storiografia
Dal gr. ἱστοριογραφία, comp. di ἱστορία «storia» e -γραφία, der. di γράφω «scrivere». Scienza e pratica dello scrivere opere relative a eventi storici del passato, nella quale si possano riconoscere un’indagine critica e dei principi metodologici.
La s. ha inizio in Grecia attraverso una duplice via: riconoscendo un contrasto fra il mondo mitico e la vita attuale e cercando di appianarlo, o concentrando la propria osservazione su fatti contemporanei. Tali processi hanno origine nella Ionia nel 6° sec. a.C. in correlazione con il sorgere della filosofia. La critica del mondo mitico non ebbe peraltro mai lo scopo di sopprimere quel mondo, bensì sempre solo di dargli coerenza e di eliminare i contrasti tra esso e i dati offerti dalle altre esperienze ritenute accertate. Attorno al 525 a.C. si affermò Teagene di Reggio, che per primo introdusse l’interpretazione allegorica nell’esegesi di Omero. In Ecateo da Mileto, protagonista della ribellione ionica (499-494 a.C.), è forte la consapevolezza della diversità fra le leggende religiose greche e quelle orientali, e perciò del valore relativo e criticabile delle prime. Da ciò egli è spinto a proclamare «molti e ridicoli» i racconti dei Greci e a contrapporre loro ciò che ritiene vero. Fondamentale nel suo atteggiamento è il richiamo al proprio criterio personale, cioè alla ragione, nel giudicare la tradizione; ma sebbene la contrapposizione al dato tradizionale sia indubbiamente acquisita, non si va mai oltre il semplice ritocco della tradizione per collegarla con le esperienze meglio accertate. La critica della tradizione obbediva cioè piuttosto all’esigenza negativa di eliminare quanto contrastasse la verità, che non all’esigenza positiva di instaurare la verità, sì che essa non poté estendersi, né in Ecateo né dopo, a vera e propria indagine sistematica del passato. Già nel 5° sec. si profilano i caratteri generali più tardi tipici della s. greca. Non vi fu in essa una storia di idee o di cultura, perché non vi fu una concezione della storia come creatività spirituale; ma ci fu invece una rilevazione attenta dei costumi e delle vicende esteriori dei singoli popoli, una seria curiosità per il sovrapporsi e l’accrescersi delle cognizioni umane, e ci fu, soprattutto, una vigorosa rappresentazione della vita politica riportata alla natura delle costituzioni, oppure all’ethos, all’obiettivo carattere dei singoli personaggi, definito nelle loro abilità tecniche (guerriere, oratorie) o morali (incorruttibilità, fermezza, ecc.). In un primo momento, in Ionia prevale la descrizione etnografico-geografica nelle forme della periegesi e del periplo: Ecateo stesso scrive una periegesi. Ma con Erodoto l’oggetto dell’indagine si sposta e si determina in senso propriamente storiografico: il tema fondamentale della «ricerca» (ἱστορία) diviene una guerra, vista nelle sue lontane origini e nel suo minuto svolgimento; guerra che coinvolge Greci e Barbari, e nella quale essi si riconoscono nelle loro caratteristiche etiche e politiche. Per Erodoto il tema delle guerre persiane è in parte tale da permettere una conoscenza sicura e chiara, rientra cioè nella storia di cui è possibile il controllo per la vicinanza del tempo e il carattere diretto delle testimonianze. In parte però è un tema che appartiene già al passato, di cui occorre tenere a mente la tradizione. Si stabilisce così tra il polo della critica della tradizione mitica (Ecateo) e il polo della pura storia contemporanea (Tucidide) una zona neutra, della quale è proprio il «conservare il ricordo»; e questa resterà come terza direttiva fondamentale nella s. greca. Sarà innanzi tutto quella in cui agirà più fortemente la tendenza epicizzante nella considerazione del passato. C’è infatti in Erodoto una gioia di narrare che manca a Tucidide. Tucidide, senza residui etnografici, concepisce la guerra del Peloponneso come l’unico problema: in esso si proietta tutta la storia greca, risolta nel contrasto di due forme politiche, l’ateniese e la spartana. La narrazione trova la sua necessità nell’appassionata volontà di Tucidide di comprendere la tragedia della propria patria, maestra di civiltà e tuttavia sconfitta: il livello di penetrazione storica dell’opera tucididea non sarà più raggiunto. Tucidide esercita tuttavia una forte influenza: la s. posteriore a Tucidide, in quanto si presenta come sua continuazione, è storia contemporanea. Senofonte e Teopompo scrivono solo di questa, e così Callistene, mentre anche gli storici, per es., Filisto, Eforo e Anassimene, che vogliono essere soprattutto storici del passato, vengono sempre più allargando il loro campo d’indagine avvicinandosi al loro tempo. Tutti questi storici sono però anche sotto l’influenza di una concezione etico-retorica, in cui l’insegnamento di Isocrate s’incrocia con l’esempio di Erodoto. L’ideale politico non riesce a staccarsi dall’encomio e dal biasimo, creando un’equivocità di valutazioni; mentre vita pratica e indagine speculativa spingevano a concentrare l’interesse sui singoli individui (Evagora d’Isocrate; Agesilao di Senofonte), si arriva alle Filippiche di Teopompo, dove il centro della storia è un uomo, il monarca macedone. Per tale via si profila il pericolo di perdere il senso della distinzione tra romanzo storico a tesi e narrazione storica: viene a mancare nella coscienza degli storici il limite tra il reale e l’immaginario (precisamente come nelle generazioni che accompagnano o seguono Alessandro Magno sembra venir meno il limite tra la coscienza morale e l’affermazione sregolata delle proprie fantasie o cupidigie). L’impresa di Alessandro dà così luogo a una letteratura che sta tra il reale e l’immaginario: Callistene, Onesicrito, Clitarco creano una biografia di Alessandro ricchissima di motivi filosofici. Né la biografia peripatetica, a cominciare da Aristosseno, sembra procedere in modo meno arbitrario. Ed è significativo che si manifesti una reazione a questa s. (o pseudostoriografia): memorialisti seri come Aristobulo, Tolomeo (il futuro re di Egitto), Nearco e Geronimo di Cardia valgono a mantenere desta la coscienza del valore intrinseco del nudo ricordo dei fatti. Intanto la cultura greca era giunta a estrema consapevolezza nel cercare i resti del passato, sviluppandosi ampiamente come ricerca antiquaria. In questo solco continuò la s. locale, d’antica origine, che ora, nel 4° sec. in Atene, sotto l’impulso dei problemi ideologici della democrazia contesa tra radicalismo e moderatismo, dette origine a un genere letterario ben definito, l’attidografia, della quale il primo rappresentante era stato Ellanico di Lesbo, e il più illustre fu Androzione, la cui opera sarà poi ripresa, con più vasta dottrina, nel 3° sec. da Filocoro. Anche in questa erudizione antiquaria s’insinuava il dissidio tra la volontà di osservare e riferire e la tendenza all’afflato retorico, che attraverso la forma influiva pericolosamente sul contenuto. E il particolarismo locale, con la sua tendenza apologetica, influiva spesso negativamente sull’obiettività storica, come dimostra il suo più insigne rappresentante Timeo, lo storico siculo esule ad Atene, le cui ricerche sono fondamentali per la storia dell’Occidente. In tale incertezza tra la storia come racconto dei fatti e la storia come opus oratorium maxime (come dirà Cicerone) era naturale che avesse fortuna la teoria della storia come mimesi, imitazione, in cui si trapiantava nella s. il concetto aristotelico della tragedia. Duride e Filarco furono i massimi rappresentanti di questa s. ‘patetica’. Ma, contro di essa, Polibio restaura una s. aliena da falsificazioni retoriche come da meschinità cronachistiche, tutta intesa a cogliere nella loro fisionomia reale le trasformazioni politiche e le vicende militari. Grande fu l’energia intellettuale di Polibio e la sua larghezza di vedute, per cui il centro della storia viene riconosciuto là dove esso si trova realmente, in Roma, con la conseguente realizzazione di una storia cosmopolita. Intanto, però, il pragmatismo di Polibio accentuava la scissione tra l’individuo singolo e il processo storico, già implicita in tutta la s. antica: da cui la necessità di richiamarsi a una forza irrazionale e trascendente, la τύχη, la «fortuna», per spiegare le vicende umane. Con ciò il valore didascalico della storia, che solo l’aveva giustificata agli occhi degli antichi, svaniva. Il continuatore di Polibio, Posidonio, si sforza all’estremo di far rientrare questa irrazionalità nella storia, come «furore» (ϑυμός), motore delle vicende umane e forza antitetica al λόγος, la ragione; e con Posidonio perciò l’interesse etnografico per i Barbari, di cui è proprio il «furore», diventa analisi di un aspetto integrativo della natura umana, e la storia diventa cosmopolita nella forma più rigorosa raggiunta dall’antichità. Dopo Posidonio non si trovano più motivi originali di pensiero storico. In età cesariana-augustea, uno storico greco ignoto (fonte delle Historiae Philippicae di Pompeo Trogo) riprende il disegno delle Filippiche di Teopompo per allargarle a storia universale; nella stessa età le idee cosmopolitiche di Posidonio guidano il disegno della mediocre compilazione tratta da vari storici di Diodoro Siculo. Nel 2° sec. d.C. Arriano si rifà a Senofonte e ai memorialisti più seri di Alessandro Magno; nel 3° sec. Dessippo si richiama a Tucidide, e Tucidide sarà anzi il modello di tutti coloro che vorranno reagire alle dominanti correnti di s. retorica (e quanto questo richiamo a Tucidide fosse consapevole e serio emerge nel Come si debba scrivere la storia di Luciano, dove sono raccolte tutte le migliori esperienze della s. greca circa una scrupolosa esposizione del vero). La parte migliore della tarda s. greca deriva ormai dal contatto con il mondo romano. Da Polibio in poi, la comprensione del mondo romano resta tra gli sforzi più seri dei Greci: testimoni ne sono, oltre Dione Cassio, Appiano ed Erodiano. E dal confronto del mondo greco e di quello romano esce l’opera storiografica greca maggiore dell’età imperiale: le Vite di Plutarco, nelle quali (comunque vada risolto il problema delle fonti) è incontestabile la personalità dello scrittore, dotato di sensibilità morale e fine senso di cultura. La decadenza della creatività storiografica è confermata dall’estendersi degli excerpta e delle compilazioni esemplificatorie, che preludono alla letteratura bizantina.
I Romani ritennero che la loro s. avesse origine dalle registrazioni dei pontefici, ma la natura e l’antichità di queste registrazioni costituiscono un arduo problema. Probabilmente esse, nella parte autentica, risalgono almeno alla fine del 5° sec. e contengono verosimilmente notizie autentiche di un secolo precedente. Da questa rozza annalistica pontificale, con aggiunte le tradizioni domestiche e le notizie d’interesse generale conservate a memoria con riferimento a monumenti, a canti popolari, ecc., deriva la materia della storia più antica di Roma. Perciò i più antichi storici romani scrivono sotto forma di annali, e lo sforzo consapevole della s. romana sarà sempre, si accetti o no la disposizione esteriore degli annali, di oltrepassare questo tipo di costruzione del materiale storico. Lo scopo dei più antichi annali storici è già di andare oltre i dati che potevano bastare ai Romani e di offrire ai Greci una presentazione attraente della storia di Roma: perciò questi annali sono scritti in greco (il loro avvio è dato da Q. Fabio Pittore). Ciò presupponeva evidentemente un ormai intimo contatto con la s. greca, che sarà sempre presente alla s. romana. La naturale reazione contro questo scrivere in lingua straniera per stranieri fu guidata da Catone il Censore, ma proprio due generi letterari greci – la storia delle fondazioni delle città (origines) e la storia contemporanea – gli servirono per affermare la sua reazione, che fu anche contro l’annalistica. Intanto la più genuina annalistica, che riprendeva la storia dalle origini, diventava romana, ma poetica (Ennio), continuando l’epos storico introdotto da Nevio, mentre parallelamente si veniva costituendo una tradizione di annali in prosa (Cassio Emina, metà del 2° sec. a.C.). La s. romana manifesta già ora i suoi caratteri fondamentali. Essa non ha la volontà di erigere un sistema di conoscenze partendo dall’esperienza storica, come la migliore s. greca; ma (come la poesia latina scopre un’intimità spirituale ignota alla greca, e il ritratto romano ha un realismo interiore quasi sconosciuto all’arte greca) trova in immediata aderenza al proprio oggetto una forma di ricostruzione psicologica che ha valore obiettivo, poiché nell’autore stesso si continuano i moventi storici che egli rappresenta, e ha valore soggettivo (e perciò documentario) in quanto, soprattutto se si tratta di storia contemporanea, indica come l’autore sente la propria posizione di cittadino romano. Il fascino sempre esercitato dalla s. romana sta in questa partecipazione dello storico come cittadino che rivive la vicenda e riconosce negli altri quelle stesse virtù da lui apprezzate o vizi da lui aborriti nella pratica quotidiana. Di qui il tipico moralismo della s. romana; di qui anche il suo carattere retorico (grande successo ebbe in Roma la s. ellenistica). Questa retoricità però non consiste semplicemente nella deformazione dei fatti, bensì nell’organizzarli in modo da confermare lo stato d’animo dello scrittore. In questa luce si comprende la più recente annalistica, quella di età graccana e postgraccana (da Gneo Gellio a Valerio Anziate e Licinio Macro). Dai più antichi annalisti a questi più recenti la materia della storia romana più antica subisce un’amplificazione, in cui si mescolano la tendenziosità politica (che è anche orgoglio familiare) e l’impossibilità di concepire la storia arcaica troppo più povera di quella dell’attuale Roma dominatrice. Si giunge così al periodo classico della s. romana, nel quale le eredità anteriori maturano. Sallustio, nel suo arcaicizzare, si riporta a Tucidide (e a Catone), quali esemplari di vecchia austera virtù, e vede nel suo tempo dissolversi, nella corruzione, la possibilità di soddisfare un nobile amor di gloria. I Commentarii di Cesare fondono in sé esperienze storiografiche diverse: la forma annalistica rinvia al filone principale della s. romana, ma il genere ha le sue radici negli ὑπόμνηματα ellenistici e nell’autobiografia del romano Silla; infine, l’intento di oggettività del generale-scrittore respira l’aria del modello storiografico tucidideo. Cesare identifica nelle sue memorie sé stesso con l’interesse del popolo romano e mostra nella narrazione svolgersi i fatti con quella stessa sicurezza con cui dirige gli eventi. Polibio è fonte, e in parte anche modello, di Livio, e Tucidide ispira la s. tacitiana; in Livio oggetto della storia diventa la stessa grandezza (o virtù) romana, sempre minacciata dall’insidia della corruzione (presente o celata); Tacito, infine, sa realizzare il suo ideale civico solo nella forma negativa della spietata introspezione dell’animo degli imperatori tiranni. E sempre è il cittadino che giudica come se in sé incarnasse lo Stato romano. La decadenza della s. romana coincide quindi con lo smarrirsi di questa capacità d’interiorizzare lo Stato. Con Svetonio prevale la tendenza erudita, di cui Verrio Fiacco e Claudio erano già cultori. E per caratterizzare la s. romana va inoltre tenuta presente (per la coincidenza con il moto di trasformazione in biografia della storia romana) la vasta attività memorialistica degli stessi imperatori o di alti personaggi (Augusto, Tiberio, Agrippina, Claudio, Vespasiano, Corbulone, ecc.). Ma una sola resurrezione ha nel mondo antico il classico pensiero storiografico romano, l’orientale Ammiano Marcellino (sec. 4°), che, conquistata un’anima latina dalla tradizione dell’esercito e dai libri, scrive in latino e vuole continuare Tacito: il complesso che ne risulta (astrologia orientale ed etica civica) è il prodotto intellettuale più suggestivo della dissoluzione della s. romana. La restante produzione si risolve in epitomi liviane o prodotti sostanzialmente analoghi.
L’opera che domina la s. medievale è il De civitate Dei di Agostino (di cui può considerarsi immediato corollario Orosio), che risolve il nuovo problema sorto dalla dissoluzione del mondo politico antico: i rapporti tra la civitas terrena e la civitas caelestis. E con ciò era anche precisato il nuovo compito dello storico, il quale non si doveva più volgere a considerare la storia di questo o quell’aggregato politico, bensì della «umanità», viva e operante attraverso i tempi e gli imperi, e continuamente scissa tra bene e male. Nei confronti della s. classica era un’innovazione che faceva della storia anzitutto un problema morale, un dramma continuo della coscienza umana, e in questa luce comprendeva e interpretava gli eventi esteriori dei regni e degli imperi. S’indeboliva, d’altronde, il senso del concreto e l’interesse per i moventi reali delle azioni storiche. Questa storia spirituale dell’umanità trovava la trama cronologica nel biblico schema delle sei età del mondo, corrispondenti ai sei giorni della creazione; uno schema che, intrecciatosi con quello delle quattro monarchie (Assiri e Babilonesi, Medi e Persiani, Macedoni e Diadochi, Romani), elaborato e integrato con calcoli cronologici da Isidoro di Siviglia e da Beda, avrebbe costituito l’intelaiatura di fondo di tutta la s. medievale. I concetti fondamentali dell’agostinismo, continuamente ripresi, dettero alla s. dei secoli di mezzo alcune delle sue tipiche caratteristiche: il persistere, nel giudizio storico, dell’elemento morale-religioso; l’affermarsi del mito della pax come massimo dei beni concessi agli uomini; il delinearsi del «tipo» del rex iustus, buono, pio, amante della pace e della giustizia e di quello contrapposto del tyrannus; la stilizzazione del ritratto, intellettuale e morale, dei grandi protagonisti, i cui attributi si rassomigliano per secoli con straordinaria continuità, in netto contrasto con la preoccupazione dei cronisti di cogliere veristicamente il «particolare» fisico. Insieme si mantenne persistente l’influsso della s. antica, attraverso l’attenzione ad alcuni storici minori: Svetonio, Giustino, Eutropio; influsso percepibile sia nella forma esteriore, per es., nella frequenza, a fianco delle cronache, di vite, che riconoscono il loro primo modello nelle Vite di Svetonio (tipico esempio la Vita Karoli Magni di Eginardo); sia, anche, nello sforzo di mantenere nella narrazione storica lo stesso tono che si rinveniva nei modelli, evidente soprattutto nei cronisti del primo Medioevo. Negli storici dei secc. 6°-9°, da Gregorio di Tours a Paolo Diacono, a Eginardo, si avverte benissimo il mutato atteggiamento spirituale nei confronti degli storici «pagani»; ma è ancora sensibile l’interesse per il fatto politico. Il pieno avvento della concezione storiografica «agostiniana» sarà il frutto di secoli più tardi, tra il 9° sec. e il 12°. Nella Historia Langobardorum di Paolo Diacono signoreggia ancora il senso della storia come di una bella vicenda in cui emergono figure di principi prodi; non infrequenti sono le notazioni di carattere fisico-geografico, accurate le descrizioni di fenomeni ed eventi naturali; nessun ricordo invece della nequizia della civitas terrena. Anche in Eginardo il senso religioso della storia è molto attenuato, e quel che viene posto in luce è, sulle orme di Svetonio, il fattore umano delle vicende. Con l’età della dissoluzione dell’Impero carolingio si fa dominante l’influsso di Agostino. Il contrasto agostiniano fra città terrena e città celeste si configura come contrasto tra Chiesa e Impero, tra regnum e sacerdotium, che dalla pubblicistica e dall’ambito delle teorie politiche trapassa nella trattazione storica e diviene, da dibattito teorico, criterio d’interpretazione della storia. Il trapasso giunge a pieno compimento nel momento della lotta delle investiture. A seconda che si tratti di scrittori filoimperiali o filopapali, Gregorio VII o Enrico IV assumono i lineamenti tipici del rex (o del papa) iniustus e le loro lotte da fatto particolare vengono elevate a momenti decisivi della stessa contesa tra santità ed empietà, tra Cristo e Anticristo. Con Ottone di Frisinga (m. 1158) si perviene infine alla ripresa in grande stile della concezione d’insieme agostiniana, con relativa attesa escatologica, ma con la fondamentale differenza che la civitas Dei di Ottone abbraccia – per quanto essa si può attuare sulla Terra – non più solo la Chiesa, ma Chiesa e Impero, quell’Imperium Romanum divenuto, con la translatio, Imperium Teutonicum: commistione delle idee agostiniane con l’idea imperiale tedesca, che rappresenta il punto d’arrivo, in un certo senso, della s. medievale. Ma proprio in questo stesso periodo si comincia ad avvertire nei cronisti il senso nazionale, che a mano a mano condurrà al tramonto delle idee universalistiche, le quali ancora dominano la concezione storica di Ottone di Frisinga. La rottura è evidente però soprattutto nella s. municipale che accompagnò in Italia l’affermarsi delle nuove forze, sociali o politiche, raccolte nel Comune. Le grandi idee universalistiche, rimangono sullo sfondo, e centro vero del racconto diviene la città, con le sue glorie sentite con accesa passione: così specialmente nella cronachistica milanese da Arnolfo, da Landolfo Seniore e da Landolfo di S. Paolo ai Gesta Federici I imperatoris; così negli Annali genovesi di Caffaro e dei suoi continuatori; così nel Liber Maiolichinus de gestis Pisanorum illustribus. D’altronde, parteggiando, i cronisti municipali finiscono con il rendere sempre più preciso e circostanziato il gioco politico dell’attività umana. Questa lezione darà i suoi frutti nella s. del Rinascimento. Quando poi lo sguardo dei cronisti trascende il ristretto ambito cittadino per rilevare comunanze di interessi almeno regionali, si comincia a trascorrere dalla pura cronaca cittadina al racconto delle vicende «italiane» o almeno di parte d’Italia: che è il momento nuovo, rappresentato dal De gestis Italicorum post mortem Heinrici VII di Albertino Mussato. L’accentuazione del carattere nazionale della s. italiana viene d’altronde resa evidente, in quello stesso torno di tempo, dall’uso del volgare, anche a opera dei cronisti. Sulla fine del 13° sec. e nel Trecento la s. in volgare acquista infatti un posto preminente a opera soprattutto dei fiorentini Ricordano Malispini, Dino Compagni, Giovanni, Matteo e Filippo Villani. Analogamente nella s. degli altri paesi l’adozione dei ‘volgari’ accentuava il tono politico-nazionale, specialmente in quella francese, la quale trovava nel 13° sec. e all’inizio del 14° due alte espressioni in Geoffroy de Villehardouin e in Jean de Joinville.
La s. italiana tra il 15° sec. e i primi del 16° segna un momento di rottura, aprendo la via alla s. moderna. La s. umanistica italiana affermava il carattere artistico dell’opera storica: a differenza del cronista medievale, lo storico doveva conciliare la veridicità con la felicità della narrazione, doveva essere, oltre che testimone fededegno, anche letterato. Il che era un primo passo verso una maggiore dignità teorica della historia nei confronti delle altre arti, un riconoscerle compiti e funzioni sino a un certo punto indipendenti dal compito di fare da sostegno della speculazione teologica o della pubblicistica. D’altronde, dal rinnovato culto dell’antichità romana, dal contatto con il mondo romano, sentito ora come modello e norma di vita in sé e per sé, senza che più occorressero giustificazioni teologiche a legittimarne l’ammirazione, il pensiero storico maturava più sicuro e netto; dalla spregiudicata valutazione di un potente organismo politico il giudizio storico usciva improntato a nuovi criteri. Da questo punto di vista, la s. umanistica continuava l’opera iniziata dalla s. latina e volgare del Duecento e del Trecento; ma su questa aveva il vantaggio di un più fine senso critico, già acuito dalla pratica della scienza dell’antichità – filologia e archeologia – instaurata dall’Umanesimo. Questa capacità di riflessione e di discernimento, resa più sicura dalla più larga conoscenza del mondo classico, si andava d’altronde rafforzando grazie alla ricerca costante di materiale documentario, alla tendenza a procurarsi fonti nel maggior numero possibile, caratteristiche, dalla metà del Quattrocento in poi, dei maggiori fra gli storici italiani ed europei, debitori, per questa nuova forma di curiosità, alla nuova s. umanistica iniziata da L. Bruni, P. Bracciolini, F. Biondo e continuata con B. Giustiniani, con Sabellico, G. Simonetta, T. Calchi, G. Pontano. In tal modo era aperta la via a Machiavelli e a F. Guicciardini, i primi due grandi storici del mondo moderno, con i quali i motivi che da tempo fermentavano trovano finalmente espressione piena e compiuta. Compito dello storico diviene ora non più ripercorrere la storia dell’umanità dal giorno della creazione, bensì illustrare, in un quadro molto più ristretto cronologicamente, ma molto più folto di uomini e cose, un determinato periodo di storia cittadina o nazionale. Non vi è più una linea continua della storia del mondo: ogni vicenda si chiude in sé, si esaurisce nello studio degli interessi e delle passioni che l’hanno determinata. Il concetto, nettissimo in Machiavelli, del fatale nascere, crescere e decadere dei popoli e degli Stati – ognuno dei quali ha un suo ciclo da compiere – naturalisticamente inteso com’è, significa che la concezione cristiana d’insieme s’è frantumata. La storia del mondo appare ora spezzettata. Solo vincolo comune fra le varie età, fra i vari cicli è la natura stessa dell’uomo, l’immutabilità delle passioni umane, e destino comune è la fase ciclica attraverso cui ogni società deve passare. Di qui Machiavelli muove per affermare il valore dell’esempio, dando alla «lezione delle cose antiche», cioè alla storia, pieno valore pragmatico. Ma con Guicciardini anche il valore della lezione viene rifiutato: ogni fatto storico è ‘particolare’ e staccato, ha una individualità propria che non permette raffronti e vuole essere studiata e valutata in sé. Con ciò la s. del Rinascimento perveniva a quella che è stata la sua grande scoperta: al senso della ‘individualità’ storica, all’affermazione della storia come reazione umana circostanziata e differenziata nei suoi vari momenti, ognuno dei quali costituisce una storia, compiuta in sé. Senso dell’individualità certamente ancora inadeguato, tant’è vero che si converte, presso questi storici, nel senso della figura e personalità umana, cioè degli individui singoli, che costituiscono il centro della narrazione. Senso inoltre limitato: valore delle forze morali, delle tradizioni, della fede religiosa e delle idee, influsso dei fattori economici nello svolgimento della vita dei popoli, tutto questo è completamente trascurato dalla s. fiorentina del primo Cinquecento, nella quale guerra e diplomazia, scontro di partiti e avvicendarsi di governi costituiscono l’intelaiatura della narrazione storica. D’altronde, proprio in virtù di questo accentrarsi in pochi motivi, l’analisi storica perveniva all’atto pratico, in Machiavelli e soprattutto in Guicciardini, a una finezza e perspicuità di notazione, a una forza di rilievo alla quale non era mai pervenuta, dai tempi della grande s. classica. Questo indirizzo ‘politico’ affermato dai fiorentini divenne da allora e sino alla fine del Seicento l’indirizzo dominante di tutta la s. europea. In parte ciò avvenne per l’influsso esercitato dagli storici italiani, ma anche perché il senso politico e nazionale, che già traluceva nella cronachistica del basso Medioevo, si era affermato, quasi contemporaneamente, anche fuori d’Italia in sostituzione del senso religioso cavalleresco, ormai al tramonto. Così agli ultimi rappresentanti della s. borgognona si era contrapposta in Francia, sul finire del 15° sec., la s. schiettamente politica di Philippe de Commynes. La Riforma e la Controriforma offrirono motivo di reintrodurre, nella considerazione storica, accanto all’elemento politico, il fattore spirituale. Il tentativo fu fatto: le Centurie di Magdeburgo, con l’insistenza di Mattia Flacio e dei suoi collaboratori sulla vita religiosa e sull’organizzazione ecclesiale, significavano un notevolissimo mutamento di prospettiva nei riguardi delle concezioni storiografiche dominanti. Ma fu un tentativo che doveva essere ripreso e fruttare soltanto un secolo e mezzo più tardi, e per allora invece rimase senza vero e profondo influsso sull’orientamento generale: l’elemento politico riprendeva invece nettamente il sopravvento, anche quando si trattavano questioni religiose, come in Paolo Sarpi e nel suo oppositore, Pietro Sforza Pallavicino. La Istoria del Concilio di Trento di Sarpi era infatti nient’altro che l’applicazione, a un argomento di carattere religioso, dei criteri di valutazione instaurati dalla s. fiorentina. E dal momento che anche dal punto di vista metodologico nessun passo avanti veniva compiuto nei confronti della s. umanistica, sino al 17° sec. avanzato le posizioni fondamentali rimasero quelle degli storici italiani dei primi decenni del sec. 16°.
L’era moderna appare inizialmente ostile alla storia, perché incerta e confusa di fronte alla chiarezza e dimostrabilità della matematica; ma poi dallo stesso movimento intellettuale da cui proviene Descartes nasce la critica storica nel sec. 17°. Con il suo Tractatus theologico-politicus Spinoza inaugura una storia della religione che si propone di attenersi a quanto nella Sacra Scrittura è puro dato di fatto. Certamente, anche questa critica antitradizionalistica aveva dei precedenti: le armi erudite le erano fornite dalla filologia, specialmente olandese, che a sua volta traeva la sua origine dall’Umanesimo. Il distacco dalla s. umanistica è rappresentato dalla critica cui sono sottoposti gli storici romani (Bayle, L. de Beaufort); ma, soprattutto, la s. della fine del Seicento raccoglie un materiale sterminato di notizie, risalendo alle fonti documentarie e applicando metodologicamente i suoi strumenti di osservazione: la cronologia, la diplomatica, la paleografia. A quest’opera si dedicò la congregazione benedettina di S. Mauro in Francia. Capolavoro di questa s. sono gli Annales ordinis. Benedicti (1703-39) di J. Mabillon, repertorio di notizie disposte in ordine cronologico; analogo carattere ebbero l’Histoire des empereurs (1690-1738; trad. it. Storia degli imperatori romani e degli altri sovrani durante i primi sei secoli dell’era cristiana) e i Mémoires pour servir à l’histoire ecclésiastique (1693-1712) di L.-S. de Tillemont. Il nuovo metodo uscì presto dal campo della storia ecclesiastica. Leibniz applicò il metodo dei maurini alla storia politica con gli Annales imperii (1703-16). La storia non appare più allora opera soltanto dei potenti, mera vicenda politico-militare, bensì rivela, attraverso la moltitudine obbiettiva delle notizie giustapposte secondo l’ordine cronologico, il suo sottosuolo giuridico-sociale, con le istituzioni, i costumi, la vita religiosa, morale, culturale. È così che già nel 1735 la Francia ha nell’Histoire critique de l’établissement de la monarchie française dans les Gaules di J.-B. Dubos un primo sistematico tentativo di storia delle istituzioni. Questo senso moderno dei grandi interessi collettivi è evidente in Giannone, che fonda con la Istoria civile del regno di Napoli (1723) la s. giuridica e costituzionale. Sociale è l’interesse di L.A. Muratori, che nelle Antiquitates Italicae Medii Aevi (1738-42) illustra la vita medievale in tutti i suoi aspetti. Il senso delle grandi forze collettive è sicuro in Vico, per il quale la storia non è vicenda di principi, ma di «nazioni». Montesquieu (Considérations sur la grandeur et la décadence des Romains, 1734; trad. it. Considerazioni sulle cause della grandezza dei Romani e della loro decadenza), pur disposto a scorgere, sotto l’influenza dei classici e di Machiavelli, un ciclo nella fortuna delle nazioni, vuole però di questa vicenda dare la spiegazione, ricorrendo al concetto dell’«esprit», che diventa il motore della storia, che determina, variando, il nascere, fiorire, perire degli istituti e degli Stati. I contemporanei si interessarono alla dottrina di Montesquieu, ma non lo seguirono. Ritorna invece nella s. il concetto pragmatico, l’idea che grandi e piccoli eventi siano dovuti all’iniziativa degli individui; anche la «civiltà» di un secolo, viene attribuita da Voltaire ai calcoli di saggi sovrani. Ma la maggiore novità dell’opera di Voltaire sta nel senso borghese della vita da cui è pervasa. È la borghesia che prende coscienza di sé e delle sue virtù. Con il Siècle de Louis XIV (1735-39; pubbl. 1751; trad. it. Il secolo di Luigi XIV) Voltaire ha dato la prima opera storica moderna, che rompeva la tradizione annalistica, ordinando gli eventi secondo la loro interna connessione e illustrando la vita complessiva di uno Stato. L’Essai sur les moeurs et l’esprit des nations (1756; trad. it. Saggio sui costumi e lo spirito delle nazioni), opposto da Voltaire al Discours sur l’histoire universelle (1681; trad. it. Discorso sopra la storia universale) di Bossuet, è il primo tentativo in senso laico e critico di una «storia dello spirito umano», che ordina secondo poche grandi linee la storia universale. Nella seconda metà del secolo, in Inghilterra Hume nella sua History of England (1754-63; trad. it. Storia d’Inghilterra), mostrando come la libertà politica degli Inglesi trovasse le sue origini nell’entusiasmo religioso dei puritani, introduceva nella s. il senso della fecondità della passione e della lotta. In Germania J. Möser (Osnabrückische Geschichte, 1768) rivendicava, contro il dispotismo riformatore, la bellezza variopinta delle tradizioni popolari; Winckelmann, sotto la suggestione di Montesquieu, delineava una teoria dell’origine, dello sviluppo e della caduta degli stili artistici, inserendo la storia dell’arte nella storia generale; Herder proponeva il concetto (che sarebbe poi stato accolto dalla s. dell’Ottocento) dell’individualità irriducibile della nazione, unità organica, che sviluppa da sé costumi, leggi, istituti. All’inizio del nuovo secolo, con la Römische Geschichte (1811-12; trad. it. Storia romana) B.G. Niebuhr inaugura una realistica storia sociale di Roma. In quest’opera dava anche un grande saggio d’applicazione del metodo critico-filologico, mentre, negli stessi anni, Hegel proponeva la nuova concezione dialettica della storia. La Provvidenza cedeva il posto al conflitto delle idee, alla dialettica immanente nella storia medesima. Ogni fase della storia appariva momento necessario, che nega il precedente per generare, nel dolore della interna contraddizione, la propria antitesi. L’influenza di Hegel sulla s. è stata potente: E. Gans introdusse il metodo dialettico nella storia del diritto, W. Vatke nella storia della religione ebraica, F.Ch. Baur nella storia della Chiesa e del dogma. Non mancò, invero, la reazione da parte della filologia alla rigidezza dello schema logico hegeliano, alla tendenza hegeliana a sistemare a priori gli eventi. Ma anche la grande filologia classica tedesca dell’Ottocento fu ben più che un metodo. Il suo fondatore, F.A. Wolf, rinnovò nei suoi Prolegomena ad Homerum (1795) la teoria vichiana dell’epoca primitiva e il suo discepolo A. Boeckh trasformò la filologia in scienza storica. Nel 1828 Jakob Grimm pubblicava i Deutsche Rechtsaltertümer, mirabile quadro dell’antica Germania medievale, con il quale aveva inizio quella che poi sarebbe stata detta Kulturgeschichte, la storia della vita nazionale distinta e in certo modo contrapposta alla storia politica. H.F.K. von Stein lanciava l’idea di una raccolta di fonti, i Monumenta Germaniae historica, e trovava in G.H. Pertz l’uomo adatto a intraprendere la grande impresa. La piena fusione di metodo critico e di sintesi narrativa veniva infine ottenuta da L. Ranke, che recava il rigore della filologia classica nello studio della storia moderna. Nel periodo della Restaurazione la s. fu una grande arma politica della borghesia liberale francese. Fu una s. di uomini politici e di pubblicisti, avente per temi le ardenti questioni del giorno: l’emancipazione dei Comuni, le assemblee del Terzo Stato, le rivoluzioni inglesi, la Rivoluzione francese. Nei Dix ans d’études historiques (1820) A. Thierry celebra contro l’aristocrazia feudale, dipendente da conquistatori stranieri, il Terzo Stato, erede dei Comuni e quindi dei vinti Gallo-Romani, depositari dell’antica civiltà; questa simpatia per le masse oscure e laboriose, per i vinti (che sarà accolta da A. Manzoni), ispira pure la sua Histoire de la conquête de l’Angleterre par les Normands (1825; trad. it. Storia della conquista dell’Inghilterra fatta dai Normanni). F.P. Guizot con la sua Histoire de la Révolution d’Angleterre (1816-27) volle mostrare gli errori di quella francese e l’utilità di un regime rappresentativo. F.-A. Mignet, nella Histoire de la Révolution française de 1789 à 1814 (1824; trad. it. Storia della rivoluzione francese dal 1789 al 1814) giustificò quella che fino allora appariva un’inconcludente convulsione, ponendo il problema dell’origine della Rivoluzione. In Italia, con la discussione dei grandi problemi della storia nazionale, la s. contribuì alla formazione della coscienza nazionale unitaria. Le idee romantiche di Germania, quelle liberali di Francia, il pensiero di Sismondi, di Hegel, di Thierry, di Niebuhr agirono da stimoli, ma la reazione da parte italiana ebbe una sua originalità. Fin dal 1800 V. Cuoco nel Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799 aveva opposto all’astratto razionalismo la sapienza di Vico. E nel passato gli storici italiani ricercarono le radici dell’unità che s’intendeva costituire. Si studiò il Medioevo, l’epoca della nascita delle nazioni moderne e l’epoca dei liberi Comuni. Manzoni, con il Discorso sopra alcuni punti della storia longobardica (1822), distruggeva il mito dell’idillica fusione di vincitori Longobardi e di vinti Romani, e prendeva partito per i vinti, che avrebbero formato in seguito il popolo dei Comuni; a C. Balbo (Storia d’Italia sotto i barbari, 1840; Sommario della storia d’Italia, 1848) la storia d’Italia si presentava come una catena di dipendenze, interrotta a tratti da periodi d’indipendenza; nel Primato morale e civile degli Italiani (1843) Gioberti esaltava la missione del popolo italiano e sottolineava la continuità di una tradizione che partendo dai Pelasgi giungeva fino all’epoca contemporanea. Fu merito della scuola neoguelfa aver rivelato nei suoi aspetti essenziali la struttura sociale del Medioevo italiano e avere individuato i problemi della storia medievale. Quanto ai limiti dell’interpretazione neoguelfa della storia, essi furono colti e denunciati già da Cattaneo, il quale dava nel 1844, con le Notizie naturali e civili della Lombardia, l’esempio di una storia d’Italia impostata su nuove basi sociali-economiche. L’opera italiana in cui il nuovo metodo critico-filologico tedesco è usato con assoluta padronanza è La guerra del Vespro siciliano (1842) di M. Amari; per l’altro suo capolavoro, la Storia dei musulmani di Sicilia (1853), Amari entrava nel novero degli autori classici della s. europea. Il maggiore storico liberale dell’Inghilterra è stato Th.B. Macaulay, che nella sua History of England from the accession of James II (1849-61; trad. it. Storia d’Inghilterra dall’avvento al trono di Giacomo II) e negli Essays (1843; trad. it. Saggi scelti) intese mostrare come la politica dei whigs, in antitesi al fanatismo puritano e al dispotismo degli Stuart, avesse dato all’Inghilterra libertà e potenza. L’opera inglese più importante di questo periodo, la History of Greece (1846-56; trad. it. Storia della Grecia antica) di G. Grote, unisce al rigore del metodo critico-filologico tedesco la passione politica del democratico, discepolo di Bentham e amico dei cartisti. La s. della seconda metà dell’Ottocento è dominata dal problema sociale. Si fa aperta e netta l’antitesi tra liberalismo borghese e democrazia radicale; il fattore economico, già intravisto dagli illuministi, diventa ora criterio d’interpretazione della storia. Il primato dell’economia sulla politica affermato da Saint-Simon, nel suo discepolo Comte diviene primato della ‘società’ rispetto allo Stato; per Comte la s. dovrebbe essere ricerca positiva delle leggi uniformi e costanti dell’accadere sociale, cioè una parte della nuova scienza della società: la sociologia. Ma è con il materialismo storico di Marx ed Engels (Manifest der kommunistischen Partei, 1848; trad. it. Il manifesto del partito comunista) che il momento economico viene assunto a criterio diretto d’interpretazione storica. Con Die Klassenkämpfe in Frankreich (1850; trad. it. Le lotte di classe in Francia), Revolution und Kontrerevolution in Deutschland (1851-52; trad. it. Rivoluzione e controrivoluzione in Germania) e Der Achtzehnte Brumaire des Louis Bonaparte (1852; trad. it. Il diciotto brumaio di Luigi Bonaparte) Marx ed Engels davano i primi vigorosi esempi della nuova s. ispirata ai principi del materialismo storico. In Francia il primo a porre il problema del suo tempo in termini sociali fu Tocqueville. Impegnatosi a studiare le «cause» della Rivoluzione, trovò negli archivi provinciali la prova che una grande rivoluzione amministrativa aveva preceduto quella politica, sostenendo in L’ancien régime et la Révolution (1856; trad. it. L’antico regime e la Rivoluzione) che la Rivoluzione non aveva fatto che sanzionare la progressiva centralizzazione della monarchia, riuscendo a instaurare l’uguaglianza giuridica e l’uniformità amministrativa. Con il consolidarsi della Terza Repubblica in Francia verso la fine del secolo la grande s. di partito lasciò il posto a indagini fondate su accurate e metodiche ricerche d’archivio. Il maestro di questa s. priva di tendenze, dotta, ostile agli schemi e alle formule, fu Fustel de Coulanges. In Germania gli eventi del ’48 determinarono una revisione profonda delle posizioni politiche e dei criteri storiografici. La delusione dei democratici trovò espressione nell’opera di Th. Mommsen, che si propose, con la sua attività di storico, di educare politicamente il popolo tedesco. Appassionato uomo di parte, egli rovesciò nella sua Römische Geschichte (1854-56; trad. it. Storia di Roma antica) la sua ira delusa di patriota democratico, che aveva visto il suo sogno di un forte Stato nazionale fallire dinanzi alle egoistiche resistenze dell’aristocrazia. Quello che differenzia Mommsen da Niebuhr, oltre lo stile, è il metodo. La sua esperienza di giurista, numismatico, epigrafista gli consentì di tracciare i lineamenti di una storia politica partendo direttamente dalla vita sociale. Anche Droysen cercò conferma nella storia antica al suo ideale di uno Stato fortemente organizzato e autoritario, solo capace di assicurare l’esistenza di una nazione. La sua Geschichte Alexanders des Grossen (1833; trad. it. Alessandro il Grande), continuata nella Geschichte des Hellenismus (1836-43) voleva mostrare come solo la forte monarchia macedone aveva saputo imporre all’Oriente la civiltà greca, ed era evidente che la Macedonia della nuova Germania era per lui la Prussia. I principi di Droysen, ripresi da H. von Sybel, furono sistemati in una vera e propria dottrina da H. von Treitschke, che, nemico del particolarismo federalistico e dell’Austria, con la sua Deutsche Geschichte im 19. Jahrhundert (1879-94) volle dimostrare come la nuova Germania nascesse dall’incontro tra la cultura tedesca e la forza prussiana, tra lo spirito di Weimar e quello di Potsdam.
La reazione al positivismo si compì, in Italia, nel segno della concezione materialistica della storia. Per A. Labriola la conoscenza storica era «uno sforzo massimo del pensiero, diretto a vincere il multiforme spettacolo della esperienza immediata», ben più, dunque, che l’accertamento dei fatti con il metodo filologico. Labriola auspicava una s. vivificata dai problemi del presente, una nuova critica delle fonti alla luce del materialismo storico, e in effetti la scuola economico-giuridica fu la proiezione delle sue idee nel lavoro storiografico: G. Salvemini rappresentò il Duecento fiorentino come lotta di gruppi e di interessi economici, mentre G. Volpe trovò in Labriola lo spunto di notevoli interpretazioni riguardanti la storia del cristianesimo. Con i suoi Movimenti religiosi e sette ereticali nella società medievale italiana (concepiti tra il 1907 e il 1912, pubbl. 1922), la letteratura sull’eresia medievale superava l’analisi dei sistemi di dottrina e affrontava le condizioni reali da cui sorgono le idee teologiche e politiche. Parallelamente alla maturazione e alla fortuna dei saggi di Labriola, si aprivano nuove prospettive con la discussione, avviata da Croce nel 1893 e proseguita da Gentile, sul concetto della storia; Croce infine formulò una teoria della conoscenza fondata sulla identificazione di storia e filosofia e sulla negazione delle pretese conoscitive degli pseudoconcetti sociologici. Nella Logica come scienza del concetto puro (1909) e nella Teoria e storia della storiografia (1917) egli si mantenne nell’ambito dell’insegnamento di Labriola, in quanto negava la possibilità di distinguere e sistemare in una scala gerarchica diversi «fattori storici»; ma con gli Elementi di politica (1924), nella doppia polemica contro la scuola economico-giuridica e contro la Staatsgeschichte, Croce affermò che le discipline storiche «attinenti all’attività pratica perdono la loro autonomia e vengono risolute, come presupposti e strumenti, nella storia etico-politica». In tal modo la s. italiana di indirizzo crociano si orientò essenzialmente verso lo svolgimento delle idee, e ne resta esempio la Storia d’Europa nel secolo XIX (1932), di Croce stesso, che pone al centro dell’Ottocento europeo non la nascita o l’espansione delle formazioni statali, né lo sviluppo economico della borghesia, bensì la lotta di fedi religiose ove la religione della libertà rappresenta l’elemento progressivo. Nell’ambito dell’indirizzo crociano si pongono gli studi di A. Omodeo sull’età della Restaurazione in Francia, apparsi su La critica dal 1935 al ’43, nei quali l’interesse erudito per la figura del conte De Maistre e per il risveglio cattolico del primo Ottocento si trasforma nell’indagine sulle origini francesi del liberalismo; le ricerche di F. Chabod su Machiavelli e il Rinascimento, poi sulle premesse ideali della politica estera dell’Italia unita; i saggi di Antoni sull’idea di nazione, opposta al principio razionalistico dello Stato, e sul processo di «trapasso o caduta» del pensiero storiografico tedesco nel «sociologismo tipologico»; gli studi di G. Falco sul concetto di Medioevo e, infine, di W. Maturi riguardo alle interpretazioni del Risorgimento. Fuori della scuola crociana, Gentile, Saitta e Guzzo rinnovarono gli studi sul pensiero del Rinascimento e del Risorgimento, sulla via aperta dagli hegeliani meridionali; Volpe sottolineò l’emergere della borghesia e il processo di formazione del potere statale in Italia, seguito da C. Morandi, che negli studi sui gruppi politici lombardi si richiamò all’autonomia dello svolgimento nazionale, come era sostenuta da E. Rota; D. Cantimori, invece, mosse dai problemi posti dalla s. filosofica (sviluppi del neoplatonismo nel tardo Rinascimento, suo incontro con le correnti anabattistiche d’Oltralpe) e fu animato da un populismo di derivazione mazziniana; N. Ottokar infine contestò l’indirizzo di Salvemini, applicando allo studio del Comune fiorentino la categoria di classe politica, teorizzata da G. Mosca. Anche in Germania la s. del Novecento si formò nella reazione al positivismo, con il rifiuto dei metodi delle scienze naturali e la rivendicazione di una conoscenza volta al concreto. La Geistesgeschichte fu ripresa da F. Meinecke, che mise in luce i momenti fondamentali dello svolgimento culturale tedesco, studiando (Weltbürgertum und Nationalstaat, 1908; trad. it. Cosmopolitismo e Stato nazionale) la transizione dal cosmopolitismo all’idea di nazionalità, nella Germania delle guerre di liberazione; tracciando (Die Idee der Staatsräson in der neueren Geschichte, 1924; trad. it. L’idea della ragion di Stato nella storia moderna) un quadro della speculazione politica da Machiavelli a Treitschke, dove la ragion di Stato è pensata quale confluenza di kratos ed ethos, dell’agire secondo l’istinto di potenza e secondo la coscienza morale; infine (Die Entstehung des Historismus, 1936; trad. it. Le origini dello storicismo) ponendo le figure di Herder e Goethe al centro della nuova intuizione storicistica del reale, tesa appunto a determinare l’individualità delle forze agenti nella storia. L’opera di Huizinga può essere caratterizzata proprio in contrasto con l’attività di Meinecke: quest’ultimo interessato alle correnti del pensiero, colte attraverso personalità rappresentative; lo storico olandese, invece, sensibile a diffusi atteggiamenti mentali e variazioni del gusto, quali la rappresentazione della morte, la concezione dell’amore e le forme della pietà religiosa, nella Borgogna dei secc. 14° e 15°. In Germania, il maggior tentativo di affrontare il problema della conoscenza storica fu compiuto da Weber in una serie di saggi degli anni 1903-06: il rapporto fra sociologia e s. è risolto nel senso che la prima elabora i «tipi ideali», generalizzazioni indispensabili ai fini di una conoscenza del concreto che, tuttavia, resta privilegio della scienza storica. Nel saggio sull’etica protestante e lo spirito del capitalismo, apparso nell’Archiv für Sozialwissenschaft und Sozialpolitik (Über die protestantische Ethik und den Geist des Kapitalismus,1904-05; trad. it. L’etica protestante e lo spirito del capitalismo), i dogmi centrali di una confessione protestante, il calvinismo, sono considerati decisivi per la genesi dello spirito imprenditoriale del capitalismo moderno. Nei saggi di sociologia della religione Weber ha sottolineato l’importanza dell’etica economica delle grandi religioni nella vita dei popoli, misurando in questa prospettiva la distanza fra le culture dell’Oriente asiatico e il mondo euro-occidentale; in Wirtschaft und Gesellschaft (1922; trad. it. Economia e società), infine, ha elaborato una serie di concetti sociologici – come i tipi ideali di città e borghesia – destinati a chiarire e ad arricchire di più esatte determinazioni alcuni termini essenziali del linguaggio storiografico. Formatosi agli studi di teologia nel momento della crisi del protestantesimo liberale, Troeltsch esaminò l’influenza del «neoprotestantesimo» sulla formazione della religiosità moderna, intesa quale ascesi laica; poi, riallacciandosi più direttamente a Weber, studiò le teorie sociali e politiche sorte entro le organizzazioni ecclesiastiche del mondo cristiano. Il concetto di sistema economico, come complesso di elementi interdipendenti, tenuti insieme da uno spirito particolare che impronta di sé tutta la vita economica, è il punto di partenza di W. Sombart (prefazione a Der moderne Kapitalismus, 2a ed., 1917; trad. it. Il capitalismo moderno), per il quale il rapporto Basis-Überbau si risolve nella connessione strutturale dell’economia con tutte le manifestazioni della vita politica e spirituale. Spinto dal primo conflitto mondiale e dagli eventi rivoluzionari, il pensiero storiografico del Novecento ha affrontato in maniera autonoma, rispetto alle scuole filosofiche e sociologiche e agli indirizzi del pensiero politico, i problemi della continuità o della frattura nello svolgimento storico (A. Dopsch e H. Pirenne per il trapasso dall’Antichità al Medioevo; ma anche K. Burdach, già negli anni 1910-13, per il rapporto Medioevo-Rinascimento), della periodizzazione (K. Heussi), del ruolo della crisi interna e della sfida esterna nel tramonto delle civiltà (M. Rostovcev, F. Altheim).
Dopo la Seconda guerra mondiale, la s. si è trovata a operare in un diverso clima culturale, caratterizzato da rinnovate obiezioni contro lo storicismo (Popper). La prospettiva eurocentrica, già respinta da Spengler, era diffusamente criticata da Toynbee e Jaspers; revocata in dubbio la validità assoluta della distinzione fra conoscenza storica e generalizzazione sociologica, era favorita la diffusione del metodo quantitativo e dei lavori di équipe; tramontata la posizione privilegiata della Geistesgeschichte e della storia etico-politica, si accentuava la tendenza a definire campi di ricerca per storie speciali. Con l’abbandono dell’eurocentrismo, si è tentato di definire storicamente nuove aree culturali (la «civiltà atlantica» di R.R. Palmer e Ch. Verlinden). I metodi quantitativi hanno trovato applicazione anche nella storia delle idee, al fine, per es., di accertare la diffusione e la penetrazione del libro nel tessuto sociale. Quanto alle storie speciali, hanno avuto sviluppo la demografia storica, che già disponeva di una sua tradizione, la storia dei prezzi, dove è essenziale la rilevazione statistica e l’elaborazione sistematica dei dati, la storia della tecnica e, infine, ricerche specifiche come quelle di F. Melis sulle origini della ragioneria e delle assicurazioni. Dal canto suo, la storia dei partiti si connette alla sociologia del partito politico, fondata da R. Michels (un esempio particolarmente felice è offerto dalla History of US political parties, a cura di A.M. Schlesinger jr., 4 voll., 1973); mentre la storia diplomatica insiste essenzialmente sull’analisi del documento diplomatico, che è l’aspetto caratterizzante della disciplina (M. Toscano, Storia dei trattati e politica internazionale, 1963). Lo studio delle relazioni internazionali, come si è affermato negli Stati Uniti dopo la Seconda guerra mondiale, offre allo storico nuove categorie e, al tempo stesso, attinge dalla storia il contenuto della propria riflessione. Fra gli indirizzi che tuttora agiscono nella produzione storiografica, il marxismo vanta la più lunga tradizione. Suo problema fondamentale è il rapporto fra la struttura economica della società, o base reale, e la sovrastruttura giuridica e politica, o coscienza sociale. Lukács (Geschichte und Klassenbewusstsein, 1923; trad. it. Storia e coscienza di classe) teorizzò un rapporto articolato, fuggendo lo scoglio del determinismo; ma nella sua opera sul pensiero tedesco da Fichte al nazionalsocialismo (Die Zerstörung der Vernunft, 1954; trad. it. La distruzione della ragione) finì per accogliere una proiezione meccanica dei fatti sociali sul movimento intellettuale. Ch. Hill, E.J. Hobsbawm, H. Lefebvre hanno portato attenzione ai momenti fondamentali dello sviluppo sociale dell’Occidente (la rivoluzione puritana, la rivoluzione industriale, la Comune parigina) utilizzando suggerimenti e categorie marxiane. Di particolare interesse per gli studi storici è il dibattito sul modo di produzione asiatico, che investe la s. sul mondo extraeuropeo, nel momento della decolonizzazione e dei nuovi nazionalismi; nonché la riflessione sulle forme precapitalistiche analizzate da Marx nei Grundrisse. Altri studiosi di ispirazione marxista appaiono legati, sul piano del lavoro storiografico, a scuole diverse: come A. Tenenti, attivo presso le Annales, o A. Saitta, influenzato dal radicalismo di A. Mathiez più ancora che dalle ipotesi gramsciane. Aspetti specifici, invece, ha offerto la s. sovietica: i problemi della valutazione del passato nazionale russo sembrano strettamente connessi alla vicenda di M.N. Pokrovskij e alle variazioni della sua fortuna, mentre le opposte esigenze dell’obiettività storica e dell’impegno partitico hanno travagliato la scienza storica nell’URSS. La scuola francese formatasi attorno alla rivista Annales (fondata nel 1929) insiste sull’integrazione della s. con le altre scienze umane, e sulla individuazione delle «strutture», caratterizzate dalla «lunga durata» e contrapposte agli «avvenimenti». La concezione storiografica dei maggiori rappresentanti di questo indirizzo si è maturata nel dialogo con la geografia di P. Vidal de La Blache, con l’economia di F. Simiand, con l’antropologia strutturale di Lévi-Strauss (l’antologia delle Annales pubblicata a cura di F. Braudel, 2 voll., 1973-74; trad. it. La storia e le altre scienze sociali; e scritti metodologici dello stesso Braudel, Écrits sur l’histoire, 1969; trad. it. Scritti sulla storia). Su questa linea, A. Dupront ha esposto nei suoi interventi al XII e al XIII Congresso internazionale di scienze storiche (rispettivamente nel 1965 e nel ’70) un programma di collaborazione con l’antropologia (la storia nella prospettiva dell’attrazione reciproca e dell’incontro fra culture diverse) e con la linguistica (semantica storica, uso di metodi linguistici nell’analisi delle fonti). M. Bloch, con Les rois thaumaturges (1924; trad. it. I re taumaturghi), ha individuato un elemento costante nella mentalità collettiva del Medioevo francese e inglese; nei Caractères originaux de l’his-toire rurale française (1931; trad. it. I caratteri originali della storia rurale francese) ha seguito la lenta trasformazione del «sistema agrario» in Francia, indicando con questo termine «una complessa rete di nuove tecniche e di principi di organizzazione sociale». L. Febvre è stato onsiderato per i suoi lavori su Lutero, Rabelais, Margherita di Navarra, lo «storico psicologico» per eccellenza, attento peraltro anche agli aspetti geografici dell’evoluzione umana. Braudel, con il classico studio sul Mediterraneo di Filippo II, ha insistito sulle strutture geografiche in lenta trasformazione; nei volumi sul mondo attuale ha cercato una definizione delle grandi aree culturali, colte nel loro processo di formazione storica; infine, in Civilisation matérielle, économie et capitalisme (1979; trad. it. Civiltà materiale, economia e capitalismo), ha cercato di abbracciare in una prospettiva d’insieme il movimento demografico, la cultura materiale e le forme della vita economica attraverso l’intero mondo preindustriale, dalla Cina alle Americhe, dal 15° al 18° sec.; ogni zona densamente popolata del globo – egli conclude – ha elaborato una serie di risposte, «avec ses originalités et ses choix de longue durée». Alla ricerca di strutture, oltre la ricostruzione dei singoli eventi, si indirizzano anche i cultori di quella Sozialgeschichte che, in vario rapporto con le tradizioni storiografiche nazionali, è presente con tratti analoghi in Francia, in Italia, nel mondo di lingua inglese e tedesca. Gli studi di G. Lefebvre e G. Soboul sulla società francese del Settecento, di H.R. Trevor Roper e L. Stone sulla gentry e sull’aristocrazia inglese, e infine, in Italia, di R. Romeo e di M. Berengo, fanno tutti convergere l’azione dei fattori economici, politici, culturali, verso la determinazione di classi e gruppi sociali. Come un classico, per questo indirizzo, va considerata l’opera di O. Brunner, Adeliges Landleben und europäischer Geist (1949; trad. it. Vita nobiliare e cultura europea), che, attraverso l’analisi dei poemi didascalici di un gentiluomo letterato del Seicento austriaco, tende a ricostruire un modo di vivere e di pensare, tipicamente europeo (Land und Herrschaft, 1939; e Neue Wege der Sozialgeschichte, 1956). Caratteristico della s. successiva è l’impegno sugli aspetti fondamentali della vita contemporanea. Il giudizio sulle conseguenze sociali della rivoluzione industriale trova gli studiosi ancora profondamente discordi (alla considerazione pessimistica di Hobsbawm si contrappone quella, incontaminata da presupposti ideologici, di R.M. Hartwell); ma tutta la problematica connessa al passaggio dalla condizione di sottosviluppo alla dinamica della crescita autosostenuta ha trovato nuove prospettive (W. Rostow, A. Gerschenkron). La storia del movimento operaio e del socialismo conta i lavori di E. Dolléans e J. Kuczyński sulla nascita della classe operaia e la sua organizzazione sindacale, di G.D.H. Cole sul pensiero rivoluzionario, di J. Braunthal sulle varie Internazionali. R. De Felice ha sottolineato gli aspetti caratterizzanti del fascismo di fronte alle correnti conservatrici tradizionali; mentre E. Nolte ha preferito al lavoro di analisi il tentativo di ricostruire la formazione intellettuale di Mussolini attraverso accostamenti con Marx e Nietzsche. Per l’imperialismo, dopo le prime analisi di J.A. Hobson e Kautsky e dopo le opere fondamentali di R. Luxemburg e di Lenin, J.A. Schumpeter ha voluto rovesciare le tesi del socialismo rivoluzionario, reinterpretando l’espansionismo delle grandi formazioni statali come un residuo di sistemi precapitalistici e preborghesi. Nel quadro di una contestazione radicale della civiltà tecnologica, Foucault ha portato la sua analisi sulla genesi e la funzione di istituzioni fondamentali (sistema sanitario, sistema carcerario). Con gli anni Ottanta e la crisi delle grandi ideologie e delle connesse filosofie della storia, si è esaurito del tutto l’orientamento ottocentesco che allo storico assegnava il compito di ‘educatore’ della classe politica. In crisi o svalutata l’idea di storia come portatrice di senso (anche per la sua intrinseca capacità di individuare le tappe del progresso), si affermavano i temi del postmoderno, il quale si spinge, nelle sue estreme formulazioni, a dichiarare irrilevante la contestualizzazione storica del documento. Ma gli anni Ottanta si sono conclusi con un rilancio della s. politica. Si è trattato di un ritorno del cosiddetto revisionismo, cioè della messa in questione del carattere epocale e periodizzante delle rivoluzioni europee (l’inglese del Seicento, la francese del Settecento, la russa del Novecento). In Francia come altrove la nuova storia politica ha emarginato il concetto e il ruolo dello Stato, sottolineando, insieme alla disunità, le resistenze alla centralizzazione; in alternativa, si è affermata la tendenza a risolvere in termini di reti, di parentele e di clientele processi di mobilità sociale che hanno anche ragioni politiche e istituzionali. Sono state confermate, e spesso consolidate, le tradizionali periodizzazioni in «epoche» e in secoli. La polemica sull’«obiettività possibile» ha interessato marginalmente gli storici di professione, in genere poco coinvolti dal dubbio dell’ermeneutica o dalla rinuncia postmodernista, ma impegnati piuttosto dalle sollecitazioni del revisionismo. Quest’ultimo ha investito anzitutto il giudizio sulle grandi rivoluzioni storiche, sulle «leggende nere» (l’Inquisizione, gli ebrei, ecc.) e sui movimenti totalitari (fascismo, nazismo, ecc.). La Rivoluzione francese non ha cessato di essere il luogo classico dello scontro: il bilancio del secondo centenario ha confermato il successo dell’interpretazione di F. Furet, che liquidava la visione giacobino-marxista aprendo la strada a nuovi studi sulla retorica e sulla simbologia della rivoluzione. Esaurita in gran parte la carica contestativa del revisionismo, lentamente si è venuta riaggregando la domanda di storia, estremamente varia nelle sue motivazioni e nei suoi risultati, in un’atmosfera che non è più segnata da definitive appartenenze politiche, così come era stata invece soprattutto nei settori della contemporaneistica. Alcune prospettive storiografiche hanno acquisito negli ultimi decenni rilevanza e visibilità e le tendenze più nuove sono apparse tutte segnate dalla propensione agli incroci disciplinari con altre scienze sociali. In questa direzione ha continuato a operare la Nouvelle histoire francese legata alle Annales, in primo luogo con i grandi nomi di Braudel, G. Duby, J. Le Goff, E. Le Roy Ladurie, che hanno rappresentato modelli e fornito impulsi organizzativi. Ormai metabolizzati gli apporti della sociologia, si è guardato soprattutto all’antropologia e alla politologia, mentre hanno trovato rinnovato interesse gli studi di geopolitica. I campi nei quali si sono concentrati risultati innovativi sono: la storia delle donne e degli studi di genere; gli studi attorno al sacro, cioè relativi all’esperienza religiosa nella definizione più ampia; quelli relativi alla nazione (lingua, etnia, tradizione), come recupero delle ragioni storiche dello ‘stare insieme’, e alle culture, creatrici e depositarie di valori condivisi e portatrici di forti identità collettive; quelli intorno ai rituali e ai miti della politica che, pur coprendo vasti archi temporali, si sono rivolti in partic. all’esame dei regimi totalitari del Novecento, a partire dalle fondamentali ricerche di G.L. Mosse; la storia della cultura come storia dei comportamenti culturali più che delle idee, il formarsi dell’opinione pubblica, la fruizione e diffusione dei messaggi, come nelle ricerche diR. Chartier; gli studi sulla storia delle mentalità, fioriti soprattutto in Francia (già sede delle opere pionieristiche di Bloch e Febvre) con i lavori di P. Ariès e di M. Vovelle; le indagini sulle dimensioni del consenso, come superamento delle mere contrapposizioni politiche e di valore, di cui si possono ricordare i contributi di De Felice sul fascismo e di M. Broszat sulla dimensione politica del quotidiano nella Baviera degli anni del nazismo. A conferma della trasformazione in atto della figura dello storico-politico si è iniziato infine a riflettere, a partire dall’opera di Hobsbawm (Age of extremes. The short Twentieth century: 1914-1991, 1994; trad. it. Il secolo breve), sul senso complessivo del Novecento, un tema sul quale si misurano e si confrontano gli esiti delle ideologie del secolo.