Storicismo e storicismo
Va subito detto che il termine storicismo si trova poche volte negli scritti di Giovanni Gentile e fino a tardi adoperato per lo più con significato negativo. Tuttavia, pur se venata di affettività, non è troppo lontana dal vero l’affermazione di Adolfo Omodeo, che ricorda di aver «vissuto l’insegnamento di Gentile, grande maestro di storicismo» e di avere appreso da lui «il senso dell’unità e dell’universalità della storia» (cfr. Cesa 2002, p. 90), se per storicismo s’intende una visione del mondo che nasce dalla consapevolezza della «storicizzazione di principio del nostro sapere e del nostro pensare» (E. Troeltsch, Der Historismus und seine Probleme, 1922; trad. it. Lo storicismo e i suoi problemi, a cura di G. Cantillo, F. Tessitore, 1° vol., 1985, p. 58) e della sua ricaduta nella comprensione dell’essere dell’uomo e del suo mondo. In questo senso ampio, l’intera vicenda del pensiero gentiliano può ben essere un capitolo della multiforme storia degli storicismi. Che «lo spirito è storia, e negare comunque questa è più che un dimezzar quello» è, infatti, convinzione che Gentile esprime già nella prefazione alla prima edizione del libro su Rosmini e Gioberti nato dalla sua tesi di laurea del 1897. Prefazione, in cui, dopo aver definito la filosofia come «forma non contenuto mentale», aggiunge che «questa forma del sapere, questa coscienza, è essa stessa formazione, e quindi vita storica, nella quale ogni grado riassume in sé tutti i precedenti», e conclude in modo significativo con l’affermazione dell’identità di filosofia e storia della filosofia, per cui non ha valore una ricerca puramente erudita, e «d’altra parte un tentativo di speculazione che non si fondi nella storia, rimane del tutto estrinseco alla vita generale dello spirito» (Rosmini e Gioberti, 1898, poi in G. Gentile, Storia della filosofia italiana, a cura di E. Garin, 1° vol., 1969, p. 698; riprendo qui un suggerimento di Fulvio Tessitore, cfr. Tessitore 1979, p. 301). Viene quindi affermato fin da ora un principio fondamentale del pensiero gentiliano: il principio dell’immanenza della filosofia nella vita storica e quindi della sua essenziale storicità. Ma sul senso della storicità Gentile fa già qui intravedere una distinzione tra una storicità intima alla speculazione e una storicità a essa esterna, come suo involucro esteriore. A proposito del kantismo di Antonio Rosmini-Serbati egli richiama l’attenzione sul «canone storico» secondo cui si deve «distinguere nel Rosmini e sceverare il contenuto speculativo dalla forma contingente di cui quel contenuto si rivestì per conformarsi e adeguarsi al carattere morale del tempo». Un canone storico che lascia implicare una nozione di storia empirica, storia temporale, inessenziale rispetto allo svolgimento del pensiero, e perciò distinta dalla storia interna del pensiero, da quella «vita storica» della filosofia «nella quale ogni grado riassume in sé tutti i precedenti» (Rosmini e Gioberti, cit., pp. 738 e 698).
Nello stesso anno della tesi di laurea, Gentile pubblica su «Studi storici» un saggio dedicato alla concezione materialistica della storia di Karl Marx nel contesto del dibattito suscitato da due saggi di Antonio Labriola del 1895 e del 1896 (In memoria del manifesto dei comunisti e Del materialismo storico, dilucidazione preliminare), saggio ripreso come prima parte del libro del 1899, La filosofia di Marx (2003, pp. 13-58), in cui, condividendo la tesi di Labriola, sostiene che il materialismo storico, a differenza di quanto pensava Benedetto Croce, non può essere ridotto a una «semplice veduta metodologica», ma è e non può non essere una filosofia della storia, anche se in se stessa contraddittoria. La filosofia della prassi costituisce, secondo Gentile, il fondamento filosofico della filosofia della storia di Marx e questa interpretazione è al tempo stesso un territorio dal quale pur egli attinge per la sua teoria della storia. In particolare, là dove insiste sulla critica dell’«astratto», che Marx mutua da Georg Wilhelm Friedrich Hegel, come critica dell’oggetto dell’intelletto estrapolato dall’organismo dell’intero, che solo è vivente. La prassi, infatti, è vita, processo dialettico di contraddizione e conciliazione, che continuamente si riproduce portando avanti lo sviluppo del soggetto e dell’oggetto, dell’individuo sociale, della società e della storia (cfr. pp. 105 e 109). In quel che ha di valido, al di là della sua interna contraddizione, il materialismo storico si riconduce, quindi, per Gentile, alla concezione hegeliana della storia, accentuando, però, in essa il significato della prassi, e quindi della soggettività dell’agire. E nel pensiero di Gentile questa consapevolezza della soggettività della storia, in quanto manifestazione dell’unità di pensiero e azione, si verrà definendo attraverso la riflessione sull’unità di filosofia e storia, e in primo luogo sull’unità o circolarità di filosofia e storia della filosofia.
Nella prolusione letta all’Università di Palermo il 10 gennaio del 1907, Il concetto della storia della filosofia, Gentile argomenta ampiamente non solo l’unità di filosofia e storia della filosofia, ma altrettanto di filosofia e storia, criticando l’astrattezza della contrapposizione tra una storia filologica e una storia filosofica della filosofia e affermando invece la necessità di integrare filologia e logica. L’argomentazione di Gentile si fonda sull’identificazione della domanda fondamentale a cui la filosofia corrisponde fin dall’inizio nel mondo greco e in particolare con Platone e Aristotele, vale a dire la domanda intorno all’essere che l’uomo si pone nel momento in cui fa l’esperienza decisiva del «contrasto della morte con la vita», della «differenza tra il non essere e l’essere».
In questa «philosophia perennis» (Garin 1959, pp. 17 e segg.) si verifica però un mutamento decisivo da quando, nella metafisica classica, l’essere e i suoi principi vengono concepiti come una verità oggettiva a quando, nell’età moderna, si afferma quel principio della soggettività, che si era annunciato sul piano religioso con il cristianesimo «nella travagliosa elaborazione del domma dell’uomo-Dio» (ll concetto della storia della filosofia, in La riforma della dialettica hegeliana, 1913, 19543, p. 114). Ed è a partire dalla conquista moderna del soggettivismo che si afferma la consapevolezza dell’identità di essere e pensiero; e, grazie a un «miracolo di genialità solitaria», Giambattista Vico per «primo scopre l’unità del vero e del certo, o come anche egli diceva, della filosofia e della filologia» (p. 115). Ma è soprattutto con il pensiero di Immanuel Kant che la metafisica viene messa radicalmente in questione nel concetto della verità oggettiva e nel metodo dell’analisi: «due concetti che […] Kant spianta dalle radici nella Critica della ragion pura», dimostrando che «la verità è produzione della mente; e che il metodo della conoscenza è la sintesi a priori». La verità si costituisce «nell’atto della mente» attraverso la sintesi sempre rinnovata di soggetto e oggetto, di forma (categorie) e contenuto (intuizioni), di identico e diverso.
In questo modo «la scienza fatta cede il luogo alla scienza in fieri» e la verità non è più una verità trascendente, ma è «umana, temporale, mondana»; è «la verità che è storia» (pp. 116-17). In questo modo, accentuando il senso immanentistico e storicistico della hegeliana filosofia dello spirito, la filosofia per Gentile si mostra come la consapevolezza dell’essere che è pensiero (spirito) nel suo costante e attivo prodursi e divenire – un divenire che è un crescere su se stesso, un negare e conservare il fatto nell’atto sempre rinnovato – cioè si mostra come storia, e a sua volta la storia, ossia il processo della vita dello spirito, si mostra appunto come progressiva consapevolezza della propria essenza, cioè come filosofia. Si tratta di concepire la storia come «storia speculativa», cioè come «storia della filosofia»: la filosofia, infatti, non è una determinata forma della vita spirituale, ma «è la stessa attività dello spirito considerata in ciò che ha di essenziale davvero e assoluto» (p. 118).
Tuttavia, il passo decisivo nella teoria gentiliana della storia sta nel concepire la stessa «storia in tempo» come «storia ideale eterna», nel senso che in ogni atto dello spirito si raccoglie la «storia in tempo» nell’unità dell’assoluta presenzialità dell’atto di pensiero, a sua volta immediatamente trascesa e raccolta nel nuovo atto di pensiero. Entra in gioco, a questo punto, un argomentare di Gentile che smentisce, almeno in parte, la critica che specialmente Croce gli ha rivolto, di non tenere conto delle distinzioni. Rispetto al concetto di storia speculativa (o storia della filosofia) si distingue, infatti, un concetto più esteso e meno determinato di storia: la storia come l’attività umana in ogni sua forma, in quanto si dà nell’esperienza situandosi nello spazio e nel tempo. Questa storia universale non è ancora tutta ricondotta alla storia speculativa o storia della filosofia, non si identifica con la filosofia, almeno con la filosofia stricto sensu. Gentile, infatti, pur riconosciuta la più compiuta identità di filosofia e storia dello spirito, in quanto la filosofia è lo spirito del tempo, continua a distinguere le altre regioni della storia universale e della vita spirituale con cui la filosofia entra in relazione, e muovendo dalla fenomenologia di questi rapporti delimita il significato dell’identità di storia e filosofia. Questa identità, infatti, viene limitata dalla consapevolezza che la storia reale si lascia soltanto mediatamente influenzare dalla filosofia, nella misura in cui i suoi concetti, le sue costruzioni sistematiche si ripercuotono sulla vita investendo e riformando i suoi «ideali direttivi: religione, morale, diritto». In questo senso la filosofia «non è più la filosofia nella sua sede propria e nella sua specifica natura, ma una sua eco nella vita estrafilosofica» (p. 122). Un’eco che diventa operante «nel corpo della storia» attraverso le trasformazioni che il pensiero produce nelle volontà.
Nella considerazione del significato della convergenza di filosofia e storia troviamo un riferimento critico allo storicismo, laddove Gentile osserva che in realtà la riflessione sulla storia della filosofia, piuttosto che attenersi al concetto dell’integrazione di storia e filosofia, si dirime tra lo storicismo, che privilegia la storia e vuole una storia della filosofia «filologica e deterministica», fondata sul principio dell’oggettività, e il logicismo, che privilegia la filosofia e vuole una storia della filosofia in cui prevalgano la prospettiva apriorica della logica e della speculazione, il concetto di un processo teleologicamente orientato, fondato sul principio della valutazione soggettiva (cfr. pp. 141-42).
Pur essendo da superare per la loro unilateralità, l’una e l’altra prospettiva hanno tuttavia, secondo Gentile, buone ragioni dalla loro parte. Una storia della filosofia non può non fondarsi su una rigorosa applicazione dei metodi della «filologia»: l’importante però è non cadere nel «filologismo», cioè non attenersi unilateralmente a tali metodi. Altrettanto essa dev’essere «deterministica», perché deve contestualizzare il pensiero di un filosofo, mettendolo in rapporto con le forme ideali e reali che lo influenzano e con il contesto sociale entro cui si è formata e agisce la sua personalità; e dev’essere «oggettiva», cioè non pregiudicata da una valutazione che non nasca dalla stessa comprensione interna alla filosofia di cui si fa la storia. D’altro canto, una storia della filosofia non può non fermare l’attenzione sulla razionalità del discorso filosofico, sulla sua struttura logica e teleologica (p. 134). Anche la «soggettività» della storia della filosofia corrisponde a un giusto criterio metodologico, che è quello di comprendere una filosofia come espressione del pensiero di un soggetto vivente e coinvolto nello spirito del proprio tempo. Son quindi da evitare sia uno storicismo estremo, sia un estremo logicismo o razionalismo: la verità della filologia e della logica è nell’unità di entrambi.
L’«intrinseca medesimezza» di filosofia e storia della filosofia, la loro circolarità, si lascia scorgere, però, non solo nell’oggettiva coincidenza della filosofia con la sua storia, ma altrettanto nel pensiero del filosofo che attualmente viene svolgendo la propria riflessione filosofica. Circolarità vista quindi sia a parte obiecti, sia a parte subiecti, e che sembra senza via d’uscita; ma in realtà la via d’uscita c’è ed è proprio l’«accettazione della [stessa] circolarità» (Il circolo della filosofia e della storia della filosofia, 1909, in La riforma della dialettica hegeliana, cit., p. 141). Non c’è infatti una filosofia, un sistema filosofico, che non sia la conclusione sia pur provvisoria di un processo storico e quindi esso stesso un momento storico, un momento di questo processo, né c’è un processo o momento della storia della filosofia che non sia esso stesso una determinata «costruzione della filosofia» (p. 143).
Questa «medesimezza» di filosofia e storia viene espressa da Gentile con la suggestiva formula che «l’eterno è nel tempo: anzi è del tempo», dove la sottolineatura del genitivo soggettivo «del tempo» sta proprio a indicare la radicale storicità del pensiero in quanto è divenire, ma non il divenire che si disperde, bensì il divenire che si raccoglie nell’unità intemporale del pensiero attuale: nel senso in cui Hegel afferma che l’eterno è il pensiero del tempo; e Gentile nella Teoria generale dello spirito come atto puro (1916) dirà: «il presente eterno, in cui si radunano tutti i raggi del tempo e da cui pure tutti si dipartono, è l’intellegibilità del tempo» (19596, p. 125).
L’eccedente concetto di «presente eterno», ovvero dell’atto, rinvia alla distinzione tra «pensiero concreto» e «pensiero astratto», nel contesto di un nuovo senso della dialettica: non più «la dialettica della morte», cioè la dialettica del rapporto tra concetti irrigiditi, tra oggetti pensati e come tali fissati, ma «la dialettica della vita», la dialettica del pensare che non presuppone una realtà semplicemente da rispecchiare, ma sa che è la realtà oggettiva, il pensato, che «presuppone l’atto stesso del pensare [e] in questo atto vede perciò la radice di tutto» (La riforma della dialettica hegeliana, cit., p. 7). Il pensiero altrui, o anche un nostro pensiero già pensato, sono concreti solo se sono pensati come oggetti del nostro pensiero attuale, mentre, se vengono fissati, irrigiditi come alterità, come oggettività astratte dall’atto di pensiero attuale, vengono ridotti a limiti del pensiero, a cose, a natura, oggetti del pensiero astratto. Così come è oggetto del pensiero astratto il passato, che non può più essere ripensato e rivissuto. Da questo punto di vista, la storia intesa come narrazione del passato non può che essere ricondotta sotto il concetto di natura.
Si profilano, quindi, più nettamente due nozioni di storia o storiografia: la storia che ricade nel pensiero astratto, considerando gli eventi e gli uomini e gli stessi pensieri pensati, inseriti nelle forme dello spazio e del tempo, un sapere oggettivo, astratto, che ha a che fare con il passato irredimibile, storia che è divenuta natura, onde lo storicismo positivistico o naturalistico; e la storia che coincide con la filosofia, la quale è autoctisi, pensiero concreto come coscienza della realtà: «è l’essere e la coscienza dell’essere; la vita e lo specchio della vita» (p. 195). In quanto infinito processo del pensiero concreto, del continuo superarsi dell’atto nella coscienza dell’atto, la realtà è storia, e la filosofia è storia e superamento della storia nel pensiero di essa: dove la storia – «la storia viva» – è il continuo porsi e riproporsi del pensiero concreto, del pensiero attuale, che non può essere limitato dalle determinazioni della storia empirica disgregata nella serialità dei punti dello spazio e del tempo. Vale a dire, la storia e la filosofia come «pensamento di essa» coincidono con il pensiero attuale del soggetto pensante, non in quanto Io empirico, individuale, ma in quanto Io universale, in cui si raccoglie l’intero processo della realtà nell’esperienza pura dell’«atto […] di quel noi nel quale non è possibile distinguere tra me e altri, tra me che leggo Kant, intendendolo a fondo, e Kant che scrisse l’opera da me letta» (L’esperienza pura e la realtà storica, 1914, poi in La riforma della dialettica hegeliana, cit., p. 250).
L’idealismo attuale si può definire una filosofia dell’esperienza pura e Gentile lo suggerisce nella prolusione al corso di filosofia teoretica tenuta a Pisa il 14 novembre 1914 (L’esperienza pura e la realtà storica): ‘esperienza pura’, che non è l’esperienza fondata sul presupposto di un’opposizione tra realtà da conoscere e principio conoscitivo, ma l’esperienza come l’orizzonte della coscienza che è il porsi insieme di soggetto e oggetto, di pensiero e realtà. L’essere dell’esperienza è la diveniente, inscindibile relazione soggetto-oggetto che si realizza nell’individualità dell’autocoscienza, in
quell’atto per cui lo spirito si raccoglie seco stesso, chiudendovi dentro il suo mondo: uno stormire di foglia, un brivido di freddo, un sistema filosofico, un’alta fantasia abbracciante inferno ed empireo, sempre unità suggellata dall’autocoscienza (L’esperienza pura e la realtà storica, cit., pp. 248 e 253).
Qui Gentile introduce un efficace richiamo alla storicità dell’individualità, che non consiste soltanto nell’affermazione del farsi e rifarsi continuo dell’individualità autocosciente, che «si costituisce all’infinito», ma anche nella considerazione che questa individualità in divenire riguarda tutte le creazioni del pensiero attraverso le quali si viene svolgendo la vita spirituale universale, «affluendo nella corrente del pensiero o della cultura». Viene così in primo piano la storia che corre nel tempo legando uomini e istituzioni di epoche diverse in una continuità che implica il divenire e la memoria, e che rende possibile il rivivere di un canto della Divina Commedia nell’atto di pensiero di uomini di epoche tra loro lontane, che ne danno interpretazioni sempre differenti, e quell’opera la fanno continuare a vivere in una sorta di eterno presente (cfr. p. 253). Sicché il passato è e non è; esso, negato come passato, rivive nell’atto del pensiero, che è assoluto presente. Senonché, ritraendosi il corso del mondo, il passato, in un «eterno presente», si può dire, allora, che attraverso lo scorrere del tempo dell’esperienza oggettiva, spazio-temporale, attraverso la storia del mondo con tutti i suoi eventi, le sue personalità, le sue istituzioni, le sue tradizioni, vive ogni volta nell’attualità del pensiero la storia come «processo infinito dell’esperienza», che, ammonisce Gentile, «pare bensì che si svolga nel tempo, nel succedersi delle età, degli anni, dei momenti; ma esso non è temporale, come non è spaziale» (pp. 253-54).
Si configura quindi l’esperienza pura come un processo che unifica conoscenza e azione, teoria e prassi, e l’essere del soggetto dell’esperienza pura è il pensiero pensante che continuamente pone e toglie i pensieri pensati, dando vita continuamente alla relazione di soggetto e oggetto, di io e mondo. Questa continua creazione è la storia viva, la storia vera, che non consente la distinzione tra le res gestae e la historia rerum gestarum, perché «il fatto storico che lo storico rappresenta non si distacca dall’atto ond’egli lo rappresenta», ma anzi diviene reale solo in quell’atto. La realtà è l’oggetto dell’esperienza nel senso che è l’esperienza consapevole di sé e questa realtà oggetto dell’esperienza è appunto la storia: «unica realtà pensabile, e unica scienza in quanto consapevolezza di se stessa» (p. 258; sull’unità di storia e storiografia cfr. Sistema di logica come teoria del conoscere, 2° vol., 1923, 19875, pp. 279-83, ma è da tener presente l’intero 6° capitolo dedicato alla storia).
Al di fuori della storia non vi può essere altro. Ma – ed è questo un dato importante rispetto al problema, cruciale per l’attualismo, del rapporto unità-distinzioni – non è una realtà indifferenziata; in essa insorgono distinzioni o «discriminazioni»: tra fatti storici e fatti immaginari, tra reali accadimenti e miti o immaginazioni o sogni. «Discriminazioni» che sono «funzioni» o «momenti» della stessa esperienza, più precisamente differenti «determinazioni» o creazioni della sua «autoctisi». Questo vuol dire che l’esperienza dell’io è «una progressiva autodeterminazione», un continuo passare da un essere determinato a un altro tramite la negazione della forma precedente e l’instaurarsi di una nuova forma. Un passare dall’essere al nulla e dal nulla all’essere, che però Gentile raffrena ristabilendo una continuità dialettica: non è un mero passare, ma, in termini hegeliani, è al tempo stesso un conservarsi, e proprio perciò si tratta di una realtà storica: «la nostra vita è un continuo morire del vecchio io, un nascere continuo del nuovo, in cui il vecchio bensì permane, ma rinnovato e trasfigurato» (pp. 261-62).
Il compito della filosofia è di riportare la soggettività alla concretezza della realtà che è appunto la storia, «e alla storia perciò si volge come a suo proprio compimento e ideale», se la storia viene illuminata dal pensiero, «che trae dal caos tenebroso un cosmo razionale»: il che significa assegnare all’uomo, non come singolo individuo, né come moltitudine di individui, ma come «quello spirito che ci stringe tutti in uno», il compito infinito di realizzare il suo essere, la sua destinazione alla libertà e alla creatività (p. 262; su storia e arte cfr. La filosofia dell’arte, 1931, 20032, pp. 92 e segg., 297 e segg.).
Proprio in quanto la sua realtà è la storia, lo spirito che è puro atto si trova impigliato in una situazione antinomica, appunto l’antinomia storica, a cui Gentile dedica il 13° capitolo della Teoria generale dello spirito come atto puro, che costituisce quindi un punto di riferimento per la riflessione sulla questione dello storicismo. Gentile prende l’avvio dalla considerazione, appunto antinomica, che non si può intendere l’uomo al di fuori della sua storia, tanto come individuo quanto come universale, ma d’altra parte che nel suo esserci storico l’uomo non sembra riuscire a mostrarsi come quella essenza che dovrebbe appunto realizzarsi storicamente, dal momento che nelle oggettivazioni storiche sembra che vada perduto il carattere di soggettività e di libertà che ne costituisce l’essenza. La storicità dell’uomo dipende infatti dalla sua libertà, che lo distingue essenzialmente dagli enti naturali caratterizzati dalla necessità. Il che significa che l’essere dell’uomo non è l’essere come tale, sempre sul punto di rovesciarsi nel nulla, ma è il divenire: «la natura è, lo spirito diviene». Il suo essere è un essere in vista di un fine, di qualcosa che ha valore: «conoscere la verità, creare immagini di bellezza, operare il bene, adorare Dio etc.». Valori, finalità, vincoli intersoggettivi, che sono sempre da realizzare o realizzantisi attraverso la comunicazione tra gli uomini e la durata delle loro opere, per cui non si comunica soltanto con gli uomini contemporanei, ma tutte le forme della cultura – dalla lingua alle istituzioni civili, dalle forme artistiche e letterarie alle tradizioni etiche e religiose – «ci stringono per mille vincoli a spiriti, che non appartengono al nostro tempo, ma la cui realtà è presente a noi e intellegibile soltanto come realtà spirituale, libera». Tramite «il mondo spirituale che riempie la nostra ‘coscienza storica’» (Teoria generale dello spirito come atto puro, cit., pp. 192-94), l’unità e l’eternità del pensiero in atto si impiantano nella molteplicità e nella temporalità della situazione storica in cui si produce tanto la sua soggettività quanto la sua oggettività, il suo contenuto.
Proprio in questa trama di idealità eterna e di storia temporale, cioè nella concezione di una realtà che è insieme eterna e storica, consiste la specificità della teoria della storia di Gentile, e, si potrebbe dire, anticipando il saggio del 1942 (Storicismo e storicismo), quello che per lui potrebbe essere il vero storicismo. Ma nella quotidianità la difficoltà di attenersi a questo storicismo vero insorge per il fatto che l’intelletto astratto separa le due dimensioni, quella ideale e quella storica. In questo contesto, Gentile ribadisce esplicitamente la distinzione tra due concetti o modi di concepire la storia: non ancora tra due storicismi, ma anzi tra il modo di concepire la storia degli storicisti, identificati con i relativisti, e il modo suo proprio, il modo dell’idealismo attuale. Il primo concetto è
quello dei relativisti, storicisti e scettici, che non vedono altro che il fatto storico, nella sua molteplicità; e questo ci dà la storia in cui lo spirito non può cadere senza degradarsi e naturalizzarsi (Teoria generale dello spirito come atto puro, cit., p. 198).
La storia concepita dagli storicisti è la storia considerata come una successione di fatti, come un processo oggettivo regolato dalla legge di causalità, è la storia naturalizzata, inserita nel quadro della spazio-temporalità e della esteriorità che sono proprie della natura. Una realtà dispersa nella molteplicità, dove anche le relazioni restano esteriori, e le unità continuamente tornano a disgregarsi. C’è poi, di fronte e in opposizione a questo primo modo di concepire la storia,
l’altro [modo], il nostro, reso possibile dal sopra esposto concetto dell’Uno, che pone il fatto come atto, e quindi, ponendosi nel tempo, non lascia mai effettivamente nulla dietro di sé (p. 198).
La storia per l’idealismo attuale è lo spirito come svolgimento dialettico, che vuol dire «rapporto immanente tra unità e molteplicità», tale che l’unità non può realizzarsi che «attraverso la molteplicità» e la molteplicità «mostra la realtà e la vita dell’unità»; lo spirito è storia proprio in quanto non è essere o sostanza, ma «divenire», «processo costruttivo», infinita formazione di sé, che si pone nel tempo, ma trascendendolo nell’idealità o eternità dell’atto del pensiero, che continuamente si nega oggettivandosi e però da questa negazione continuamente si riprende nell’attualità del soggetto pensante (p. 199).
Molti anni dopo, questo tema del rapporto tra «storia in tempo» e «storia ideale eterna» trova una specifica trattazione nella memoria dell’Accademia dei Lincei del 1935 Il superamento del tempo nella storia, in un tempo in cui Croce aveva già avviato la curvatura della sua filosofia dello spirito nel senso dello storicismo, che egli nel 1930 difende nella conferenza di Oxford, denunciando nella cultura europea un dominante ‘antistoricismo’. Nel saggio del 1935 (pubblicato nel 1936) Gentile mette in guardia dal pericolo dello storicismo concepito come una metafisica della storia, corrispondente alla metafisica naturalistica o a quella teistica. «Non basta dire», afferma Gentile, «che tutto è storia (cioè, tutto è spirito come storia) per farla finita con la metafisica» (Il superamento del tempo nella storia, in Frammenti di estetica e di teoria della storia, a cura di H.A. Cavallera, 1992, p. 6), la quale risorge ogni volta che si ammettono presupposti alla realtà spirituale, ogni volta che si separa il pensiero che pensa e il pensato, ogni volta che la storiografia «si butta a capo fitto nei vortici del meccanismo, cercando la realtà nel passato, nei sepolcri» (p. 8). Bisogna liberarsi dal presupposto che «stringe» l’uomo in ciò che è la sua essenza, nell’atto del pensare. Il che vuol dire riconoscere che la storia nasce assieme alla storiografia, nasce nel pensiero non del passato, ma del presente attuale. Mancando questo riconoscimento, lo storicismo, inteso come metafisica della storia, è appunto la concezione della realtà storica come presupposto della storiografia ed è il sapere positivo che, poggiando sul predominio della «verità di fatto», schiaccia il presente e blocca lo slancio della vita con il peso del passato (pp. 8-9; cfr.Tessitore 2012, p. 88). Entra così sulla scena del soggetto il rapporto tra passato e presente, tra il già-stato e l’esserci attuale, entra cioè in gioco l’idea del tempo. E il soggetto, se si attiene all’evidenza dell’immediato, si trova di fronte a «un’angosciosa antinomia: il passato è tutto; il passato non è nulla» (Il superamento del tempo nella storia, cit., p. 9). Il passato c’è come presupposto, in quanto tutto quello che pensiamo come esistente, costitutivo del mondo reale di cui siamo parti, è il contenuto di una verità di fatto, quindi un antecedente del nostro pensiero; ma, a un tempo, non c’è, perché il passato non è, non è più, è morto. Al suo posto c’è il presente, l’esistente in atto, che però immediatamente si perde nel già-stato: così «il mondo viene ad essere una flagrante evanescenza di tutto il pensabile» (p. 9).
Si può dire che al primo significato dello storicismo, inteso come peso del passato sul presente, subentra un secondo significato, altrettanto negativo, quello dello storicismo inteso come coscienza dell’assoluto fluire dei contenuti che il pensiero si prova a fermare: lo storicismo che termina in un assoluto relativismo. Determinante in questa fenomenologia è il concetto del passato, che condiziona la comprensione della storia che si svolge nel tempo. Si tratta allora di comprenderne la genesi, riconducendola alla sua fonte che è il pensiero in atto, l’autocoscienza, l’Io. Il pensiero si pone come soggetto e come oggetto, e quest’ultimo immediatamente si presenta come opposizione al soggetto, altro dal soggetto, come il limite del pensare. Come tale l’oggetto si presenta al soggetto come qualcosa che già c’era prima del suo atto di porsi, prima del suo atto di pensarlo. Finché non ci liberiamo dal condizionamento, dal determinismo del presupposto di una realtà esterna al pensiero, passato o natura che sia, anche «la storia si naturalizza; e lo storicismo si ragguaglia al naturalismo a cui tentava di opporsi» (p. 11). Rispetto a questo storicismo, la filosofia si deve porre, invece, come il recupero del soggetto, dell’autocoscienza, dalla sua alienazione nella natura, nel passato, e nel tempo che nasce dal passato.
Com’è stato autorevolmente detto da Eugenio Garin, «il punto centrale […] della meditazione gentiliana» è costituito proprio dal «nesso storia-filosofia», il che è confermato dal progetto di elaborare, dopo la pubblicazione nel 1931 della Filosofia dell’arte, la filosofia della storia – «una nuova filosofia della storia» – avviato nell’agosto del 1934 e ripreso probabilmente nel tragico ultimo anno di vita, o comunque dopo il 1941, come si può ricavare dal fascicolo recuperato nell’Archivio della Fondazione Gentile, intitolato La filosofia della storia, pubblicato nel 1996 (cfr. Garin 1996, p. VII; Schinaia 1996, pp. XVIII, XX). Di questo volume progettato Gentile aveva pubblicato come saggi nel «Giornale critico della filosofia italiana», nel 1937, l’introduzione (Introduzione a una nuova filosofia della storia. Storia filosofica e filosofia della storia, 2-3, pp. 81-93; 4, pp. 225-33) e il capitolo primo (L’oggetto della storia, 5, pp. 305-18; 6, pp. 393-407), e proprio in una nota a questo secondo saggio egli scrive: «In questo e nei prossimi fascicoli saranno pubblicati alcuni capitoli della Filosofia della storia, di cui fu data già l’Introduzione» (cfr. Schinaia 1996, p. XVIII). Nel fascicolo era poi contenuto l’inizio del secondo capitolo, “Gli elementi del fatto storico. Le sue condizioni” (La filosofia della storia. Saggi e inediti, a cura di A. Schinaia, 1996, pp. 159-62). E a questo progetto va anche collegato il contributo presentato all’Accademia dei Lincei nel 1935, sul Superamento del tempo nella storia, sopra ricordato (cfr. Cacciatore 2003, pp. 101 e segg.). Di questo ritorno al tema della storia e del rapporto storia-filosofia Garin ha giustamente messo in luce una motivazione profonda, che è quella del confronto mai smesso con il pensiero di Croce, il distacco dal quale si era palesato proprio a partire dalla prolusione di Palermo del 1907 sul Concetto della storia della filosofia (cfr. Garin 1996, pp. XI-XII e XIV-XV).
Nell’“Introduzione”, la filosofia della storia viene presentata come la teoria delle categorie, dei principi, in base a cui la storia si fa storia e non è più semplicemente documenti e cronache. In consonanza con tutta la precedente elaborazione teorica, Gentile ribadisce che questa nuova filosofia della storia, che potrebbe dirsi anche «la scienza del concetto della storia», in quanto filosofia, a differenza delle scienze empiriche, non può presupporre nulla; essa fa nascere insieme il sapere del concetto e il concetto, e insieme anche il contenuto del concetto: «Non la storia prima, e poi il concetto di essa. Ma la storia nel suo concetto […] e questo concetto […] nel circolo delle sue determinazioni» (Introduzione a una nuova filosofia della storia, in Frammenti di estetica e di teoria della storia, cit., pp. 38-39), le quali provengono dalla stessa esperienza storica e dalla storiografia. Non vi può essere, infatti, esteriorità tra la storiografia e la nuova filosofia della storia, che è soltanto la consapevolezza delle forme di pensiero già in essa operanti, una convinzione che nasceva, certamente, dalla intensa pratica storiografica di Gentile, nell’ambito non solo della filosofia, ma più in generale della storia della cultura, dal Rinascimento al Novecento, sicché egli veramente, riferendosi al «lavoro dello storico», può aggiungere: «non solo res tua agitur, ma anche tua ipsamet actio» (p. 39).
A questo riguardo è illuminante la conclusione del quarto capitolo dell’Introduzione alla filosofia (1933, ripubblicata da Gentile nel 1943), dedicato alla storia, dove Gentile si preoccupa di «fissare il giusto concetto» della sua trattazione, di cui si può dire che l’aspetto decisivo è costituito dalla riflessione sull’unità-distinzione tra la «storia in tempo» (la storiografia empirica), in cui si rispecchia il logo astratto, e la «storia ideale eterna», la storia filosofica, in cui si rispecchia il logo concreto. E per fissare questo giusto concetto suggerisce che «può dirsi che la storia in tempo sia la parte e che la storia eterna sia il tutto: poiché l’astratto non è fuori del concreto, anzi ne è il contenuto» (Introduzione alla filosofia, 19812, pp. 119-20). Rinvia cioè alla comprensione del «concetto attualistico dell’identità del pensiero divino e del pensiero umano e della distinzione dialettica del logo astratto e del logo concreto», che sola consente di superare completamente il dualismo metafisico nelle sue varie declinazioni, quali ancora, secondo Gentile, possono rintracciarsi in filosofi della storia come Vico e Hegel. Non si può infatti separare l’uomo empirico dalla sua essenza, dalla sua umanità universale, dall’individualità infinita. Si tratta di comprendere che il pensiero concreto, il pensiero in atto «è sempre lo stesso pensiero eterno e infinito», che, distinguendosi e contrapponendosi a se stesso, produce il pensiero astratto della molteplicità, dell’esteriorità, del tempo: la storia in tempo, che esso però in ogni istante (intemporale) come pensiero in atto si riprende in sé, negandola e insieme conservandola come parte dell’intero (cfr. pp. 117-19).
Se si tiene presente questo fondamento speculativo, non può non apparire riduttiva la concezione della filosofia come metodologia della storia che Gentile, chiaramente pensando a Croce, sottopone a una critica particolarmente polemica nel saggio sopra ricordato, Introduzione a una nuova filosofia della storia, dove parla addirittura del «carattere affatto fantastico della distinzione», in base alla quale
qualche filosofo moderno, dopo aver accettato a suo modo il concetto della identità di storia e filosofia, conserva tuttavia a quest’ultima […] una posizione distinta e preliminare rispetto all’effettivo lavoro storiografico (Introduzione a una nuova filosofia della storia, cit., pp. 40-41),
considerandola come un «complesso di teorie sulle forme o attività o categorie dello spirito», e definendola come «metodologia della storiografia». In questo modo si ritorna «al vecchio e sfatato concetto del metodo come insieme di norme idealmente antecedenti all’esercizio delle attività, che esse devono regolare» (p. 41). E, con una movenza decisamente hegeliana, Gentile aggiunge che «né la filosofia della storia, né la filosofia si lasceranno mai relegare in codesto limbo astratto fuori del vivente corso della storia, ossia fuori del mondo» (pp. 40-41). Perciò la filosofia e con essa la nuova filosofia della storia «non è la scienza della mèta, ma della via» (p. 46), la via che conduce al concetto dello spirito nella sua unità e nelle sue determinazioni e distinzioni, che insorgono dalla sua stessa essenza, che è la libertà. In questa prospettiva la storia che fa tutt’uno con lo svolgimento dello spirito non può essere la storia dello storicismo, che qui viene pensato da Gentile ancora soltanto nel suo significato negativo. È, invece, la storia della nuova filosofia della storia, che è appunto «capace di liberare la storia dagli errori dello storicismo» e di pensare la storia come dev’essere pensata, «come il grande processo del mondo onde lo spirito si attua nella consapevolezza logica di se medesimo» (p. 49), ricongiunta quindi con la filosofia come autocoscienza del pensiero concreto. Si inserisce qui, nel testo del 1937, la critica di Gentile a quei pensatori dell’idealismo che «credono di avere colto l’essenza del reale dal punto di vista spiritualistico parlando di storicismo» (p. 49) e non si sono resi conto che in questo modo la realtà spirituale viene pensata come storia empirica, fondata sull’intuizione del fatto storico come qualcosa di presupposto all’esperienza e al pensiero, e come un processo che si svolge nel tempo, dove tutto è transeunte, tutto è «pulvis et umbra» e di eterno non vi sarebbe che l’indeterminata, vuota attività del pensiero.
La nuova filosofia della storia ha quindi il compito di liberare la storia dalle «spire soffocatrici dello storicismo», che sullo sfondo è certamente lo storicismo positivistico e relativistico, ma in primo piano è lo storicismo assunto nell’ambito dell’idealismo, e quindi il riferimento va tanto alla filosofia dello spirito di Croce, quanto alle posizioni storicistiche maturate all’interno della stessa scuola gentiliana. E la critica si fa ancora più evidente quando, dopo il 1941, nel manoscritto dell’Introduzione destinato alla pubblicazione del progettato libro sulla filosofia della storia, riorganizzato attraverso la divisione in paragrafi ognuno con un proprio titolo, il paragrafo 29 intitolato “Storicismo vero e storicismo falso” comprende proprio la parte in cui si criticano quegli idealisti che «credono di avere colto l’essenza del reale da un punto di vista spiritualistico parlando di storicismo». Al loro storicismo, che si deve intendere come «storicismo falso», si contrappone la nuova filosofia della storia, a cui si riferisce lo «storicismo vero» (cfr. La filosofia della storia, cit., pp. 106-08); e questa esplicitazione della filosofia della storia come «storicismo vero», sia pure affidata alla sola aggiunta del titolo, non al testo che resta uguale, non può non essere messa in relazione con il fatto che nel 1941 Croce ha pubblicato Il carattere della filosofia moderna, il cui primo capitolo è “Il concetto della filosofia come storicismo assoluto”, dove Croce ribadisce che «la filosofia non possa essere altro […] che filosofia dello spirito» ed esplicita la convinzione che
la filosofia dello spirito non possa essere in concreto, o non sia mai stata in effetto, se non pensiero storico o storiografia, nel cui processo essa rappresenta il momento […] della riflessione metodologica (Il carattere della filosofia moderna, 1941, pp. 1-2).
Proprio questo carattere di «metodologia della storia» mette al riparo la filosofia dello spirito da ogni tentazione metafisica e le «conferisce […] il nome più calzante di “storicismo assoluto”» (p. 22). E qualche anno prima, nel 1938, lo storicismo crociano aveva trovato il proprio documento fondamentale nella Storia come pensiero e come azione. Come ha scritto Garin,
proprio sulla storia, sul rapporto fra storia e filosofia, era esploso in tempi lontani l’aspro confronto con Croce […]. Non a caso Gentile su quello scontro aveva avviato nel tempo la ricostruzione sistematica del suo pensiero. Proprio la filosofia della storia doveva, e poteva, esserne il coronamento (Garin 1996, pp. XIV-XV).
L’intitolazione “Storicismo vero e storicismo falso” non sappiamo se preceda o segua la pubblicazione della conferenza tenuta a Pisa nel 1942 su Storicismo e storicismo, tuttavia si inserisce, certamente, nella stessa direzione del superamento della concezione puramente negativa dello storicismo e anzi dell’acquisizione del concetto di storicismo alla stessa idea di una nuova filosofia della storia.
Claudio Cesa ha ricostruito magistralmente il contesto filosofico e culturale in cui si inserisce la conferenza pisana del 1942 su Storicismo e storicismo (pubblicata nello stesso anno negli «Annali della R. Scuola Normale Superiore di Pisa») e ha analiticamente ripercorso l’uso del termine storicismo nel primo trentennio del Novecento nell’ambito della cultura filosofica e letteraria italiana, richiamando anche opportunamente l’attenzione sul fatto che lo stesso Croce solo a partire dal 1920 assume il termine storicismo in un significato positivo connesso con il senso storico e la consapevolezza della storicità del pensiero. E nel 1923, nella recensione al System der Philosophie (1921) di Heinrich Rickert, accenna a due modi di intendere lo storicismo. Dopo aver criticamente osservato che Rickert estrinsecamente riempie «lo schema generale di una teoria dei valori [con il] materiale storico», aggiunge:
E ha una grande paura dello ‘storicismo’: giustificata paura, certamente, quando per esso s’intenda una sorta di protagorismo, ma ingiustificata quando s’intenda, invece, la ‘storicità’, che è insieme l’‘eternità’ di ogni pensiero («La Critica», 1924, 22, p. 110; poi, con la datazione 1923, ripubblicata in Ultimi saggi, 1935, p. 328; cfr. Cesa 2002, p. 101),
suggerendo quindi, alla maniera di Ernst Troeltsch, uno storicismo ‘cattivo’, relativistico, e uno storicismo ‘buono’, che recupera nello stesso pensiero storico il riferimento ai valori. La formula «storicismo e storicismo» si trova nell’articolo Storicismo di Ugo Spirito pubblicato nel «Giornale critico della filosofia italiana» (1932, 13, pp. 416-25), in un contesto in cui lo storicismo viene indicato come «la via maestra seguita dall’idealismo italiano per entrare nella realtà e in essa dimostrare la sua consistenza antintellettualistica» aggiungendo che si deve distinguere tra «idealismo e idealismo, e perciò [tra] storicismo e storicismo», con allusione alla pluralità di posizioni che erano maturate nel campo dell’idealismo.
Venendo, ora, alla conferenza pisana, Gentile mostra immediatamente il mutamento di atteggiamento dichiarando che «ci sono due modi d’intendere lo storicismo», corrispondenti a «due modi di concepire la storia: due modi differenti, anzi opposti» (Storicismo e storicismo, in appendice a Introduzione alla filosofia, cit., p. 259). Il primo è quello più noto e anche quello che più facilmente si presta alle critiche di quanti si ergono a difensori «dei valori dello spirito», preoccupati (talora in modo non ingiustificato) delle conseguenze relativistiche dello storicismo. Questo primo tipo è lo storicismo crociano, anche se Gentile non nomina Croce, ma vi si riferisce con un giro di frasi, che sono un segno evidente del tormentato rapporto con l’antico amico e sodale nel rinnovamento idealistico della filosofia e della cultura italiana. Scrive Gentile:
Questo modo più noto è stato in Italia brillantemente sostenuto da uno scrittore molto chiaro, arguto e attraente, che lo ha universalmente divulgato come la conclusione della più elaborata filosofia dello spirito (p. 259).
E fa seguire una sintetica valutazione critica della filosofia dello spirito e della stessa personalità filosofica di Croce, riconoscendo che la filosofia dello spirito «è stata […] una filosofia derivata e sorretta da un acuto senso della vita dello spirito», ma osservando che essa
è rimasta sempre, per difetto di slancio e di coraggio speculativo, sul terreno della mentalità scientifica intellettualistica [e] s’è smarrita in una sterile avversione e rinunzia a ogni problema metafisico (p. 259).
Certo, non mancano in essa «molti particolari felicemente intuiti e illustrati alla brava». Ma – e qui il giudizio negativo diventa aspro – una filosofia che, «nel suo insieme e nel suo significato unitario» diventa «antispirituale e incapace di raggiungere un concetto dello spirito», al punto che essa può dirsi «una filosofia che […] non è una filosofia» (pp. 259-60). Ricordata l’adesione di Croce alla «dottrina dell’identità di storia e filosofia», Gentile ritiene che essa sia stata soltanto funzionale alla «tendenza antimetafisica, antifilosofica e strettamente scientificizzante» del suo pensiero, cioè a uno storicismo assoluto che conclude nell’affermazione che «tutto è storia» e che «anche la filosofia […] o è storia, nel suo sviluppo, o è nulla» (p. 260): che è una conclusione simmetricamente opposta a quella gentiliana, per la quale il circolo di storia e filosofia si chiude appunto nella filosofia. Il punto nodale della critica dello storicismo crociano sta nella contestazione della separazione (più che distinzione) intellettualistica di pensiero ed essere, che porta, da un lato, ad anteporre alla storia, come una specie di prologo, una teoria delle categorie dello spirito che rendono intellegibile la storia nella storiografia (la filosofia come metodologia della storia) e, dall’altro, come in una specie di epilogo, ricava dalla storiografia, dalla storia empirica, il principio stesso della filosofia dello spirito, cioè il principio che «tutto è storia», producendo quindi un corto circuito, in cui, si può dire, si brucia proprio la storia vera, la realtà storica dello spirito. L’errore, a fondamento del quale c’è il dualismo di essere e pensiero, sta nel concepire la storia come una realtà indipendente e antecedente al pensiero: come un passato rispetto all’attualità del pensiero, per cui, malgrado la consapevolezza della contemporaneità della storia, resta sempre «uno iato incolmabile tra la storia come fatto (fatto compiuto), e la storiografia attuale e in fieri» (p. 262). La storia compresa dal punto di vista del fatto, del passato, viene, tanto nei particolari, quanto nella totalità, irrigidita nella concatenazione causale, nel determinismo che ne rende possibile la spiegazione, ma non la comprensione del senso e del valore.
In questa concezione, che si potrebbe dire naturalistica, della storia, anche il futuro e il presente (in quanto termine medio tra passato e futuro) sono ricondotti alla logica della necessità causale, ristretti nel determinismo negatore della libertà. Sfugge in tal modo l’essenza stessa dello spirito e della storia come realtà spirituale, che è la libertà, la sempre risorgente inaugurazione dell’atto, il nuovo inizio (p. 263). La storia che viene intesa da questa prima forma di storicismo è quindi la «storia in tempo o temporale», storia irrimediabilmente passata, esterna rispetto a chi la pensa, anche se si trattasse della propria storia, storia vista come una rappresentazione che non tocca l’anima, che non è quale veramente è, cioè «energica e potente affermazione di sé» (p. 263).
Nel presentare il proprio storicismo, Gentile si ricollega ai tanti momenti di riflessione sulla storia presenti nello svolgimento del suo pensiero, affermando in primo luogo che la storia quale si dà nella storiografia (ma non vi è storia senza conoscenza di sé) presuppone la coscienza, il pensiero, l’Io: «qui [nell’orizzonte dell’Io] verum factum; fatto nel tempo da chi agisce fuori del tempo» (p. 264). Come aveva scritto in Idealismo e misticismo (il saggio del 1913 apparso negli «Annali della Biblioteca filosofica di Palermo», 3-4, pp. 97-119, al quale Croce rispose criticamente, rendendo pubblico il loro dissenso): «La vera storia non è quella che si spiega nel tempo, ma quella che si raccoglie nell’eterno dell’atto del pensare, in cui infatti si realizza» (Idealismo e misticismo, in Teoria generale dello spirito come atto puro, cit., p. 265).
L’attività dello spirito si oggettiva tanto nella conoscenza quanto nell’azione, ma nell’oggettivarsi si conosce, si fa autocoscienza, sapere di sé, e come tale è storia che si comprende, unità di filosofia e storia. L’attività dello spirito comporta, quindi, la negazione di ogni oggettivazione che si pone come dato immediato, consolidato, ed esige di essere trasceso, di essere risolto nell’ideale, nel significato. E questa interna dialetticità della vita spirituale si esprime nell’esigenza della trascendenza, che uno storicismo autentico non può ignorare, in nome di un’astratta professione di immanentismo: «Qui pure apparisce e si manifesta il significato di quella trascendenza che […] l’umana coscienza [ …] continua a reclamare come il necessario correttivo dello storicismo», quando sia ristretta nell’immagine di un «mondo crudamente immanentistico», in cui «si sente come sommersa e privata del suo slancio verso l’ideale» (Storicismo e storicismo, cit., pp. 264-65). Una trascendenza che non implica l’abbandono della vita spirituale, ma è dentro di essa, come «interno lievito del suo sviluppo» (p. 265). I valori che danno senso all’esistere si costituiscono nella vita storica, che è «realtà aperta, sul punto di attuarsi» procedendo oltre l’«essere immediato», che «non è il vero essere», verso «l’essere che dev’essere»: «per salire […] da un essere che nell’atto stesso di esser superato è disvalore all’essere che è valore, dal male al bene, dal brutto al bello, dal falso al vero» (p. 266). È questa la «storia eterna», il cui soggetto unico è l’umanità che vive, è reale, nell’atto del pensiero, quale si attua ogni volta, pur nella molteplicità dei soggetti empirici, raccogliendo e insieme superando il passato nel «presente eterno, in cui si radunano tutti i raggi del tempo e da cui pure tutti si dipartono» (Teoria generale dello spirito come atto puro, cit., p. 125). Come ha suggerito opportunamente Garin, il significato dell’attualismo va visto proprio nell’«invito a ricordare […] la comune umanità» e a «riportare sempre il dato, il fatto, alla fonte, alla sorgente» (Garin 1955, pp. 395-97; cfr. de Giovanni 2012, p. 612).
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