Storiografia gramsciana
Il concetto di storiografia gramsciana è complesso per tre ordini di motivi. In pratica tutti gli storici marxisti italiani, in particolare coloro che hanno organicamente aderito al Partito comunista italiano (PCI), hanno fatto i conti, prima, con l’edizione togliattiana dei Quaderni (6 voll., 1948-1951), poi con l’edizione critica dell’Istituto Gramsci, curata da Valentino Gerratana (3 voll., 1975). In secondo luogo, tra gli storici marxisti vi sono stati coloro che hanno fatto propria integralmente, anche per loro stessa ammissione, la prospettiva gramsciana, e altri che l’hanno integrata in quadri più ampi di riferimento e di ispirazione, anche in relazione al loro percorso biografico e culturale. Infine, non sono mancati intellettuali che hanno assunto il pensiero storico di Antonio Gramsci come un insieme di concettualizzazioni assai schematiche, a volte fraintendendone completamente le caratteristiche di fondo.
Forse è il caso di partire, per maggiore chiarezza, dalle riviste di ispirazione marxista che hanno costituito veri centri di cultura e di elaborazione storiografica in Italia dagli anni immediatamente successivi alla Seconda guerra mondiale fino al 1989, anno della crisi dei regimi comunisti in Europa.
La prima rivista da prendere in considerazione è «Società», nata per iniziativa di un gruppo di intellettuali fiorentini (Ranuccio Bianchi Bandinelli, Romano Bilenchi, Marta Chiesi, Maria Bianca Gallinaro, Cesare Luporini) nel 1945. La sua esperienza dura diciassette anni e ha come direttori in fasi diverse Luporini, Carlo Muscetta e Gastone Manacorda. La scoperta di Gramsci nella rivista risale ai primi anni Cinquanta, dopo la pubblicazione dei Quaderni, ed è organicamente precisata in un articolo di Manacorda del 1954 dal titolo Gramsci e l’unità della cultura. Si presti in particolare attenzione a questo passo tipicamente gramsciano:
La nuova cultura eredita da tutta la storia italiana e dai gruppi in essa storicamente dominanti, meriti e colpe, pregi e difetti: la nuova forza egemone, solo possedendo una piena coscienza del passato, che è anche suo perché è anche presente, potrà adempiere consapevolmente al suo compito.
La rivista vuole valorizzare integralmente la lezione gramsciana del rapporto tra struttura e sovrastruttura, contro ogni determinismo semplicistico e la tendenza a rinviare le questioni della cultura a un momento successivo alla risoluzione dei problemi sia politici sia strutturali.
Altra rivista importante è «Cronache meridionali». fondata nel 1954 da Mario Alicata, Giorgio Amendola e Francesco De Martino, e chiusa nel 1964. Nella rivista l’affermazione del primato della conoscenza storica nel patrimonio culturale del movimento operaio è ribadita anche come chiave di lettura dei Quaderni di Gramsci. Egli rappresenta la mediazione teorica per nuovi contenuti e il rinnovamento metodologico della storiografia sul Mezzogiorno. E all’interpretazione gramsciana del Risorgimento e del rapporto Nord-Sud può essere ricondotta l’organica pubblicazione sulle pagine della rivista dei classici del meridionalismo. Ancora più diretta è l’influenza di Gramsci sui primi anni di «Studi storici», la rivista dell’Istituto Gramsci.
Due iniziative editoriali di notevole respiro sono in qualche modo collegate al Gramsci storico: la prima risale agli anni Settanta, la Storia d’Italia Einaudi, diretta da Ruggiero Romano e Corrado Vivanti; la seconda è degli anni Ottanta, la Storia della società italiana dell’editore Teti che pubblica anche la rivista comunista «Il calendario del popolo». Nel primo caso l’ispirazione gramsciana è indiretta, discontinua, si percepisce molto in alcuni saggi, poco in altri; è integrata in un insieme di riferimenti che vanno dagli orientamenti francesi delle «Annales», al primato delle scienze sociali e politiche nella storiografia angloamericana, al revisionismo crociano. Nella Storia della società italiana, diretta da Giovanni Cherubini, Franco Della Peruta, Ettore Lepore, Giorgio Mori, Giuliano Procacci e Rosario Villari, l’ispirazione gramsciana è assai più diretta come si può evincere dallo stesso piano dell’opera che sembra riprodurre la periodizzazione di Gramsci: società comunale e policentrismo, Rinascimento, un’epoca di transizione, il blocco storico nell’Italia unita.
In Italia la figura di Gramsci storico è immediatamente associabile a Emilio Sereni (1907-1977). Antifascista, membro autorevole del Comitato di liberazione nazionale Alta Italia (CLNAI), nel Comitato centrale del PCI dal 1946 al 1975, senatore, due volte ministro con Alcide De Gasperi, direttore della rivista «Critica marxista», Sereni fu uno dei massimi responsabili della politica culturale del PCI nel secondo dopoguerra e del modo di concepire il rapporto con gli intellettuali vicini al partito. Proprio in quest’ottica, insieme con Palmiro Togliatti, egli contribuì a divulgare gli scritti di Gramsci e a orientarne l’interpretazione della storia italiana. In particolare, la questione contadina, l’idea del Risorgimento come «rivoluzione agraria mancata», la visione strategica dell’alleanza tra classe operaia del Nord e contadini del Sud furono alcuni dei capisaldi della lettura gramsciana di Sereni, che divenne l’interlocutore polemico privilegiato di Rosario Romeo e dei suoi scritti della fine degli anni Cinquanta, poi raccolti nel volume Risorgimento e capitalismo (1959).
Personalità sui generis, poliglotta, autore di più di mille scritti, dirigente politico ma, al tempo stesso, intellettuale finissimo, dotato di una vivacità culturale unica, non più riscontrabile in altri uomini politici del PCI, Sereni fu anche assai attento al profilo teorico del pensiero di Gramsci, in particolare al ruolo delle sovrastrutture e al concetto di formazione economico-sociale. Tra le sue opere più importanti Il capitalismo nelle campagne, 1860-1900 (1947), Storia del paesaggio agrario italiano (1961), Capitalismo e mercato nazionale in Italia (1966).
Autore della monumentale Storia dell’Italia moderna in undici volumi è Giorgio Candeloro (1909-1988). Prese parte alla Resistenza dopo l’8 settembre del 1943, insegnò presso le Università di Catania e di Pisa. La sua opera principale, che occupò l’autore dal 1955 al 1986, analizza il periodo 1700-1950 e trae da Gramsci la sua ispirazione principale, come Candeloro stesso riferisce nella prefazione all’ultimo volume della Storia dell’Italia moderna:
Credo di essere uno studioso e uno scrittore di storia e mi sento marxista e gramsciano come mi sento illuminista per quel tanto che l’illuminismo e il marxismo possono servire per capire la storia dal punto di osservazione di chi vive ormai sul finire del secolo ventesimo.
Segnata dalla partecipazione alla Resistenza e da un’intensa attività politica nel Partito comunista, è anche la biografia di Paolo Spriano (1925-1988). Egli fu partigiano combattente nelle brigate Giustizia e libertà. Iscrittosi al Partito comunista nel 1946, fu redattore de «L’Unità». Insegnò nell’Università di Cagliari e all’Università di Roma. Nel 1956 visse, come altri intellettuali comunisti, il dramma per l’intervento sovietico in Ungheria, firmando l’appello dei 101 intellettuali comunisti, ma senza lasciare il PCI. I suoi primi lavori di storia furono dedicati al proletariato torinese e al biennio rosso. Recò contributi di primo piano alla conoscenza del Gramsci politico e giornalista e all’analisi del suo rapporto con Piero Gobetti.
Dall’incontro tra politica e storiografia nacque la sua opera maggiore, la Storia del partito comunista italiano (5 voll., 1967-1975), prima ricostruzione sistematica della storia del PCI dalla fondazione al 1945, condotta su un’accurata indagine archivistica e con apertura metodologica. Le sue opere successive furono dedicate al rapporto tra comunismo italiano e Unione Sovietica: su questo tema scrisse Gramsci in carcere e il partito (1977), che, con equilibrio, affronta uno dei nodi più intricati della storia del Partito comunista.
Altra biografia segnata dalla Resistenza nel Bellunese, nelle brigate partigiane di Giustizia e libertà, è quella di Giuliano Procacci (1926-2008). La sua formazione di storico fu assai ricca e diversificata: allievo di Carlo Morandi a Firenze e di Federico Chabod all’Istituto italiano per gli studi storici di Napoli, svolse ricerche in Francia presso il Centre national de la recherche scientifique, a Milano presso la Fondazione Feltrinelli, a Roma presso l’Istituto storico italiano per l’età moderna e contemporanea. Insegnò nelle Università di Cagliari, Firenze e Roma. Questo percorso intellettuale spiega i molteplici interessi di Procacci che spaziarono, fra storia moderna e contemporanea, dalla fortuna europea di Niccolò Machiavelli, alla Francia del 16° sec., al movimento operaio italiano, al socialismo e al comunismo internazionale.
La pubblicazione nel 1968 della Storia degli italiani, l’opera più nota di Procacci, fu un evento editoriale di notevole impatto per più motivi: per l’anno in cui vide la luce, caratterizzato dal protagonismo delle lotte operaie e studentesche; per la prospettiva adottata dall’autore nel delineare un profilo unitario della storia della penisola; per il modo personale e originale di tradurre nel volume l’ispirazione gramsciana. La Storia degli italiani parte dall’anno Mille e, secondo l’interpretazione gramsciana, attribuisce al cosmopolitismo degli intellettuali, al carattere corporativo della borghesia comunale e all’assenza di cultura nazional-popolare sia lo stato di divisione politica dell’Italia tra Medioevo e prima età moderna sia i problemi e le contraddizioni successive. Ma nell’opera di Procacci, che era nata per un pubblico francese, si avverte anche l’influenza della ‘nuova storia’ delle «Annales» con aperture alla cultura materiale, alle scienze sociali e politiche, alla storia delle mentalità. Gramsciana è, in certo senso, anche una delle ultime opere di Procacci, Carte d’identità. Revisionismi, nazionalismi e fondamentalismi nei manuali di storia (2005), che analizza i programmi scolastici di storia in Paesi europei ed extraeuropei secondo la sensibilità dello storico sardo per le strutture educative e gli apparati ideologici di Stato.
Quasi coetaneo di Procacci è stato Franco Della Peruta (1924-2012), storico del Risorgimento nell’Università statale di Milano, autore di volumi che hanno riguardato soprattutto il contributo della sinistra, nelle sue varie componenti (democratiche, radicali, socialiste, anarchiche), al Risorgimento. Tra le sue opere più importanti: Democrazia e socialismo nel Risorgimento (1965), Conservatori, liberali e democratici nel Risorgimento (1989), Realtà e mito nell’Italia dell’Ottocento (1996), L’Italia del Risorgimento. Problemi, momenti e figure (1997), I democratici e la rivoluzione italiana. Dibattiti ideali e contrasti politici all’indomani del 1848 (2004), Società e classi popolari nell’Italia dell’800 (2005). Fu lo stesso Della Peruta, in un’intervista a Gianluca Albergoni (pubblicata su «Il Manifesto» del 6 gennaio 2011) a precisare il suo rapporto con Gramsci dichiarando:
Negli anni del secondo dopoguerra si impose la prospettiva analitica di Antonio Gramsci, le cui riflessioni hanno molto giovato alla storiografia, perché diedero grande impulso agli studi sul Risorgimento, che per l’appunto beneficiò di un rinnovato interesse, impregnato di passione politica.
Della Peruta distingue poi nella prospettiva gramsciana il contributo politico da quello strettamente storiografico, che può risultare anche anacronistico:
Si trattava di rintracciare l’origine dei movimenti popolari dell’Italia immediatamente post-risorgimentale, dai movimenti bracciantili degli anni ’80 alla nascita del movimento socialista. E poi non va dimenticato che il problema del coinvolgimento delle masse contadine era stato teorizzato da una parte minoritaria dei patrioti, penso in particolare a Pisacane. Che magari avrà commesso degli errori, sarà pure stato velleitario, ma il problema – pur se in termini utopistici – certamente se l’era posto. Aveva, credo, sopravvalutato il potenziale rivoluzionario delle masse contadine, ancora largamente sottoposte all’autorità morale del clero e non meno fortemente influenzate dal paternalismo dei proprietari terrieri.
Lo storico non ebbe dubbi sul fatto che il Risorgimento fosse stato un fenomeno di masse urbane in un’Italia ancora largamente rurale. Quanto all’interpretazione complessiva, Della Peruta conservò nei suoi lavori i termini principali della prospettiva gramsciana: il contributo rilevante dei democratici non smentisce la capacità di direzione politica dei moderati e la sconfitta del Partito d’azione.
A differenza degli storici fin qui considerati, Gastone Manacorda (1916- 2001) ebbe una biografia politica assai più travagliata. Negli anni Trenta condivise la prospettiva fascista dell’impero: credette nella guerra d’Etiopia come legittima contrapposizione all’imperialismo delle altre nazioni, secondo sue stesse dichiarazioni. Fu con la guerra di Spagna che Manacorda si avvicinò all’antifascismo stabilendo rapporti di amicizia con Mario Alicata, Carlo Muscetta, Carlo Salinari, Antonello Trombadori, Giuliano Briganti. Ancora Manacorda sottolineò come fosse importante per lui capire il fascismo attraverso l’analisi della storia del Risorgimento e dell’Italia liberale. Partecipò quindi alla Resistenza come membro della direzione politico-militare della quarta zona.
Dopo la guerra, Manacorda fu una delle personalità più importanti della politica culturale del Partito comunista italiano. Direttore delle edizioni Rinascita, fu, come già scritto, direttore di «Società» dal 1950, nel 1954 membro del comitato direttivo dell’Istituto Gramsci: si caratterizzò sempre per una particolare vocazione all’autonomia e alla critica, come dimostrato dai suoi interventi sulla rivista «Società» e al Gramsci. Nel 1956 non firmò l’appello degli intellettuali, ma espresse la propria adesione, accusando Alicata di «reticenza» nel campo della cultura e rivendicando i «diritti della libertà della ricerca». Proprio in questa occasione lo storico romano si richiamò a Gramsci per sottolineare la condizione di autonomia e non subalternità della ricerca. Nel 1958, al Convegno di studi gramsciani, fu tra i primi a porre l’esigenza di una nuova edizione dei Quaderni del carcere più fedele all’ordine cronologico di composizione. Manacorda, insieme con Ernesto Ragionieri, Giuliano Procacci, Rosario Villari e Renato Zangheri, fu tra i fondatori della rivista «Studi storici», che doveva al tempo stesso reagire agli eccessi ideologici del dopoguerra ma non considerarsi neutrale e rilanciare l’ispirazione gramsciana. Diresse la rivista dal 1964 al 1966. Dopo primi studi di storia economica, Manacorda, che aveva insegnato a Napoli e a Roma, si dedicò prevalentemente alla storia del socialismo italiano.
Nella sua biografia intellettuale si avverte l’influenza del Gramsci storico del Risorgimento ma, soprattutto, della riflessione del dirigente politico sardo sui rapporti fra struttura e sovrastruttura e sulla relativa autonomia della seconda rispetto alla prima. Solo così Manacorda ha potuto far convivere la sua adesione al partito comunista con una visione dell’intellettuale non organico, ma critico portatore di materiali, secondo una prospettiva che molto aveva influito nei primi anni dell’esperienza di «Società» e che derivava dal pensiero e dall’insegnamento di Delio Cantimori, decisivi nella formazione di Manacorda. Dalla contrapposizione fra due modi di intendere l’intellettuale – organico o specialista – fu originata gran parte dei conflitti e delle incomprensioni che opposero Manacorda ai responsabili della politica culturale del PCI.
Ernesto Ragionieri (1926-1975) unì l’attività accademica, come professore di storia del Risorgimento e storia contemporanea a Firenze, all’attività politica come consigliere al Comune di Firenze, membro del Comitato centrale del PCI, e all’attività culturale come condirettore di «Studi storici». I suoi studi furono dedicati in prevalenza alla storia del marxismo, alla storia politica e sociale dell’Italia unita, alla cura delle opere di Togliatti. Forse lo scritto più compiuto e organico per analizzare i rapporti fra Ragionieri e Gramsci è l’ultimo, quello dedicato alla storia politica e sociale tra Otto e Novecento, pubblicato nel 4° vol. della Storia d’Italia Einaudi. Il punto di partenza di questo saggio riprende la sequenza di domande poste da Gramsci sullo Stato italiano in un articolo apparso su «L’Ordine nuovo» il 7 febbraio 1920: quali sono state le forze economiche e politiche alla base dello Stato italiano? C’è stato un processo di sviluppo? Quale posto occupa l’Italia nel mondo capitalistico? La guerra imperialistica ha prodotto forze nuove? E che direzione prenderanno le attuali linee di forza della società italiana? Ragionieri ritenne che non fossero state date ancora risposte esaurienti alle domande di Gramsci e presentò la sua tesi di fondo:
Ciò che rappresenta l’autentico strappo che il Risorgimento apporta nella storia plurisecolare d’Italia e costituisce, al tempo stesso, la misura più autentica dell’incidenza della storia del nostro paese sulla storia universale, e di questa su quella, è proprio la nascita e la costruzione di uno Stato unitario che, per la prima volta nell’età moderna, racchiude nei propri confini, sotto un’unica sovranità e sotto una stessa legislazione, tutto o quasi tutto il territorio del paese chiamato Italia (1976, p. 1667).
I momenti cruciali della ricostruzione di Ragionieri si avvalgono del contributo di riflessione dei Quaderni, dei quali lo storico toscano condivise quasi integralmente le posizioni. Si prenda, per es., la nascita del Partito socialista italiano (PSI) e l’elemento di novità che rappresentò nella storia d’Italia: la funzione unificante di un popolo e di un territorio disperso. Ragionieri cita e condivide un articolo di Gramsci per il «Grido del popolo» del 22 settembre 1917:
Il popolo italiano cinquanta anni fa non esisteva, era solo un’espressione retorica […] Si è organizzato, si è imposta una disciplina, perché nel suo cuore, nel suo cervello un sentimento nuovo, un’idea nuova era sorta. L’Italia è diventata un’unità politica perché una parte del suo popolo si è unificata intorno ad un’idea, ad un programma unico. Quest’idea, questo programma unico l’ha dato il socialismo, solo il socialismo (1976, p. 1786).
A volte Ragionieri coglie uno spunto, un suggerimento di Gramsci per argomentarlo e arricchirlo: così è a proposito della svolta politica giolittiana:
Ciò che interessa non è tanto discutere se e a quando si possa retrodatare il momento in cui Giolitti cambia di spalla al suo fucile, per adoperare la nota espressione di Gramsci, che fissò quel momento al 1913. Il problema vero consiste piuttosto nel determinare che cosa rappresentassero, per restare nell’ambito dell’immagine gramsciana, il fucile e le due spalle nella strategia politica giolittiana; il che equivale, in buona sostanza, a cercare di definire in che cosa fosse effettivamente consistita la svolta giolittiana, se e come avesse esteso le basi di consenso allo Stato unitario, per attrezzarlo, mediante il superamento di tare originarie, al confronto tra le potenze che si stava ormai aprendo nel mondo (1976, p. 1897).
Ed è ancora al giudizio di Gramsci sulle elezioni del 1913 come «momento di vita intensamente collettiva» che si richiama Ragionieri per denunciarne il mancato approfondimento. Il metodo di approccio a classici giudizi storiografici è sempre lo stesso: richiamarli per parzialmente accoglierli nella sostanza, ma per poi approfondirli e andare oltre. Così è per le definizioni della ‘settimana rossa’: «rivoluzione senza programma» per Salvemini, «tipico movimento mussoliniano» per Gramsci, che mette in evidenza il rapporto con gli orientamenti affermatisi nel PSI dopo il 1912. Per Ragionieri,
la Settimana Rossa rappresentò insieme il punto più alto e la fine di un’intera stagione del sovversivismo in Italia, lasciando il passo a nuove forme di lotta cui le trasformazioni portate dalla grande guerra nel tessuto sociale del paese avrebbero fornito le basi oggettive (1976, pp. 1971-72).
Sugli intellettuali di fronte alla Prima guerra mondiale, lo storico toscano ne argomenta il fallimento, riprendendo integralmente il giudizio di Gramsci dei Quaderni, in linea, a sua volta, con quello di Croce: gli intellettuali hanno dimenticato che «devono essere governanti e non governati, costruttori di ideologie per governare gli altri e non ciarlatani che si lasciano mordere e avvelenare dalle proprie vipere» (1976, p. 2038). Infine, Ragionieri attribuisce a Gramsci la comprensione piena del ruolo straordinario svolto da Gobetti:
egli seppe introdurre tra gli intellettuali italiani, in un momento in cui tutte le frazioni della classe dominante si raccoglievano intorno al fascismo, la tendenza a comprendere che erano essenzialmente nazionali e portatrici dell’avvenire due forze sociali: il proletariato e i contadini (1976, p. 2159, in corsivo le parole di Gramsci).
Elio Conti (1925-1986) fu allievo di Carlo Morandi a Firenze e assistente volontario di Gaetano Salvemini. Dal 1958 all’Istituto storico italiano per il Medioevo, ricoprì la cattedra di storia al Magistero di Firenze. Il suo progetto sulla storia fiorentina, teso a identificarne le basi socioeconomiche come paradigmatiche della più generale storia dell’Italia moderna, ebbe Gramsci tra i suoi maggiori ispiratori. Negli anni Sessanta Conti si dedicò alla pubblicazione dei volumi sui catasti agrari fiorentini.
Franco De Felice (1937-1997) fu tra i fondatori dell’Istituto Gramsci di Puglia. Egli insegnò storia contemporanea a Bari e a Roma. Il suo primo lavoro su Gramsci fu l’Introduzione alla Questione meridionale del 1966. In seguito pubblicò Serrati, Bordiga, Gramsci e il problema della rivoluzione in Italia, 1919-1920 (1971).
È possibile, in conclusione, identificare alcuni elementi di analogia e di differenza fra i percorsi intellettuali, che non esauriscono la storiografia gramsciana in Italia, ma sono abbastanza rappresentativi. Il nesso tra politica e cultura è quasi sempre strettissimo: la militanza prima nella Resistenza poi nel PCI è un tratto comune alle biografie prese in considerazione. Sulla scia di Gramsci il primato della storia politica è indiscusso, anche se, a partire dagli anni Sessanta, le scienze sociali e politiche entrano con prepotenza negli orientamenti e nei metodi storiografici. I Quaderni del carcere e altri scritti di Gramsci costituiscono una guida sicura per comprendere i problemi della storia italiana, anche se diversi sono i criteri e i metodi di approccio all’opera del sardo. Infine le oscillazioni che spesso si avvertono nel modo di intendere la funzione dell’intellettuale – organico o specialista – sono probabilmente insite nello stesso percorso dei Quaderni.
G. Candeloro, Storia dell’Italia moderna, 11 voll., Milano 1956-1986.
P. Spriano, Storia del Partito comunista italiano, 5 voll., Torino 1967-1975.
G. Procacci, Storia degli italiani, Roma-Bari 1968.
E. Ragionieri, La storia politica e sociale, in Storia d’Italia Einaudi, 4° vol., Dall’Unità a oggi, t. 3, Torino 1976.
P. Spriano, Gramsci in carcere e il partito, Roma 1977.
P. Alatri, Le occasioni della storia, Roma 1990.
G. Manacorda, Il movimento reale e la coscienza inquieta. L’Italia liberale e il socialismo e altri scritti tra storia e memoria, a cura di C. Natoli, L. Rapone, B. Tobia, Milano 1992.
A. Musi, Bandiere di carta. Intellettuali e partiti in tre riviste del dopoguerra, Cava de’ Tirreni 1996.
«Studi storici», 2003, 44, 3-4, nr. monografico: Gastone Manacorda: storia e politica.
A. Vittoria, Manacorda Gastone, in Dizionario biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, 68° vol., Roma 2007, ad vocem.
G. Albergoni, Sul Risorgimento, conversazione con Franco della Peruta, «Il Manifesto», 6 gennaio 2011, p. 11.