovo»? Risponde l'interrogato: «eccettuata la seconda parte delle Novelle amorose io non so altro». Al che Pallavicino obietta che, non mancando il sodalizio di «buoni ingiegni, farebbe meglio di applicarsi a qualche composizione soda e di frutto e lasciare a parte queste bagatelle». Pronta la replica: «per conformarsi all'uso del secolo e incontrare il di lui genio bisogna scrivere così. Le dotte composizioni sono cibo delle tignuole, non de' gusti moderni». Non esistono parole che contano, libri che influiscano. La politica è il crudele e, insieme, fascinoso e ammagante gioco dei «grandi»; lo si può contemplare, non criticare. Modello di comportamento, Giambattista Marino - di cui Loredan è agiografo e banditore - tocca il culmine delle aspirazioni dell'uomo di penna: ha goduto della benevolenza di re e prìncipi, poiché la sua «virtù» è stata tale da «felicitare la grandezza e la nobiltà dei più grandi»; gli arride fama imperitura sì che «vivrà ad onta del tempo». Poco importa Loredan riserbi qualche puntura di spillo alla Sede Apostolica, indulga, talvolta, a grevi celie a danno degli ecclesiastici, mescoli licenziosità e accenni libertini. Per quanto tra i suoi amici ci siano fautori dell'omosessualità, assertori della morte dell'anima con il corpo, sprezzatori della confessione e della comunione quali «minchionane», per quanto a qualcuno a lui vicino si debba il famigerato Alcibiade fanciullo a scuola, uscito clandestinamente a Venezia nel 1652, non s'avverte alcun soffio di reale inquietudine, non si profila alcuna urgenza autenticamente sovversiva. Dietro Loredan non si vedono i sotterranei d'un libertinismo latomico ed estremo, ma si sentono i sussurri e gli sghignazzi più o meno sboccati di letterati sempre pronti a rientrare nei ranghi. In fin dei conti Antonio Rocco, uno degli Incogniti, non è solo lo spudorato esaltatore dei «diletti» sodomitici; è anche il «filosofo peripatetico» che dedica ad Urbano VIII delle Esercitationi filosofiche (Venetia 1633) con le quali confuta, «con l'arme di Aristotile», Galilei, reo d'aver tentato d'«estinguer la dottrina» di quello. Si è ben al di qua, con gli Incogniti, del precetto, di Cesare Cremonini, «intus ut lubet, foris ut mos est». I loro scritti spesso sono più conformisti e retrivi del mos. Rocco attacca Galilei proprio quando è condannato e costretto alla abiura. Loredan sa strizzare l'occhio malizioso, concedersi ammiccamenti lascivi, rasentare allusioni blasfeme, ma sa pure arretrare sino alle operette devozionali. E sono queste, inoltre, i suoi scritti migliori. Escono a Venezia nel 1652, lo stesso anno dell'Alcibiade, «suscitati dai sette salmi della penitenza» di Davide, i suoi Sensi di devotione, subito seguiti da i Gradi dell'anima parafrasanti i «salmi graduali» dello stesso. Stanca d'errabondi giochi nel «theatro del mondo», la penna si volge a «piangere i suoi errori» e a «supplicare l'amor di Dio». Non è proprio il caso di cercare in questo «libertino» all'acqua di rose - Loredan è l'uomo che vota per il rientro dei gesuiti, che dispone di indossare, in morte, il saio cappuccino - le «parole» mobilitanti care a Sarpi. Quando s'azzarda a teorizzare - e la biografia, da lui composta, di Marino, il poeta esemplare, è, a suo modo, uno scritto teorico -, rinserra la letteratura nel soffocante cunicolo dell'ossequio cortigiano, riduce la storia delle vicende contemporanee ad adulazione. Altrimenti è «imprudenza Io scrivere e comentare le azioni de' principi viventi», come sentenzia l'interlocutore del misero Ferrante Pallavicino, malamente finito perché imprudente.
Turbinano, nelle Accademie e nelle tipografie veneziane, «argutezze» e «concettini», risuonano instancabili «tributi canori», impazzano metafore e paradossi, corrono e si scontrano «acutezze» «spiriti» «vivezze», si scatenano bizzarrie, s'esibiscono a mo' di acrobatici funamboli i «paralogismi». Le «parole» indubbiamente non mancano; anzi, se ne dicono e se ne scrivono troppe. Ma non si trovano, però, quelle adatte a ribattere l’Histoire [. . .] d'Amelot de la Houssaie; bisogna attendere quasi un secolo perché Casanova, interessato ad ingraziarsi gli inquisitori di Stato, si accinga alla Confutazione. Eppure l'opera - stampata nel 1676 e nel 1677 «chez Frederic Léonard, imprimeur ordinaire du roy et du clergé de France» - meritava un immediato tempestivo sforzo di serrata puntuale controinformazione. Venezia ne era uscita malconcia. Già la dedica al marchese di Louvois, per quanto attenuata dal riconoscimento d'una persistente aura di grandezza, d'una superstite «majesté», è brutalmente esplicita: la Repubblica è «aujourd d'hui dans son déclin». Il testo, poi, non ne esclude il tracollo, ne prevede la ricacciata nei ridotti spazi delle origini: «cette fameuse République court grand risque de se voir réduite à son ancien patrimonie, c'est à dire au seul empire de ses lagunes et de ses marais ». Deturpato dalla macchia del «broglio» il candido marmo del monumento costituzionale: «le broglio est un foire publique, établie par la corruption des moeurs, où toutes les magistrates se marchadent». Da screditare il fittizio prestigio della classe dirigente: i nobili veneti sono «grands trompeurs», vendicativi e addirittura «cruels dans leurs vangeances», «sobres par avarice», incuranti delle loro «femmes» e nel contempo «jaloux», tronfi di «fausses bravoures», «iuges» incompetenti che «ne savent point de droit». Magra consolazione, per Venezia, la punizione della temporanea reclusione inflitta all'autore per la sua malevolenza. Ma l'opera continuerà a circolare e verrà più volte ristampata in edizioni garantite dall'«approbation» e dal «privilège du roi». Non basta: accompagneranno spesso l’Histoire [. . .] una traduzione dello Squitinio [. . .] e un'arringa antiveneziana dell'ambasciatore Hélian. Francesi e Imperiali, contrapposti, durante la prima guerra di successione, anche in terra veneta, sono, in fatto d'antivenezianismo, concordi. Si fondono i due testi più drastici nella demolizione del mito di Venezia, uno di matrice asburgica, l'altro di provenienza gallica. L'irrisione dei confini della Serenissima ha il suo pubblicistico pendant, il suo sigillo ideologico.
Impressiona, quando esce l’Histoire [. . .], l'afasia del patriziato: nessuna impennata concettuale, nessuna replica a caldo. Aggrappandosi al mito, senza capire che è rancido, sa solo riproporne i classici cinquecenteschi. Incapace di riformulazioni originali, ricorre a testi collaudati ma ormai sfuocati: escono, nel 1678, a Venezia, presso due stampatori diversi, Pezzana e Storti, ben due edizioni che assemblano Gasparo Contarini, Donato Giannotti, le annotazioni ad entrambi di Nicolò Crasso, Sebastiano Erizzo, Bartolomeo Cavalcanti e si chiudono con un Discorso intorno alla eccellenza delle republiche. La ripetizione al posto dell'ideazione, la chiusura al posto del franco ed aperto dibattito, la polvere dei vecchi scritti al posto dell'argomentazione innovante. «Ils», i nobili veneziani - aveva acutamente osservato Amelot de la Houssaie -, «croient que le gouvernement de Venise doit servir de règie et de modèle à tous les autres et qu'il n'y a qu'eux de gens libres dans le monde, bien que véritablement ils soient sans maitre plu- tòt qu'en liberté». Una cocciuta angustia mentale esemplificabile coll'episodio d'un senatore che, sorpreso il figlio intento nella lettura d'una storia di Francia, gli strappava il libro di mano gridandogli: «Balordo, leggi le cose della tua Republica, e non altro!». Decisamente, come forma-stato, Venezia non ha più niente da dire: è mera sopravvivenza. Come mito non funziona più: lo si può, da parte degli altri, buttar via tranquillamente. Nessuno crede più essa possieda la pietra filosofale del «perfetto governo».
Ma il discorso non può chiudersi a questo punto, accontentarsi d'una conclusione così sbrigativamente e seccamente arcigna. Venezia è pur sempre la ville lumière dell'Europa moderna, la capitale del divertimento, la città ove s'assaporano «douceur et liberté de vie». Che importa se la sua costituzione è tarlata e scricchiola? È ancora vero quanto diceva Pietro Aretino: «maravigliosa maraviglia» è «la papessa d'ogni altra cittade». Conserva sempre e accresce le sue «cose notabili et meravigliose». Vale sempre, per tutti, l'invito - di per sé rivolto ad una cortigiana romana ancor restia a «vegnir a pascolar in le nostre lagune» - d'Andrea Calmo: «mi ve conseio, ve laudo e v'esorto a vegnir a Veniesia». La sua malia sussiste anche se non più agganciabile al prestigio, ormai logoratissimo, dell'organismo statale. Defilata dalla scena internazionale, la città continua a primeggiare su quella dello spettacolo. «Elena delle cittadi d'Europa [. . .], anfiteatro di prodigi, [. . .] gloria della natura e superbia dell'arte», è imbattibile in fatto di banchetti feste musiche carnevali processioni regate mascherate balli giochi teatri. Dove si può altrettanto «ben alloggiare», «mangiar bene», «vestire con proprietà» e distinzione oppure con estro e stravaganza? Su questo terreno il mito resiste: incanalato nel vissuto quotidiano, si rivitalizza e s'invigorisce ancora attivo e legante. Annidata «in mezzo a l'onde» Venezia è, per quanti dispongono di denaro, «amabilissima stanza», eccezionale «albergo»; è certezza, altresì, d'eccitante avventura per gli avventurieri squattrinati. Non sarà l'utopia realizzata, ma è pur sempre scintilla capace d'accendere l'immaginario collettivo e le individuali immaginazioni. Suona perciò appropriato il titolo della rapida introduzione alla città compilata dall'abate napoletano Diego Zunica - già autore d'un manualetto di consigli per uscire da svariati disagi, Il far per tutti cioè le avversità d'ogni stato di persone consolate (stampato a Bologna nel 1691; e già nel 1696 esce, a Parma, la terza edizione) -, La calamita d'Europa. Attrattiva de' forestieri [. . .] (Bologna 1694; ripubblicata come anonima a Venezia nel 1696). Al di là dello scontato e poco convincente omaggio alle virtù del «senato veneto», non mancano nell'operetta dell'abate spunti felici per individuare gli ingredienti più veri della vitalità d'un mito costruito non già dall'elaborazione politologica cinquecentesca, ma dalle guide, da quella, classica, di Sansovino alle altre più modeste e stringate. I «viaggi [. . .] muti» delle gondole sulle acque di misteriosi canali silenti; la «perpetua fiera» vociferante d'una fantasmagorica profusione di merci; la stupefacente «grande [. . .] abbondanza e [. . .] varietà de cibi». Sembra «superi ogni fede», commenta Zunica, «che una città situata dentro il mare svergogni nella copia delle vettovaglie le più opulenti cittadi d'Europa, che, essendo ella nel dominio di Nettuno, vi alberghi nondimeno Flora e Pomona». Accorre una «moltitudine quasi infinita di forastieri»; essi giungono «da qualunque parte del mondo», come costata Il gran maestro de' forastieri [. . .] (Venetia 1711 e, di nuovo, 1716) di «Raginio Benenato». Su questo piano Venezia non è soltanto una delle più vivaci città europee; è un punto di riferimento per tutta l'Europa, addirittura la città di cui l'Europa, catturata dalla sua poliedrica metamorfica disponibilità, abbisogna. Città frivola? Può darsi. Ma una frivolezza con latenze drammatiche, satura di struggimento, con punte di violenta emotività, con vuoti di disperazione, con ripiegamenti malinconici, con galoppi fantastici. La frivolezza, si sa, danza sulla superficie delle cose, non le penetra. Ma, se la superficie è Venezia con la sua laguna, il disegno arabescato tracciato dai danzatori può ambire, pur nel provvisorio, alla compiutezza, può aspirare, pur nell'effimero, alla perfezione. Non è detto che approfondire significhi saggiare una stratificazione geologica di certezze; può condurre sino al ciglio d'un vuoto totale, d'un nulla senza remissione; può far precipitare per sempre nell'abisso. Meglio, allora, prosegua, dimentica, la danza elegante e sofisticata. Anche questo è un capitolo della storia di Venezia. Arduo scriverlo - evitando il risucchio della banalità aneddotica, schivando le tentazioni del vernacolo - sino ad arrivare alla dimensione del divertimento quale fosforico contenitore d'illusioni, quale inquietante scatenatore d'esperienze estreme. Una realtà magari fugacissima, ma inestinguibile nella nostalgia. Come afferrare un'atmosfera? Forse bisogna oltrepassare la barriera dei contributi eruditi, forse occorre trascurare studi e studiosi sino a privilegiare - al limite dell'azzardo -, che so?, Andreas oder die Vereinigten di Hofmannstahl, sino a prendere per vera la stralunata Venezia settecentesca di questo testo novecentesco, sino a distillare l'alchimia d'una città dove la «gente è quasi sempre in maschera». D'accordo: la maschera è superficie. Ma soccorre l'estrapolazione d'una balenante formula dello stesso Hofmannstahl:« bisogna nascondere la profondità. Dove? Nella superficie».
Nota bibliografica. Limitando il rinvio ai lavori che più si sono tenuti presenti in queste pagine introduttive, si indicano, in ordine d'importanza: G. Cozzi, Cultura politica e religione nella «pubblica storiografia» veneziana del '500, in «Bollettino dell'Istituto di storia della società e dello stato veneziano», 5-6 (1963-1964), pp. 215-94; W. J. Bouwsma, Venezia e la difesa della libertà repubblicana. I valori del Rinascimento nell'età della Controriforma, Bologna 1977; G. Benzoni, Gli affanni della cultura. Intellettuali e potere nell'Italia della Controriforma e barocca, Milano 1978.