STORIOGRAFIA DELL'OTTOCENTO E DEL NOVECENTO
Non diversamente da Giannone e da Voltaire, che avevano esaltato in Federico II il campione del giurisdizionalismo (v.) e l'antesignano del sovrano illuminato, Johann Gottfried Herder delineò l'immagine di un Federico II estraneo ai suoi tempi e aperto a una modernità che precorse, definendo alcuni tratti della sua figura destinati ad avere notevole fortuna nella storiografia dell'Ottocento e del Novecento. Nel 1767, nei frammenti Sulla recente letteratura tedesca, che in Germania avranno un ruolo decisivo nel risvegliare l'interesse romantico per la storia e per il Medioevo, Herder aveva infatti invitato la propria nazione a cercare indietro nel tempo le origini dell'Illuminismo, rintracciandone la genesi fin nei secoli di mezzo: "Non meritano i tempi degli imperatori svevi che si metta più in luce il loro apporto al modo di pensare tedesco? Non merita in particolare Federico II di Svevia che uno studio della storia medievale lo metta in maggior luce dal momento che ora riluce solo dall'oscurità? Quest'uomo che voleva utilizzare lo spirito protettore della Germania per essere il restauratore della letteratura greca e orientale, della vera lingua latina, della filosofia e delle scienze della natura, che è stato lui stesso uno studioso pieno di dottrina e di gusto, ma che nonostante tutti gli sforzi è divenuto nient'altro che un martire del suo tempo, questo ammirevole imperatore non ha meritato forse di essere considerato in tutta la sua giusta luce nella nostra epoca come la stella mattutina di un giorno migliore?" (J.G. Herder, Über die neuere deutsche Literatur. Fragmente. Dritte Sammlung, in Id., Werke in fünf Bänden, a cura di R. Otto, I-V, Berlin-Weimar 1978: II, p. 36). Pochi anni dopo, nel 1779, in un saggio intitolato Dell'influsso del governo sulle scienze e delle scienze sul governo (VomEinflußderRegierungaufdieWissenschaften, undderWissenschaftenaufdieRegierung), particolarmente gradito all'establishment politico e culturale prussiano, Herder, nel delineare l'intimo rapporto esistente tra il dispotismo illuminato e il progresso delle scienze, aveva ancora una volta indicato in Federico II colui che "divenne in prima persona un martire dell'illuminismo che egli avrebbe voluto dare all'Europa. Dotto, saggio e virtuoso combatté instancabilmente i nemici della pace, prese dalle mani degli arabi le opere migliori e più diverse e le fece tradurre e insegnare, istituì l'università di Napoli, di Vienna, forse anche di Padova, migliorò quella di Bologna e di Salerno, che come stelle mattutine irradiarono le prime luci" (ibid., III, p. 272).
Illuministicamente abbagliato dalla 'luce' che il sovrano svevo avrebbe irradiato attraverso i secoli, Herder dà il suo contributo all'edificazione dell'immagine otto-novecentesca di Federico II, proponendone alcuni caratteri che sarebbero in seguito riaffiorati più volte. Lo Svevo appare come un sovrano che spicca nel fosco quadro dell'Europa medievale per l'attenzione rivolta alla cultura araba e più in generale alla cultura orientale, per la capacità di servirsi del sapere al fine di plasmare l'unità del suo Regno. Con lui lo 'scettro' e la 'piuma' non si ostacolavano l'un l'altro, ma realizzavano una compiuta armonia ‒ la stessa armonia che negli anni in cui Herder scriveva sembrava conseguita anche da Federico II di Hohenzollern, impostosi all'opinione pubblica internazionale come il principale esponente dell'assolutismo illuminato, pronto ad accogliere alla sua corte i più alti ingegni del secolo, tra i quali Voltaire. Ad arrestare la feconda contaminazione tra Oriente e Occidente che Federico II di Svevia avrebbe saputo realizzare in forma così compiuta, e che secondo Herder non si sarebbe più rinnovata fino al Rinascimento, sarebbe stato il papa, il "despota dei despoti", unico responsabile della disfatta dell'Impero e della crisi spirituale della cristianità.
Non è difficile cogliere nelle parole di Herder l'eco di più antiche dispute, dal momento che lo scontro tra Impero e sacerdozio non appassionò solo gli storici e i filosofi del XVIII sec., ma aveva alimentato fin dal Duecento le polemiche tra guelfi e ghibellini, divenendo in Italia misura del giudizio storico sin dalla tarda storiografia umanistica, impegnata a delineare i rapporti tra il principe e lo stato (v. Storiografia, fino all'Illuminismo). D'altronde, anche in Germania, era stata la lotta dello Svevo contro il papato a connotarne nei secoli successivi l'immagine, sia che questa continuasse a vivere nelle saghe popolari sia che fosse alimentata dalla memoria dei cronisti; perciò i fautori del defunto imperatore, che tendevano a identificarlo con Odino e annunciavano che egli sarebbe tornato in tutta la sua potenza a dominare il mondo romano, ritenevano che la sua missione più importante sarebbe stata la purificazione della Chiesa corrotta. Nel 1520 Lutero, che non era propriamente un ammiratore di Federico II, poteva perciò affermare nel suo scritto rivolto Alla nobiltà cristiana di nazione tedesca che gli Svevi avevano provocato con la superbia la propria rovina, confidando più nella forza che in Dio, ma che "Federico I e Federico II e molti altri imperatori tedeschi erano stati miseramente oppressi e calpestati dal Papato" (An den christlichen Adel deutscher Nation. Von des christlichen Standes Besserung, in M. Luther, Ausgewählte Schriften, a cura di K. Bormann-G. Ebeling, I, Frankfurt a.M. 1983, p. 153), aprendo la strada all'esaltazione della figura del secondo Federico operata dalla storiografia della Riforma, a partire da Ulrich von Hutten e Flacio Illirico. E se le dispute tra i Centuriatori di Magdeburgo e Cesare Baronio avevano favorito, in entrambi gli schieramenti, la ricerca e la pubblicazione a stampa di fonti per la storia del XIII sec., la particolare attenzione rivolta in ambiente protestante all'epistolario di Pier della Vigna, con le sue ripetute riedizioni, rivela quanto apparisse ancora viva e attuale la polemica della corte federiciana contro la Chiesa di Roma ‒ l'istituzione divenuta per Lutero l'emblema stesso del dispotismo, da lui concepito come la forma degenerativa tipica del potere religioso. È questo un tema che ritroviamo ancora in Herder, pastore luterano aperto alle riflessioni della teologia illuminista ed egli stesso assertore di una interpretazione sostanzialmente etica del cristianesimo, che lasciava ampio spazio a motivi classicheggianti e naturalistici, integrandoli nell'ideale della Humanität, da lui intesa come l'armonico comporsi delle successive conquiste storiche dell'uomo.
Quanto forte fosse in Germania il legame tra la fortuna tardosettecentesca di Federico II e l'affermarsi dell'assolutismo illuminato si evince con chiarezza anche maggiore dall'opera di Karl Wilhelm Ferdinand von Funck, autore di una pregevole monografia storica su Federico II di Svevia (Geschichte Kaiser Friedrichs II., Züllichau-Freystadt 1792), in cui dall'esaltazione della cosmopolita corte sveva e di Federico II come sovrano assoluto di Sicilia si scivola facilmente nella celebrazione della genialità di Federico II di Prussia e della sua corte berlinese. Da quest'opera si dipana un filo verso la fortuna romantica di Federico II, dal momento che Funck fu tra le figure che ispirarono a Novalis il personaggio di Heinrich von Ofterdingen (1802), il cantore di Minnesang protagonista dell'omonimo romanzo di formazione, in cui Novalis narra la storia dell'ascesa alla poesia, l'armonioso frutto nato dalla perfetta fusione di spirito e natura.
L'azione del romanzo, rimasto incompiuto, si compendia in una serie di episodi allegorici, che avrebbero dovuto culminare nel ritorno di Heinrich in Germania, alla corte di Federico II di Svevia, dopo un lungo viaggio di iniziazione che lo avrebbe portato a cercare la 'luce' in Italia e in Oriente. Federico II e la sua corte cosmopolita, in cui confluiscono da tutto il mondo gli uomini migliori del tempo, assurgono, come già in Herder, a simboli di una feconda unione di Oriente e di Occidente, di sogno e di utopia, volta a esaltare il carattere tedesco e la storia tedesca. Un'analoga ammirazione per il Federico II cosmopolita esprimeva negli stessi anni Friedrich Schlegel, in alcuni aforismi che propongono una visione dell'Europa cattolica come sintesi di civiltà diverse, resa più fruttuosa dalla contaminazione con l'Oriente (Kritische Friedrich-Schlegel-Ausgabe, a cura di E. Behler, XVI, München-Paderborn-Wien 1971, IX 861).
Anche se il mito della 'luce che proviene dall'Oriente' avrà una straordinaria fortuna nella cultura tedesca fino al XX sec., così da affiorare ancora nel Federico II, imperatore (Kaiser Friedrich der Zweite, I-II, Berlin 1927-1931) di Ernst H. Kantorowicz, negli ultimi decenni del Settecento e nei primi dell'Ottocento non tutti erano disposti a entusiasmarsi e a riconoscere nell'imperatore svevo una superiore spiritualità. Lo scrittore e storico svizzero Johannes von Müller, "voce estrema dell'Illuminismo vivente" e, al tempo stesso, "primo chiaro annuncio del prossimo Romanticismo" (Falco, 1974, p. 342), riteneva anzi che gli Svevi avessero ispirato la loro azione politica al perseguimento di fini mondani e non spirituali. Nel 1782, nei Viaggi dei papi, un'opera volta a esaltare la funzione pontificale quale principio di libertà e origine di conquiste civili, aprendo la strada all'interesse romantico per il Medioevo religioso, Müller riconosceva che Federico II si era levato al di sopra dei suoi tempi, ma che proprio questa era stata la causa della sua rovina. Poiché non volle accettare vincoli di natura morale non poté non inciampare nella catena invisibile con cui il papa Innocenzo IV aveva legato al seggio di Pietro le anime dei cristiani. "Perciò fu sconfitto il trono centenario dei grandi Hohenstaufen e il più spaventoso tra tutti gli imperatori con la sua ereditaria propensione alla violenza e la sua arte" (Reisen der Päpste, in J. von Müller, Sämmtliche Werke, a cura di J.G. Müller, VIII, Tübingen 1810, pp. 54 ss.). Con la disfatta di Federico l'Europa divenne più sicura e la Germania più libera, cosicché una moltitudine di principi, di popoli e di città poterono animare il paese e renderlo più prospero. "Da allora ciascuno poté scegliere tra molti principi il proprio, mentre nei tempi in cui il mondo era stato asservito a un solo signore, la libertà era solo dove Catone poté trovarla": nel darsi la morte.
Intendimenti non diversi rivela lo storico Friedrich Christoph Schlosser, un frisone trapiantato a Heidelberg, nella sua Storia universale unitariamente narrata (Weltgeschichte in zusammenhänger Erzählung, Frankfurt a.M. 1815-1841), che egli concepì come una sorta di "giudizio universale, dinanzi al quale citò, imparziale e inflessibile, re e principi, ministri e plebei" (C. Antoni, Schlosser, Friedrich Christoph, in Enciclopedia Italiana, XXXI, Roma 1936, p. 108). L'opera, che esercitò una vastissima influenza sui ceti medi tedeschi, muove infatti dal presupposto che la dottrina filosofica kantiana del dovere debba valere sia nella sfera privata sia in quella pubblica, giacché una sola è la legge morale ed è espressa nelle regole di vita del 'vero e retto uomo'. Perciò egli ricorda la libertà di pensiero di Federico II solo per farlo apparire più meritevole della condanna a lui inflitta da Dante nell'Inferno. Ai suoi occhi lo Svevo fu l'artefice di un violento dispotismo che privò della libertà le città lombarde con la violenza e con l'inganno, che esaurì le forze della Sicilia, che sacrificò in Germania beni e diritti dell'Impero. D'altronde, l'intransigente rigorismo morale di Schlosser, che lo induce a formulare giudizi tanto taglienti senza nondimeno riservare miglior trattamento agli avversari dell'imperatore, è legato al senso di libertà e all'idea di rettitudine morale propri della borghesia tedesca dei decenni a cavaliere dei secc. XVIII e XIX.
Negli stessi anni, la storiografia napoletana e siciliana guardava a Federico II con spirito molto diverso da quello di Müller e di Schlosser. Essa era partecipe dell'intensa circolazione di idee di riforma e di trasformazione della società e dell'economia, delle istituzioni e dei valori sociali, che nell'Italia e nell'Europa del Settecento cercavano la via non sempre facile della sanzione legislativa. Se Giannone aveva collocato lo Svevo nel solco della tradizione normanna, elogiandolo soprattutto per aver difeso lo stato dalla prepotenza dei papi e per aver promulgato leggi "utili e sagge", furono il filosofo ed economista Antonio Genovesi e, soprattutto, il suo allievo Giuseppe Maria Galanti, nel Saggio storico sulla costituzione del regno, a sottolineare le novità introdotte dal governo di Federico: "Le nostre province avevano bisogno di una gran riforma e Federico la cominciò collo sviluppare nel cuore de' sudditi la forza della ragione, l'amor dell'ordine e del bene pubblico" (Descrizione dello stato antico e attuale del contado di Molise; con un saggio storico sulla costituzione del regno, I-II, Napoli 1781; I, p. 197).
Galanti, che di lì a poco, nella Descrizione geografica e politica delle Sicilie (Napoli 1786-1794), avrebbe denunciato l'arretratezza del Mezzogiorno stigmatizzando le resistenze e le invadenze, politiche e sociali, dei ceti avversi alla riforma e, tra questi, innanzitutto del clero, vedeva perciò in Federico colui che per primo aveva concepito l'ardito disegno di civilizzare i "barbari" costumi dei suoi tempi ricorrendo al metodo "de' gran legislatori" (Descrizione dello stato, I, pp. 197, 201 s.). Galanti ricordava nondimeno che i progetti del sovrano svevo erano morti con lui e che con gli Angioini e con gli Aragonesi era invece prevalsa la tendenza degenerativa a rafforzare i poteri di fatto nell'organizzazione dello stato e della società ‒ fino all'estremo deterioramento del tessuto istituzionale e sociale provocato dalla dominazione spagnola e non ancora sanato, neppure nel presente. Galanti condivideva con la maggior parte dei riformatori napoletani degli ultimi decenni del secolo la convinzione che la legislazione e gli istituti giuridici normanni e svevi fossero più avanzati persino di quelli settecenteschi e proprio tale convincimento aveva indotto Gaetano Carcani a procurare la pubblicazione a stampa delle Costituzioni federiciane (Constitutiones Regni Siciliae, Neapoli 1786), che rimase fino a pochissimi anni fa la principale edizione di riferimento per tutti gli studiosi dell'età sveva.
Di lì a poco, Rosario Gregorio, storico, archeologo e arabista, nel terzo libro delle Considerazioni sopra la storia di Sicilia, scritte negli anni Novanta del Settecento e pubblicate a Palermo nel 1805, avrebbe ripreso il giudizio di Galanti, sottolineando come Federico, in tempi in cui gli altri principi e le altre nazioni non solo non avevano ancora un codice e una legislazione ordinata, ma neppure avevano sottratto alla polvere degli archivi "editti, capitolari e assise", "seppe il primo […] immaginare un corpo di diritto e comprenderlo in un codice, il quale contenesse leggi a stabilire il sistema politico, ed a regolare le azioni e i giudizi", con "una compilazione di leggi ad esempio dei Teodosi e dei Giustiniani" (III, pp. 14 s.). Federico, afferma Gregorio, propagò in Sicilia "i lumi del diritto", determinando la struttura, gli uffici e i modi di rappresentanza dei 'corpi municipali', sottraendo ai signori la giurisdizione criminale, frenando le guerre private con un saldo sistema di amministrazione della giustizia, articolato in distretti e in province, regolamentato nelle forme e negli ordini dei giudizi. Il riformismo di Federico II gli appariva perciò molto più avanzato di quello austro-toscano e borbonico. Tessendo l'elogio del sovrano svevo, Gregorio affermava il primato del Codice e ne faceva lo strumento principe di ogni 'riforma'; prendeva altresì partito nel dibattito in corso sui modelli di codificazione legislativa pronunciandosi contro quello inglese e a favore di quelli prussiano e francese.
La storiografia napoletana e siciliana, ancora più fortemente di quella prussiana, celebrava quindi in Federico II il legislatore illuminato, il politico abile e spregiudicato, il ghibellino salvatore dell'autonomia dello stato, contribuendo a diffonderne in tutta Europa l'immagine di nume tutelare di ogni riformismo dall'alto, ancora in grado di ammaestrare il presente su come rimediare ai guasti provocati dal sistema feudale e dal clero nello stato, nella società, nell'economia.
Per quanto condividesse il giudizio positivo sugli interventi legislativi di Federico II, lo storico ed economista Jean-Charles-Léonard Simonde de Sismondi, ginevrino di nascita e 'toscano d'adozione', preferì dar voce, nel presentare il sovrano nella sua Histoire des républiques italiennes du Moyen Âge (I-XVI, Paris 1807-1809 [trad. it. Storia delle repubbliche italiane de' secoli di mezzo, I-II, Lugano 1838]), al fervido amore per la libertà e all'apprezzamento per i valori di civiltà, da lui anteposti a quelli politici e militari. La Histoire, scritta nello spirito del XVIII sec. e tutt'altro che scevra dall'influenza umanistica e romantica del circolo di Coppet, è un'appassionata esaltazione dei comuni italiani, considerati come la prima manifestazione di libertà nel Medioevo. Non per caso l'opera divenne il 'vangelo' del Risorgimento italiano (F. De Sanctis, Scritti varii inediti o rari, a cura di B. Croce, I, Napoli 1898, p. 152). Richiamandosi a Giannone e a Muratori, Sismondi mise in risalto gli aspetti dell'operato di Federico II che ne avallavano l'immagine di principe illuminato, come la riforma del sistema giuridico e il sostegno assicurato alla cultura; ma non poteva apprezzare senza riserve il sovrano che a più riprese aveva tentato di conculcare la libertà delle città italiane. Perciò Sismondi, benché fosse egli stesso ostile ai pontefici e preoccupato di tracciare un solco tra la storia dei comuni italiani e quella della Chiesa, lasciò sullo sfondo, volutamente un po' sfocata, l'immagine del potente imperatore ostile ai baroni e ai pontefici, sottolineando piuttosto la volontà di Federico di riappacificarsi con il papato, anche al prezzo delle più penose umiliazioni (Histoire des républiques, 1807-1809, III, p. 79 [1838, I, p. 279]). Poiché riteneva che civiltà e libertà non potessero procedere a lungo separate, riconobbe sì, con Dante, che "la poesia italiana deve […] in qualche modo la sua origine ai re siciliani e ai loro sudditi", ma aggiunse, subito dopo, a giustificare il ritardo dei 'lombardi': "Il vantaggio che i regnicoli di Sicilia ebbero sulle repubbliche italiane va ricondotto in gran parte all'amore dei piaceri e dell'effeminatezza purtroppo così comune tra i poeti, che fece sì che essi preferissero quasi sempre il lusso e l'adulazione delle corti alla severità e all'eguaglianza repubblicana" (ibid., II, p. 471 [I, p. 255]). Sismondi, infatti, contrapponeva sempre all'assolutismo centralizzatore il sistema dello stato federale e, diversamente da altri prima e dopo di lui, non volle ricondurre la distruzione della libertà italiana, alla fine del XV sec., alla mancanza di uno stato unitario. Riteneva anzi che le vicende della storia di Spagna, tramontata proprio perché governata centralisticamente, dovessero indurre l'Italia a cercare la salvezza e il futuro in una costituzione federativa repubblicana (ibid., XII, pp. 7 ss. [II, p. 370]).
Herder, Funck, Müller, Schlosser e Sismondi guardavano all'età di Federico II, non diversamente da Voltaire, come a un momento di passaggio da un'epoca di predominio dell'autorità religiosa a tempi in cui sarebbero prevalse ovunque in Europa forme nuove di libertà civile. L'apprezzamento per Federico II di Voltaire, di Herder e di Funck traeva origine dal fastidio per ogni forma di omologazione religiosa, se non dalla preferenza accordata agli ordinamenti statuali di-spiegati in grandi spazi territoriali. Diversamente, Müller e Schlosser prediligevano la moltitudine delle piccole patrie e anelavano all'armonia religiosa. Sismondi, pur con alcune riserve, riteneva che la libertà moderna, 'inglese', fosse la più adatta a promuovere l'ordinato sviluppo della società, e pensava che l'Italia fosse stata grande quando era libera nei suoi comuni medievali e che avesse cominciato a decadere e a rimpicciolirsi moralmente quando la Chiesa e il principato la chiusero in una cappa di piombo. Gli storici napoletani e siciliani ritenevano invece che lo stato federiciano, fin troppo moderno per la società del tempo, rappresentasse un'occasione di sviluppo mancata, da recuperare alla memoria e al presente. Ad eccezione di Carcani e di Gregorio, tutti gli autori ricordati, italiani o stranieri, nel parlare nelle loro opere di Federico II non scoprirono e usarono nuove fonti, ma si limitarono a rileggere i risultati conseguiti dalle ampie ricerche di coloro che li avevano preceduti alla luce di nuove linee interpretative, protese a incoraggiare i contemporanei a costruire un futuro migliore e, ai loro occhi, più umano. Le scelte politiche di Federico II apparvero perciò loro come problemi ancora aperti, sui quali non potevano non riverberarsi le aspre discussioni allora in corso sull'assetto dell'Europa e sul futuro dei suoi diversi paesi, sulla opportunità o meno di preferire la centralizzazione politica all'autoamministrazione locale e l'unità religiosa alla pluralità delle fedi.
Nel XIX sec., in un clima culturale ormai prevalentemente romantico, tali questioni erano diventate di bruciante attualità, soprattutto in Italia e in Germania. Nel mondo tedesco e nelle sue varie articolazioni statuali, dopo l'abolizione del Sacro Romano Impero (1806) e il naufragio dei tentativi napoleonici di ridisegnare la carta politica della Germania, venne da più parti sollevato il problema del superamento del tradizionale particolarismo e della creazione di nuove forme di aggregazione politica che preludessero all'unificazione di tutta l'area tedesca. Influenzato da questi dibattiti e convinto che le antiche leggi e consuetudini particolaristiche, cetuali o regionali che fossero, andassero riformate dall'alto, così come insegnava il Codice generale prussiano, il professore berlinese Friedrich von Raumer si volse a ricostruire la Storia degli Hohenstaufen e del loro tempo (Geschichte der Hohenstaufen und ihrer Zeit), un'opera iniziata nel 1807 e pubblicata a Lipsia in sei tomi tra il 1823 e il 1825. Dopo aver raccolto, con notevole cura, tutte le fonti narrative e documentarie allora note, egli tracciò un ritratto di Federico II come eroe nazionale e genio insuperato dell'arte dello stato, in un affresco storico di grande suggestione, cui facevano da sfondo la lotta tra Oriente e Occidente nell'età delle crociate e una concezione dell'Impero come compendio dell'intera cristianità. Raumer narrò il 'dramma luttuoso' della casa sveva, la parabola che essa compì innalzandosi, prima, al di sopra di tutte le altre casate principesche, per divenire poi, "dopo aver emanato un accecante bagliore di sole e aver raggiunto un'incomparabile altezza, preda di un tragico destino, terribile e senza uguali, e sprofondare così, improvvisamente, nella più cupa notte, al punto da non lasciare di sé nessuna traccia" (ibid., I, p. 291). Secondo Raumer gli Svevi perseguirono l'ardito disegno di costruire uno stato, prima con il Barbarossa, un principe eroico e avveduto che avrebbe voluto governare Italia e Germania "come uno stato tranquillo e bene ordinato" (ibid., II, pp. 6 ss.; III, p. 3); poi con Enrico VI, che avrebbe sostituito "alla pura fermezza la spietata coerenza dell'intelletto" (ibid., III, p. 4); infine con Federico II, che nella sua opposizione ai papi "potremmo dire che divenne protestante" (ibid., IV, passim). Nella sua lotta contro il pontefice Federico II avrebbe impedito il formarsi di un unico potere in grado di condizionare sia la sfera religiosa sia quella secolare. Se spostò il centro del suo Impero in Sicilia è perché in Germania, prima della sua ascesa al trono, i principi avevano a tal punto rafforzato i loro poteri da rendere velleitario qualsiasi tentativo di riportarli sotto il controllo imperiale. D'altronde, ciò che egli realizzò in Italia rivela la statura dell'uomo, mettendolo al riparo da qualsiasi accusa di essersi esclusivamente abbandonato ai piaceri terreni. Per Raumer, lo stato federiciano, che ebbe nell'imperatore il legislatore e il giudice, impedì agli ecclesiastici di porsi al di fuori dell'ordinamento giuridico vigente, frenò e, al tempo stesso, spronò nobiltà, borghesia e contadini, facendo leva su funzionari consapevoli del proprio dovere e su una costituzione volta al bene comune. Favorì inoltre l'arte e la scienza, la poesia e il rispetto per le donne, innalzando tutti gli uomini ai più alti livelli di vita.
La Storia degli Hohenstaufen e del loro tempo, dedicata a Federico Guglielmo III di Prussia, non narra solo le vicende dei sovrani svevi, ma anche quelle del loro ceto di governo, oltre alla storia di diversi sovrani europei, bizantini e islamici, senza rinunciare, come avevano insegnato Voltaire e Müller, ad aprire squarci verso la vita quotidiana dello stato, il mondo del diritto, l'artigianato, il commercio, la scienza, l'arte, i costumi e gli usi sociali. I comuni mortali, fossero essi monaci, cittadini o contadini, vi apparivano però "solo come spettatori che osservavano da lontano lo sfarzo e la magnificenza delle corti" (Borst, 1981, p. 85). Nel complesso l'età degli Svevi veniva quindi presentata come un'epoca di dominio personale e aristocratico, fortemente esposta ai bruschi rivolgimenti della storia, resi solo in minima parte meno rovinosi dal primo costituirsi di un apparato amministrativo.
L'opera di Raumer ebbe una straordinaria fortuna tra i grandi scrittori e poeti dell'Ottocento tedesco, da Karl Immermann a Konrad Ferdinand Meyer, da August von Platen a Wilhelm Waiblinger, che esaltarono in Federico II la tragica grandezza di un uomo tradito dai figli e dai più fidati collaboratori, la maestosa solitudine di un sovrano elevato a emblema "della sostanziale insensatezza e ingiustizia della storia" (M. Cometa, Mitologie federiciane nella cultura tedesca, "Nuove Effemeridi. Rassegna Trimestrale di Cultura", VII, 28, 1994, pp. 34-39, in partic. p. 37). D'altronde, in Raumer risuona ancora un'idea di nazione intrisa di antico universalismo, alimentata dal ricordo delle passate glorie imperiali e non ancora snaturata dagli appetiti di un nazionalismo volto a conglobare imperialisticamente, sotto un unico dominio, popolazioni e territori diversi; lo stesso universalismo nostalgico che indusse molti tedeschi, per tutto l'Ottocento, a cercare la 'patria' (Vaterland) nelle 'terre dei padri', a eleggere Palermo e molti altri centri dell'Italia meridionale a luoghi della memoria del Sacro Romano Impero della Nazione tedesca, facendo sì che essi divenissero mete di frotte di viaggiatori e di pellegrini alla ricerca dei momenti più alti del proprio passato (cf. E. Osterkamp, Sizilien. Reisebilder aus drei Jahrhunderten, München 1986). Una concezione dell'Impero analoga a quella di Raumer venne del resto espressa pure alla dieta di Francoforte il 12 agosto 1848, quando la maggioranza dei deputati, chiamati ad affrontare la questione italiana e a decidere se concedere o meno sostegno ai movimenti di indipendenza della penisola, affermò che la patria si collocava al di sopra del principio nazionale e che la dominazione tedesca avrebbe potuto e dovuto guidare l'Italia e il genere umano verso i più alti traguardi di civiltà ‒ come già ai tempi degli Svevi.
Nella prima metà dell'Ottocento non tutti gli storici mostravano per Federico II la stessa benevola inclinazione. Alcuni non riuscivano anzi a nascondere la propria irritazione per la politica antipapale dello Svevo e per la sua apparente estraneità alla religiosità medievale. Nel 1844, lo storico cattolico Konstantin von Höfler (Kaiser Friedrich II. Ein Beitrag zur Berichtigung der Ansichten über den Sturz der Hohenstaufen, München 1844) ripropose, sulla base dei registri pontifici, da lui accuratamente studiati, l'immagine tardomedievale e controriformistica di un Federico II dominato da un'ambizione sfrenata e pronto a sperperare doti e qualità non comuni nella violenta lotta contro la Chiesa, che per Höfler era l'unico baluardo in terra di un ordine superiore, eretto a presidio della libertà del mondo cristiano contro la furia distruttiva dell'imperatore. Del resto, che neppure la più solida erudizione potesse costituire un antidoto in grado di guarire da plurisecolari prevenzioni e preclusioni si evince anche dai giudizi espressi da Johann Friedrich Böhmer, che aveva raccolto per anni, con non comune acribia, la documentazione federiciana, per pubblicare, tra l'altro, nel 1847, i Regesta Imperii. Nell'introduzione all'opera, Böhmer non esitava infatti a dar voce alla nostalgia per i tempi in cui una sola fede reggeva un unico grande Impero, e dipingeva Federico II, con toni non diversi da Schlosser, come un uomo corrotto fino al midollo, un vero e proprio flagello per tutti i popoli a lui sottomessi, un uomo succube delle passioni, che preferì l'Italia alla Germania solo perché nella penisola poteva più liberamente dar corso alle sue pulsioni. Diversamente da quanto era avvenuto nei secoli precedenti, nell'Ottocento simili posizioni potevano accomunare cattolici e protestanti, uniti nella lotta contro il comune nemico, lo stato laico, di cui Federico II era divenuto da tempo uno dei campioni. Puntuale giunse perciò la replica dallo schieramento liberale, che con Friedrich Wilhelm Schirrmacher, autore di un'accuratissima monografia, in quattro volumi, su Federico II imperatore (Kaiser Friedrich der Zweite, Göttingen 1859-1865), esaltò in lui l'antesignano dell'affrancamento dello stato dai condizionamenti delle gerarchie ecclesiastiche.
Ben altro tenore ha il profilo che di Federico II e dei suoi tempi tracciò Leopold von Ranke nelle Epoche della storia moderna (Über die Epochen der neueren Geschichte), il ciclo di conferenze da lui tenute nel 1854 a Berchtesgaden, ospite del re Massimiliano II di Baviera, e nei frammenti della Storia universale (Weltgeschichte, 1881-1885), l'opera cui ancora attendeva al momento della morte, per comprendere e dimostrare la correlazione storica universale tra i diversi periodi. Ranke ritiene che lo sviluppo storico non si realizzi in un solo popolo ma nella comunità di tutti i popoli romano-germanici e che in ciascun secolo operino delle 'idee direttive', delle 'tendenze dominanti', da lui intese non come potenze trascendenti ma come formazioni del tutto immanenti, frutto delle concrete esigenze degli uomini. Egli sottolinea come nella prima metà del XIII sec., il periodo in cui regnò Federico II, avesse finalmente raggiunto piena compiutezza, dopo secoli di lunga gestazione, "lo stato ecclesiastico guerriero dei popoli romano-germanici" (Weltgeschichte, a cura di A. Dove, VIII, Leipzig 18873, p. 400), soprattutto ad opera del papato. Fu infatti quest'ultimo a trionfare nello scontro tra le potestà universali, e fu il papato a favorire più e meglio dell'Impero la 'tendenza' unitaria dell'Europa medievale. La signoria universale del 'principio spirituale' consentì anzi al mondo occidentale di acquisire la forma unitaria che era ancora a fondamento della civiltà europea dell'Ottocento e che Ranke vedeva incarnata nelle esperienze politiche dell'età della Restaurazione, caratterizzate dalla duratura e ininterrotta unità dello spazio europeo appena scalfita dalle divisioni interne. Nella sua lotta contro i pontefici, nel suo disegno imperiale di sovranità del mondo, Federico II apparve perciò a Ranke come un sovrano lontano dalle 'tendenze' dell'Europa del tempo, come un epigono della tradizione degli Hohenstaufen, che avrebbe conosciuto con il Barbarossa il suo momento più alto e che si sarebbe esaurita già con Enrico VI. Federico II, nato in Italia "dal ramo trapiantato nel suolo siciliano" degli Hohenstaufen, fu del resto allevato in Sicilia, molto lontano dalle terre degli Svevi, e nel suo Regno mediterraneo subì gli influssi "dei vari elementi che lì si incontravano" (ibid., pp. 336 s.). D'altronde, per lo storico prussiano, Federico II non era né poteva essere un Hohenstaufen "della vecchia scuola" (Über die Epochen der neueren Geschichte. Historisch-kritische Ausgabe, a cura di H. Berding-Th. Schieder, München-Wien 1971, p. 252), anche perché doveva la corona imperiale al pontefice e non riuscì a sottrarsi che molto faticosamente all'originaria dipendenza, comunque non prima della pace di San Germano. Proprio per tali ragioni non volle mai diventare per principio nemico giurato della Chiesa e cercò sempre di assecondarne gli interessi, a meno che essi non fossero palesemente in contrasto con i suoi. Anche se dimostrò in più di un caso buone qualità, non ebbe poi l'intelligenza politica del Barbarossa, dal momento che non fu in grado di mettere a frutto la vittoria da lui conseguita a Cortenuova, né seppe condurre guerre e concludere tregue e paci separate con i comuni e con il papa, così come aveva insegnato il suo avo. Indubbiamente, nel Mezzogiorno e in Sicilia "costruì uno stato così fortemente centralizzato quanto nessun altro nel Medioevo, e fu tra i primi sovrani capaci di comprendere punti di vista mercantili e soprattutto politico-economici" (Weltgeschichte, 18873, VIII, pp. 343 s.); ma agli occhi di Ranke lo stato unitario che Federico II realizzò era poco più che un esempio di buona amministrazione, che non avrebbe mai potuto riscattare il suo disegno politico dalla marginalità in cui lo aveva ormai relegato lo 'sviluppo' della storia. D'altra parte, Ranke pensava che lo stato dovesse fondarsi su basi morali e non sulla pura forza; riteneva che esso emanasse dalle oscure profondità della nazione, ma che la sua energia morale formasse, a sua volta, la nazione. Se la storiografia costituzionale e giuridica tedesca si volgeva a considerare prevalentemente per sé la storia interna di uno stato o di una nazione, muovendo dal presupposto di uno sviluppo organico isolato dei poteri e delle funzioni operanti nei diversi ambiti della vita associata, dalla famiglia e dalla comunità di villaggio fino ai grandi ordinamenti politici ed ecclesiastici, Ranke rivolgeva costantemente la sua attenzione al sistema europeo degli stati e ai rapporti di forza internazionali che operano sempre anche nella politica interna dei governi, modificandola. Avrebbe quindi potuto guardare con occhi diversi all'operato di Federico II nel Regno di Sicilia?
Ranke conquistò la sua fama di grande storico già durante gli anni Trenta e Quaranta del XIX sec., con la Storia dei papi (Die römischen Päpste, ihre Kirche und ihr Staat im sechzehnten und siebzehnten Jahrhundert, Berlin 1834-1836, poi con il titolo Die römischen Päpste in den letzten vier Jahrhunderten, in Id., Sämmtliche Werke, XXXVII-XXXIX, Leipzig 1878) e la Storia della Germania nell'età della Riforma (Deutsche Geschichte im Zeitalter der Reformation, Berlin 1839-1847). Non dovrebbe perciò sorprendere se ad ascoltare a Berlino le sue lezioni convennero molti di coloro che sarebbero poi divenuti protagonisti del dibattito storiografico della seconda metà dell'Ottocento e che espressero posizioni talvolta tra loro contrastanti, anche relativamente a Federico II: Giesebrecht, Sybel e persino Burckhardt. Secondo Heinrich von Srbik, pure Ferdinand Gregorovius, che non fu tra gli allievi diretti di Ranke, si inserì su un "ramo fiorito" della Kulturgeschichte ottocentesca, cresciuto sul tronco della tradizione rankeana (H. von Srbik, Geist und Geschichte vom deutschen Humanismus bis zur Gegenwart, I-II, München-Salzburg 1950: I, pp. 315, 320; II, p. 137), e certamente l'influsso di Ranke è ben riconoscibile nel ritratto che egli delineò di Federico II.
Gregorovius tornò a più riprese sul sovrano svevo, sia nella Storia della città di Roma nel Medioevo (Geschichte der Stadt Rom im Mittelalter), pubblicata a Stoccarda tra il 1859 e il 1872, sia negli Anni di viaggio in Italia (Wanderjahre in Italien), che vennero dati alle stampe a Lipsia tra il 1856 e il 1877. Se Ranke guardava alla storia del Medioevo vedendo in essa l'incontro e la mescolanza di germanico e di romanzo, da cui sarebbe scaturita l'Europa moderna come parte della storia universale dell'umanità, Gregorovius si proponeva di osservare da Roma lo sviluppo del mondo medievale, separando rigorosamente la storia della città dalla storia della Chiesa. Come già Sismondi, egli riteneva che fosse nei comuni "l'avvenire del mondo […] e la nuova base della civiltà […]" (Geschichte der Stadt Rom im Mittelalter vom V. bis zum XVI. Jahrhundert, a cura di W. Kampf, I-IV, München 1978: II, 1, p. 370 [trad. it. Storia della città di Roma nel Medioevo, I-III, Torino 1973: II, p. 1230]). Non diversamente dallo storico ginevrino avrebbe perciò incontrato il favore di Francesco De Sanctis, che nel 1872, ai suoi studenti napoletani, indicò nella Storia della città di Roma nel Medioevo un autentico capolavoro (La letteratura italiana nel secolo XIX. Scuola liberale - Scuola democratica, lezioni raccolte da F. Torraca e pubblicate con prefazione e note di B. Croce, Napoli 19144, pp. 56 s.). Come già Ranke, Gregorovius vide nel XIII sec. l'apogeo del Medioevo, emblematicamente racchiuso tra i pontificati di Innocenzo III e di Bonifacio VIII. È questo il periodo in cui l'Impero, dopo un ultimo bagliore di luce sotto Enrico VI, si congedò definitivamente dalla storia, per lasciare il campo alla Chiesa e ai nascenti stati nazionali. Il papa, che con il suo sostegno aveva assicurato a Federico II la corona imperiale e quella siciliana, divenne protettore e arbitro di un Impero ormai indebolito e lacerato dalle divisioni interne e dalle guerre continue. Federico II, benché avesse appreso dalla Chiesa l''arte della politica', non ebbe mai la misura e la capacità di giudizio che erano state del Barbarossa; combatté perciò i comuni dell'Italia centrosettentrionale senza comprendere che la storia era ormai dalla loro parte, e apparve agli italiani come "un insaziabile tiranno" (Geschichte der Stadt Rom, 1878, II, 1, p. 375 [1973, II, p. 1235]). Inoltre restò "solo e debole" nella lotta contro il papato, "perché la sostenne in nome di un concetto astratto […] in nome dell'Impero, […] non di un vero e proprio stato e di una nazione offesa nei suoi diritti" (ibid., p. 399 [1973, p. 1262]). Diversamente da Raumer, Gregorovius riteneva che fosse anacronistico vedere nell'imperatore un precursore della Riforma, giacché enorme gli appariva la distanza tra la spiritualità medievale e quella di Lutero. Come Ranke, fu però propenso a pensare che le guerre combattute da Federico contro il potere politico della Chiesa spargessero per l'Italia e per l'Europa "molti nuovi semi della Riforma", destinati a germogliare secoli dopo (ibid., p. 408 [1973, p. 1271]). Per Gregorovius anche "il principio ghibellino", affermato da Federico II nella battaglia contro i papi, per sottrarre loro ogni influenza e potestà, civile e politica, e per "strappare alla Chiesa i possedimenti temporali" (ibid., p. 377 [1973, p. 1237]), avrebbe goduto di notevole fortuna nei secoli seguenti, fino a essere sussunto nel principio dell'unitarietà del potere e indissolubilmente legato al concetto di 'unità nazionale' nel corso dell'Ottocento. Proprio perché volle far propria tale prospettiva, Gregorovius non poté non apprezzare il Federico II sovrano e legislatore dell'Italia meridionale, che gli apparve come il costruttore di uno stato unitario e fortemente accentrato. Del resto, se le simpatie, anche politiche, di Ranke andavano "alla comunità spirituale dei popoli d'Europa", che egli vedeva "riflessa nel sistema politico fondamentalmente unitario della Santa Alleanza" (G. Liberati, Federico II nella storiografia tedesca. Ranke e Gregorovius, in Atti delle quarte giornate federiciane, Bari 1980, pp. 221-235, in partic. p. 232), Gregorovius era invece attento spettatore dei processi di unificazione nazionale e guardava con partecipe interesse ai movimenti politici che li sostenevano, fossero essi ungheresi, polacchi o italiani. A differenziare Ranke da Gregorovius e dagli altri storici che avrebbero scritto di Federico II nella seconda metà dell'Ottocento era infatti il diverso valore attribuito all'idea di nazione, il graduale venir meno della distinzione, cara a Ranke, tra 'nazione culturale' e 'nazione statale'.
Nella prima metà del XIX sec. la nazionalità concepita come un principio universale che accomuna i popoli in un vincolo di uguaglianza e di fratellanza, nell'obbedienza a una comune legge di libertà e di indipendenza, cede gradualmente il passo a un'idea di nazione concepita come singola individualità, portata a far centro in se stessa, a seguire la sua strada indipendentemente dal più generale interesse del concerto dei popoli europei. Se il momento universale si richiamava, nelle sue origini, ai principi della democrazia, alla 'sovranità del popolo' bandita dalla rivoluzione francese, all'identificazione fra sovranità popolare e sovranità nazionale, nel corso dell'Ottocento la sovranità nazionale e il principio di nazionalità consacrano la concezione dello stato come nazione e della nazione come legittimo fondamento dello stato, fino a farne la parola d'ordine di quella rivoluzione delle nazionalità che doveva trovare nel Risorgimento italiano e nell'unificazione germanica la sua più evidente espressione. Via via che il principio di nazionalità si traduce in atto si delinea però la tendenza ad accentuare il patriottismo nazionale, per cui in Germania, già alle soglie dell'Ottocento, si profila una netta reazione contro quelle che vengono giudicate le astrazioni dell'universalismo illuministico. Siamo ancora lontani dall'egocentrismo nazionale degli ultimi decenni dell'Ottocento, ma la tendenza a concentrarsi sulle memorie nazionali si riflette subito nella storiografia e persino nell'erudizione, che, lasciata da parte ogni aspirazione universalistica, si volge a cercare prevalentemente le fonti per conoscere le vicende del proprio paese. Se Herder, per esaltare l'arte spontanea e primitiva dei popoli, aveva ancora raccolto i canti popolari di ogni parte del mondo nelle sue Voci dei popoli nei canti (Stimmen der Völker in Liedern, Leipzig 1778-1779), rispondendo ai richiami dell'universalismo illuministico, Achim von Arnim e Clemens Brentano si erano invece limitati ai canti popolari tedeschi, mentre i fratelli Jakob e Wilhelm Grimm si erano dedicati alle sole fiabe popolari tedesche o a illustrare le antichità e la mitologia germanica.
In questo clima culturale, nel 1819, il barone Karl von Stein promosse la fondazione di una Societas aperiendis fontibus rerum Germanicarum medii aevi, un sodalizio che inizialmente avrebbe dovuto essere rivolto alla pubblicazione di fonti soprattutto letterarie, ma che già nel 1823-1824, per iniziativa di Georg Heinrich Pertz, si era allargato a tutte quelle serie di fonti (Scriptores, Leges, Diplomata, Epistolae, Antiquitates) che ancora oggi caratterizzano, per ampiezza e per rigore filologico, i Monumenta Germaniae Historica, prevedendo sin dall'inizio l'edizione della legislazione e degli atti federiciani. E anche se per i diplomi della cancelleria sveva quel progetto ancora non è giunto a conclusione, coloro che nel corso degli ultimi due secoli ne sono stati investiti, da Böhmer a Ficker, da Winkelmann a Kehr e a Koch ‒ per ricordare solo alcuni ‒, hanno comunque dato un prezioso contributo alla raccolta sistematica dell'ingente documentazione sveva dispersa negli archivi e nelle biblioteche di tutta Europa.
All'inizio dell'Ottocento la progressiva virata della cultura tedesca verso il patriottismo nazionale si riflette anche nelle rielaborazioni colte delle leggende popolari. Sono gli anni in cui il poeta e orientalista Johann Michael Friedrich Rückert pubblica la Corona del tempo (Kranz der Zeit, Stuttgart 1817), in cui contrappone il glorioso Impero degli Hohenstaufen alla triste realtà della Germania, riprendendo l'antica saga dell'imperatore dormiente nella montagna del Kyffhäuser, pronto a risvegliarsi per ridare unità alla nazione e per guidarla alla vittoria contro i nemici. Se in origine la leggenda aveva però avuto per protagonista Federico II, nella rielaborazione ottocentesca il suo eroe divenne il 'canuto' Barbarossa, la cui lunga barba nell'attesa e nel trascorrere dei secoli si era "ravvolta alla tavola".
Il primo Federico appariva infatti una figura più rispondente, per la sua vicenda personale e politica, ai sogni di riscatto nazionale e di egemonia tedesca che avrebbero portato nella seconda metà dell'Ottocento alla costituzione dell'Impero prussiano e, a fine secolo, all'edificazione del monumento sul Kyffhäuser, in cui Guglielmo I e Federico Barbarossa vengono rappresentati l'uno al di sopra dell'altro, a simboleggiare la continuità millenaria dell'Impero germanico e l'adempimento con gli Hohenzollern, nell'Ottocento, della profezia della saga.
La preferenza accordata al Barbarossa piuttosto che a Federico II (cui non dovette essere estranea neppure la coeva 'italianizzazione' del secondo Svevo operata dalla cultura del Risorgimento) trova un immediato riscontro nei dibattiti politici e storiografici seguiti al fallimento della rivoluzione del 1848-1849 e caratterizzati dal contrasto fra le correnti grande e piccolo-tedesca su vantaggi e svantaggi che la politica italiana degli imperatori avrebbe comportato per l'unità e per il sentimento nazionale tedeschi.
Diede fuoco alle polveri, nel 1859, lo storico e politico di ispirazione liberal-nazionale Heinrich von Sybel, in un discorso (Über die neueren Darstellungen der deutschen Kaiserzeit, München 1859) aspramente polemico contro la Storia dell'epoca dell'impero tedesco (Geschichte der deutschen Kaiserzeit, I-VI, Leipzig 1859-1895) di Wilhelm von Giesebrecht, di cui era appena uscito il primo volume. Giesebrecht, che voleva infiammare gli animi dei suoi lettori di entusiasmo patriottico, additando loro "le virtù cristiano-eroiche" che avevano reso i loro "avi […] liberi, potenti e grandi" (ibid., I, p. XV), riteneva che le nazioni romanze, all'inizio del XII sec., si fossero raccolte intorno al papato e all'idea di crociata, e che avessero cominciato a sperimentare nuove forme di vita: in Francia, con il monachesimo cistercense e con la cavalleria; in Italia, con i comuni e con i rinnovati studi di diritto. Tali tendenze avrebbero investito anche la Germania, provocando, tra l'altro, la trasformazione dell'idea di regalità, che divenne sempre più indipendente dalle precedenti forme di legittimazione derivanti dal popolo (Volk) e sempre più fortemente legata, nelle nuove radici dottrinarie e sociali, al clero e alla nobiltà. Diventava perciò indispensabile trovare un nuovo centro, adeguato ai tempi, intorno a cui raccogliere le rinnovate forze della nazione tedesca, onde evitare che andassero disperse, e ciò poteva avvenire solo aprendosi al nuovo e cercando in Roma la garanzia e la tutela delle antiche tradizioni. Secondo Giesebrecht è proprio questo quanto vollero intraprendere gli imperatori del XII sec., prima con i vani tentativi di Corrado III e poi con il Barbarossa, "un principe assolutamente tedesco", che con le sue discese in Italia riuscì a trovare, "con energica volontà", la strada per fare nuovamente della Germania il cuore dell'Europa (ibid., IV, p. 383; V, passim). Al contrario Sybel riteneva che proprio l'universalismo imperiale degli Svevi avesse gravemente compromesso la possibilità di giungere all'unificazione politica della Germania e che i troppi privilegi concessi ai principi tedeschi in cambio del loro sostegno nella lotta contro i comuni dell'Italia centrosettentrionale avessero pregiudicato in maniera duratura la possibilità di creare un forte stato nazionale, determinando il futuro della Germania come nazione divisa e debole nel cuore dell'Europa. Secondo Sybel, che di lì a pochi anni avrebbe celebrato i fasti storici e politici di Guglielmo I di Hohenzollern, gli autentici eroi del Medioevo erano stati invece quei signori che, come Enrico il Leone e Alberto l'Orso, avevano indicato alla Germania le vie della colonizzazione dell'Europa settentrionale e centrale.
Contro tali giudizi si levò la protesta di Julius Fi-cker, che nel suo scritto L'impero tedesco nelle sue relazioni universali e nazionali (Das deutsche Kaiserreich in seinen universalen und nationalen Beziehungen, Innsbruck 1861) ricordò come la volontà degli imperatori tedeschi di imporre la propria signoria in Italia rappresentasse il naturale corollario della concezione universalistica dell'Impero medievale, che sola poteva conferire ai sovrani e alla loro azione politica significato e senso europeo. Ebbe così inizio una polemica storiografica con Sybel che si sarebbe protratta per alcuni anni e che avrebbe avuto una tarda eco negli anni Venti del Novecento, ad opera di Georg von Below e di Fritz Kern. Ficker ebbe l'indubbio merito di sottolineare come i bisogni politici dello 'stato' mutino con il variare delle epoche, insieme a 'valori' e a 'tendenze', mentre Sybel, preso dalle lotte politiche del presente, pensava di poter fissare per tutti i fenomeni della storia un saldo criterio politico di giudizio. Ficker, anche se era cattolico e vicino alle idee politiche grandi-tedesche, non si fece condizionare troppo dalle dispute sul futuro della Germania e seppe controllare anche il fastidio che avvertiva, non diversamente da Böhmer, per la figura di Federico II, al quale comunque rimproverò un eccessivo coinvolgimento nella politica mediterranea.
Nel suo scritto egli sostenne che era stata la Chiesa ad aggredire l'imperatore e che anche in seguito essa aveva mantenuto nei confronti di Federico un'ostilità tale da non lasciargli altra scelta se non quella dello scontro. Sottrasse inoltre Federico all'isolamento in cui la storiografia confessionale lo aveva relegato, per far di lui un monstrum 'messo di traverso' nella storia, e sottolineò invece come il sovrano svevo non fosse mai stato solo, neppure nella sua lotta contro il papato, giacché in molte città italiane poté contare sull'appoggio dei movimenti anticlericali e sul sostegno di coloro che auspicavano la costituzione di un ampio coordinamento politico-territoriale a guida imperiale. Inquadrò poi gli interventi coercitivi di Federico nel Regno di Sicilia nella più generale tendenza delle monarchie europee a trasformare in sudditi gli abitanti, e ritenne operante nella legislazione siciliana la volontà di assicurare giustizia e una qualche forma di tutela sociale anche ai ceti più umili.
Egli trovò quindi una misura di giudizio che fu consona alla progressiva trasformazione, nella seconda metà dell'Ottocento, della storiografia in sapere 'storico-critico', basato sull'appassionata dedizione allo studio delle fonti e sul loro esame filologico. Ficker fu del resto tra gli studiosi che più contribuirono ad ampliare la conoscenza della documentazione relativa alla storia del sovrano svevo e dei suoi tempi, con la riedizione, insieme a Eduard Winkelmann, dei Regesta Imperii (Innsbruck, dal 1881), con le indagini diplomatistiche e con le Ricerche sulla storia dell'impero e del diritto in Italia (Forschungen zur Reichs- und Rechtsgeschichte Italiens, ivi 1868-1874).
Le diverse posizioni sul significato nazionale e politico dell'Impero tedesco medievale sarebbero rimaste divise fin dopo il 1870 e la restaurazione dell'Impero, ad opera della Germania prussiana cara a Sybel; ma la maggior parte degli storici avrebbe fatte proprie le tesi di Ficker. La storiografia 'filologica' e le sue severe metodiche avevano ormai preso il sopravvento, e i segni di questo trionfo erano riconoscibili anche negli studi federiciani. Alle ampie sintesi cominciarono a sostituirsi gli studi particolareggiati di singoli aspetti del regno di Federico II, insieme alle edizioni di fonti narrative e soprattutto documentarie.
Alle pubblicazioni di cronache e annali nei Monumenta Germaniae Historica ad opera di Ernst Herrenfeuchter, Oswald Holder-Egger, Philipp Jaffé, Johann M. Lappenberg, Felix Liebermann, Reinhold Pauli, Georg Heinrich Pertz, Georg Waitz, Wilhelm Wattenbach, Ludwig Weiland e altri, si affiancava la stampa di lettere e di documenti, per mano di Carl Rodenberg (Epistolae saec. XIII e regestis pontificum Romanorum selectae, 1883-1894), Johann Friedrich Böhmer (Acta Imperii selecta, Innsbruck 1870) ed Eduard Winkelmann (Acta Imperii inedita, ivi 1880-1885). Anche quando con Winkelmann si tornava nuovamente a presentare, in un unico volume, la Storia dell'imperatore Federico II e dei suoi regni (Geschichte Kaiser Friedrich des Zweiten und seiner Reiche 1212-1235, Berlin 1863-1865) oppure, tout court, L'imperatore Federico II (Kaiser Friedrich II., Leipzig 1889-1897), l'estrema cura per il particolare erudito e l'ansia di accertamento dei singoli fatti storici facevano sovente perdere di vista i più ampi nessi significativi e il tracciato unitario del discorso. Non per caso entrambe le opere di Winkelmann rimasero incompiute. La storiografia, anche quella federiciana, aveva ormai rinunciato a comprendere la storia nelle sue grandi connessioni e aveva acquisito un carattere prevalentemente analitico.
Nella seconda metà dell'Ottocento cominciò tuttavia a profilarsi, in Germania e in Europa, un movimento di protesta contro la 'parcellizzazione' del sapere e il dominio degli specialismi, propri della storiografia 'professionale'. Prima però di proseguire per questa strada, è necessario fare un passo indietro e tornare all'Italia dei primi decenni del XIX sec., agli anni in cui le aspirazioni patriottiche del Risorgimento, che nel Medioevo, ben più che nell'età romana, trovavano di che alimentare le loro speranze, orientavano anche il dibattito su Federico II.
Non diversamente che in Germania, anche nella penisola furono i contraccolpi della rivoluzione francese e del dominio napoleonico a favorire la formazione di una coscienza politica moderna, costringendo gli intellettuali italiani a schierarsi e a formulare in modo nuovo il problema dell'identità nazionale. Storici e letterati cominciarono perciò a chinarsi sulla storia della nazione e sulle sue glorie culturali e politiche, per sottolineare i caratteri unitari del suo passato e costruire una memoria condivisa dei vari tentativi, ancora ignoti o trascurati, di dare all'Italia un'unità anche politica. Fu così che Federico II, per la sua strenua lotta contro il papato e per le sue frequentazioni culturali, venne improvvisamente arruolato tra le avanguardie dell'esercito di riscossa nazionale.
Se già nel Settecento era venuto in primo piano il legame necessario che stringeva l'immagine italiana al problema della lingua, con l'Ottocento si fece via via più chiaro quanto forte fosse il nesso tra unità linguistica e unità politica. Perciò gli intellettuali cominciarono a considerare loro precipuo compito quello di assicurare alla nazione che doveva formarsi un unico idioma, in grado di superarne le divisioni interne e di garantirne l'indipendenza da influenze esterne. All'affermarsi del predominio francese in tutto il secolo, i letterati italiani risposero rinnegando il secentismo e guardando indietro nel tempo alle proprie radici, linguistiche e letterarie.
È noto che l'idea secondo cui i poeti siciliani facevano parte di una comune tradizione letteraria della penisola risale al De vulgari eloquentia di Dante. Di qui venne poi ripresa nei secoli successivi, nella Raccolta Aragonese donata da Lorenzo il Magnifico a Federico d'Aragona, nell'Italia illustrata di Flavio Biondo e ancora nella Istoria della volgar poesia di Giovan Mario Crescimbeni, per entrare gradualmente a far parte, tra Settecento e Ottocento, del canone storiografico della letteratura italiana ‒ non senza l'opposizione dei puristi.
Fu tuttavia Ugo Foscolo, durante il suo esilio in Inghilterra, a sottolineare con forza il nesso esistente tra storia della lingua e storia della nazione, e ad affermare che le origini della letteratura italiana andassero cercate nella Scuola poetica siciliana (v.) da lui indissolubilmente legata all'iniziativa di Federico II. A suo dire, Federico "aspirava a riunire l'Italia sotto un solo principe, una sola forma di governo e una sola lingua; e tramandarla a' suoi successori potentissima fra le monarchie d'Europa" (Epoche della lingua italiana. Epoca seconda [1824], in U. Foscolo, Saggi di letteratura italiana, a cura di C. Foligno, Firenze 1958, p. 130; non diversamente anche in Frederick the Second and Pietro delle Vigne, in Id., Saggi e di-scorsi critici, a cura di C. Foligno, ivi 1953, pp. 399-404). Nella poesia siciliana Foscolo scorgeva inoltre una prima affermazione di laicità contro il prepotere della teocrazia, e apprezzava soprattutto Pier della Vigna perché gli sembrava che nel suo epistolario anticipasse "alcuni dei più robusti argomenti, che trecento anni dopo i protestanti posero in campo contro l'autorità temporale della Santa Sede" (Frederick the Second, p. 402; Federigo secondo e Pier delle Vigne, in U. Foscolo, Saggi e discorsi critici, a cura di C. Foligno, ivi 1953, pp. 413-421, in partic. p. 415). Dopo Foscolo, avrebbero insistito sulla corte sveva di Sicilia come culla dell'unità linguistica d'Italia lo storico della letteratura Paolo Emiliani Giudici (1851) e persino Vincenzo Gioberti nel Rinnovamento civile d'Italia (Parigi-Torino 1851, l. 1, c. 9). Questi, che era stato il principale esponente della corrente neoguelfa, dopo il voltafaccia di Pio IX, nel 1848, riconobbe gli errori di valutazione commessi e tracciò nuovamente le linee del Risorgimento italiano, trasferendo ai principi sabaudi il ruolo di guida nel processo di costituzione di un'Italia unita e indipendente, ruolo che in precedenza aveva assegnato al pontefice. Nel suo precedente scritto Del primato morale e civile degli italiani (Bruxelles 1843) non aveva invece mai fatto il nome di Federico II, neppure quando aveva ricostruito la storia dei primati intellettuali italiani, nelle scienze e nella morale.
D'altra parte, altri esponenti dell'area 'cattolico-liberale' avevano anticipato, e forse sollecitato, l'interesse di Gioberti per Federico II, pur continuando a ritenere che i precursori del Risorgimento andassero cercati tra i papi che si erano posti alla testa della Lega lombarda per difendere la libertà del popolo italiano dall'imperatore. Cesare Balbo, nelle Speranze d'Italia (Parigi 1844), significativamente dedicate proprio a Gioberti, aveva infatti detto di Federico II che era "forse più immaginoso che grande imperatore" (Le speranze d'Italia, a cura di A. Corbelli, Torino 1925, p. 56), e nel Sommario della storia d'Italia (Torino 1846) aveva affermato che egli "quasi sempre dimorò tra noi, che fu, si può dire, più Italiano che Tedesco, e fu grand'uomo" (Della storia d'Italia dalle origini fino ai nostri giorni. Sommario, a cura di F. Nicolini, Bari 1913, p. 223). Non diversamente da Muratori, Balbo elogiava "le qualità personali" dell'imperatore: "colto, prode e corteggiator di donne, si compiacque di poesia e poeti in lingue romanze o volgari, e scrisse nella nostra che sorgeva" (ibid., p. 218). Aggiungeva tuttavia, subito dopo, che "come tutti gli Svevi" fu "principe superbissimo, soverchiatore, sprezzator di tutti e massime de' papi, e non dirò della religione cristiana, ma almeno di quelle che sono sempre convenienze, ed in quel secolo parevano essenza di lei" (ibid., p. 219). Per tale ragione sollevò contro di sé "l'opinione universale, la Italiana principalmente, quella de' papi sopra tutti. I quali poi secondarono l'opinione nazionale, tanto più volentieri che non più solamente la riunione dell'imperio-regno d'Italia col regno di Puglia e Sicilia faceva gli Svevi [pericolosi], ma le qualità personali di Federigo II lo facevano più pericoloso" (ibid.). Del resto, Balbo riconduceva sempre le azioni di Federico II, dei pontefici e delle città lombarde alla dimensione nazionale e italiana, che costituiva la trama della sua opera. Per lui l'unità della storia d'Italia andava cercata innanzitutto nell'Impero romano, poi nei tentativi, non sempre fortunati, di restaurarlo e di conservarlo, spesso ad opera di 'stranieri'; quindi nelle lotte che videro contrapposti avversari e sostenitori dell'Impero, infine nelle contese per impadronirsi delle sue spoglie.
L'impegno storiografico di Balbo, benché fosse legato ai suoi ideali etici e politici, aveva solide basi culturali e tecniche, forti dei riferimenti alla tradizione rinascimentale e muratoriana, della costante attenzione per la contemporanea storiografia francese e soprattutto tedesca. La maggior parte degli storici e dei letterati del tempo dava invece le briglie alle proprie speranze e convinzioni, riversando timori e insicurezze per l'incerto futuro della nazione nei dibattiti storiografici sull'importanza della civiltà comunale, sull'invasione longobarda in Italia, sul problema delle signorie, sulla decadenza politica dell'Italia tra la fine del Medioevo e l'inizio dell'Età moderna. Soprattutto, la valutazione positiva o negativa della funzione assunta dal papato e dalla Chiesa cattolica nella storia d'Italia rappresentava il vero pomo della discordia. Fra gli storici il problema che si sarebbe più volte evocato e posto al centro della scena era quello della parte avuta dalla Chiesa di Roma nel difendere o meno la 'nazione' italiana, nell'impedirne o meno il costituirsi.
Richiamandosi all'autorità di Machiavelli, Giuseppe La Farina (Storia d'Italia narrata al popolo italiano, I-V, Firenze 1846-1853) e Giovanni Battista Niccolini (Storia della Casa di Svevia in Italia, pubblicata postuma dal 1873) sostennero che il papato fosse sempre stato troppo debole per unire l'Italia e, al tempo stesso, sufficientemente forte per impedire ad altri di farlo. Sulla base di questo assunto, La Farina rivisitò la storia dei secoli medievali riconoscendo in Teodorico e in Liutprando, in Federico II e in Manfredi, i campioni che avrebbero potuto fondare uno stato nazionale, se non fossero stati contrastati e oppressi dai pontefici, che "furono d'impedimento alla creazione di una monarchia italiana, ma non si opposero alle creazioni delle monarchie municipali, debolezza, sventura e vergogna della misera Italia" (Storia d'Italia, I, p. 54). Per Giovanni Battista Niccolini, amico di Foscolo e ardente repubblicano, la parola d'ordine del ghibellinismo era senz'altro da identificare con i sentimenti radicalmente antipapali e con l'aspirazione a uno stato interamente laico. Con questo spirito egli si volse a comporre la sua Storia della Casa di Svevia, rielaborando la Storia degli Hohenstaufen e del loro tempo di Friedrich von Raumer, di cui si fece tradurre ampi estratti (G. Gargiolli, Proemio, in G.B. Niccolini, Storia della Casa di Svevia in Italia, a cura di G. Gargiolli, Milano 1873-1880, pp. LXXIV-LXXV e CLXXII-CLXXX). Gli Svevi, da Federico II a Manfredi, emergono dalle sue pagine come avversari della Chiesa e signori italiani di grande valore, mentre a Federico II viene senza dubbio assegnata la palma di precursore dell'unità d'Italia (Storia della Casa di Svevia, pp. 218-224). D'altronde, fu la tragedia di Niccolini Giovanni da Procida (1830) a indurre Michele Amari a intraprendere le sue ricerche sulla Guerra del Vespro Siciliano (prima col titolo Un periodo delle istorie siciliane del secolo XIII, Palermo 1842), in cui il messinese Bartolomeo da Nicastro prende la parola per condannare duramente la posizione guelfa da una prospettiva svevo-aragonese, stigmatizzando la conquista angioina come un'usurpazione ed esaltando Federico II e Manfredi quali signori del Mezzogiorno: quindi come figure nazionali ormai libere dai loro antichi legami con l'Impero.
Se Ugo Foscolo aveva irruentemente salutato in Federico II il protounificatore della lingua italiana e l'anticipatore dell'unità d'Italia, destinato, in quanto tale, a essere osteggiato dall'eterno nemico di essa, il papato di Roma, gli storici neoghibellini avevano dato un vigoroso contributo alla costruzione del mito delle radici profonde dell'unità della patria avanzando una lettura della figura e dell'opera di Federico volta a sottolinearne l''italianità'. Neppure gli storici cattolico-liberali poterono sottrarsi del tutto alle suggestioni di questa proposta, e collocarono Federico II alle origini della lingua e della letteratura italiana.
La trasfigurazione ghibellina di Federico II in padre della patria ebbe poi una compiuta formulazione nelle Lezioni di letteratura italiana di Luigi Settembrini, pubblicate tra il 1866 e il 1872, ma concepite e in larga parte composte prima del 1848. In esse confluiscono tutti i motivi storiografici che la cultura risorgimentale era venuta elaborando fino ad allora, amalgamati dalla giacobina e individualistica religione della libertà dell'autore, dalla sua fede nel progresso regolato dalla ragione, dal suo anticlericalismo.
Per Settembrini "il solo Federico poteva fare l'unità d'Italia, perché egli aveva forza, aveva diritto, aveva alto animo, era nato ed educato italiano, e qui voleva il suo impero" (L. Settembrini, Lezioni di letteratura italiana, I-II, a cura di G. Innamorati, Firenze 1964: I, p. 53), mentre "gli altri imperatori quantunque ambiziosi e feroci, erano buoni credenti [...] e se distruggevano le città ribelli, si chinavano innanzi al papa, e però non poterono mai insignorirsi di tutta Italia" (ibid., p. 54). Federico voleva "conquistare tutta Italia per tenere Germania provincia confinante, e sperava ridurre il papa alla condizione del patriarca di Costantinopoli". Per realizzare questo suo disegno egli "adoperò il senno e l'ardire di Pier della Vigna […], si giovò della dottrina di Taddeo da Sessa; ordinò con savie leggi la monarchia; e perché il sapere era sua forza, promosse il sapere laico in opposizione all'ecclesiastico". Perciò fece tradurre molte opere dall'arabo e dal greco, raccolse libri e curiosità di storia naturale, scrisse versi nella nuova lingua, "che si chiamò siciliana e cortigiana perché adoperata nella sua corte". La prima lingua scritta fu siciliana, e siciliane le prime poesie, perché in Sicilia fu "il primo organismo della nuova Italia, in Sicilia il nuovo pensiero tutto laico, in Sicilia si ordinò la monarchia". Il pensiero italiano nazionale non poteva infatti essere "che laico, antiromano, e questo era in Sicilia, e veniva esprimendosi nella lingua nuova" (ibid., p. 55).
Per Settembrini l'imperatore svevo fu quindi colui che per primo diede impulso alla nascita di una lingua e di una letteratura nazionale, proprio perché fu "italiano" e volle fondare uno stato forte e autoritario, laico e anticlericale.
Pochi anni dopo, tra il 1870 e il 1871, Francesco De Sanctis pubblicava a Napoli la Storia della letteratura italiana, in cui, richiamandosi a un secolo e mezzo di ricerche storico-letterarie e di tentativi di ordinare la tradizione letteraria in funzione del presente, ne individuava il compimento nell'unità e nella libertà d'Italia. Alle sue spalle una civiltà letteraria ricca e complessa, che egli analizzava nella sua evoluzione con la sobrietà e il rispetto dello storico, apparentemente senza i pregiudizi, il revanchismo e gli odi di parte di molti degli storiografi ottocenteschi. Sulla scia di Vincenzo Nannucci e di Francesco Trucchi, egli integrò la Scuola siciliana nel canone della tradizione letteraria dell'Italia unita, vedendo in Federico II colui che seppe fare di Palermo la capitale dell'Italia colta (Storia della letteratura italiana, I, a cura di N. Gallo, Torino 1971, p. 9), "dove la gente che avea bontade venia a lui da tutte le parti" (Novellino, Novella XXI), "perciò i rimatori del tempo, ancorché parecchi sieno d'altra parte d'Italia, furono detti siciliani" (Storia della letteratura italiana, p. 4). Con la caduta degli Svevi "la vivace e fiorita coltura siciliana stagnò"; con la sconfitta di Benevento la "parte ghibellina […] non si rilevò più. […] La vita italiana, mancata nell'Italia meridionale […] si concentrò in Toscana", la regione in cui "la parte popolana ebbe il disopra […] e la libertà de' comuni fu assicurata" (ibid., p. 22). Pur con tutte le riserve che il democratico De Sanctis poteva nutrire per le origini "feudali e cortigiane" della cultura di età sveva, anche per lui, come già per Francesco Trucchi, i "primi poeti originali italiani" sorsero quando a ispirarli fu "il principio patriottico e nazionale" (Poesie italiane inedite di dugento autori dall'origine della lingua infino al secolo decimosettimo, raccolte e illustrate da F. Trucchi, I, Prato 1846, p. XLIV).
Nella seconda metà dell'Ottocento l'immagine ghibellina di Federico II si era a tal punto affermata da imporsi anche ai neoguelfi, che presero a usarla come idolon polemico, a cominciare da Pietro Balan, che nel 1871, subito dopo Porta Pia, pubblicò a Modena un'opera, La prima lotta di Gregorio IX con Federico II, in cui salutava in Pio IX il degno continuatore di Gregorio IX, mentre in Federico II scorgeva tutti i difetti del "cesarismo", per lui proteso, in ogni epoca, a sopraffare tirannicamente, con l'inganno e la "perfidia", la forza spirituale della Chiesa (cf. C.D. Fonseca, Appunti per la storia della cultura cattolica in Italia. La storiografia ecclesiastica napoletana, 1878-1903, in Aspetti della cultura cattolica nell'età di Leone XIII, a cura di G. Rossini, Roma 1961, pp. 465-534; Id., Federico II nella storiografia italiana, in Potere, società e popolo nell'età sveva, Bari 1985, pp. 9-24).
D'altronde, benché venisse presto chiarito che l'unificazione d'Italia era al di fuori dell'orizzonte politico di Federico II (R. Ferretti, Federico II e l'unità d'Italia: riflessioni, Napoli 1879), la contrapposizione tra guelfi e ghibellini continuò ancora a improntare il dibattito storiografico italiano sull'imperatore svevo fino alla metà del XX secolo. Si pensi, ad esempio, all'opera di Michelangelo Schipa, Sicilia e Italia sotto Federico II, pubblicata a Napoli nel 1929, in cui l'imperatore sembra ergersi a difensore, contro il pontefice, della tradizione civile della nazione italiana, cui avrebbe voluto dare anche unità politica; oppure allo Stato ghibellino di Federico II, il volume che nel 1938 impose Gabriele Pepe all'attenzione del mondo scientifico e culturale italiano. Concepito come "un saggio di polemica politica" volto ad approfondire il nesso tra l'esperienza del fascismo e la tirannide di cui Federico II sarebbe stato un eloquente esempio (ibid., pp. 8 s.), il libro di Pepe tradiva, sin dal titolo, l'intendimento dell'autore di mettere in rilievo la novità e la "modernità" dello stato concepito e creato da Federico, di illustrare gli aspetti della battaglia anticuriale da lui condotta. Non sorprende che pochi anni dopo, nel 1949, sopraggiungesse dallo schieramento opposto la replica di Emilio Nasalli Rocca di Corneliano, che nella sua biografia intitolata a Federico II di Svevia svalutò, e finanche condannò, l'operato del sovrano svevo, perché alla sua corte tenne a battesimo gli ideali laici opponendosi all'idea guelfa, l'unica in grado di guidare la vita politica, non solo del XIII sec., ma anche del presente.
Tuttavia, sarebbe erroneo ritenere che la durevole presenza di questi motivi storiografici di matrice risorgimentale rallentasse o impedisse il progredire delle ricerche, dal momento che persino la convinzione che Federico II volesse "abbattere il potere temporale del Papato per farsene scala all'unione d'Italia" poteva essere di stimolo per ampi e documentati studi, come quello dedicato, con spirito ghibellino, da Giuseppe De Blasiis a Pier della Vigna (Della vita e delle opere di Pietro della Vigna, Napoli 1860, pp. 210 s.). Del resto, intorno alla metà dell'Ottocento, induceva all'attenta esegesi delle fonti e alla preparazione di edizioni critiche e diplomatiche la severa lezione della scuola filologica tedesca, che aveva cominciato a diffondersi, anche in Italia, attraverso i volumi dei Monumenta Germaniae Historica, l'"Archiv der Gesellschaft für ältere Deutsche Geschichtskunde" e le ampie rassegne bibliografiche pubblicate dall'"Archivio Storico Italiano". Ed essa, sollecitando gli studiosi intenti in ricerche storico-culturali a carattere regionale e locale a superare i limiti dell'antiquaria dei secoli precedenti e la sua propensione all'accumulazione erudita e acritica delle conoscenze, diede buoni frutti anche negli studi normanno-svevi, soprattutto con le monografie di Bartolomeo Capasso (Sulla storia esterna delle costituzioni del regno di Sicilia promulgate da Federico II, Napoli 1869) e di Francesco Brandileone (Il diritto romano nelle leggi normanne e sveve del regno di Sicilia, Torino 1884).
D'altra parte, la lenta saldatura tra la storia e l'erudizione antiquaria, accelerata dall'affermazione del metodo filologico, rappresenta un fenomeno più ampiamente europeo, che diede agli studi federiciani contributi fondamentali: non solo i lavori di Böhmer, di Ficker e di Winkelmann, ma anche l'imponente Historia diplomatica Friderici secundi di Jean-Louis-Alphonse Huillard-Bréholles (v.), pubblicata a Parigi, in dodici tomi, tra il 1852 e il 1861.
Huillard-Bréholles aveva avvertito l'improcrastinabile esigenza di assicurare basi documentarie certe alle ricerche sull'età sveva mentre attendeva alla composizione di un saggio storico per le Recherches sur les monuments et l'histoire des Normands et de la maison de Souabe dans l'Italie méridionale (Paris 1844) del duca di Luynes, Honoré-Paul-Joseph d'Albert, appassionato cultore di studi archeologici e numismatici. Raccolse perciò per anni, pazientemente, in tutta Europa, la documentazione, giovandosi anche del sostegno di studiosi come Böhmer che non esitarono a trasmettergli copia di quanto avevano trovato nel corso dei propri 'viaggi d'archivio'. Benché l'edizione non sia del tutto conforme ai dettami della critica filologica, essa resta ancora oggi un ineludibile punto di riferimento per chiunque voglia occuparsi di Federico II. Dalla metà dell'Ottocento, oltre alle opere di Huillard-Bréholles e del duca di Luynes, contribuirono ad accrescere in Francia l'interesse per il sovrano svevo anche i volumi di Claude-Joseph de Cherrier (Histoire de la lutte des papes et des empereurs de la maison de Souabe: De ses causes et de ses effets, Paris 18582) e di Jules Zeller (L'empereur Frédéric II et la chute de l'empire germanique du moyen âge, Paris 1885), che diffusero nel paese l'immagine di un Federico II in anticipo sui suoi tempi, precursore della Riforma e dello stato moderno, nonché artefice di un "primo Rinascimento" che avrebbe segnato il tramonto del Medioevo e l'inizio del mondo moderno. Alle suggestioni provenienti dagli studi del duca di Luynes e di Huillard-Bréholles non fu insensibile émile Bertaux (v.), che compose negli ultimi decenni del secolo alcune importanti opere sulla storia dell'arte dell'Italia meridionale.
Alla stessa temperie culturale va ricondotto anche il saggio di Ernest Renan Averroès et l'averroïsme: essai historique (Paris 1852), in cui vengono tra l'altro indagati i rapporti tra la visione del mondo dell'imperatore e l'averroismo, secondo linee interpretative che suggeriranno a Michele Amari l'immagine di un Federico II riformatore religioso e portatore di ideali e che, se avessero potuto prender piede, avrebbero impedito il degrado controriformistico dell'Italia cattolica. Michele Amari ed Ernest Renan, a loro volta, offriranno allo storico della chiesa Hermann Reuter (Geschichte der religiösen Aufklärung im Mittelalter, Berlin 1875-1877) tutti gli elementi per poter elaborare la sua lettura di Federico II quale culmine dell'illuminismo religioso medievale ‒ un'interpretazione, questa, che ancora risuona in alcune pagine dedicate dal filosofo Giovanni Gentile al sovrano svevo (La filosofia, Milano 1915, cap. I).
Nella seconda metà dell'Ottocento, prima in Germania, poi in altri paesi, la ricerca storica finì sempre più con l'assumere i caratteri di una grande impresa scientifica internazionale, volta a raccogliere, accertare filologicamente, ordinare e presentare tutti i 'fatti' e gli eventi di cui fosse rimasta testimonianza, collocandoli perlopiù lungo un asse cronologico lineare, rispetto al quale ne veniva definita la posizione facendo leva su due diversi princìpi, l'idea di sviluppo e la legge di causalità. Il ricorso a entrambi i princìpi si basava sulla convinzione che la storia potesse esser letta ed esaminata solo da un punto di vista logico-razionale, senza il quale non sarebbero stati possibili né la ricerca storica né la scienza storica, giacché esse avrebbero contravvenuto al proprio statuto gnoseologico se non avessero escluso dal proprio ambito di riferimento l'irrazionale. Sullo sfondo, si profilava un'idea della storia come flusso inarrestabile, in cui tutte le figure, le opere e gli eventi del passato venivano ridotti a momenti transitori di un processo e resi privi di ogni originalità, in cui anche la coscienza e i valori dell'uomo apparivano un punto, immerso nel fluire, che dal passato conduceva al futuro, il risultato di ciò che era stato e la tappa preparatoria sulla via di ciò che sarebbe stato.
Friedrich Nietzsche, nella seconda Considerazione inattuale (Unzeitgemäße Betrachtungen II. Vom Nutzen und Nachteil der Historie für das Leben, Leipzig 1874), avrebbe individuato la "malattia storica" nella consunzione che si manifesta in una civiltà quando, per l'eccesso degli studi e delle conoscenze del passato, perde ogni capacità creativa. Prima di lui, già Jacob Burckhardt avvertì con chiarezza il bisogno di elevare un argine contro l'emorragia di senso provocata dal sapere critico, sganciandosi dai canoni proclamati dagli storici eruditi. Per Burckhardt la colpa maggiore di questi ultimi fu di avere sviluppato una disciplina per addetti ai lavori, di non essersi cioè saputi aprire all'uomo come autentico e vivente destinatario del sapere storico. Era quanto egli intendeva fare con La civiltà del Rinascimento in Italia (Basel 1860), l'opera classica della storiografia della Kulturgeschichte, in cui l'autore indaga il sorgere della coscienza moderna sullo sfondo dei molteplici aspetti della vita, nelle città e nei principati dell'Italia del Rinascimento. Nelle pagine introduttive, Burckhardt presenta Federico II come un principe completamente avulso dalla sua epoca: "Cresciuto nel sospetto e nel pericolo vicino ai Saraceni, si era presto abituato a una valutazione e a un trattamento delle cose assolutamente obiettivi, il primo uomo moderno sul trono" (Die Kultur der Renaissance in Italien, in Gesammelte Werke, III, Basel 1955, pp. 2 s.). Alla rivendicazione da parte dell'individuo di una propria sfera di autonomia e di sviluppo corrispondeva però, per Burckhardt, lo svuotamento dei contenuti etici della vita pubblica, non tanto per responsabilità personale di Federico, ma per la logica stessa della modernità. Il volontarismo politico senza freni di cui il sovrano svevo diede prova nella creazione dello "stato come opera di calcolo consapevole" (Kunstwerk) suscitava perciò in Burckhardt lo stesso atteggiamento ambivalente che egli ebbe nei confronti di tutti quegli uomini (Gewaltmenschen) che avevano operato energicamente nella storia, al di là del bene e del male. Non riuscì quindi a vincere un certo fastidio, proprio perché ai suoi occhi Federico impersonava i caratteri dell'uomo 'moderno', privo di un fondamento morale e di valori, preda di volitive passioni e aperto alle contraddizioni (J. Burckhardt, Über das Studium der Geschichte, a cura di P. Ganz-E. Ziegler, München 1982, pp. 299 e 508). Solo Nietzsche esaltò Federico, vedendo in lui "il grande spirito libero, il genio tra gli imperatori tedeschi", "l'ateo e nemico della Chiesa comme il faut", "il primo europeo di mio gusto" (tali giudizi sono tratti, nell'ordine, da Kritische Studienausgabe in 15 Einzelbänden, a cura di G. Colli-M. Montinari, I-XV, Berlin 19882: VI, Der Antichrist, 60, p. 250; VI, Ecce homo, 4, p. 340; V, Jenseits von Gut und Böse, 200, p. 121. Federico II è menzionato ancora, con analoghi accenti, nei Nachgelassene Fragmente). Nietzsche vide in Federico un eroe antimoderno e anticristiano, opposto a quella decadenza che egli avvertiva nel culto moderno dell'interiorità e della profondità, e che voleva guarire additando la necessità di risalire alla superficie, di ridiventare chiari e leggeri. Nell'asciutta chiarità mediterranea, in cui si era mosso Federico, egli scorgeva il simbolo di una forza e di una salute incorruttibili. Il XIX sec. lasciò quindi agli studi federiciani non solo alcune grandi imprese storico-filologiche ma, come riconobbe già Karl Hampe, innanzitutto una 'immagine storica' (historisches Bild), l'immagine di un sovrano pronto a concepire la realtà empirica quale presenza autosufficiente e oggettiva delle cose, di uno 'spirito libero' che seppe farsi risoluto difensore di quei valori di indipendenza e di autonomia, venuti dalla Grecia e dall'Islam, che il cristianesimo avrebbe voluto cancellare.
Nei primi decenni del Novecento, in Germania, la fama di Federico andò crescendo costantemente e i tratti nietzscheani della sua figura si imposero a poeti e letterati, lasciando traccia anche negli storici Wolfram von den Steinen ed Ernst H. Kantorowicz ‒ un autore, quest'ultimo, in cui è nondimeno viva e operante la lezione di Gothein e di Burckhardt, di Droysen e di von Domaszewski, di Weber e di Dilthey (v. Kantorówicz, Ernst H.). Altri vollero perciò sottolineare come Federico II non fosse stato un dominatore del futuro, ma il rappresentante di un'epoca che volgeva alla fine, nutrita di cultura antica, come ritenne, ad esempio, Konrad Burdach (Rienzo und die geistige Wandlung seiner Zeit, I-II, Berlin 1913-1928). Dal secondo dopoguerra è divenuta questa l'immagine del sovrano svevo dominante nella storiografia tedesca e presente anche nella recente biografia di Wolfgang Stürner (Friedrich II., I-II, Darmstadt 1992-2000), preziosa per lo sforzo compiuto dal suo autore di rielaborare la sterminata messe di ricerche specialistiche, pubblicate nel XX sec., su una molteplicità di aspetti dell'età federiciana: politici, istituzionali, sociali, economici, ideologici, artistici, letterari e storico-scientifici.
Di tali studi non è qui possibile dar conto e il lettore potrà trovarli menzionati nella bibliografia federiciana curata da Carl Arnold Willemsen (Bibliographie zur Geschichte Kaiser Friedrichs II. und der letzten Staufer, München 1986) e nelle diverse voci di questa enciclopedia. Ci si limita a ricordare solo i lavori di Eduard Sthamer (Die Verwaltung der Kastelle im Königreich Sizilien unter Kaiser Friedrich II. und Karl I. von Anjou, Leipzig 1914 [trad. it. L'amministrazione dei castelli nel Regno di Sicilia sotto Federico II e Carlo I d'Angiò, a cura di F. Panarelli, Bari 1995]; Beiträge zur Verfassungs- und Verwaltungsgeschichte des Königreichs Sizilien im Mittelalter, a cura di H. Houben, Aalen 1994) sui castelli e sull'amministrazione del Regno e quelli di Norbert Kamp (Kirche und Monarchie im staufischen Königreich Sizilien, I-IV, München 1973-1982) sulla prosopografia del ceto amministrativo e di governo, perché in tempi e in forme diverse, con una continuità d'impegno non comune, hanno contribuito alla revisione della concezione dello stato federiciano come 'stato modello'. Una concezione, questa, che affondava le sue radici nell'idea di 'stato' propria dell'assolutismo giuridico ottocentesco, e che tendeva a rappresentare il diritto medievale come un insieme di forme coartanti il divenire della vita sociale, come un complesso di regole autoritarie poste a presidio del potere costituito, uscite dalle mani del legislatore in una forma immobile e 'perfetta'. Essa è stata anche alla base dell'opinione, a lungo fortunata, secondo cui le città dell'Italia meridionale non avrebbero avuto una legislazione statutaria perché il precoce imporsi della 'monarchia' normanno-sveva, frettolosamente identificata con uno 'stato dai tratti autocratici', avrebbe in larga parte soffocato ogni autonomia e arrestato lo sviluppo di qualsiasi dinamismo istituzionale, sociale ed economico, determinando l''arretratezza' del Mezzogiorno e l'insorgere della 'questione meridionale'.
Se la storiografia italiana, fino al secondo dopoguerra, si era prevalentemente volta alla figura dell'imperatore svevo, alla ricostruzione della sua personalità e all'esame della sua opera in base alle categorie di guelfismo e ghibellinismo, di laicismo e teocrazia, scorgendo in Federico II l'antesignano del Rinascimento o dell'Illuminismo, in Inghilterra, da Richard Oke (The Boy from Apulia, London 1936) e Georgina Masson (Frederick II of Hohenstaufen. A Life, ivi 1957) fino a Thomas Curtis van Cleve (The Emperor Frederick II of Hohenstaufen, Immutator Mundi, Oxford 1972) e alla recente biografia di David Abulafia (Frederick II. A Medieval Emperor, London 1988 [trad. it. Federico II. Un imperatore medievale, Torino 1990]), sembra che il principale assillo sia stato l'accertare se nel sovrano svevo prevalessero gli elementi "moderni" e "illuminati" oppure quelli "medievali" e "regressivi". Oscillando tra facili entusiasmi e sbrigativi gesti di ripulsa, si è così passati da titoli significativamente allusivi come The Infidel Emperor e The Boy from Apulia, a sottotitoli come quello di Abulafia ‒ A Medieval Emperor ‒ che tradiscono senza incertezze l'intento dell'autore "di mostrare che la fama di cui [Federico] gode non è tutta meritata" (ibid., p. 1 [1990, p. XI]).
Secondo Abulafia lo stupor mundi non fu un despota rinascimentale ante litteram ma un uomo del suo tempo. Non fu un avversario implacabile della S. Sede ma un sincero promotore di tentativi di compromesso e di conciliazione, e per tutta la vita un genuino assertore del movimento crociato. Abulafia riconosce che per taluni tratti lo Svevo si discostò dai contemporanei esempi francesi e spagnoli, favorendo in Sicilia una burocrazia centralizzata; ma soggiunge subito che questa era un retaggio del Regno normanno e che in Germania Federico impostò invece un sistema di governo decentrato. Per lo storico inglese Federico mirò durante tutto il suo regno a garantire la continuità dei sistemi tradizionali di governo nelle regioni a lui sottoposte, e se in Sicilia poteva apparire un signore assoluto e potente, in Germania doveva fare i conti con i grandi principi di cui mai si illuse di condizionare veramente il potere. Federico non fu allora quell'immutator mundi che, riecheggiando Matteo Paris, campeggia nel titolo della biografia di van Cleve. Secondo Abulafia egli fu piuttosto un tenace conservatore che, con un'accorta politica dinastica, volle tramandare ai suoi eredi i territori da lui ereditati o sottomessi. Razionalista, libero pensatore, pioniere allevato nel tollerante contesto della Sicilia semimusulmana? Per Abulafia si tratta di giudizi che non corrispondono alla realtà ma esprimono "la frustrazione degli storici che devono cimentarsi con un periodo improntato a una visione del mondo alquanto remota dalla nostra" (ibid., p. 437 [1990, p. 365]).
Il libro di Abulafia, che nei giudizi sull'imperatore sembra far spesso propria senza riserve l'antica avversione per il sovrano svevo, rappresenta l'esito paradossale di un orientamento storiografico cominciato alcuni decenni or sono.
Dagli anni Cinquanta, l'attenzione degli storici si è in Europa decisamente rivolta all'individuazione e all'analisi dei periodi lunghi, quasi immobili, mettendo in luce al di sotto delle peripezie politiche, del brulicare degli eventi e delle loro successioni lineari gli equilibri stabili e non facilmente alterabili, le regolazioni costanti, le linee di tendenza secolari. L'interesse per le grandi personalità del passato è andato invece gradatamente scemando e qualsiasi tentativo di porre un uomo al centro della storia è stato sbrigativamente liquidato come tardiva riproposta di un'ormai vetusta storiografia politica, come obsoleta celebrazione delle gesta eroiche di un re o di un imperatore. Nella miriade di studi specialistici volti alla ricostruzione di singoli aspetti dell'età normanno-sveva, Federico II quasi spariva del tutto o appariva legato, e fortemente, alle idee, ai sentimenti e alla realtà del Medioevo. Di tale tendenza storiografica la biografia di David Abulafia rappresenta il culmine; con lui la volontà di storicizzare l'immagine di Federico sfocia nel suo radicale ridimensionamento.
Eppure, dinanzi alle ricorrenti revisioni storiografiche di vedute consolidate, resta ancora oscuro il motivo dell'origine e del perpetuarsi del mito. Se Federico II non fosse stato lo stupor mundi, la meraviglia delle genti che la pubblicistica e la storiografia hanno accreditato, bisognerebbe chiedersi perché allora è stato ritenuto tale. I rinnovati paradigmi storiografici non consentono infatti di considerare leggenda e tradizione come contrapposte alle verità di ragione, come suggestioni e luoghi comuni privi di valore, che impedirebbero di giungere a una valutazione obiettiva della persona dell'imperatore. L'indagine storica può perciò arrivare a comprendere il passato se esercita la virtù storica della memoria, ripercorrendo la trama delle innumerevoli variazioni e trasformazioni cui andarono incontro simboli e immagini ‒ strumenti di idealizzazione del rapporto dell'uomo con il mondo.
Fonti e Bibl.: oltre ai testi citati nella voce, per un primo inquadramento: K. Hampe, Kaiser Friedrich II. in der Auffassung der Nachwelt, Stuttgart 1925; A. Borst, Reden über die Staufer, Berlin-Frankfurt a.M.-Wien 1981; J. Fleckenstein, Das Bild der Staufer in der Geschichte. Bemerkungen über Möglichkeiten und Grenzen nationaler Geschichtsbetrachtung, Göttingen 1984; C.D. Fonseca, Federico II nella storiografia italiana, in Potere, società e popolo nell'età sveva, Bari 1985, pp. 9-24; Friedrich II., a cura di A. Esch-N. Kamp, Tübingen 1996; nonché il numero monografico: Federico II, a cura di P. Corrao, "Nuove Effemeridi. Rassegna Trimestrale di Cultura", 7, 1994, nr. 28. Più in generale sulla storiografia europea e i secoli medievali: E. Fueter, Geschichte der neueren Historiographie, München 19363 (trad. it. Storia della storiografia moderna, Napoli 1970); B. Croce, Storia della storiografia italiana nel secolo decimonono, Bari 1964; J. Voss, Das Mittelalter im historischen Denken Frankreichs. Untersuchungen zur Geschichte des Mittelaltersbegriffes und der Mittelalterbewertung von der zweiten Hälfte des 16. bis zur Mitte des 19. Jahrhundert, München 1972; G. Falco, La polemica sul medioevo, Napoli 1974; O. Capitani, Medioevo passato prossimo. Appunti storiografici: tra due guerre e molte crisi, Bologna 1979; U. Neddermeyer, Das Mittelalter in der deutschen Historiographie vom 15. bis zum 18. Jahrhundert. Geschichtsgliederung und Epochenverständnis in der frühen Neuzeit, Köln-Wien 1988; B. Croce, Teoria e storia della storiografia, a cura di G. Galasso, Milano 1989; R. Bordone, Lo specchio di Shalott. L'invenzione del medioevo nella cultura dell'Ottocento, Napoli 1993; E. Artifoni, Il Medioevo nel Romanticismo. Forme della storiografia tra Sette e Ottocento, in Lo spazio letterario del Medioevo, 1, Il Medioevo latino, IV, L'attualizzazione del testo, Roma 1997, pp. 175-221; G. Giarrizzo, Il medioevo tra Otto e Novecento, ibid., pp. 223-258. Su Giovanni Gentile e il Medioevo: V. Sorge, Giovanni Gentile storico del Medioevo, in Giovanni Gentile. La filosofia italiana tra idealismo e anti-idealismo, a cura di P. Di Giovanni, Milano 2003, pp. 21-30. Sulla fortuna di Federico II nella letteratura tedesca: E. Frenzel, Stoffe der Weltliteratur. Ein Lexikon dichtungsgeschichtlicher Längsschnitte, Stuttgart 1962, ad vocem. Sulla storia dei Monumenta Germaniae Historica cf. H. Bresslau, Geschichte der Monumenta Germaniae Historica im Auftrage ihrer Zentraldirektion, Hannover 1994 (1921). I testi della disputa tra Sybel e Ficker sono raccolti in Universalstaat oder Nationalstaat. Macht und Ende des ersten deutschen Reiches. Die Streitschriften von Heinrich von Sybel und Julius Ficker zur deutschen Kaiserpolitik des Mittelalters, a cura di F. Schneider, Innsbruck 1941. Su letteratura e identità nazionale in Italia: M.S. Sapegno, "Italia", "Italiani", in Letteratura italiana, 5, Le questioni, Torino 1986, pp. 169-221; R. Ceserani, Raccontare la letteratura, ivi 1990, pp. 17-21; L'identità nazionale nella cultura letteraria italiana, a cura di G. Rizzo, I, Lecce 2001. Su Castel del Monte e l''identità italiana': F. Cardini, Castel del Monte, Bologna 2000. Sulla presenza dei medievisti tedeschi in Italia nella prima metà dell'Ottocento: A. Esch, Auf Archivreise. Die deutschen Mediävisten und Italien in der ersten Hälfte des 19. Jahrhunderts: aus Italien-Briefen von Mitarbeitern der Monumenta Germaniae Historica von der Gründung des Historischen Instituts in Rom, in Deutsches Ottocento. Die deutsche Wahrnehmung Italiens im Risorgimento, a cura di A. Esch-J. Petersen, Tübingen 2000, pp. 187-234. Sul monumento del Kyffhäuser: U. Schlie, Die Nation erinnert sich. Die Denkmäler der Deutschen, München 2002, pp. 55 ss.