Storiografia etico-politica
Storiografia etico-politica è la formula – tra le molte crociane – che ha avuto forse il maggior successo. Formula potente, condensa in modo apparentemente intuitivo una vasta complessità di questioni: il rapporto tra pensiero storico e vita pratica; le radici che questa storiografia ha nel sistema crociano; il carattere specifico del modo di fare storia da parte di Croce.
Inizialmente Croce aveva ricondotto la storia «sotto il concetto generale dell’arte» (La storia ridotta sotto il concetto generale dell’arte: memoria letta all’Accademia pontaniana nella tornata del 5 marzo 1893 dal socio Benedetto Croce, «Atti dell’Accademia pontaniana», 1893, 23, pp. 13-32), per la comune forza dell’immagine che rappresentavano; in seguito affermò che i due modi di conoscenza teoretica erano l’arte e la filosofia, e la conoscenza storica fu posta in relazione con la seconda e separata dalla poesia, che stava «in una sfera idealmente anteriore» (Teoria e storia della storiografia, 1917, a cura di E. Massimilla, T. Tagliaferri, 1° vol., 2007, p. 35). La discussione della storia fu dunque esclusa dall’Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale (1902), e invece tematizzata sia nella Filosofia della pratica. Economica ed etica (1909) sia nella Logica come scienza del concetto puro (1909). Nella “Postilla” alla Logica, la storia si collegava al concetto e quindi il problema della comprensione sua, «cui tendevano tutte le indagini [...] condotte intorno ai modi dello spirito» (a cura di G. Farnetti, 1996, p. 235), trovò soluzione nella teoria del giudizio. Un’altra questione era l’identificazione di intenzione e azione, raggiunta nella Filosofia della pratica. Entrambi questi due momenti ebbero un ruolo essenziale nel pensiero della storia, il cui obiettivo era comprendere filosoficamente «l’azione che è stata compiuta» (La storia come pensiero e come azione, 1938, a cura di M. Conforti, 2002, p. 159).
Nella Filosofia della pratica l’azione coincide con la volizione; essa è invece distinta dall’accadimento. L’azione è l’opera del singolo; l’accadimento «è l’opera del Tutto: la volontà è dell’uomo, l’accadimento è di Dio» (p. 68). Con la sua volizione l’individuo contribuisce per la sua singola parte a tutte le altre volizioni, cui l’accadimento dà risposta complessiva e superiore. Le categorie individuali non si risolvono perciò interamente nella formazione dell’accadimento, il quale è retto, rispetto all’azione, da categorie di più generale ampiezza, quali necessità e razionalità (Sasso 1975, p. 1011), che sono in armonia con le prime. «L’evento storico» nasce dalla convergenza e contrasto di tendenze differenti, «creazione di una nuova e più ricca forma di vita, e perciò progresso di libertà» (La storia come pensiero e come azione, cit., p. 223). Il soggetto della storia è «la Cultura, la Civiltà, il Progresso, la Libertà» (Teoria e storia della storiografia, cit., p. 51). La storia è storia di libertà.
Quando poi negli anni Quaranta Croce vide drammaticamente indebolirsi la potenza dell’umana libertà di produrre istituzioni progressive, temette che incontenibile sua causa fosse la vitalità (Sasso 1975, pp. 609-706, 1011 e 1027; Mustè 2009, pp. 181-99). Il sistema rischiava di andare in crisi, perché si sarebbe alterato l’ordine del concetto. Di questa tensione troveremo traccia anche nell’utilizzazione crociana della formula di storia etico-politica, che pur restando inalterata risentì delle prospettive teoriche di volta in volta affrontate.
Ma, se pensato entro il sistema, l’equilibrio tra vita e universalità era possibile. Lo storicismo crociano accetta di pensare l’irrazionale, «lo scopre a suo modo razionale e ne definisce le forme peculiari» (La storia come pensiero e come azione, cit., p. 61). «La storiografia non è fantasia, ma pensiero», e «deve superare la vita vissuta per ripresentarla in forma di conoscenza». La storia collega «intellettivamente» l’immagine all’universale attraverso il giudizio (p. 15). Il «razionalismo concreto» del suo storicismo mira a trovare nell’individuale la forza logica dell’universale con le categorie del giudizio. Questo percorso era stato esplorato nella Logica.
Il pensiero storico era un giudizio che si esprimeva nella formula «s è p», e segnava il passaggio dalla coscienza all’autocoscienza, dall’immagine al concetto (p. 257). Era «l’atto conoscitivo», per il quale il giudizio pratico coincide con il giudizio storico (Filosofia della pratica, cit., p. 75), perché è il solo giudizio nel quale sia pensata la distinzione tra soggetto (l’individuale) e predicato (l’universale), essendo composto da un elemento intuitivo (il soggetto) e da uno «intellettivo» (p. 76). Nell’identificare giudizio definitorio e giudizio individuale Croce superò la loro dicotomia (Sasso 1975, pp. 959-60) compiendo la sintesi loro attraverso la struttura del concetto puro, ossia del giudizio definitorio. La storiografia fu dunque collegata al concetto. Le storie sono un tessuto di «racconti-giudizi» (La storia come pensiero e come azione, cit., p. 40). Si univano storicismo e idealismo, il piano delle categorie eterne e la vicenda dei «nostri concetti delle categorie» (p. 31), con i quali le categorie entrano nel corso della storia. Qualora tale sintesi di finito e infinito venga a mancare, il soggetto è privato di predicato e dunque di intelligibilità.
Questo è l’errore della filosofia della natura; nel campo storico, tale errore può dirsi «mitologismo» (Logica come scienza del concetto puro, cit., p. 302). Nasce dall’incapacità di pensare con radicalità la vita. «Il mistero c’è, senza dubbio, ed è la vita stessa, eterno problema per il pensiero» (p. 310). Non deve però essere risolto né in nome dell’astrattezza, che sacrifica il particolare; né affermando l’esistenza e l’inconoscibilità della «cosa in sé» o del sacro. Il mistero costituisce un problema, che «invoca luce di pensiero» (p. 311) e il rifiuto di agnosticismo e di misticismo. Il mitologismo ha infatti una duplice faccia. Pensa il passato come mito, il futuro come apocalisse e fa scomparire la verità del presente nell’ombra del probabile, della misteriosa cosa in sé. Il mito è religione e si traduce in teologia, così come la filosofia della storia diviene apocalissi. Nel mito l’universale diventa rappresentazione storica, e la storia leggenda e perciò il mito produce leggende sia del passato, sia del futuro, nelle forme del millenarismo (p. 304).
Nella Logica Croce aveva criticato la filosofia della storia e unito la filosofia alla storia; due punti poi ripresi in Teoria e storia della storiografia (dapprima apparsa in Germania nel 1915, con il titolo Zur Theorie und Geschichte der Historiographie, poi in Italia, come accennato sopra, nel 1917). Ma qui, appunto per confutare l’astrattezza della storia universale e della filosofia della storia, che si collegavano a «aspettazioni chiliastiche», Croce propose il concetto «della storia contemporanea e sempre particolare, raggiungente solo per questa via la concreta universalità» (Storiografia e profetismo, in Storia della storiografia italiana nel secolo decimonono, 1° vol., 1930, p. 277). Il principio della contemporaneità della storia fu la novità del suo storicismo, ribadita nella distinzione di res gestae e historia rerum gestarum, che fu uno dei temi che lo allontanò dall’idealismo gentiliano e diede allo storicismo crociano il carattere suo specifico (Teoria e storia della storiografia, cit., pp. 273-75; cfr. Tessitore 2012, pp. 55-96).
Come già Charles Robert Darwin, anche Croce riconobbe che la propria teoria era di difficile accettazione, perché contraddiceva la concezione della storia ancora prevalente, che la presentava non come «storia viva e contemporanea», ma come storia morta, come cronaca. Che «l’umanità si fa nella sua storia» e che «il presupposto di questa storia è l’umanità» (La storia come pensiero e come azione, cit., p. 271) sembravano affermazioni incompatibili e contraddittorie. Ma sollevata la storia alla «conoscenza dell’eterno presente» essa si rivelava come identica alla filosofia, che per parte sua è il «pensiero dell’eterno presente» (Teoria e storia della storiografia, cit., p. 51). La separazione loro avrebbe invece significato pensare l’umanità come ancora o ormai priva delle sue categorie; come disumana o sovrumana; mai redenta o pienamente liberata, laddove il «pensiero giusto» sta nel riconoscere che l’umanità nella sua interezza è sempre «presente a sé», e che esiste solamente nell’agire, che è sempre specifico. Sicché, assolvendo ogni proprio compito determinato, «l’umanità si celebra intera» (La storia come pensiero e come azione, cit., p. 272) e raggiunge la propria verità.
La fiducia nella sintesi dei due piani traspare da uno dei più densi Frammenti di etica, I trapassati («La Critica», 1915, 13, pp. 73-74, poi in Etica e politica, 1931, pp. 23-25), pubblicato proprio quando uscì l’edizione tedesca di Teoria e storia della storiografia. Croce vi descrisse i rischi e i modi dell’elaborazione del lutto. «Che cosa dobbiamo fare degli estinti, delle creature che ci sono care e che erano come parte di noi stessi? “Dimenticarli”, risponde […] la saggezza della vita». Quell’oblio non è però opera del tempo, ma è il risultato di un processo che attraverso le forme di culto comincia con il rendere oggettivo lo strazio per superarlo. La crisi è necessaria; del pari inevitabile il suo superamento. Cercando di non far morire i morti «cominciamo a farli effettivamente morire in noi». Il momento successivo consiste nell’accettare di «continuare l’opera» del defunto. Tornando alla vita operosa, i morti si seppelliscono per la seconda volta, ma «spiritualmente». Si seppelliscono «le nostre vane immaginazioni intorno a essi» attraverso il desiderio di continuare e trasformare l’opera loro.
Il tema, al centro anche della Teoria e storia della storiografia, fu ripreso nella Storia come pensiero e come azione, dove Croce espose al livello di macrocosmo ciò che nei Trapassati era stato detto a livello di microcosmo: «L’uomo è un microcosmo, non in senso naturalistico, ma in senso storico, compendio della storia universale» (pp. 13-14). Tutti gli uomini lavorano alla storia: l’individualità per lo storicismo crociano è quella dell’opera, che non è il frutto dell’azione dell’individuo avulso dagli altri, ma «nasce sempre per opera e in funzione, come si suol dire della società, e meglio si direbbe del Tutto» (p. 118). Se la storia riconosce carattere positivo a tutti i fatti, non a tutti riconosce «carattere morale» (Filosofia e storiografia. Saggi, 1949, a cura di S. Maschietti, 2005, p. 145). Agente della storia è «unicamente lo spirito che forma gli individui e li volge a suoi strumenti» (La storia come pensiero e come azione, cit., p. 205); lo spirito universale (Filosofia e storiografia, cit., p. 131), ossia «l’idealità domina noi e non si lascia dominare da noi, perché essa è la vera e vivente realtà» (p. 88) e ciascun uomo accetta di impegnare tutto sé stesso pur «non sapendo a quale opera Dio, che è in noi, lo chiamerà» (p. 318).
Per schiarire il presente che è il tempo del «bisogno d’azione» (La storia come pensiero e come azione, cit., p. 159), occorre comprendere «l’azione che è stata compiuta». Come dunque l’individuo in nome del suo presente si libera del passato che rischia di sopraffarlo, così anche le società hanno bisogno di togliere dalle proprie spalle il peso del passato, come aveva detto Johann Wolfgang von Goethe, e di liberarsi dalla «servitù al fatto e al passato». Occorre guardare nel passato, discendere nel terribile regno delle Madri. Questo è il compito dello storico.
Il principio della contemporaneità della storia dava nuova visibilità alla storia. Secondo Croce, che ricorreva a un’espressione di Francesco De Sanctis, esso permetteva di «guardare i fatti dall’alto», dote essenziale dello storico (Alfredo Oriani, «La Critica», 1909, 7, p. 11, poi in La letteratura della nuova Italia. Saggi critici, 3° vol., 1915, 19687, rist. 1973, p. 227). Gli studi storici italiani nel tardo Ottocento, presi dal filologismo e dal mitologismo positivisti, avevano perduta «la speranza dell’altezza», che tornava se si poneva in modo coerente il problema della conoscenza delle fonti. Due, assai diverse domande si potevano infatti rivolgere al passato. L’una lo riduceva al «cronachismo». La teoria crociana invece costruiva «ordinate serie di storie di valori sociali» e spostava l’oggetto verso «la storia della psiche umana sotto l’aspetto pratico» (Teoria e storia della storiografia, cit., p. 126). «Gran differenza corre tra il domandare quale sia la serie dei documenti autentici o la successione cronologica dei fatti della Riforma luterana, e quale, invece, il carattere e l’ufficio adempiuto dalla Riforma luterana» (La storia come pensiero e come azione, cit., p. 131); e a sua volta la prima questione andava distinta dal momento aneddotico. Le fonti erano un dato estrinseco, da vagliare criticamente; ma erano comunque da riportare a una fonte ancora più profonda. Quelli che nell’uso storiografico si chiamano documenti «non operano come tali, e tali non sono, se non in quanto stimolano e raffermano in me ricordi di stati d’animo che sono in me» (Filosofia e storiografia, cit., p. 92). Senza i documenti esterni la storia diventa difficile e anzi in taluni casi impossibile perché priva di basi; ma senza i secondi essa è impossibile, perché la verità non è data dall’esterno, «ma vive in noi» (La storia come pensiero e come azione, cit., p. 14). La critica delle testimonianze conduce al ritrovamento di una «cosa» che non è un misterioso oggetto mitologico, ma è nient’altro che «noi stessi nella nostra storica ontogenesi» (p. 155).
La storia che sa vedere dall’alto, ossia dal presente, in Teoria e storia della storiografia è detta «storia politica ed etica, o ‘‘storia sociale’’, come ai nostri giorni si preferisce chiamarla» (p. 125), e agevole è ora l’affermazione del duplice principio che la storia è sempre speciale e particolare, ossia pensata sempre dallo storico secondo i propri personali problemi. Oggetto storico sono gli «istituti» (p. 125), intendendo la parola in senso assai esteso, nel quale confluivano gli atteggiamenti utilitari e morali dello spirito. Istituti erano le forme della vita morale e politica. Croce le ripensò, rappresentandole in parallelo, l’una con la storiografia della civilisation e l’altra con la tedesca Kulturgeschichte, che era storia dello Stato. Anche la biografia era riconosciuta da Croce come istituto, giacché la biografia non è storia di un individuo fisico, ma di un complesso di convincimenti e azioni, di opere dunque. La biografia – forma storiografica con la quale Croce pervenne a straordinari risultati di metodo – è autentica storia quando, sfuggendo al rischio della filologia e dell’aneddotica, pensa e giudica l’individuo «nell’opera che è sua e insieme non sua, che egli fa e che lo oltrepassa» (La storia come pensiero e come azione, cit., p. 20).
Dieci anni dopo Croce affermò la possibilità di una storia morale, distinta dall’azione utilitaria della politica ma che a questa fosse di direzione (cfr. Sulla storia della filosofia della politica. Noterelle, «La Critica», 1924, 22, pp. 193-208, poi in Etica e politica, cit., pp. 204-25). Dalla verità e autonomia della vita morale discendeva la necessità di una storia, che nella vita morale avesse il proprio oggetto e che però riuscisse a superare la scissione di kràtos ed ethos. Doveva perciò risolvere in sé anche l’azione politica. La nuova riflessione storiografica su tale «concetto difficile» (p. 220) fu svolta da Croce sempre nel 1924, in Storia economico-politica e storia etico-politica («La Critica», 1924, 22, pp. 334-41, poi in Etica e politica, 1931, 1967, pp. 225-34). Fin nel titolo si distinguevano due forme di storiografia, che rispecchiavano la duplice struttura dell’attività pratica, articolata in politica e morale (v. La scienza empirica della politica, 1924, e Machiavelli e Vico: la politica e l’etica, 1924, in Etica e politica, cit., pp. 196 e 208), ma tra le due era riconosciuta preminenza alla prima.
Prova della necessità di tale distinzione e gerarchia, a giudizio di Croce, veniva dall’insopportabile vacuità delle storie che si riportavano al mero utile e risultavano prive di siffatto orizzonte; e dal rischio della confusione di morale e moralismo che questa storia poteva generare. La formula etico-politica superava tali pericoli. In essa Croce tornava a discutere le due prospettive storiografiche che si erano svolte tra 18° e 19° secolo. La prima era stata quella della storia della civiltà, che s’era affermata nel Settecento per reagire alle storie diplomatiche o di guerre e per affermare il bisogno di una storia «più intima, di una storia civile dei popoli» (Storia economico-politica, cit., p. 229). Ma era divenuta storia o troppo angustamente intellettuale, o eccessivamente pratica. In opposizione a questa visione, si era affermata la seconda prospettiva, che nella storia dello Stato ritrovava la storia della vita etica. Fu così affermata la centralità della vita politica su ogni altra storia; ma sua debolezza fu una visione parziale sia dell’etica sia dello Stato. Si finiva con l’escludere le tensioni sociali e i movimenti ideali. Per uscire da questa debolezza, Croce propose dunque una storia «integrale» (da non confondere né con la precedente storia sociale, né con l’esigenza gentiliana di una storia generale), che avesse a suo oggetto non soltanto le dinamiche statuali, ma anche ciò che è fuori dello Stato e pure contro lo Stato: «la formazione degli istituti morali» e di quelli religiosi, le sette rivoluzionarie, i sentimenti, le fantasie, i miti «di tendenze e contenuto pratico» (p. 230). Le altre storie dell’attività pratica diventano materia della storia etico-politica, ch’essa «forma e riforma» (p. 231). Religione e morale erano unite, perché il primo termine era inteso non nel senso di una credenza specifica, ma nel senso goethiano della «fede attuosa nell’universale etico, l’operosità nell’ideale e per l’ideale»: era inteso cioè come cultura, come un «sistema mentale» il quale, tramutatosi in fede, diventa insieme «fondamento di azione e lume di vita morale» (pp. 233-34). Tuttavia, i protagonisti di questa storia erano comunque «i genî politici, e le aristocrazie o classi politiche», i creatori dei necessari istituti di vita morale e statale, che sanno generare e conservare quelle istituzioni (p. 231): queste appartengono alla vita immortale dello spirito, la cui esistenza è come quella degli eroi che «operano come potenze cosmiche e creano i nuovi eroi nel misterioso regno delle Madri» (Filosofia e storiografia, cit., p. 304).
In queste sorvegliatissime pagine, la tensione tra morale e politica si risolveva nella preminenza della considerazione dell’istituto sulla forza del movimento: quel che spinse Croce, per es., a difendere come necessaria la condanna di Michele Serveto da parte di Giovanni Calvino nel 1553. Nel pensiero storico si rifrangeva un bagliore della crisi drammatica che allora investiva la storia italiana. Sembrava infatti venirne uno schiarimento politico. Dalla riflessione sull’incontro tra le due correnti storiografiche ottocentesche francese e tedesca, che avevano saputo produrre «sintetiche formazioni» nella concezione storiografica e nel sentimento politico, risaltava la forza del «liberalismo come base storica, la cui tradizione bisognerà pure ripigliare» (Pseudostoriografia, in Storia della storiografia, cit., p. 286).
Il rapporto azione-accadimento nella storia etico-politica comporta in primo luogo l’esclusione del naturalismo. La vita umana «non si sottomette al tempo, ma […] foggia e adopera il tempo a proprio servigio come uno schematizzamento per orientarsi in mezzo al fiume della realtà che ci trascina, ossia della nostra incessante attività» (Filosofia e storiografia, cit., p. 35). Inoltre rilancia la certezza che, sebbene la vita umana sia segnata da dolore, decadenza, morte, tale elemento negativo non ne costituisca il cuore e che pertanto storie del negativo non possano essere tracciate. Regressi e decadenze, se necessari, per sé non sono oggetto di storia, ma soltanto nota di cronaca «dolorosa o vergognosa» (p. 304). La storia non poteva pensarsi che come storia del positivo. Compito della storia è non escludere la decadenza, ma pensarla; ovvero, pensare il progresso. «La storia della storiografia offre di continuo esempî del progresso che si effettua col correggere la considerazione negativa in positiva, con l’ascesa della prima alla seconda» (La storia come pensiero e come azione, cit., p. 157). Il nuovo concetto del progresso come legge dello spirito e della storia era per Croce «il ritmo dello spirito stesso, col quale soltanto si può interpretare e intendere la storia, e verso il quale soltanto si può e si deve indirizzare la vita morale» (Filosofia e storiografia, cit., p. 302).
Ma occorre notare che il problema della decadenza non fu mai mascherato da quello del progresso e che anzi si potrebbe forse dire ch’esso divenne il tema stesso della storia etico-politica (Sasso 1994, pp. 214-16). L’aporia dell’irriducibilità di utilità e morale si rifrangeva infatti nel conflitto che tra libertà e azione poteva insorgere «in circostanze determinate». E se Croce ne cercò di pensare il superamento appunto con la visione del progresso che dall’alto ricostruisce la storia etico-politica, tuttavia non nascose il conflitto tra le occorrenze private, i desideri di «sussistenza, di agi e di piacere» dell’«eterno volgo dell’umanità», e dall’altra parte la dimensione della vera spiritualità etica, rappresentata dagli «uomini veri, animati dall’assidua ricerca del bene comune e perciò da ideale morale, i quali effettivamente portano innanzi con l’opera loro l’umanità», i quali sono «intrinsecamente, rappresentanti di libertà» (La storia come pensiero e come azione, cit., p. 222), ma che pure possono talora restare inascoltati. Croce ne fece esperienza diretta, per es., nel Comitato per la preparazione di Napoli nel caso di guerra. «Il Comune e la Provincia sono nient’altro che organizzazioni elettorali, e tutto sottomettono o cercano di sottomettere a questo fine; della patria, dei doveri umani, delle cose belle e generose s’infischiano. Io, coi miei amici, sto a rappresentare tutte queste cose infischiabilissime» (Taccuini di lavoro, 1° vol., 1906-1916, 1987, pp. 451-52).
Nella terza edizione di Teoria e storia della storiografia (1927) Croce inserì la nuova teoria etico-politica. Ribadì l’importanza della vita morale e che dunque essa si rivolgesse «agli uomini di coscienza, intenti al loro perfezionamento morale, che è inseparabile dal perfezionamento dell’umanità» (2007, cit., p. 289).
Questo assetto però lentamente mutò. Nel 1938, nel citato La storia come pensiero e come azione, al ruolo istituzionale svolto dalle aristocrazie, capaci di creare la sintesi dell’accadimento, si sovrappongono come motore della storia «le angosce per la perduta libertà, le invocazioni, le deserte speranze, le parole di amore e di furore», che non erano né verità, né sogni o errori, ma «moti della coscienza morale, storia che si fa» (p. 57). Al centro della storia stava la vita morale, che non era più soltanto una delle forme della vita spirituale, ma di quella vita era la sostanza. «L’attività morale, che per un verso non fa alcuna opera particolare, per un altro verso le fa tutte […] di tutte convalidando l’autonomia col mantenere ciascuna nei suoi confini» (p. 52; cfr. p. 53); è la «potenza unificatrice dello spirito» (Filosofia e storiografia, cit., p. 65). Diviene, cioè, con mutazione radicale, «il valore dei valori» (G. Sasso, “Nota al testo”, in B. Croce, La storia come pensiero e come azione, cit., p. 344).
Lì dove la partizione della storiografia in Etica e politica aveva riconosciuto preminenza alla storia morale, distinta dalle altre storie economiche, adesso Croce pensa il concetto che le raccoglie e «dà loro unità» in modo diverso. L’oggetto della storia etico-politica era nel 1924 l’armoniosa, goethiana produzione del giuoco incrociato delle categorie; adesso compare qualcosa che pare essere irriducibile e però necessario a quelle categorie. La storia etico-politica muta, perché «irrompente e prepotente» compare adesso il concetto «della vita o vitalità», che «ha, coi suoi bisogni, le sue ragioni che la ragion morale non conosce» (La storia come pensiero e come azione, cit., pp. 162 e 161). «La vitalità non è la civiltà e la moralità, ma, senza di essa, alla civiltà e alla moralità mancherebbe la premessa necessaria, la materia vitale da plasmare e indirizzare moralmente e civilmente; sicché alla storia etico-politica verrebbe meno il suo proprio oggetto».
Tale «forza poderosa» è da educare. E questo è il compito della storiografia etico-politica. Essa deve fare sì che la sua comprensione non diventi sua giustificazione, che rischierebbe di alimentare «disposizioni perverse», come era successo in Germania, dove l’adorazione dello Stato si era rivelata adorazione della mera forza. Lo Stato non può essere adorato, perché null’altro fa se non approntare la «condizione di stabilità» per lo svolgimento della vita morale, che è la «più alta opera spirituale» (p. 163), e che ora opera la sintesi dell’accadimento.
Il diverso rapporto che intercorre tra morale, vitalità e politica nella sfera della vita pratica si riflette nei rapporti che ora legano la storia etico-politica alle altre storie, cioè alla storia economica e politica, dell’arte e della filosofia (p. 45). La storia etico-politica è ancora la storia per eccellenza, una «storia sopra le storie», ma le altre storie «speciali» non si risolvono più nella storia etico-politica, come succedeva in Teoria e storia della storiografia, ma al contrario è questa che le compenetra con la propria concretezza e le indirizza a farsi «azione etica» (p. 53). Il rapporto si è sdoppiato, quasi con la sua ombra. Da un lato le storie speciali continuano ad avere il rapporto che si è visto con la storia etico-politica, e in tale caso esse sono pensate dal punto di vista di quest’ultima; ma a considerarle per sé stesse, come è necessario, il concetto che le sorregge non è più quello della morale, ma quello della vitalità (p. 161). Quel che è lo «sconvolgente e travolgente» nella vita umana, che pare avere andamento misterioso e si impone con una forza «che vale per sé, fuori del bene e del male morale» (p. 161), va riconosciuto come forza storica. Ma lo storico perviene all’umanistica decifrazione del suo senso nella vita storica dell’umanità solo quando passata è la tempesta, e la sua energia, per essersi dissolta, ha preso forme stabili.
La storia etico-politica sembra avere adesso carattere di storia di movimenti. Croce infatti la distingue dalla storia delle istituzioni, nelle quali l’energia del movimento si blocca in forme, che rappresentano «il fissamento e solidificamento di quelle creazioni e la loro morte», e che sono quasi il serbatoio cui avrebbero attinto poi «nuovi genî» in nome della medesima vitalità, che però avrebbe assunto nuove forme (p. 164).
Croce proseguì a riflettere sul tema che La storia come pensiero e come azione aveva portato alla luce. Nel citato Filosofia e storiografia, raccolta di testi successivi al 1945, queste tensioni furono esposte con originale franchezza. La storia della vita pratica, distinta da quella teoretica, era composta da tre storie, quella religiosa, o morale o etico-politica; quella puramente politica o economica; quella della scienza e della tecnica. Campeggiava ora una storia morale, che doveva affrontare il negativo e nella vitalità distinguere la luce del nuovo da quella della decadenza. La storia etico-politica era una storia critica, il cui obiettivo era raggiungere la coincidenza dello spettacolo della storia con «la verità dell’etica» (p. 291).
Croce aveva concepito la storiografia in due modi complementari. Da un lato era la «storia della mente nel suo dispiegarsi, ossia dello spirito» (La storia come pensiero e come azione, cit., p. 169). «La storia nostra è la storia della nostra anima, e storia dell’anima è la storia del mondo» (p. 115), la quale non è «nient’altro che storia» (p. 59). Dall’altro, la storiografia aveva una funzione sociale vitale per la società, che attraverso il lavoro dello storico si chiariva il proprio dovere all’azione.
Attraverso il suo lavoro lo storico perveniva perciò a una dimensione pubblica. Nel fungere da guida alla liberazione del peso del passato e nel reperimento della linea di azione, lo storico va per così dire oltre l’opera dei politici i quali, «in quanto formano la classe dirigente del popolo al quale appartengono», posseggono la conoscenza del proprio tempo senza «la forma di un ordinato processo critico» (p. 195). Ma per sostenere la coscienza morale e politica del presente la società ha bisogno di storici, di intellettuali volti a comprendere «le situazioni reali, riportandole alla loro genesi e collocandole nelle loro relazioni» (p. 182). L’ingegno storico, che non è né quello del monaco compilatore di cronache, né dell’erudito raccoglitore delle cronache del passato, né dello scrittore di manuali, appartiene a coloro che si sono formati per superare le situazioni di crisi con nuova operosità. Storici erano «uomini di gran fervore civile e morale che hanno severamente scrutato la storia della civiltà umana» (p. 39) e che mossi «da un impulso verso l’avvenire vedono le opere umane […] imperfette sempre e perfette, transeunti e intranseunti a una» (p. 49). Lo storico «vero» agisce nella storia da uomo di partito e proprio tale sua passione produce «l’energia mentale» che lo spinge a superare quella passione per comprendere la storia e continuare a farla (p. 189). I libri degli storici offrono il modo per costruire «l’orientamento nel quale si vive e dove bisogna compiere la propria missione e il proprio dovere. È una vera vigilia d’armi, che non ammette né stupefacenti, né inebrianti» (p. 182).
La contemporaneità della storia, il principio che la storiografia sapesse e dovesse preparare all’azione nel presente, fu perciò l’aspetto della storiografia etico-politica alla cui luce Croce svolse la propria storia della storiografia. Spiccano i giudizi su Leopold von Ranke, Jacob Burckhardt, Hippolyte-Adolphe Taine. Tutti storici senza problema storico perché in loro, pur piacevoli scrittori, mancò il racconto storico filosoficamente pensato, che nasceva dalla passione del presente. Furono storici senza problema, perché senza presente giustamente pensato. Taine confuse la storia con la scienza; Burchkardt rinunciò al presente per il futuro e Ranke per il passato.
Burckhardt scelse la storiografia come punto di prospettiva per contemplare la violenza del mondo e per ritrarsene. La sua storia della cultura non fu superiore alla storia politica, tuttavia ne fu diversa perché al pensato racconto dei drammi storici sostituì i quadri immobili delle vicende umane. E tuttavia di Burckhardt Croce elogiò il senso artistico vivo e capace di osservazioni che seppure non giungevano a un giudizio conclusivo, erano però «stimolanti» (p. 104). Grazie alla sensibilità artistica, Burckhardt aveva avuto la capacità di cogliere la realtà storica, di cui aveva dato un’immagine statica perché l’aveva risolta non nel giudizio, ma nella profezia.
Al contrario, sulla strada della storia non s’era incamminato Ranke. Il celebre giudizio di Croce sullo storico luterano, del quale comunque riconobbe la grandezza, ebbe l’obiettivo duplice di indicare le sue manchevolezze storiografiche e quelle della corrente storicista che da lui sorse. Sotterranea, ma di rilievo, è la polemica con Ernst Cassirer, al quale Croce dedicò, qualche anno dopo, una confutazione della sua teoria della cultura che aveva come suo centro la diversa loro fondazione. In Cassirer Croce ravvisò una mancata chiarificazione della nozione di mito che aveva spinto il tedesco a collocare la dimensione culturale, o storica, in una condizione di instabilità tra religione e ragione. In Friedrich Meinecke Croce criticò, al contrario, l’aver composto il disequilibrio tra finito e infinito non già recuperando il potente strumento della dialettica hegeliana, che univa veracemente individuo e universale, ma rinunciando al loro rapporto per accettare soltanto il primo dei due termini. Che per Croce significava cadere nello scetticismo. Questa deriva il cui pericolo s’era fatto evidente nel Novecento, aveva avuto origine in Ranke. Il quale rappresentò, per così dire, un’occasione mancata per la cultura tedesca della prima metà del 19° sec., perché aveva schivato il problema dell’incontro di filologia e filosofia, che era stato posto da Wilhelm von Humboldt nel 1821 meno fortemente di quanto avesse fatto Giambattista Vico, ma comunque fecondamente. Ranke invece rimase al di qua di quel cruciale problema e Croce lo pose quasi fuori della storiografia, meno originale di Tucidide e di Erodoto!
Infine era comparso un altro tipo di storico, il «letteratuccio». Adulatore dei potenti, era pronto a condannare o lodare i personaggi del passato, per così servire i suoi padroni del presente. Era questa una storiografia già dei vecchi tempi, che era risorta con accenti tribunizi (p. 44). Se si teneva lontano dal presente, come Ranke, o se ne faceva suo cantore servile, lo storico che rinunciava a pensare criticamente il proprio tempo compiva pure lui la trahison des clercs, consumata in quei decenni da tanti intellettuali. Un tradimento grave, perché Croce aveva visto nel 1930 i segni della crisi appunto nell’affievolimento del sentimento storico e nell’affiorare di uno «spiccato atteggiamento antistorico» (Antistoricismo, «La Critica», 1930, 28, p. 402, poi in Ultimi saggi, 19482, p. 246).
Dalla critica alla storiografia passata e coeva, Croce trasse alimento per proporre la propria immagine di storia e di storico. In essa lo storicismo trovava forza nella sua radice umanistica, enfatizzata proprio in La storia come pensiero e come azione. La funzione umanistica di educazione era la più alta che si potesse proporre la storia etico-politica, perché proteggeva contro le forze disgreganti e costruiva la consapevolezza morale con cui pensare il progresso e la libertà. Lo storicismo realizzava «la verità dell’umanismo», che non era pervenuto a pensare il fondamento dello storicismo, di creare la propria identità «movendo dalla coscienza presente del passato» (pp. 308 e 310). La storiografia non è infatti descrizione di una situazione al fine di conservarla. L’opera della storia non mira a conservare gli equilibri sociali ma a crearne di nuovi, a creare cioè «nuova vita» (pp. 184-85).
Tale consapevolezza fu al centro della decisione crociana di fondare l’Istituto italiano di studi storici nel mentre meditava la crisi che lo sconvolgente fenomeno del nazismo aveva provocato e che pareva aver infranto e dissolto tutte le consolidate istituzioni della società europea. Era anche quello uno degli istituti nei quali il pensiero della storia etico-politica si faceva azione, e faceva trovare al tempo stesso lezione e risposta alla violenza della crisi che aveva investito la civiltà. Croce lo inaugurò il 16 febbraio 1947 con un discorso, Il concetto moderno della storia, nel quale la funzione sociale dello storico e della storia veniva illustrata con composto, ma umanistico vigore. Il rischio contro il quale combattere era per la storia quello del non avere un problema, del non sapere essere storia contemporanea. La mancanza di «inquietezza e sollecitudine morale» e lo scetticismo che ne veniva impedivano di affrontare il passato e il presente, e dunque non formavano l’animo «all’azione» (Filosofia e storiografia, cit., p. 346). Denunciare questo atteggiamento era il modo crociano di combattere le tirannie e il totalitarismo. Proprio nelle parole rivolte ai giovani che si accingevano a farsi storici, Croce segnalava i rischi che nella pratica la libertà potesse perdersi nell’azione utilitaria, e che nella teoria la vitalità minasse il sistema filosofico che al progresso della libertà era stato dedicato. Era, come si è visto, il rischio della storia etico-politica.
Quale fu dunque il problema della crociana storia etico-politica? Per Croce la risposta fu il pensiero storicamente determinato della libertà. La separazione tra libertà e giustizia, la dimensione categoriale della prima che invece mancava alla seconda, fu il suo convincimento profondo, verificato nelle sterminate ricerche storiche. Il problema suo, fin dai giovanili studi sulla storia napoletana e sulla Rivoluzione del 1799, fu quello della natura dello Stato. L’indagine della sua formazione e delle classi dirigenti fu per lui il problema proprio della cultura liberale. Sempre fermo fu il suo ripudio del diritto naturale, che avrebbe dato assolutezza categoriale alla giustizia e all’eguaglianza, in nome di una visione della libertà come categoria che, si è visto, non poteva che sorgere dal conflitto. La vicenda della formazione e del raggiungimento dell’autonomia dello Stato era stata da lui studiata nella sua vicenda italiana, sempre collegata con il ritmo della storia europea – o, come oggi si direbbe, mediterranea e atlantica. Croce, che vide con drammatica chiarezza il rischio della finis Europae, pensò al tempo stesso la sua decadenza e la sua possibilità di progresso pur sempre entro le energie della sua civilisation. Il problema suo fu quello del rapporto tra Stati e società, tra culture e nazioni nella storia d’Europa.
Sembrerebbe dunque pacifico sostenere che il capolavoro crociano sia stato, appunto, la Storia d’Europa nel secolo decimonono (1932), insieme alle altre opere della tetralogia (Storia del Regno di Napoli, 1925, pubblicata per la prima volta nel 1923-24, con il titolo Intorno alla storia del Regno di Napoli, su «La Critica»; Storia d’Italia dal 1871 al 1915, 1928; Storia dell’età barocca in Italia. Pensiero, poesia e letteratura, vita morale, 1929). Questa la tesi di Giuseppe Galasso (1990, p. 383), che lì ha visto la piena fusione di storia e filosofia, e di Fulvio Tessitore (2012, p. 205), che vi ha scorto la capacità crociana di ripensare il concetto più ostico alla filosofia storicista, quello di decadenza. Opposta era stata la tesi di Federico Chabod, per il quale in Croce «l’“istinto” dello storico», «parlò in lui prima di quello filosofico» (Chabod 1952, 1973, p. 182), e l’eredità hegeliana non soffocò il «senso vivo del particolare concreto» (p. 186).
Tuttavia la formula di storia etico-politica nel corso dei decenni del secondo Novecento è sembrata progressivamente perdere di forza (I percorsi dello storicismo italiano nel secondo Novecento, Atti del Convegno di studi, Anacapri, 22-24 sett. 2000, a cura di M. Martirano, E. Massimilla, 2002, in partic. G. Giarrizzo, Lo storicismo degli storici nel secondo Novecento, pp. 275-92), sia per i nuovi movimenti teorici, sia per il formarsi di nuove questioni politiche, difficili da pensare nell’alveo crociano. La crisi sorta dalla Seconda guerra mondiale ha provocato cesure e trasformazioni che sono parse smentire la fiducia crociana nella centralità del conflitto ideale di area europea.
È possibile, tuttavia, proporre un’ulteriore, conclusiva considerazione.
Forse è soprattutto da considerare un altro momento, nel quale l’insegnamento crociano fu drammaticamente meditato e, proprio perché radicalmente pensato e realizzato, anche superato. Penso ai lettori di Croce durante la Seconda guerra mondiale. Non era più la vigilia d’arme; ormai la storia chiedeva azione. È difficile fare una ricognizione ampia, ma due nomi si impongono. Il dialogo tra Croce e Franco Venturi ne è una straordinaria testimonianza. Il giovane storico, nel maggio 1941, scriveva all’anziano filosofo, del quale non condivideva né la politica né il liberalismo: «non le parlerò che di questo: i migliori giorni che ho avuto nei miei sette mesi di prigione sono stati quelli in cui ho potuto fortunatamente avere Il carattere della filosofia moderna e leggerlo e rileggerlo in solitudine». Croce rispose di essere lieto che «la lettura del mio ultimo libro sia venuta incontro ai suoi bisogni mentali» (B. Croce, F. Venturi, Carteggio, a cura di S. Berti, 2008, pp. 19-20). Anche Marc Bloch mentre combatteva per la Resistenza leggeva Croce, come scrisse Venturi ad Aldo Garosci nel 1946: «Sai cosa leggeva l’anno prima di essere fucilato? Croce. I figli mi hanno detto che aveva quasi soltanto i suoi libri con sé, e pare che abbia preso una serie di note su di lui» (Dubbi e certezze nel carteggio Garosci-Venturi, a cura di D. Grippa, «Annali della Fondazione Einaudi», 2005, 39, p. 345).
Nella lotta al nazismo, affrontando il rischio della morte in nome della difesa della civiltà, la cultura europea fu animata profondamente dalla lezione della storia etico-politica crociana, dal suo pensiero dei «doveri umani». In quell’azione essa trovò la propria più alta realizzazione, e si concluse.
F. Chabod, Croce storico, «Rivista storica italiana», 1952, 4, pp. 473-530, poi in Id., Lezioni di metodo storico, a cura di L. Firpo, Bari 1973, pp. 179-253.
G. Sasso, Benedetto Croce. La ricerca della dialettica, Napoli 1975.
G. Sasso, La “Storia d’Italia” di Benedetto Croce. Cinquant’anni dopo, Napoli 1979.
G. Galasso, Croce e lo spirito del suo tempo, Milano 1990.
G. Sasso, Filosofia e idealismo, 1° vol., Benedetto Croce, Napoli 1994.
M. Mustè, La teoria della storia in Benedetto Croce, «Giornale critico della filosofia italiana», 2005, 2, pp. 298-327.
M. Mustè, Croce, Roma 2009.
F. Tessitore, La ricerca dello storicismo. Studi su Benedetto Croce, Bologna 2012.