Storiografia letteraria
La riflessione sui caratteri della letteratura italiana e sulla sua storia si pone come un nodo cruciale nella cultura del primo Ottocento, in rapporto all’affermarsi della spinta unitaria del Risorgimento: è la stessa tensione verso l’indipendenza e l’unità a trovare stimolo e sostegno in una tradizione letteraria e culturale che, pur tra tanti conflitti, si era riconosciuta come unitaria, e come tale era stata percepita nell’orizzonte europeo. Le discussioni sui caratteri di quella tradizione, l’impegno a ricostruirne problematicamente lo sviluppo si collegano, d’altra parte, a quell’attenzione alla storia che si impone allora in tutta Europa, e non soltanto in ambito specificamente romantico. Il lavorio dell’erudizione settecentesca aveva dato luogo a varie raccolte di materiali, ad ampie ricostruzioni, sostenute spesso da un patriottismo puramente ‘retorico’, in un’esteriore rivendicazione dell’eccellenza della nostra letteratura: in primo luogo, i 14 volumi della Storia della letteratura italiana (1772-82, poi 16 voll. 1787-94) del gesuita Gerolamo Tiraboschi avevano offerto un formidabile e paziente accumulo di dati concreti, di notizie minute, ma entro un generico gusto classicistico, privo di penetrazione critica ed estraneo a ogni collegamento tra i dati storici esterni e i caratteri interni dei testi; la letteratura vi appariva come un insieme di informazioni da reperire, da catalogare, da archiviare, senza che si potesse avere un sentore del loro rapporto con la vita concreta e tanto meno con le esigenze poste dalla nuova inquieta sensibilità che si affermava sul volgere del 18° sec. e che metteva in gioco in modo nuovo le poetiche e i valori letterari.
Rispetto a quell’orizzonte ancien régime, già nella cultura di fine Settecento si imponeva l’esigenza di un nuovo e diverso vaglio dei dati concreti, sostenuto da una coscienza filosofica, orientato verso una più diretta considerazione critica delle opere. La storia della letteratura non poteva svilupparsi nel mero orizzonte dell’erudizione e dell’accumulo, ma doveva prendere avvio da una più vitale aderenza alla letteratura, da un’affermazione del suo rilievo essenziale per l’esperienza individuale e sociale, per la stessa comprensione del senso del divenire storico: doveva radicarsi entro un’integrale dimensione critica e filosofica. Queste esigenze si definirono nel modo più vigoroso nel pensiero e nell’attività critica di Ugo Foscolo, animata da un vivissimo senso della storicità della poesia e da un’avanzata coscienza filologica e linguistica: i suoi molteplici saggi e interventi, pur non approdando mai alla costruzione di una storia letteraria d’Italia, ne suggeriscono in effetti molteplici linee. La storicità della letteratura si dà per lui in un confronto diretto tra il linguaggio e la vita reale, in una partecipazione appassionata al destino del mondo: secondo la lezione vichiana, essa si svolge dal cuore più intimo del linguaggio, nel nesso strettissimo tra il linguaggio, le istituzioni umane, il destino politico della nazione; e deve essere lo studio storico, così inteso, a far erompere e ad alimentare una nuova coscienza italiana (l’orazione inaugurale del 1809 Dell’origine e dell’ufficio della letteratura afferma che «nelle storie tutta si spiega la nobiltà dello stile, tutti gli affetti delle virtù, tutto l’incanto della poesia, tutti i precetti della sapienza, tutti i progressi e i benemeriti dell’italiano sapere», in Opere, ed. diretta da F. Gavazzeni, 2° vol., Prose e saggi, 1995, p. 534). Nei numerosi studi foscoliani su autori e opere specifiche, scritti specialmente nel periodo inglese, l’attenzione al dato particolare (anche ai più puntuali elementi testuali, fissati spesso con una sorta di partecipe identificazione) si proietta sempre su uno sfondo storico, mirando a mettere in luce il rilievo da essi assunto nel tracciato delle vicende italiane.
Giambattista Vico costituisce peraltro un punto di riferimento essenziale per i vari tentativi di costruzione di storia letteraria e di riflessione su di essa che si danno nella prima metà dell’Ottocento: la Scienza nuova (1725) suggerisce una filosofia della storia che deve agire sui dati dell’erudizione, disporli su quelle più ampie linee interpretative che i romantici del «Conciliatore» sentono particolarmente necessarie. Emblemi di un’integrazione tra erudizione e filosofia vengono a essere, già per Foscolo e poi per i romantici italiani, Ludovico Antonio Muratori e Vico: integrazione necessaria per ogni orizzonte storiografico, come esemplarmente indica Alessandro Manzoni nel Discorso su alcuni punti della storia longobardica in Italia (1822): «Osservando i lavori del Muratori e del Vico, par quasi di vedere, con ammirazione e con dispiacere ad un tempo, due grandi forze disunite, e d’intravedere un grande effetto che sarebbe prodotto dalla loro unione» (in Le tragedie, a cura di G. Tellini, 1996, p. 723). Per Manzoni il modello muratoriano della «moltitudine delle notizie positive» andrebbe integrato con quello vichiano delle «viste generali» e dello «sguardo più acuto, più lontano, più istantaneo»: e ciò corrisponde perfettamente all’esigenza di un’ampia visione storica della letteratura, sentita dai romantici a Manzoni vicini, che, da Pietro Borsieri a Giovanni Berchet, variamente manifestavano il loro disagio nei confronti dell’imponente lavoro di Tiraboschi.
Si aggiungeva in quei primi decenni dell’Ottocento la suggestione del nuovo sguardo che la cultura europea stava rivolgendo alla letteratura italiana: da una parte, con l’ampia Histoire littéraire d’Italie di Pierre-Louis Ginguené (sei volumi apparsi tra il 1811 e il 1818 seguiti dalla continuazione di Francesco Saverio Salfi), che, pur nel suo carattere enciclopedico, aveva il merito di prestare attenzione all’orizzonte civile della nostra letteratura, dando spazio ai caratteri delle opere; dall’altra, con lavori di più vivo spessore critico, come De la littérature considérée dans ses rapports avec les institutions sociales (1800) di Madame de Staël, le Vorlesungen über dramatische Kunst und Literatur (1809, tradotto da Giovanni Gherardini nel 1817) di August Wilhelm Schlegel, e De la littérature du Midi de l’Europe (quattro volumi apparsi tra il 1813 e il 1829) di Jean-Charles-Léonard Simonde de Sismondi. Da queste opere (e da altre di minor rilievo) scaturiva una visione della letteratura come espressione della società e dei caratteri nazionali: visione fissata da Sismondi, in un’ottica di liberalismo laico, entro il proposito di «montrer l’influence réciproque de l’histoire politique et religieuse des peuples sur leur littérature, et de leur littérature sur leur caractère» (1° vol., 1813, p. II).
Sulla spinta di queste varie suggestioni, la cultura del Risorgimento tende a concepire la letteratura come espressione dei caratteri nazionali, delle qualità e delle contraddizioni dell’essere italiano, della sua identità unitaria e del suo modificarsi nel tempo. Ogni autentica forma critica si dispone in un orizzonte ‘civile’ storicamente fondato, anche quando non si rivolge direttamente a tracciare disegni storici: in tal senso viene a operare anche l’attenzione rivolta da Giacomo Leopardi alle forme linguistiche e stilistiche e ai caratteri degli italiani (con certi formidabili rilievi dello Zibaldone, che restarono per allora sconosciuti); e, in modo diverso e militante, la varia riflessione sulle lingue e sui dialetti di Carlo Cattaneo.
Nella fitta produzione critica di Giuseppe Mazzini si disegnano ampi tracciati epocali in cui i grandi autori si pongono come espressione e coscienza dello spirito del popolo, dell’«ordine universale», in movimento verso l’affermazione della libertà; il saggio D’una letteratura europea (1829) indica la necessità di illuminare lo studio della letteratura con «lo studio dei tempi» e «lo studio delle istituzioni», muovendo verso un’integrazione tra «l’intelletto e l’entusiasmo». In altra direzione il disegno epocale si impone nel Del Primato morale e civile degli Italiani (1843) di Vincenzo Gioberti, dove la vicenda della letteratura e i giudizi anche molto acuti sugli autori si dispongono in un ambito provvidenziale e metafisico, che rende singolarmente animato e vibrante il percorso storico.
Le più varie linee di questo orizzonte storico della critica della prima metà dell’Ottocento vengono comunque a convergere nel solido lavoro di Paolo Emiliani Giudici, Storia delle belle lettere in Italia (1844, poi nel 1855 con il titolo Storia della letteratura italiana): limitando il campo della letteratura a quelle che vengono definite le «arti della parola» e rinviando intenzionalmente al modello foscoliano, l’articolarsi delle diverse epoche della nostra storia letteraria viene qui compreso entro un alterno conflitto tra guelfismo e ghibellinismo, con scelte di campo che vengono fatte operare sui contenuti concreti delle opere. Su un conflitto dello stesso tipo e su una linea laica più radicale si pongono le Lezioni di letteratura italiana (tre volumi apparsi tra il 1866 e il 1872) di Luigi Settembrini, che mirano a riconoscere il carattere proprio della letteratura italiana in «una compiuta armonia tra concetto e forma», ma che mancano di un chiaro fondamento teorico.
Gli anni della pubblicazione delle Lezioni di Settembrini sono gli stessi dell’elaborazione e della pubblicazione della Storia della letteratura italiana (1870-1871) di Francesco De Sanctis, punto d’arrivo e sintesi fulminea del ricchissimo lavoro critico e storico svolto dall’autore nei decenni precedenti. Collegando l’esigenza storica della cultura ottocentesca con un’avvertita coscienza teorica, con una disponibilità all’ascolto delle opere, con un’attenzione al loro spessore vitale, De Sanctis giunge a un’integrazione tra l’orizzonte letterario e quello ‘civile’, con un appassionato afflato narrativo che emblematicamente suggella il compimento del Risorgimento, il rilievo che nel suo processo aveva assunto lo sguardo storico alla letteratura. Come per situarsi rispetto ai suoi predecessori, De Sanctis pubblica, nella «Nuova antologia» del marzo 1869, un saggio su Settembrini e i suoi critici, dove non tace di limiti delle Lezioni del più vecchio patriota, che pure difende dagli attacchi di due giovani critici: e nota che un’autentica storia della letteratura può darsi solo «come l’epilogo, l’ultima sintesi di un immenso lavoro di tutta intera una generazione», presupponendo necessariamente «una filosofia dell’arte, generalmente ammessa, una storia esatta della vita nazionale, pensieri, opinioni, passioni, costumi, caratteri, tendenze; una storia della lingua e delle forme; una storia della critica, e lavori parziali sulle diverse epoche e su’ diversi scrittori» (Verso il realismo, a cura di N. Borsellino, 1995, pp. 315-16).
Può apparire paradossale il fatto che, mentre affermava in tal modo la necessità, per la costruzione di una storia letteraria, di tal vasto lavoro preliminare non ancora compiuto (che poteva essere compito degli studiosi della nuova Italia), De Sanctis era già alle prese con la sua stessa Storia della letteratura italiana, che veniva a darsi così come opera provvisoria e parziale, anche per la sua originaria destinazione scolastica e per la stessa velocità della sua conclusione (davvero vertiginosa, anche per la pressione editoriale, la sintesi sulla letteratura dell’ultimo secolo): il suo capolavoro, la più bella tra le storie letterarie che mai siano state scritte, nasceva dalla stessa insufficienza della documentazione, dal sintetico scatto con cui il critico ripercorreva tutta la propria esperienza, con la sua competenza di lettore, la sua coscienza estetica e filosofica, la sua passione politica e ideologica.
È vero peraltro che non c’è lavoro storico che non sia costretto a un certo punto a fermarsi di fronte all’accumulo dei dati (anche quando aspiri a un controllo della loro totalità), a riassumerli in uno sguardo sintetico in definitiva sempre provvisorio e insufficiente, sempre determinato dalla situazione entro cui lo storico si trova a operare: e ciò è tanto più evidente per la storia letteraria, per la vastissima congerie di testi e situazioni con cui le tocca fare i conti. Il giungere in porto della Storia desanctisiana, nella sua stessa parzialità e provvisorietà, coincideva con la sua cruciale tempestività storica, con il suo inscriversi entro quel 1870 che costituiva l’esito del Risorgimento. Proprio in quel momento la vicenda della letteratura italiana come vicenda della civiltà e dell’anima italiana veniva ad acquistare il senso di un risolutivo compimento: così quella sintesi, certo provvisoria e insufficiente, coincideva con l’esito unitario della lunga storia che percorreva. Si trattava di un vero e proprio «romanzo» (come tante volte è stato detto) o piuttosto di un dramma, in cui autori e opere si muovono come personaggi che incarnano il destino dell’Italia, in un cammino dal mondo della trascendenza alla crisi morale e civile, alla decadenza del Paese e della sua cultura, accompagnata e contrastata da una nuova percezione della realtà, fino all’affermarsi di una nuova tensione ideale che ha appena dato i frutti nel Risorgimento, ma che si rivela ancora insufficiente e richiede un più avvertito confronto con il mondo moderno.
Questo percorso ha suscitato riserve di ogni sorta, anche per il modo in cui pesa sull’interpretazione di autori e opere (e soprattutto per l’immagine riduttiva che viene a dare del Rinascimento): ed è fin troppo ovvio che oggi non può più apparirci credibile. Ma resta il fatto che la prospettiva storica non è qui calata dall’alto, ma sprigiona dalla concreta realtà dei testi: i loro significati e il loro orizzonte storico si definiscono e si rivelano nella loro «forma». La sua esperienza filosofica, in un vivace dialogo con l’hegelismo, aveva portato De Sanctis al rifiuto di una nozione dell’arte come incarnazione dell’idea, e alla definizione del concetto di forma, più volte ribadito in questi termini: «La forma non è ‘a priori’, non è qualcosa che stia a sé e diversa dal contenuto, quasi ornamento o veste, o apparenza o aggiunto di esso; anzi è essa generata dal contenuto, attivo nella mente dell’artista: tal contenuto, tal forma» (Settembrini e i suoi critici, in Verso il realismo, cit., p. 305 nota). L’integrità vitale dell’opera d’arte si riconosce così nella compiutezza della forma (non intesa quindi nel senso puramente tecnico dei dati retorici, metrici, linguistici): la storia letteraria si costruisce in una dialettica di «vive» forme individuali, di espressioni di esistenza, di vere e proprie posture morali che la parola letteraria fissa in vibrante evidenza, nella singolarità di specifiche situazioni (altra nozione per De Sanctis essenziale è quella di situazione).
Negli studi letterari di tardo Ottocento il disegno così vitale della Storia desanctisiana ebbe scarsissima risonanza, proprio per il prevalere di quell’impegno di ricostruzione e di accumulo di nuovi dati di cui il saggio su Settembrini e i suoi critici aveva affermato la preliminare necessità. Nell’ambito della cultura positivistica tornarono in primo piano l’erudizione e la ricerca di dati concreti, la preliminare necessità di ampie ricerche storiche e filologiche. Per la partecipe e rigorosa attenzione ai dati formali e filologici, si impose il lavoro di Giosue Carducci e della sua scuola: Carducci attribuì un essenziale rilievo anche a certi esiti tecnici della tradizione italiana, rivendicandone la continuità e la validità civile, in contrasto con le problematiche e spesso ingenerose riserve ‘morali’ di De Sanctis; e compiendo una vera e propria opera di dissodamento, essenziale per i successivi sviluppi degli studi. Basate su uno schema piuttosto meccanico (che risente tra l’altro della suggestione di Hippolyte-Adolphe Taine, 1828-1893) sono però le sue lezioni Dello svolgimento della letteratura nazionale (1868-1871: perfettamente contemporanee alla Storia desanctisiana, ma raccolte in volume nel 1874). L’esplorazione in archivi e biblioteche, tra stampe, manoscritti, documenti prima trascurati, diede notevoli risultati, anche se senza rilevanti esiti teorici, dai vari studiosi della cosiddetta scuola storica (basti fare i nomi di Alessandro D’Ancona e di Pio Rajna). E proprio all’ambito della scuola storica risale l’iniziativa dell’editore Vallardi di una ricostruzione articolata e sistematica della tradizione letteraria italiana, con i volumi monografici dedicati ai vari secoli (apparsi tra il 1898 e il 1926) della Storia letteraria d’Italia scritta da una società di professori, e con quelli della Storia dei generi letterari, iniziata nel 1902 e rimasta incompiuta (la nozione di una storia per generi fu rilanciata a fine Novecento con un’altra opera collettiva, il Manuale di letteratura italiana diretto da Franco Brioschi e Costanzo Di Girolamo per l’editore Bollati Boringhieri, 1993-1996).
Una nuova attenzione al lavoro critico di De Sanctis fu suscitata da Benedetto Croce: ma la prospettiva estetica crociana mise relativamente ai margini il problema della storia letteraria, affermando la pura liricità dell’opera d’arte, sollecitando letture tese alla distinzione tra poesia e non poesia, e riducendo la storia letteraria a monografie volte a individuare il carattere specifico della singole esperienze poetiche. Con i suoi numerosissimi saggi monografici, Croce disponeva comunque in prospettiva storica un grande tratto della tradizione italiana, attraversando praticamente tutti i generi e le esperienze. Dallo stesso orizzonte crociano emergevano esigenze di storicizzazione, anche in convergenza con suggestioni gentiliane (così negli studi di Luigi Russo), mentre lo stesso Croce in La poesia. Introduzione alla critica e storia della poesia e della letteratura (1936) riconosceva la legittimità della storia letteraria come storia del gusto, delle istituzioni, dei dati concreti, da cui l’intuizione poetica prende avvio. E mentre la più avanzata filologia (da Michele Barbi a Giorgio Pasquali) si poneva come strumento determinante di indagine storica, si elaboravano varie storie letterarie che, confrontandosi con il modello crociano, insistevano comunque a trasporlo su di un percorso storico: tra tutte si distinguono quella di Attilio Momigliano (1933-1935), segnata da un’appassionata disposizione impressionistica, e quella più ampia di Francesco Flora (1940-1941), rivolta all’ascolto delle più varie e anche sottili esperienze, in un percorso storico che si estenua nel rilievo abbagliante dei particolari.
L’esigenza di un nesso più determinante tra linea storica e interpretazione, nell’ambito di una cultura a dominante storicistica, diede luogo a un ‘ritorno a De Sanctis’, propugnato da Giovanni Gentile e poi, più problematicamente, da Russo. Da un intervento di Gentile del 1933 prese peraltro avvio il Quaderno di Antonio Gramsci dedicato alla critica letteraria, con note che nel dopoguerra contribuirono a una convergenza del modello De Sanctis con le nuove prospettive della critica marxista. Su questo crinale del passaggio dallo storicismo idealistico a quello marxista si colloca il manuale più esemplare del Novecento, il Compendio di storia della letteratura italiana in tre volumi (1936-1947) di Natalino Sapegno (1901-1990): opera in cui un’eccezionale capacità di sintesi raccoglie i migliori esiti di una critica postcrociana molto attenta alla storicità e al rilievo estetico dei dati stilistici e strutturali e il cui terzo volume si muove non senza forzature verso le prospettive di una letteratura orientata nel senso di un realismo ‘democratico’.
Nel panorama di quel dopoguerra, nel pur contraddittorio e difficile cammino della democrazia, appoggiandosi ancora su una diffusa coscienza del valore istituzionale delle discipline letterarie, sulla centralità dello studio della letteratura (anche nella scuola), sul prolungarsi del prestigio della tradizione, la storia letteraria ha mantenuto un relativo rilievo pubblico: la continuità delle prospettive storicistiche, almeno fino all’inizio degli anni Sessanta, si è accompagnata a una fitta serie di originali esperienze in ambito filologico, linguistico, stilistico e di storia delle idee, che ha agito fortemente sul piano della storia letteraria. Essenziali e sintetiche linee storiche sono state suggerite anche dalla saggistica di critici che non si sono impegnati nell’esplicita costruzione di percorsi di storia letteraria, in primo luogo da quelli che ormai sono considerati i maggiori critici del Novecento, Gianfranco Contini (1912-1990) e Giacomo Debenedetti (1901-1967): il primo, con le sue grandi proiezioni stilistiche (tra cui l’essenziale distinzione tra una linea classicistica e monolinguistica, di matrice petrarchesca, e una linea espressionistica e plurilinguistica, di matrice dantesca); il secondo, con le sue interrogazioni di grandi orizzonti psicologici ed epistemologici e dei modi in cui il linguaggio reca la cifra del destino.
Il fervore critico, storico, editoriale del dopoguerra, le istanze di periodizzazione e di interpretazione del tessuto storico nazionale scaturite da uno storicismo rivolto a scendere sempre più nella concretezza dei tessuti ideologici, delle poetiche, delle forme linguistiche, anche nel quadro di una nuova filologia e stilistica storicizzante, venivano raccolti da un’opera collettiva diretta da Emilio Cecchi (1884-1966) e da Sapegno, Storia della letteratura italiana edita da Garzanti, uscita in nove volumi tra il 1965 e il 1969: con collaboratori che, pur nei diversi orientamenti, cooperavano nell’impegno a cercare una storicità concreta, verificata entro gli specifici caratteri dei testi (come Aurelio Roncaglia, Gianfranco Folena, Carlo Muscetta, Eugenio Garin, Walter Binni, Ezio Raimondi e così via). Mentre la critica di estrazione crociana, in particolare con Binni, si svolgeva verso un uso storico delle poetiche, quella marxista, con Muscetta, collegava la lezione di Gramsci a quella di De Sanctis e si apriva a un interesse per la psicoanalisi e per la lezione di Michail M. Bachtin (1895-1975): l’attività di Muscetta convergeva verso un’altra opera collettiva, la Letteratura italiana storia e testi dell’editore Laterza, con i suoi 10 volumi in 20 tomi usciti tra il 1970 e il 1980, in cui venivano rivisti alcuni quadri di periodizzazione e si dava spazio a situazioni storiche prima scarsamente considerate (dall’anticlassicismo del Cinquecento alla letteratura dialettale delle varie regioni).
Sul finire degli anni Settanta cominciava intanto ad affacciarsi sulla scena della storiografia letteraria una nuova spinta alla più definita concretezza, rivitalizzando il valore dell’erudizione e dei dati anche più minuti, invitando a confrontare ogni dato storico con le specifiche vicende editoriali, le condizioni materiali del lavoro dei letterati, i loro rapporti e conflitti reciproci, il radicamento nelle istituzioni, la varietà dell’orizzonte geografico (essenziale nella vicenda italiana): queste prospettive scaturivano dagli studi di Carlo Dionisotti, e in particolare da quelli raccolti solo nel 1967 in Geografia e storia della letteratura italiana, in cui l’esercizio dell’erudizione era sostenuto e giustificato da un teso rigore morale, da energica passione civile, e valeva come richiamo alla concretezza, alla precisione, alla verifica delle cose, al di là dei troppo disinvolti schemi teorici e ideologici.
In quel decennio dei Settanta, veniva peraltro a consumarsi la caduta del modello storicistico, accompagnata dallo sfaldarsi dell’intimo legame degli studi letterari con la coscienza nazionale, che, pur tra punti di vista contraddittori, era comunque rimasto in primo piano nei decenni precedenti. Gli studi letterari, dopo aver subito la contestazione neoavanguardistica e poi sessantottesca, subivano la scossa della nuova apertura alle scienze umane e dell’invasione delle teorie: con lo strutturalismo in primo piano, agivano variamente, si mescolavano, si confondevano, entravano in frizione, la linguistica e la psicoanalisi, l’antropologia e la semiotica, la sociologia nelle sue varie prospettive (con un essenziale rilievo, in una prima fase, dei francofortesi), la nuova storiografia delle mentalità e della longue durée, mentre le teorie dell’écriture affermavano la centralità assoluta del testo, fino all’esito estremo della ‘morte dell’autore’. Poteva essere un grande arricchimento: e in effetti in parte lo è stato. Ma a tante iniezioni teoriche corrispondeva un diradarsi del dialogo diretto con le opere, della disponibilità ad attraversarle in profondità. Con il paradosso che spesso, mentre si proclamava la centralità del testo, i testi stessi venivano imbrigliati in misurazioni e strumentazioni, spostando in lontananza il richiamo alle situazioni da cui ed entro cui erano scaturiti, alle esperienze cui davano voce; e riducendo sempre di più lo spazio della storia letteraria. Risultati notevoli anche dal punto di vista storico venivano comunque offerti da studi orientati nel senso di una semiotica sorvegliata dalla filologia, specialmente per opera di Maria Corti (1915-2002) e di Cesare Segre (n. 1928). E indagini e stimoli venivano dall’ambito degli studi sulle letterature straniere: tra cui di particolare rilievo la rigorosa coniugazione storica della psicoanalisi freudiana e della nuova retorica proposta nei saggi di letteratura francese di Francesco Orlando (1934-2010).
Si moltiplicavano intanto, in concomitanza con l’espansione dell’università, gli studi su specifiche situazioni storiche, con storie parziali, che toccavano gli sviluppi dei più vari generi letterari, delle forme stilistiche e retoriche, delle istituzioni e dei rapporti degli intellettuali con il potere, delle condizioni materiali della produzione libraria, della ricezione e così via: ma intanto a questo fervore corrispondeva un progressivo ridursi del rilievo culturale e del prestigio sociale degli studi letterari, per il peso sempre più invadente della cultura di massa e per il definirsi di un nuovo contesto comunicativo. Si profilava la strada di un ‘addio’ alla letteratura, di uno sfaldamento della sua forza modellizzante e del suo richiamo istituzionale. In questo quadro, raccordandosi spesso ai dati proposti dalle teorie che erano sul tappeto, le tante ricerche e storie parziali sembravano in definitiva escludere la possibilità di percorsi storici globali, di visioni unitarie della tradizione. La sintesi più credibile di questa situazione di apertura, di moltiplicazione e insieme di evaporazione delle prospettive fu data da un manuale scolastico animato da un dialogo aperto e problematico con la spinta che agli studi letterari avevano dato le scienze umane, le teorie contemporanee e gli sviluppi della nuova storiografia, Il materiale e l’immaginario di Remo Ceserani e Lidia De Federicis, in dieci volumi usciti tra il 1979 e il 1988. Su di un più ambizioso ed eterogeneo confronto si costruiva una nuova grande opera, la Letteratura italiana diretta da Alberto Asor Rosa, edita da Einaudi in tredici volumi (1982-1992) più indici e dizionari, le cui scelte possono essere ricondotte a quello che potrebbe definirsi come una sorta di eclettismo gestionale, in cui l’ambizione di fondare una sorta di epistemologia della scienza letteraria si volgeva verso un’ipotesi di storia e di interpretazione «a n dimensioni». Si trattava in realtà di una mappa generale degli studi di italianistica, che escludeva una visione globale del percorso storico della letteratura italiana e cercava di recuperare una linea storica soprattutto nei tre volumi dedicati a Storia e geografia, i quali si richiamavano al modello dionisottiano, frantumandolo in tante storie di regioni e centri culturali.
Varie grandi opere apparse successivamente hanno mirato a ricostruire un percorso diacronico, senza fare troppo esplicita esibizione di dati teorici; con l’intenzione di offrire nuove articolate ricostruzioni dell’intera storia della letteratura italiana, traendo frutto dalle ultime acquisizioni degli studi, dai nuovi dati conoscitivi e interpretativi, dagli elementi storici e filologici emersi dal vario lavorio storico e critico del secondo Novecento. Queste opere si sono poste come sintesi di fine secolo e fine millennio, percorsi ultimi e un po’ ‘postumi’, espressioni di ambienti e scuole particolari, ma sostenute da un’ampia serie di rapporti nazionali: dalla Storia della civiltà letteraria italiana, della UTET, diretta da Giorgio Bàrberi Squarotti, in sei volumi in più tomi, uscita tra il 1990 e il 1996, alla Storia generale della letteratura italiana diretta da Nino Borsellino e Walter Pedullà, in dodici volumi usciti nel 1999, alla Storia della letteratura italiana della Salerno editrice, diretta da Enrico Malato, uscita tra il 1995 e il 2004, in quattordici volumi, che è forse la sintesi più ampia ed esauriente degli studi di fine millennio, il manuale per così dire istituzionale, più ampio, affidabile e aggiornato, più agevole da consultare anche per raccogliere informazioni di base.
Per la loro stessa natura tutte queste opere, pur offrendo spesso contributi storici di rilievo, sono segnate da un’inevitabile discontinuità, che si avverte particolarmente quando il percorso storico arriva a incontrarsi e scontrarsi con il Novecento e con la più vicina contemporaneità: esse non sembrano poter offrire occasioni di resistenza all’indebolimento della presenza culturale della letteratura, all’allentarsi del rapporto con la sua grande tradizione; rispetto all’attuale orizzonte della comunicazione possono sembrare quasi specchi fuori tempo. A livello pubblico, del resto, è in atto una vera e propria lotta contro la letteratura, mentre si riduce la sua presenza nella scuola, dove l’uso stesso della storia letteraria viene variamente messo in questione. L’orizzonte storico è scalzato dal dominio dell’informatica e di Internet, che sta producendo la moltiplicazione indefinita di testualità virtuale e virtualizzata, che esclude ogni attenzione in profondità, offre contatti casuali ed eterogenei, combinazioni e intrecci illimitati, cancellando la solidità dell’esperienza, annullando la profondità storica, conducendo la letteratura fuori da se stessa, rendendo evanescente e casuale il richiamo alla concretezza delle situazioni che la sostanziano. Ciò non trova compensazione nelle nuove immense possibilità di ricerca garantite dall’informatica: l’agevolezza delle indagini rischia di trasformare i testi in oggetti da misurare, scomporre, intrecciare, senza più realmente attraversarli, senza più condividere le loro esperienze e il loro spessore vitale. L’archiviazione di tutta la possibile testualità, la velocità e la completezza dell’interrogazione dei dati appaiono come potentissimi strumenti di ricerca storica: ma questa rischia sempre più di rimanere chiusa in se stessa, senza nessun rilievo pubblico.
Nel percorso che dall’essenziale rilievo avuto nell’Ottocento ci ha condotto fino a oggi, la storia letteraria sembra ridotta in un orizzonte ‘postumo’, come impegnata a raccogliere l’esito di un’espansione che rischia di risolversi in dissoluzione. Su questa linea si affacciano peraltro nuove problematiche, legate in primo luogo alla globalizzazione in atto, alle nuove contraddizioni che essa comporta, all’aprirsi di inedite configurazioni dello spazio e del tempo, alla moltiplicazione e alla costipazione dei codici, dei linguaggi, dei messaggi che percorrono il mondo. Nel quadro attuale è in discussione la natura stessa delle storie letterarie nazionali, in vista di un confronto con una storia letteraria mondiale o comunque di un allargamento verso interferenze e intrecci interlinguistici, emigrazioni e alterazioni di identità. Sotto la spinta dei Cultural Studies e dei Gender Studies si delineano prospettive di ‘genere’, percorsi su ambiti sessuali, linguistici, etnici marginalizzati dalla cultura ufficiale, su realtà ‘minori’, sotterranee ed escluse, su prospettive alternative e ‘dal basso’.
L’intreccio tra storia e geografia assume, d’altra parte, un rilievo nuovo, anche in termini diversi dalle linee suggerite da Dionisotti: come mostrano le linee dell’Atlante della letteratura italiana, diretto da Sergio Luzzatto e Gabriele Pedullà, in tre volumi (2010-2011), che tende a focalizzarsi sia su situazioni specifiche, incardinate in luoghi e tempi definiti, sia su reti e intrecci spaziali e temporali. Mentre, nel contempo, si delinea la possibilità di una storia che tenga conto dello sviluppo della geografia interna ai testi, altro settore essenziale, su cui sono in atto molte ricerche, è quello dell’intreccio tra codici diversi, dei rapporti tra la letteratura e le altre arti, dalle arti plastiche, alla musica, al cinema, alle varie ibridazioni tecnologiche (e non tanto nelle tangenze esterne, quanto nelle interferenze, nei diretti incontri tra codici). Nessun autentico tentativo storiografico potrà comunque prescindere da quella disposizione, che era così viva nel capolavoro di De Sanctis, ad ascoltare opere e testi, a collocarsi entro la loro ‘situazione’, a dialogare e contrastare con l’esperienza che li sostanzia.
Il più ampio percorso sulle storie letterarie italiane (che giunge fino a metà Novecento) è tuttora quello di G. Getto, Storia delle storie letterarie, Milano 1942, nuova ed. a cura di C. Allasia, Napoli 2010. Tocca solo in parte la situazione italiana l’opera fondamentale in 8 voll. di R. Wellek, A history of modern criticism, New Haven-London 1955-1992 (trad. it. Bologna 1974-1996). Per alcuni sviluppi, resta un ‘classico’ G.A. Borgese, Storia della critica romantica in Italia, Napoli 1905, Milano 1965; ancora utili gli appositi paragrafi di B. Croce, Storia della storiografia italiana nel secolo decimonono, 2 voll., Bari 1921, 19644.
Si vedano inoltre:
M. Fubini, Romanticismo italiano, Bari 1953, 1971.
G. Pirodda, Mazzini e Tenca. Per una storia della critica romantica, Padova 1968.
G. Guglielmi, Da De Sanctis a Gramsci, Bologna 1976.
Francesco De Sanctis nella storia della cultura, 2 voll., a cura di C. Muscetta, Roma-Bari 1984.
Francesco De Sanctis un secolo dopo, Atti del Convegno internazionale, Napoli-Firenze-Roma (13-17 settembre 1984), a cura di A. Marinari, Roma-Bari 1985.
Carducci e la letteratura italiana. Studi per il centocinquantenario della nascita di Giosue Carducci, Atti del Convegno, Bologna (11-13 ottobre 1985), a cura di M. Saccenti, Padova 1988.
A. Casadei, La critica letteraria del Novecento, Bologna 2001, nuova ed. 2008.
Per riflessioni sui problemi posti dalla storia letteraria, oltre i numerosi saggi degli autori citati nel testo e gli interventi presenti nelle opere collettive di cui lì si tratta, si vedano:
H.R. Jauss, Literaturgeschichte als Provokation der Literaturwissenschaft, Konstanz 1967 (trad. it. Torino 1999).
R. Ceserani, Raccontare la letteratura, Torino 1990.
R. Ceserani, Guida allo studio della letteratura, Roma-Bari 1999.
G. Ferroni, Prima lezione di letteratura italiana, Roma-Bari 2009.
M. Domenichelli, Lo scriba e l’oblio, Pisa 2011.