STORIOGRAFIA
(v. storia, XXXII, p. 771; App. III, II, p. 846; storiografia, App. IV, III, p. 492)
Preistoria. - La paletnologia (v. in questa Appendice), essenzialmente la ricostruzione della storia e della cultura dei popoli prima della scrittura, si è sviluppata dall'Ottocento a oggi nel susseguirsi di teorie interpretative fondate sui concetti di evoluzione, diffusione, cultura e adattamento all'ambiente, che determinano l'interpretazione dei dati archeologici e sono innegabilmente influenzate dal condizionamento sociale, economico e politico. Negli anni più recenti, si è affermata l'esigenza di fare dell'archeologia preistorica una scienza sociale cercando di trarre, dai resti archeologici, con l'aiuto dei più moderni metodi d'indagine, tutte le informazioni necessarie riguardo alle scienze fisiche, all'ambiente, all'economia e alle strutture sociali e politiche delle popolazioni antiche, nel tentativo d'interpretare le evidenze archeologiche con metodologie adatte a fornire una risposta storicamente valida. Gli obiettivi che si è posta la ricerca, di raggiungere la più ampia comprensione dei vari sistemi socio-culturali e di spiegarne i processi di formazione, sono comuni alla storia antropologica. Agli studiosi e agli storici moderni si prospetta la necessità di un ripensamento teorico-metodologico che possa definire la struttura logica dei procedimenti conoscitivi: l'applicazione di tali concetti contribuisce a far diventare la paletnologia una scienza sociale.
All'archeologia preistorica, intesa come ricostruzione storica e analisi delle società, aveva già dato un importante contributo innovativo V.G. Childe (1892-1957), che considerava la cultura come un fenomeno di adattamento: egli introdusse l'uso sistematico del concetto di ''unità archeologica'', intesa come unità di base per collocare i dati nel tempo e nello spazio, attribuendo a ogni manufatto un suo significato funzionale per arrivare alla comprensione degli aspetti economici e sociali, con il superamento dell'impostazione evoluzionistica. Con il suo tentativo di dare un significato storico ai molti dati da lui stesso raccolti, Childe ha esercitato un'influenza determinante sull'analisi delle società primitive. Il suo orientamento marxista lo spingeva tuttavia a sottolineare l'importanza dei fattori economici e sociali, attenuando la validità dei concetti di diffusione e di migrazione.
Gli stretti contatti con Childe e l'influenza della scuola anglosassone caratterizzano l'opera di S. Puglisi La civiltà appenninica (1959), nella quale si delinea la ricostruzione dell'economia pastorale nel suo aspetto antropologico, basandosi sia sullo studio dei materiali e sulla comparazione etnografica, sia sull'analisi degli aspetti ecologici nei quali si sono sviluppate le facies appenniniche, e sui dati bioarcheologici, allo scopo d'individuare le attività di sussistenza dei gruppi umani.
Un lavoro di sintesi, condotto su basi diverse da quelle di Childe, ma ugualmente critiche nei confronti della tendenza prevalente di una concezione eventografica della storia, e fondato invece sull'individuazione di complessi archeo-tipologici come testimonianza archeologica dei popoli e delle loro vicende storiche, si deve a J.D. Clark (The stone age cultures of Northern Rhodesia, 1950). Clark basa le sue interpretazioni storiche sui risultati di scavo, operando una ricostruzione delle strutture economiche dei gruppi preistorici, viste come attività di sussistenza nel quadro del loro adattamento all'ambiente, e spiegando i cambiamenti dell'habitat, gli squilibri demografici o le influenze tra gruppi adiacenti insieme come causa ed effetto della trasformazione del rapporto uomo-ambiente. L'opera di Clark è incentrata sul concetto dell'equilibrio tra cultura ed ecosistema nei due aspetti di bioma e habitat: in tale rapporto scambievole è messa in evidenza una serie di attività economiche comuni a tutto il continente europeo.
Nell'ambito dell'impostazione di Clark, E.S. Higgs e M. Jarman, capiscuola del gruppo inglese dei palaeoeconomists, partono dall'esame delle attività di sussistenza dei gruppi e del rapporto tra comunità e ambiente, rilevato con tecniche d'indagine quali la site catchment analysis. Con un nuovo orientamento metodologico, nel volume Palaeoeconomy (1975) Higgs e Jarman si propongono d'individuare le caratteristiche ecologiche di un'area e le potenzialità tecnologiche del gruppo che la occupa, tentando di stabilire quali fossero le attività economiche del gruppo, al di là della disponibilità dei dati archeologici.
La polemica nei confronti della storia intesa come narrazione di eventi e insieme il tentativo di superare le separazioni artificiali tra archeologia, etnologia e storia, si sviluppano negli Stati Uniti a opera, tra gli altri, di J.H. Steward e L. White, che si propongono d'individuare le norme dello sviluppo delle società umane. Steward (Theory of cultural change, 1955), riconsiderando i presupposti del funzionalismo, vede la spiegazione del fenomeno culturale nelle relazioni tra diversi aspetti, correlati tra di loro, che costituiscono il modo di essere o il funzionamento della cultura stessa. White (1900-1975), riferendosi al funzionalismo classico, considera leggi universali quelle che regolano il comportamento culturale sottoposto a un processo unitario di sviluppo.
Sempre negli Stati Uniti, L.R. Braidwood e G.R. Willey, nell'ambito dei più recenti orientamenti neoevoluzionisti, affrontano il problema dell'insorgenza del fenomeno produttivo con un approccio di tipo paleoambientale, avvalendosi dell'apporto di molteplici contributi naturalistici, finalizzati alla comprensione dello sviluppo culturale. Il contesto ecologico appare di vitale importanza per lo sviluppo delle attività economiche dei gruppi; su questa ipotesi Braidwood individua successive fasi di sviluppo che portano le comunità alla più complessa struttura sociale del villaggio e alla piena attività produttiva.
Partendo dal neopositivismo storico e rifacendosi all'opera di L. White, L.R. Binford, esponente dell'approccio antropologico applicato all'archeologia preistorica, conferma la validità di leggi generali che regolano fenomeni processuali o di funzionamento: la teoria dei sistemi offrirebbe un certo numero di norme applicabili a più concreti casi di studio. Nel vasto dibattito che a partire dagli anni Sessanta coinvolge negli Stati Uniti un'intera generazione di archeologi sui fini e sui metodi della ricerca, a opera di Binford si afferma la cosiddetta scuola processuale o new archaeology, caratterizzata dalla tendenza, di origine neoevoluzionista, a mettere in evidenza gli aspetti interpretativi storico-antropologici. Il problema più importante nella ricerca paletnologica appare quello metodologico, per arrivare a spiegare i processi di evoluzione culturale attraverso il metodo ipotetico-deduttivo; Binford, nell'introduzione a New perspectives in archaeology (1978), spiega come sia necessario arrivare, con un procedimento scientifico, oltre che alla ricostruzione cronologica, allo studio e alla spiegazione dei cambiamenti culturali, da un lato tenendo conto della documentazione disponibile, dall'altro attenendosi a un determinato tipo di ricostruzione dei contesti socio-culturali: le conoscenze generali di carattere antropologico dovrebbero contribuire alla costruzione di un modello del fenomeno in studio. Tali modelli dovrebbero diventare leggi generali della dinamica culturale e del comportamento umano per spiegare i cambiamenti culturali.
Nella sua opera sulle origini dell'urbanizzazione in Mesopotamia e in America Centrale, R.C. McAdams (1982) usa il metodo comparativo non per la definizione di una regolarità di base, ma per arrivare a una maggiore comprensione delle singole sequenze storiche, considerando nell'ottica evoluzionista la crescita delle istituzioni come fondamento dello sviluppo storico. In questo si ricollega al sostantivismo dell'antropologia economica, volta alla comprensione dell'integrazione del fattore economico con l'organizzazione sociopolitica. Tale impostazione, permettendo un approccio più corretto allo studio dei sistemi socioeconomici delle società preistoriche, è tenuta in seria considerazione dalle teorie più recenti delle scienze storico-antropologiche.
Anche in Gran Bretagna nei primi anni Settanta lo studio della paletnologia è caratterizzato dall'uso di modelli, presi in prestito dalle discipline più varie, come l'ecologia, la demografia, la fisica, l'informatica. D.L. Clarke, nell'opera Analytical archaeology (1965-67), aveva delineato un quadro delle definizioni teoriche sulle quali deve basarsi la ricerca archeologica pratica, arrivando a costruire un modello dei processi, utilizzabile da parte degli archeologi. L'uso dei modelli in archeologia è poi sintetizzato nelle due raccolte: Models in archaeology, edita da Clarke nel 1972, e The explanation of culture change: models in prehistory, curata da C. Renfrew nel 1973. Il modello a cui più spesso si ricorre è quello della geografia locazionale. Renfrew (Exchange systems in prehistory, 1972) utilizza formulazioni matematiche per la costruzione di modelli empirici applicabili a entità sociopolitiche e a sistemi socioculturali dei quali prende in esame l'aspetto della distribuzione spaziale, della complessità sociale, dello scambio e dei processi di cambiamento.
L'analisi della distribuzione spaziale dei siti si è dimostrata strumento utilissimo d'indagine dell'archeologia dell'insediamento per l'interpretazione dei modi di vita dei gruppi e per la comprensione delle componenti che hanno contribuito all'evoluzione socioculturale. In questo campo la scuola inglese, rappresentata da I. Hodder, si occupa soprattutto della geografia locazionale e della messa a punto di strumenti per la ricerca di superficie e la distribuzione dei manufatti. La scuola statunitense, rappresentata da G.R. Willey, elabora progetti di ricerca regionale in Mesopotamia, Iran e America Centrale volti alla conoscenza delle dimensioni degli insediamenti, delle tecniche di campionatura, della ricostruzione dei rapporti tra ambiente naturale e tipi di insediamenti e dell'evoluzione socioculturale dei gruppi che hanno occupato spazi regionali.
Se la new archaeology ha dato impulso a orientamenti e prospettive diverse nei metodi della ricerca, non ha eliminato la difficoltà di base di collegare un ampio bagaglio teorico ai dati archeologici, non sempre completi ed esaurienti. Le critiche al nuovo orientamento sono partite dai maggiori esponenti delle università più tradizionaliste degli Stati Uniti, le cui opere teoriche d'impronta strutturalista si occupano in prevalenza del contesto dei ritrovamenti e dello studio dei processi mentali che hanno determinato la produzione tecnica e l'organizzazione sociale dei gruppi preistorici. B.G. Trigger, in Time and tradition (1978), critica i limiti nei quali l'applicazione dei modelli costringe la ricerca archeologica e auspica il ritorno all'approccio storiografico tradizionale, evidenziando le carenze del materialismo culturale e del neoevoluzionismo che hanno privilegiato la tecnologia e il condizionamento ambientale. Nella stessa ottica si pone K. Flannery, il quale consiglia più ampia considerazione per i problemi cronologici e propone la sostituzione delle tecniche di ricerca dell'archeologia tradizionale con l'approccio scientifico basato sull'analisi delle condizioni materiali della produzione, nel momento di passaggio dall'attività di raccolta del cibo all'attività agricola sedentaria.
Per quanto riguarda gli orientamenti della paletnologia in Europa negli ultimi vent'anni, la Francia presenta caratteristiche del tutto particolari. Gli studiosi francesi, pur seguendo con attenzione le teorie della new archaeology, hanno infatti mantenuto un approccio alla ricerca del tutto tradizionale. Questo fenomeno trova una spiegazione nelle varie componenti che hanno sempre caratterizzato la ricerca archeologica francese: la preferenza accordata agli studi del Paleolitico, che ha contribuito a dare grande importanza alla risoluzione di problemi cronologici e stratigrafici più che a quelli culturali, e il predominio che lo strutturalismo ha mantenuto negli studi antropologici. Accanto allo studio cronologico si è sviluppato l'interesse per la ricostruzione dei processi biologici e culturali che hanno determinato il comportamento umano e le scelte estetiche dell'uomo a opera soprattutto di A. Leroi-Gourhan, che in quest'ottica ha tentato l'interpretazione delle manifestazioni artistiche dell'uomo del Paleolitico, cercando di evidenziare l'insieme di regole che mettano in connessione tra loro gli elementi figurativi: un tentativo per l'interpretazione dei comportamenti culturali di contenuto simbolico in relazione alla complessità del sistema sociale di cui essi sono la rappresentazione simbolica. Nell'opera Le geste et la parole (1964-65) Leroi-Gourhan applica i principi del materialismo storico allo studio dei legami di parentela e alle attività di scambio nelle società antiche e i principi dello strutturalismo all'analisi delle strutture tecnologiche ed economiche per ricostruire i modi di vita e dei processi culturali.
Nel tentativo di superare i limiti nei quali lo strutturalismo aveva ristretto la ricerca, I. Hodder mette in evidenza l'importanza d'individuare gli elementi simbolici strettamente connessi al contesto sociale e ai suoi sviluppi cronologici, nonché il ruolo attivo della cultura materiale; Hodder espone i principi dell'archeologia ''post-processuale'' nell'opera Post-processual archaeology (1985), dove è sottolineata l'importanza di un approccio in cui l'uomo sia considerato al centro delle proprie attività, in quanto elemento attivo che opera in un contesto materiale ed è capace di crearsi un proprio mondo.
Al di là delle critiche nei confronti dell'archeologia processuale, studiosi statunitensi e inglesi propongono, negli ultimi anni Ottanta, nuovi approcci che prendono le mosse dallo strutturalismo e dal neo-marxismo. Insieme all'opera di Hodder Reading the past (1986; trad. it., 1992), i contributi più significativi dell'approccio simbolico-strutturale sono quelli dell'inglese C. Tilley (Reconstructing archaeology, 1978) e dello statunitense M. Leone (Some opinions about recovering mind, 1982). Tilley, influenzato dall'orientamento etnoarcheologico di Hodder, ribadisce il principio che considera l'uomo attivo nel mondo in cui vive e rifiuta l'approccio funzionalista e l'uso delle equazioni matematiche per la definizione dei sistemi sociali; mette invece l'accento sull'analisi del processo simbolico che unisce i gruppi all'oggetto e propone come finalità dell'analisi archeologica la comprensione, attraverso lo studio della cultura materiale, delle attività sociali in quanto manifestazioni ideologiche delle popolazioni antiche. Leone, nella prospettiva del materialismo storico marxista, rimprovera alla new archaeology lo svilimento dell'archeologia come disciplina storica e propone lo studio approfondito della mente dell'uomo preistorico, attraverso un approccio materialista.
Gli esponenti francesi della cultura marxista tendono ancora a restare autonomi dalla ricerca antropologica: ne è esempio l'opera di C. Meillassoux e M. Godelier, esponenti della scuola marxista di antropologia economica che privilegia l'interesse per le strutture economiche, interesse che poi si è diffuso negli Stati Uniti e nel Regno Unito. Meillassoux mostra come i rapporti di produzione siano determinanti anche per quelle strutture di parentela che sono d'interesse antropologico; Godelier, marxista strutturalista, conferma il fulcro dell'interesse antropologico nell'analisi della struttura delle comunità.
L'approccio allo studio della paletnologia nell'Europa centrale, erede di una lunga tradizione nel campo della tipologia descrittiva dei manufatti e delle loro associazioni nei contesti, è messo in evidenza da H. Müller-Karpe nel suo Handbuch der Vorgeschichte (1966-80): si tratta di un compendio della preistoria di tutto il mondo che contiene una grande quantità di dati sulle manifestazioni artistiche, la cultura materiale, gli insediamenti e i riti funerari dei popoli preistorici, dal Paleolitico all'età del Bronzo. L'importanza della tipologia e della classificazione dei materiali archeologici è ribadita dallo stesso Müller-Karpe nei volumi Prähistorische Bronzefunde in pubblicazione dal 1969 e in Einführung in die Vorgeschichte (1975; trad. it., 1979), dove sono esposti i principi e gli scopi della moderna paletnologia tedesca volti a individuare gli ambiti storici desunti dalle carte di distribuzione delle popolazioni antiche. I vari stadi culturali dal Paleolitico al Neolitico sono caratterizzati dall'evoluzione della coscienza che è all'origine dei diversi fenomeni culturali. L'attento studio della cultura materiale dei popoli antichi da parte dei paletnologi dell'Europa centrale ha contribuito a fornire la ricostruzione dell'origine di alcuni importanti fenomeni come quello della diffusione dell'arte delle situle hallstattiane, studiata da O. Hermann Frey.
Come è avvenuto per la paletnologia anglosassone, anche in Germania si è sviluppato l'interesse per i metodi matematici e statistici applicati all'archeologia (P. Ihn), mentre il tentativo d'integrarli al metodo tradizionale è stato fatto da K. Beinhauer per lo studio della necropoli di Novilara con particolare interesse per gli aspetti demografici distributivi e stratigrafici (Untersuchungen zu den eisenzeitlichen Bestattungsplätzen von Novilara, 1985); per lo studio dei Campi d'urne e della cultura di Hallstatt gli studiosi tedeschi hanno utilizzato i principi dell'archeologia dell'insediamento, che ha contribuito a chiarire la genesi e lo sviluppo degli insediamenti, secondo i principi esposti da H.J. Kuhn nel suo Einführung in die Siedlungsarchäologie (1977).
Gli anni Settanta segnano per la paletnologia italiana lo sviluppo dello studio della preistoria in relazione alle scienze naturali a opera di A. Broglio, B. Bagolini e P. Biagi. L'interesse per le ricerche di archeologia dell'insediamento si riscontra in Italia alla fine degli anni Settanta insieme a quello per le problematiche e dello scavo stratigrafico e dell'uso dei metodi quantitativi per l'analisi dei dati. La stretta relazione tra approccio storico e approccio antropologico è delineata, nel numero di Dialoghi di Archeologia del 1985, dai contributi di archeologi, paletnologi e storici dell'arte antica: si aprono così nuovi orizzonti alla disciplina che è destinata a uscire dai limiti delle scienze umanistiche per diventare una scienza sociale.
Bibl.: C. Renfrew, British prehistory: changing configurations, Londra 1974; B. Trigger, Time and tradition. Essays in archaeological interpretation, Edimburgo 1978; L.S. Klejn, Panorama de l'archéologie théorique, in L'archéologie d'aujourd'hui, Parigi 1980; Regional traditions of archaeological research, a cura di B. Trigger e I. Glover, in World Archaeology, 13, 2 (1981); Toward a history of archaeology, a cura di G. Daniel, Londra 1981; S.M. Cassano, A. Cazzella, A. Manfredini, M. Moscoloni, M. Mussi, Paletnologia, Roma 1984; G.R. Willey, J.A. Sabloff, A history of American archaeology, in American Antiquity, 1985; G. Bergonzi, La preistoria tra tradizione disciplinare e storia del pensiero, in Dialoghi di Archeologia, 3, 4 (1986); A. Guidi, Storia della paletnologia, Roma 1986; A. Cazzella, Manuale di paletnologia, ivi 1986; Id., Manuale di archeologia. Le società della preistoria, Roma-Bari 1989; M.J. Aitken, Science-based dating in archaeology, Londra-New York 1990; C. Renfrew, Archaeology, Londra 1991; Storia d'Europa. Preistoria e antichità, a cura di J. Guilaine e S. Settis, Torino 1994.
Antichità. - Con la fine degli anni Settanta si apre anche con riguardo alla storia della s. un periodo di grandi trasformazioni, che al momento non hanno prodotto ancora tutti gli esiti che potevano dare, ma che lasceranno comunque spazio a una certa continuità di riflessioni e interessi di studio. Naturalmente per il mondo antico, greco, romano e orientale, gli esiti di eventuali riconsiderazioni e ripensamenti di metodo non si faranno mai sentire con la forza e le conseguenze che possono investire la s. di altre epoche, in particolare di quella moderna e contemporanea; ma anche per l'età antica sono stati discussi i problemi del metodo e della scelta dei grandi orientamenti tematici, spesso nelle stesse sedi in cui sono stati affrontati quelli relativi alle altre fasi storiche. Gli anni qui considerati (1978-95) appaiono attraversati almeno da una doppia crisi. La prima crisi è quella dello storicismo idealista, a seguito della crescente affermazione, in ambito europeo (in Francia, ma anche in Italia e altrove) e americano, di una sociologia e antropologia di orientamento strutturalista o di forme non idealistiche di storicismo, ideologicamente caratterizzato in senso marxista, o di altre forme orientate verso la cultura materiale e i dati quantitativi e meno interessate alla storia come ricostruzione di forme politiche, di idee, di valori, di personaggi che li rappresentassero e incarnassero. Lo stesso periodo 1978-95 ha conosciuto mutamenti profondi politici e ideologici nei paesi con esperienze politiche socialiste, che hanno lasciato un panorama di profondo disorientamento anche in sede di produzione storiografica.
La crisi dello storicismo idealistico non ha potuto oscurare né per il mondo antico né per epoche successive il ruolo preponderante della tradizione storicistica in Italia. All'affermazione di un metodo di ricerca strutturalista, sentito nel 1967 da A. Momigliano come momento di ''decolonizzazione'' dall'influenza culturale tedesca, positivistica, ha costituito una solida remora sia la forza della tradizione culturale storicistica, classicista e filologica, sempre di alto livello in Italia, sia il fatto che le esigenze di storia sociale erano soddisfatte più dal versante di ricerche socioeconomiche, che non dalle pur bene accolte, ma mai divenute dominanti, prospettive strutturalistiche. Nell'ambito degli studi antichistici, da uno sguardo d'insieme risulta evidente che l'eredità dello storicismo idealistico non è stata raccolta, negli studi di storia antica, da forme di s. antistoricista. Più efficaci invero le contestazioni e le realizzazioni di altro tipo e versante: quello dell'interdisciplinarità, anch'essa strumento di revisione delle fondamenta dello storicismo idealistico. Ciò ha significato di fatto la limitata efficacia, già in termini di quantità di produzione storiografica, della ricerca strutturalista in Italia, e se mai, quando vi è stata, una forte dipendenza da moduli interpretativi proposti altrove.
Tuttavia è anche vero che negli studi sul mondo antico in generale, alcune categorie della ricerca sociologica, antropologica, strutturalistica, hanno avuto, pur in un contesto di preminente prospettiva diacronica, una considerevole presenza: la categoria della polarità, l'attenzione ai modi della comunicazione, come l'oralità e la scrittura (B. Gentili), lo sforzo di ricondurre a una categoria generale di portata antropologica (A. Giardina) la descrizione di alcune società antiche. Negli studi di storia greca ciò ha significato soprattutto un rinnovato interesse per la grecità coloniale, con particolare riguardo alla Magna Grecia e alla Sicilia (congressi periodici a Taranto e, con minore frequenza, a Palermo); ma in generale tutta la fase arcaica della storia greca se ne è avvantaggiata: la decifrazione del Miceneo (1953) ha continuato a dare i suoi frutti di scoperte e di interpretazioni, ma anche stimolato un rinnovato interesse per le età di transizione, le cosiddette età buie, in Italia (Istituto di studi micenei ed egeoanatolici del Consiglio nazionale delle ricerche, università di Roma) e fuori (Scuola svedese di Atene e altre istituzioni).
L'internazionalizzazione della ricerca, già rilevata da Momigliano per il periodo posteriore al 1960 (v. App. IV, iii, p. 492), è proseguita anche negli ultimi anni Settanta e negli anni Ottanta, come si riscontra nella realizzazione di incontri di studio e di opere collettive in tutti i paesi, che vedono moltiplicarsi gli scambi scientifici fra paesi diversi. Ciò si verifica nei più diversi paesi europei: basterà qui esemplificare con iniziative di studio e di pubblicazione in Italia, anche quelle più segnate da scelte ideologiche di fondo; in Gran Bretagna, dove la nuova edizione della Cambridge Ancient History ha accentuato la partecipazione internazionale degli studiosi; in Francia, in Germania e così via di seguito. A questa internazionalizzazione corrisponde, sul piano dell'organizzazione degli studi, una più profonda spinta al superamento dei confini nazionali e areali negli stessi contenuti della ricerca. Questo approccio, alquanto diverso da quello del vecchio storicismo, certamente più incentrato sull'idea e sul processo di formazione della nazione, ha comportato tra l'altro, nello stesso ambito, un ravvivarsi, in forme nuove, dell'interesse per la storia ellenistica, come punto d'incontro tra la civiltà greca e romana, e le civiltà orientali. In particolare, la fine degli anni Ottanta e gli anni Novanta hanno visto, in connessione con questo tipo d'interesse, una rivalutazione di M. Rostovtzeff, che era cominciata già al tempo dell'Unione Sovietica e che naturalmente ha avuto una sua continuazione anche negli anni successivi al 1989. Che poi alla prospettiva dell'interazione culturale, come proposta in sede teorica, non abbia fatto riscontro un'altrettanto forte realizzazione in termini storiografici, è solo un aspetto di quella relativa distanza tra teoria e pratica storiografica già a suo tempo rilevata da Momigliano.
I modi del contatto e i processi di acculturazione sono stati fatti comunque valere anche all'interno delle aree tradizionali della ricerca di storia antica (Grecia e Roma, influenze greche su Roma), ora col vantaggio di più compiute acquisizioni della complessità culturale della Roma arcaica, e in generale della storia politica e culturale del Mediterraneo, ora anche col rischio di qualche accentuazione unilaterale: certo, la complessa stratificazione culturale che Roma e l'Italia presentano è un dato che si va acquisendo con sempre maggiore chiarezza. A maggior ragione, l'esigenza di una visione ampia degli scambi tra aree diverse è stata fatta valere per i rapporti tra Occidente e Oriente, e fra le stesse regioni orientali, con in più (M. Liverani) uno sforzo di demitizzazione, cioè di confutazione di rappresentazioni tradizionali dell'Oriente inteso come una sorta di mitica unità, contrapponibile all'Occidente in una rozza polarità, o della sua interpretazione come una sorta di Eden.
Una visione articolata e realistica, non frammentaria e però neanche artificiosamente unitaria, caratterizza la ricerca sull'Oriente antico, avvalendosi dei frutti di una ricerca archeologica di prim'ordine, che ha arricchito la conoscenza dell'ambiente fenicio e punico, come di grandi centri siriaci e anatolici. L'arco di tempo che compete alle civiltà orientali, per essere più ampio di quello proprio della civiltà classica, ha permesso d'impostare fruttuosamente proprio per l'antico Oriente i problemi delle origini delle strutture sociali, culturali, ambientali e, in parte, anche politiche della storia dell'umanità (dalle strutture di villaggio alle prime formazioni urbane, dalle organizzazioni palaziali alle strutture archivistiche e alla storia della scrittura, dalle forme nomadistiche alle vicende e trasformazioni del paesaggio rurale, all'organizzazione stessa degli spazi e del territorio protourbani, urbani, extraurbani). Convince di meno l'idea che la s. razionale, critica, laica, che l'Occidente greco-romano produce, sia quasi un difetto o uno svantaggio, di fronte all'assenza di una s. delle stesse dimensioni e dello stesso impegno per l'Oriente antico, e che l'assenza di un filtro storiografico paragonabile a quello del mondo greco-romano sia da considerare invece un vantaggio, e torni a maggiore oggettività della nostra rappresentazione storica dell'Oriente: ogni rappresentazione storiografica è al tempo stesso un sicuro arricchimento e un possibile rischio di unilateralità; ma questo vale per qualunque rappresentazione, che filtri eventi e personaggi del passato. Se la sola possibilità di una revisione critica, sempre indispensabile, dovesse rendere superfluo il lavorio interpretativo dello storico e in particolare, per quel che qui interessa, il travaglio critico della s. occidentale, ciò equivarrebbe a rinunciare al primo punto di riferimento per l'avvio stesso di una discussione storica.
Il contributo d'illuminazione storica che, comunque, dall'Oriente proviene per i periodi più antichi della storia mediterranea ha fruttato necessariamente una particolare apertura alle indagini di carattere antropologico, semiologico, ma anche tecnologico, a forme arcaiche di economia e di mercato, agli inizi stessi dell'economia monetaria, nell'ambito degli studi orientalistici. Ciò spiega anche l'orgogliosa affermazione degli studiosi dell'Oriente antico di operare come in una sorta di ''laboratorio'' per tutti questi aspetti. Non diversamente, nell'ambito della ricerca sulla grecità antica si fa valere la funzione di ''laboratorio'' che il mondo greco assume, per esperienze e fenomeni come la democrazia e la storia, che lambiscono in qualche modo l'esperienza moderna, per il grado di approfondimento e consapevolezza che accompagna appunto l'esperienza politica, storiografica e comunicativa greca. È conseguenza naturale che i temi dell'Oriente antico siano stati trattati con un approccio ideologico particolare. La riflessione marxiana sulle diverse forme di società e di economia, sulla loro eventuale successione e sulle relative periodizzazioni, produceva, accanto a forme dogmatiche, che la storia politica e culturale degli ultimi anni ha messo in crisi, l'acquisizione di categorie comunque utili per l'impostazione delle ricerche storiche come indagine su formazioni sociali complesse. In questo quadro un particolare significato ha avuto, come già sottolineava Momigliano, la rilettura disinibita dei Grundrisse marxiani, e l'uso non dogmatico della categoria di modo di produzione, in particolare di modo di produzione asiatico, su cui soprattutto negli anni Settanta si è svolta una vivace discussione sia in sede teorica, sia in sede più direttamente storiografica: tanto più che la categoria si presentava fin dall'origine come assai più duttile di quella di modo di produzione schiavistico. Alla prova dei fatti proprio tale categoria, accanto a quella di servitù rurale, e a quella, più in generale, di dipendenza, accompagnata dalla consapevolezza della molteplicità (spettro) delle forme di dipendenza, della contiguità delle diverse forme di non-libertà, e della reale possibilità di una loro coabitazione nello stesso sistema socioeconomico, alleggeriva già negli ultimi anni del socialismo reale la pressione di schemi e vincoli ideologici sulla ricerca storica (si pensi per es. alla produzione di H. Kreissig sulla società ellenistica).
La crisi delle ideologie non sembra dover comportare sul piano storiografico una minore attenzione al tema degli interessi e dei conflitti economici, ma certamente accelera la rimozione, già da anni avviata, di una rigida nozione di classe sociale. Si verifica comunque, sul terreno metodologico, la tendenza dei diversi metodi di analisi storica a sommarsi e integrarsi fra loro, più che a combattersi o escludersi. Riacquistano perciò peso nella ricerca storica quegli aspetti di portata generale, quei ''contenitori'', si può dire, all'interno dei quali si pongono le differenze e le stesse possibilità di conflitto: perciò, il rinnovato interesse per il ''politico'' nelle diverse società, e la sempre crescente attenzione alle forme mentali, alle mentalità, che non esclude la considerazione dei conflitti sociali ed economici, ma che rappresenta il grande schermo, su cui si proiettano gli aspetti di differenziazione e di contrasto esistenti nelle diverse società. Corrisponde all'evoluzione dei tempi il forte interesse per il classico tema della democrazia (sui cui aspetti istituzionali e procedurali ottimi contributi ha dato il danese M.H. Hansen, in un campo, quello della storia antica, in cui fin dall'inizio dell'Ottocento è stato forte l'apporto dell'ambiente di provenienza alla valorizzazione del politico); e l'attenzione al profilo sociopolitico matura nel riconoscimento del ruolo essenziale (D. Musti) della coppia di categorie del privato e del pubblico nell'esperienza politica e culturale greca e, in generale, classica.
Comune alle s. sull'Oriente e l'Occidente antichi appare l'applicazione dei principi della ricerca semiologica e antropologica, dello studio del territorio, della ricerca potremmo dire ''larga'' sullo spazio e sulle sue articolazioni e connotazioni. Importante quindi lo sforzo di ricerca nell'ambito della geografia storica dell'antichità, già con studi attinenti a testi essenziali, come Strabone o Pausania. L'Oriente offre particolare copia di materiale per lo studio del paesaggio rurale o della cultura del villaggio (puntualmente estesa al mondo greco e romano, se non per tutte le aree e tutte le epoche della sua storia, almeno per le aree interne e di popolamento indigeno, e soprattutto per l'epoca ellenistica o ellenistico-romana); vale per tutti i periodi e tutte le realtà regionali la ricerca demografica, ma lo stesso studio delle realtà regionali è un desideratum della ricerca storica per tutte le epoche e tutti gli ambiti culturali. Immediatamente correlate le tematiche del nomadismo o, per converso, delle realtà urbane e delle soluzioni urbanistiche per lo stesso Oriente.
La prospettiva regionalistica, che ormai sempre più decisamente integra la visione diacronica, porta a una più attenta valutazione di specificità storiche: l'orientalistica appare così in grado di valutare la specificità d'Israele, come di estendere la sua attenzione alle regioni dell'Asia centrale o alle culture preislamiche della stessa penisola araba. Oggetto della ricerca storica orientalistica diventano il mondo delle istituzioni e i diversi diritti nazionali e locali, così come le tecniche agricole che contrassegnano la storia economica di diverse regioni o l'area di diffusione di un animale da trasporto e da combattimento, quale il cavallo, e il suo valore nell'ambito delle comunicazioni, così come in quello delle strutture e tecniche militari e dei correlati ruoli sociali.
In tutte le discipline storiche antichistiche forti riflessi hanno avuto i progressi delle diverse archeologie, e la migliore organizzazione dello scambio e confronto internazionale di informazioni scientifiche. A misurare del resto l'impatto delle scoperte archeologiche, soprattutto quelle che hanno consentito la conoscenza di siti o di documenti in forma sistematica, basterà ricordare, per l'antico Oriente, il ritrovamento di archivi di grandiose proporzioni a Ebla (Tell Mardīkh), in Siria, o di forme d'impianto urbano a Malatya, in Turchia (con importante partecipazione dell'università di Roma ''La Sapienza'': P. Matthiae, S. Puglisi, A. Palmieri e altri archeologi) e il reperimento di sempre nuovi materiali nei siti della civiltà fenicia e punica, dall'area siropalestinese all'Africa (Cartagine, Kerkouane), nel quadro di una collaborazione internazionale fra archeologi e storici, francesi, inglesi, italiani, e naturalmente degli stessi paesi africani e del Medio Oriente, alla Sicilia e alla Sardegna (da Mozia nella prima isola a Tharros nella seconda). Fondamentale, per l'arricchimento delle conoscenze sul mondo fenicio-punico e su altre aree dell'Oriente antico, l'attività di S. Moscati e della sua scuola, per il costante nesso tra ricerca archeologica e storica e per l'ampiezza e sistematicità risultanti dall'inserimento delle indagini areali nel quadro di una prospettiva storica di portata mediterranea. Per il mondo egeo hanno avuto riflessi sulla s. le ricerche su vecchi siti o le scoperte di nuovi per l'epoca minoica e micenea, così come per le regioni del mondo classico hanno fortemente stimolato la ricerca storica i risultati degli scavi in siti della colonizzazione greca, o le ricerche su centri etruschi o diffuse presenze romane, accanto a quelle sempre vitali nelle aree e nei siti più tradizionali del mondo greco e romano.
Gli anni che vanno dal 1960 a oggi hanno conosciuto una parabola impressionante, quanto a ruolo delle ideologie: dalle più combattive posizioni ideologiche di ambito marxista degli anni più vicini al dopoguerra fino alle revisioni antidogmatiche dei decenni successivi, con l'impennata di posizioni più marcate negli anni Sessanta, a ridosso del 1968, insieme con un diffondersi di tendenze positivistiche e relativistiche, a un ''deregolamentarsi'' della ricerca e del metodo, rispetto alla vocazione ipercritica di matrice positivistica degli ultimi decenni dell'Ottocento e dei primi del Novecento, fino alla prima guerra mondiale. L'attenuarsi delle istanze filologiche e ipercritiche, in larga parte di matrice tedesca, già negli anni del primo dopoguerra, apriva la strada alla produzione ideologicamente caratterizzata e diversificata del secondo dopoguerra, con le opzioni marxista, liberale e strutturalista, sullo sfondo della crisi dello storicismo idealistico, già descritta a suo tempo da Momigliano, e della ''decolonizzazione'', da lui documentata e però anche auspicata, dal tradizionalismo filologico-positivistico della cultura tedesca; al tempo stesso veniva riconosciuto il ruolo di altre s., specie quella strutturalista francese espressa dalle Annales e quella, permeata sì di interessi sociologici, ma di taglio empirico e pragmatico, di prospettiva liberista, propria dell'ambiente americano, venuta spesso in conflitto con la concezione storica marxista. La s. europea, in complesso, si mostrava più stimolata dal versante francese che da quello americano, anche per la maggiore individuabilità del gruppo di studiosi che hanno espresso quella tendenza (per il mondo antico, J.-P. Vernant, P. Vidal-Naquet, P. Veyne).
Negli studi di problematiche sociologiche e antropologiche hanno avuto un enorme incremento, del tutto conforme agli sviluppi politici e culturali mondiali, quegli aspetti della storia antica che ruotano intorno al concetto e alla prospettiva dell'interrelazione e dell'interazione, dell'acculturazione e dello scambio fra popoli diversi. L'intreccio della ricerca storica tradizionale con i metodi delle scienze esatte e lo sforzo di estenderne i risultati, anche attraverso le verifiche consentite dall'archeologia, al mondo antico, ha comportato uno sviluppo delle ricerche sul territorio e sugli aspetti demografici, con introduzione di metodi statistici, fin dove possibile per il mondo antico; e questa forma di interdisciplinarità si spinge sino allo studio dei dati paleobotanici e dei profili climatologici. Le ricerche di storia socioeconomica, sul lavoro e le varie forme di produttività, apporto specialissimo della riflessione marxista, si sono integrate con quelle su altri aspetti della condizione umana, in particolare con i temi della marginalità ''interna'' alle strutture stesse, perciò della condizione femminile, con rivisitazione e aggiornamento di vecchi clichés: la condizione della donna nel mondo antico è apparsa, in studi francesi come tedeschi (C. Mossé, W. Schuller), meno negativa di quello che era a lungo sembrata. In generale riprende fiato la ricerca sulle mentalità, già verificabile in ambito accademico, con l'istituzione di relativi corsi d'insegnamento: un modo nuovo, meno schematico, proprio perché integra con la prospettiva antropologica lo studio delle condizioni materiali, per verificare i rapporti interpersonali e interculturali, e però anche le rispettive distinzioni.
La preparazione di una nuova storia dello sviluppo culturale e tecnologico dell'umanità, a cura dell'UNESCO (History of scientific and cultural development of mankind/Histoire du développement scientifique et culturel de l'humanité), nella sua prospettiva di storia universale, rivela il ventaglio di temi e problemi che oggi attira l'attenzione degli storici. Per il mondo antico ciò porta a una rinnovata considerazione dei temi dello sviluppo urbano e del territorio, del commercio e degli scambi, della diffusione della moneta e della scrittura, dello sviluppo delle vie di comunicazione e delle forme e dei mezzi di trasporto. La ricerca sulla tecnologia e sulle macchine nel mondo antico ha riguardato, com'è naturale, in particolare le macchine belliche (A. Giardina), ma anche quelle relative al lavoro. Se un tipo di approccio, di matrice marxiana, verteva sull'efficacia delle forme di produzione e sullo sviluppo tecnologico e la sua eventuale stagnazione (l'impiego di schiavi avrebbe ritardato il progresso tecnico, rendendolo superfluo), si può affermare che in più recenti ricerche assume nuovamente peso la considerazione degli aspetti propriamente tecnici e anche di mentalità, più ancora del vincolante problema del rapporto tra tecnologia e forza-lavoro.
Si profila anche la necessità, che è stata parzialmente soddisfatta nel progetto UNESCO, di verificare le condizioni per la nascita dell'Europa dalla fine dell'impero romano, attraverso la formazione di nuove entità etniche e statali, la creazione di nuovi assi della comunicazione e della circolazione, l'alterarsi del ruolo del Mediterraneo, in concreto delle città costiere e meridionali, per l'emergere di grandi centri e il formarsi di grandi aree produttive, nonché lo spostarsi delle grandi linee di comunicazione, con il declino dell'impero romano, più a nord delle vecchie capitali e regioni produttive; un movimento storico che fa seguito a uno precedente di meridionalizzazione e mediterraneizzazione (v. anche tardoantico, in questa Appendice). Nasce una nuova assialità che si spiega nei termini della concezione braudeliana della storia del Mediterraneo e delle economie-mondo succedutesi nella storia, dopo l'entrata in crisi dell'area mediterranea.
Domina dunque il tema dei contatti, della comunicazione, degli scambi, dell'interrelazione, anche se ciò ha portato, come naturale compensazione, al fiorire recentissimo, specie in ambito americano e tedesco, dei temi dell'identità: identità di statuto personale, perciò identità cittadina, ma anche, benché in minor misura, dati i rischi che ciò sembrava comportare, identità etniche, linguistiche, religiose.
Già l'enunciazione qui fatta di temi e ambienti di ricerca, con la menzione più volte occorsa dell'apporto tedesco, indica un forte recupero di questo ambiente di studi − al di là dei temi filologici e delle scienze positive, in cui l'apporto e il livello qualitativo della tradizione scientifica non sono mai venuti meno nelle due parti della Germania − anche sul terreno delle proposte e delle prospettive di metodo. Anzi, nel quadro di quel maggiore impegno metodologico, che la nuova situazione degli studi ha sviluppato, gli ambienti che più hanno rinnovato l'interesse per i temi di storia della s. sono proprio quello americano e quello tedesco. In Italia, ricerche di questo genere, sulla scorta dei lavori di S. Mazzarino e di A. Momigliano, sono continuate, con apporti specifici, su Erodoto, Tucidide, Polibio, Dionisio d'Alicarnasso, Pausania; negli Stati Uniti e in Germania si è avuta maggior produzione, là di riviste su temi storiografici, qua di importanti sintesi di storiografia.
Rinnovato interesse hanno avuto, soprattutto in ambito americano e tedesco, francese e spagnolo, i temi della guerra e della diplomazia, della pace e degli accordi bellici: ricerche di storia romana sono state sollecitate, per quanto riguarda il problema delle origini di Roma (rapporti col mondo greco e in generale con l'area mediterranea), dalle scoperte archeologiche e dal crescente interesse per la sociologia, o, per quanto riguarda i temi della tarda antichità, di nuovo dall'archeologia e però anche dal problema delle forme e dei tempi del passaggio da un tipo di società a un altro o, in termini marxiani, da un modo di produzione a un altro. Sotto questa spinta le ricerche di storia agraria, così caratteristiche sin dall'Ottocento per il mondo romano, essendosi incentrate sul tema dell'utilizzazione di manodopera schiavistica, hanno finito col distaccarsi dall'esclusiva prospettiva graccana e postgraccana, cioè dai temi dell'ager publicus e del modus agrorum, per rivolgersi alla caratterizzazione di un'intera epoca di storia agraria, nell'utilizzazione di determinata forza-lavoro, assumendo perciò l'aspetto di ricerche su un'intera formazione economico-sociale, con studi sulla schiavitù e sulla tarda antichità, in una forma certamente non dogmatica. È significativo anche l'ampliarsi progressivo del campo d'interessi della scuola di Besançon, formatasi intorno a P. Lévêque, dalle tematiche più schiettamente socioeconomiche fino a prospettive di carattere socioantropologico, che vanno dagli aspetti di storia religiosa dell'antichità, specialmente greca, ai passaggi di età e relativi riti (convegno internazionale tenutosi a Roma nel 1986).
La ricerca storica ha conosciuto, alla fine degli anni Settanta e negli anni Ottanta, una crisi d'identità pari alla disideologizzazione crescente. Il processo ha assunto portata del tutto nuova, per effetto delle grandi trasformazioni che hanno investito i paesi dell'Europa orientale soprattutto dal 1989. In Italia, tuttavia, la presenza di una forte tradizione filologica e storicistica, non più idealistica, ma, anche quando volta alle tematiche socioeconomiche, sorretta da un vivace spirito critico e da un atteggiamento non dogmatico, garantisce dai rischi di una crisi devastante della ricerca storica. La crisi delle ideologie, da un lato, e il moltiplicarsi, ma anche le incertezze, delle nuove metodologie, dall'altro, sembrano solo aver confermato l'opportunità d'un approccio storicistico, per altro ben radicato nella nostra tradizione di studi, e di una dimensione così ampia, per contenuti e metodi, da essere definita storicismo o realismo ''integrale''.
In questo quadro sono diventati oggetto di studio, per il mondo romano tardorepubblicano e imperiale, così la villa, con le sue strutture anelastiche, come l'organizzazione e gli scambi di carattere regionale, con particolare interesse per l'Oriente e per l'Africa, e per i rapporti tra queste regioni e l'Italia; a questo proposito vanno segnalati i periodici e ormai numerosi convegni sull'Africa romana, che si tengono a Sassari e investono molte problematiche storiche dell'intero Mediterraneo occidentale. L'interesse sempre maggiore per la storia religiosa dell'impero si collega naturalmente con l'attenuarsi della visione ideologica, esclusivamente socioeconomica, del succedersi delle varie formazioni sociali nel mondo antico, ma anche con una più attenta considerazione delle peculiarità regionali nel mondo romano. Il ''politico'' sembra tornare a essere il grande contenitore degli aspetti socioeconomici, riguadagnando un suo ruolo preminente, o quanto meno organizzatore e ordinatore dei processi storici, e così pure il contesto culturale, inteso nel senso più ampio, che investe fortemente anche l'ambito delle idee religiose, in una contiguità e in una dimensione che nel loro insieme configurano già una prospettiva antropologica. Quanto più empiricamente differenziate sono le metodologie, tanto più forte si avverte il bisogno di analisi teoriche sul metodo, e questo spiega il fiorire di studi, e più ancora di periodici, centrati sui problemi epistemologici, da History and Theory a Past and Present ad altri ancora, per lo più pubblicati negli Stati Uniti, ma aperti e destinati a una larga collaborazione internazionale (come History of the Historiography), dove hanno posto temi di storia antica e di storie più recenti.
Bibl.: Per un quadro generale della s. italiana fino al 1986, cfr. i volumi degli Atti del convegno della Società degli storici italiani, tenutosi ad Arezzo (2-6 giugno 1986), pubblicati a cura di L. de Rosa, La storiografia italiana degli ultimi venti anni, i, Antichità e Medioevo, Roma-Bari 1989 (M. Liverani, L'Oriente antico, pp. 3-34; D. Musti, La storia greca, pp. 35-66; M. Mazza, La storia romana, pp. 67-184); inoltre D. Musti, La storiografia del Novecento sul mondo antico, in Riv. Cultura Classica e Medievale, 33, 2 (1991), pp. 99-113. Cfr. inoltre G.G. Iggers, Nuove tendenze della storiografia contemporanea, trad. it. con introd. di N. Mazza, Catania 1981. Contengono aggiornamenti bibliografici, per la storia orientale, M. Liverani, Antico Oriente. Storia società economia, Roma-Bari 1988; per quella greca: D. Musti, Storia greca. Linee di sviluppo dall'età micenea all'età romana, ivi 1989; per Roma: Storia di Roma, diretta da A. Momigliano (dopo la scomparsa di quest'ultimo, da E. Gabba) e A. Schiavone, 4 voll. (in 7 tomi), Torino 1988-93. La bibliografia che segue rappresenta solo una scelta esemplificativa, nell'ambito di una produzione di dimensioni vastissime.
Per le ricerche di tema socioeconomico promosse dall'Istituto Gramsci: Società romana e produzione schiavistica, a cura di A. Giardina e A. Schiavone, 3 voll., Roma-Bari 1981; Società romana e impero tardoantico, a cura di A. Giardina, 4 voll., ivi 1986. Per quanto riguarda l'ambito fenicio-punico si rinvia all'imponente bibliografia di S. Moscati, della quale si ricorderanno almeno Il mondo dei Fenici, Milano 1968, 19792; l'opera miscellanea L'alba della civiltà. Società, economia, pensiero nel Vicino Oriente antico, 3 voll., da lui curata, Torino 1976; Il mondo punico, Torino 1980; Italia punica, Milano 1986; Scritti fenici minori, Roma 1988 (con bibliografia dell'autore alle pp. 9-17), oltre ai volumi degli Atti dei convegni promossi periodicamente dall'Istituto da lui presieduto per lo studio della civiltà fenicia e punica del Consiglio Nazionale delle Ricerche. Per il passaggio dall'età micenea a quella delle poleis, nelle cosiddette ''età buie'': AA.VV., The Greek renaissance of the eighth century B. C. Tradition and innovation, a cura di R. Hägg ("Acta Inst. Regni Sueciae", Simposio di Atene, 1981), Stoccolma 1983; AA.VV., La transizione dal miceneo all'alto arcaismo, Atti del Convegno Internazionale Roma 1989, a cura di D. Musti, A. Sacconi, L. Rocchetti, M. Rocchi, E. Scafa, L. Sportiello, M.E. Giannotta, Roma 1991. Per lo studio comparativo dei vari tipi di città in aree ed epoche storiche diverse: M.A. Levi, La città antica. Morfologia e biografia della aggregazione urbana nell'antichità, Roma 1989. Sui Convegni di studi sulla Magna Grecia che si svolgono annualmente a Taranto, v. i relativi Atti, che si pubblicano a Napoli dal 1961. Gli Atti dei quadriennali Convegni internazionali di studi sulla Sicilia antica si pubblicano nella rivista Kokalos. Sugli aspetti dell'acculturazione, nei diversi ambiti coloniali relativi a popoli orientali, greci, romani: AA.VV., Forme di contatto e processi di trasformazione nelle società antiche (Modes de contact et processus de transformation dans les sociétés anciennes), Pisa-Roma 1983 (Atti del colloquio di Cortona 1981). Frutto della stessa collaborazione italo-francese la Bibliografia critica della colonizzazione greca in Italia e nelle isole tirreniche, diretta da G. Nenci e G. Vallet, Pisa-Ecole frana̧ise de Rome 1977 ss. Per il rafforzato ruolo delle indagini sul ''politico'' nell'antichità, e in particolare la democrazia ateniese: M.H. Hansen, The Athenian Ecclesia, i-ii, Copenaghen 1983, 1989; D. Musti, Privato e pubblico nella democrazia periclea, in Quad. Urb. Cult. Class., 20 (1985), pp. 7-17; Chr. Meier, Die Entstehung des Politischen bei den Griechen, Francoforte s.M. 1987; P. Vidal-Naquet, La démocratie grecque vue d'ailleurs, Parigi 1990; M.H. Hansen, The Athenian democracy in the age of Demosthenes, Oxford 1991; D. Musti, Demokratia. Origini di un'idea, Roma-Bari 1995. Sulla società ellenistica: H. Kreissig, Wirtschaft und Gesellschaft im Seleukidenreich. Die Eigentums- und die Abhängigkeitsverhältnisse, Berlino 1978; Geschichte des Hellenismus, ivi 1982. Fra le raccolte di studi di profilo antropologico: L'uomo romano, a cura di A. Giardina, Roma-Bari 1990. Per la condizione femminile: C. Mossé, La femme dans la Grèce antique, Parigi 1983; W. Schuller, Frauen in der griechischen Geschichte, Costanza 1985; Id., Frauen in der roemischen Geschichte, ivi 1985; C. Mossé, La Grecia al femminile, Roma-Bari 1993. Sui temi della comunicazione, dell'oralità, del loro ruolo socioantropologico: B. Gentili, Poesia e pubblico nella Grecia antica, Roma-Bari 1984. Per nuove indagini sugli aspetti della tecnologia antica: J. Handels, Engineering in the ancient world, Londra 1978; K.D. White, Greek and Roman technology, ivi 1984. Sugli aspetti prevalentemente archeologici della nascita dell'Europa: AA.VV., The birth of Europe: Archaeology and social development in the first millennium A. D., "Analecta Romana Instituti Danici", Roma 1989. Per il ricorrere nella bibliografia del tema dell'identità: Chr. Meier, P. Veyne, L'identità del cittadino e la democrazia in Grecia, Bologna 1989; Athenian identity and civic ideology, a cura di A.L. Boegehold e A. Scafuro, Baltimora-Londra 1993. Sui riti di passaggio, visti nella loro efficacia sociale: Rites de passage dans l'antiquité, a cura di P. Lévêque, in Mélanges de l'Ecole Frana̧ise de Rome, 102 (1990), 1, pp. 7-137.
Medioevo. - La s. del Medioevo occidentale ha conosciuto nel periodo 1978-94 un'accentuazione del divario già segnalato in genere per ogni s. tra epistemologia della scrittura storica e s. militante. Ciò nel senso che ogni residuo di teoria generale della storia d'impronta marxista o si è andato progressivamente confondendo con le tesi propugnate dalla rivista francese delle Annales o ha percorso le vie sperimentali dell'antropologia culturale, della sociologia, del recupero, attraverso la ricostruzione della cosiddetta ''cultura materiale'', delle tipologie di vita quotidiana, indipendentemente dai connotati politici, ideologici, religiosi, al più considerati come ''cofattori'' propri di una società. L'attenzione sempre maggiore all'''uomo'' e al suo ambiente naturale, più che alle forme e ai motivi del suo organizzarsi nella società, del resto, ha accentuato una tendenza insita nell'insegnamento delle Annales a considerare più le continuità che le dialettiche del processo storico (la ''storia immobile'' di E. Le Roy Ladurie; il ''lungo periodo'' di F. Braudel). La crisi dello storicismo ha, dal canto suo, vanificato ogni idea di coincidenza di quel processo con un progresso immanente nella storia (G. Sasso, Tramonto di un mito. L'idea di progresso fra Ottocento e Novecento, 1984). Tutto ciò ha portato − più in teoria, d'altro canto, che nella realtà storiografica − anche a una ''svalutazione'' della tradizionale periodizzazione: a tal segno che sono invalse altre partizioni, come "età preindustriale", "epoca di antico regime", "secoli di transizione", che non riuscivano comunque a togliere né il connotato ''finalistico'' delle nuove denominazioni o aggettivazioni, né l'implicita positività contenuta nelle caratterizzazioni assunte da un ''nuovo regime'', da un'''epoca industriale'', da una ''transizione compiuta''. Ciò che mutava era il parametro: sociale ed economico nella s. contemporanea, come politico-statuale, etico-politico, ideologico-culturale era stato sino a ieri. La storicità di un periodo qual era stato considerato il Medioevo veniva messa in crisi, come venivano messi in crisi i contenuti istituzionali (Stato, Impero, Chiesa), intesi o come troppo attualizzanti o come mistificazioni storiografiche. È appena il caso di aggiungere che la crisi dei nazionalismi, dei razzismi, degli imperialismi susseguitasi al declino politico, economico e anche culturale dell'Europa (che ne era stata variamente portatrice e assertrice) giocò un ruolo non indifferente in questo mutamento, che, comunque, determinò di fatto l'orientarsi verso nuove aggregazioni storiografiche per un pur necessario ''medioevo''. Orientamento, s'intende, diverso a seconda dei punti di partenza, come in particolar modo per la medievistica francese e per quella tedesca e per le implicazioni e suggestioni − ma sempre con verifica dell'originalità del processo − su quella italiana.
Ancora nella scia dell'impostazione delle Annales (quelle almeno della terza fase, di un G. Duby e di un J. Le Goff) era pur possibile soltanto nel 1991 scrivere L'histoire médiévale en France. Bilan et perspectives (con prefazione di G. Duby e testi raccolti da M. Balard). I dibattiti, gli ardimenti euristici, le ''scoperte'' che anche per il Medioevo la s. francese aveva conosciuto dagli anni Quaranta ai Sessanta, non hanno portato, nella valutazione più pacata dello stesso Duby (Préface, cit., p. 8), a "un ampliamento della problematica". Il bilancio di ben ventuno settori di ricerca censiti, dalla storia delle campagne alla storia dello spazio territoriale della Francia, dalla storia delle mentalità religiose a quella dei paesi contigui alla Francia (Spagna, Inghilterra, Italia, Impero), dalla storia intellettuale a quella dei rapporti tra antropologia e s., dall'archeologia alle scienze ausiliarie della storia, ecc., induce a riconoscere che oggi, e non solo in Francia, la ricerca è soprattutto ricerca di laboratorio, di indagini limitate e coltivate con metodo sperimentale, grazie anche alle straordinarie possibilità fornite dall'informatica, che però non si traduce più, come una volta, in un'epistemologia della storia quantitativa − come forse avveniva ancora con Braudel − quasi unica chiave accettabile e applicabile, ma si presenta come un più affidabile strumento di lavoro, non più soltanto fine a se stesso. Del resto significativo è il rilievo che ha assunto, nel nuovo approccio alla s., "la maniera in cui si scriveva la storia nel Medioevo", come dice il citato Duby (basterà ricordare l'opera di B. Guenée, Histoire et culture historique dans l'Occident médiéval, 1980; trad. it., 1991), per sottolineare un interesse diverso, non alternativo, alla storia delle strutture agrarie e latamente economiche come prevalente nella fase immediatamente precedente della medievistica francese, rilievo significativo, anche nel senso di una meditazione che, come si dirà, aveva preso le mosse con qualche precedenza proprio in Italia. E di una via parallela d'indagine, quella dell'archeologia, si può ben dire, per quanto concerne la ricerca compiuta in Francia, che "i progressi hanno qualcosa di spettacolare, come nel caso dell'archeologia della vita quotidiana, e di scoperte talvolta così sconvolgenti da obbligare a riconsiderare ipotesi e modelli costruiti a partire dai soli documenti scritti" (Duby, cit., p. 9). Il riequilibrio raggiunto da questa medievistica rispetto alle sintesi promananti dalla prima e dalla seconda generazione delle Annales, con il recupero della ricerca di settore, di laboratorio, ha un'identica positività e novità di risultati: un'accezione sempre più larga della storia sociale (che fruisce dei risultati dell'antropologia storica, della psicanalisi, della storia della filosofia e della teologia) riesce a ricomporre nel quadro di una società non parcellizzata anche la storia istituzionale, politica, perfino quella événementielle, quale esatto opposto dell'histoire en miettes, come, peraltro, è avvenuto in Italia per erronea interpretazione delle suggestioni che potevano derivare dalla lezione delle Annales. Questa storia quale esce dal recentissimo bilancio de l'Histoire médiévale en France appare destinata a proporsi come modello della s. medievistica. Ma non è la storia a n dimensioni, poiché settori come l'edizione di testi diplomatici, letterari, narrativi, dottrinali o la stessa storia delle istituzioni ecclesiastiche sono ancora o ancor meno rappresentati e frequentati o, piuttosto, riposti in secondo piano, come peraltro è innegabile una concentrazione delle ricerche non sull'''alto'' ma sul ''pieno Medioevo'' (secoli 11°-14°), il periodo cioè della formazione e affermazione della monarchia francese, da Filippo ii Augusto a Filippo il Bello. Singolarmente felice e feconda di risultati è stata d'altro canto la sperimentazione di un tale modello di storia sociale, operata da storici francesi in Italia: un solo nome, quello di P. Toubert, di cui si parlerà nella parte dedicata alla medievistica italiana, testimonia il livello ottimale di risultati conseguiti da questa medievistica.
Completamente diverso il discorso − sempre a grandi linee − per la medievistica tedesca, indotta da una profonda crisi morale e intellettuale a rivedere completamente i parametri interpretativi del proprio Medioevo che, imperniato nell'anteguerra sulla vicenda del Reich e sulle morfologie del suo potere e della sua struttura, successivamente è stato riconsiderato in autonomia dal mito imperiale tedesco. È anzitutto significativo che la Germania non abbia oggi da proporre un bilancio simile a quello francese, come è significativo che sia stata specialmente la medievistica italiana a preoccuparsi di offrire il bilancio dell'unico ''modello'' complessivo della s. germanica, ma peraltro estensibile oltre il Medioevo, quello cioè della Verfassungsgeschichte, intesa come ''storia costituzionale/sociale'' riconosciuta nelle sue molecole essenziali e perduranti del rapporto tra possesso e potere anche al di fuori del quadro dell'impero. I caratteri di questa s. sono l'accertamento caso per caso delle strutture istituzionali partendo dal basso, il ''farsi'' appunto (Verfassung) di un potere radicato su ambiti di dominazione territoriale ben precisi, in diacronie spesso diverse da quelle tradizionali. Di qui il rilievo dato al periodo compreso tra 6°-7° secolo e 10° secolo, all'effetto dirompente che su quella compattezza ha avuto il divorzio fra Papato e Impero; all'importanza del costituirsi di ceti ''funzionariali'' nelle entità politiche regionali; all'analisi del senso della libertà (Freiheit) originaria germanica, esprimentesi magari nella Blutherrschaft; all'individuazione dell'importanza del clero gallo-romano e franco-gallo nell'articolazione del potere in una regione emblematica della società fra tardo antico e alto Medioevo; al costituirsi degli organismi politici ed economici delle autonome istituzioni ecclesiastiche (episcopii e monasteri) e ''laiche'' (marche e ducati); alla revisione critica e sostanziale rifiuto degli schemi interpretativi forniti dall'indebita trasposizione al Medioevo tedesco dei modelli dello stato ''liberale'' ottocentesco. Sono queste alcune delle tematiche più considerate che stanno alla base delle opere storiograficamente più meditate di personalità di spicco quali O. Brunner (Land und Herrschaft. Grundfragen der territorialen Verfassungsgeschichte Oesterreichs im Mittelalter, 19655; trad. it., Terra e potere, introd. di P.A. Schiera, 1965; Sozialgeschichte Europas im Mittelalter, 1978; trad. it., Storia sociale dell'Europa nel Medioevo, introd. di O. Capitani, 1980); K. Bosl (Die Gesellschaft in der Geschichte des Mittelalters, 1975; trad. it., Modelli di società medievale, introd. di O. Capitani, 1979; Europa im Aufbruch. Herrschaft, Gesellschaft, Kultur vom 10. bis zum 14. Jahrhundert, 1980; trad. it. parziale, Il risveglio dell'Europa: l'Italia dei Comuni, introd. di O. Capitani, 1985); F. Prinz (Frühes Mönchtum im Frankreich. Kultur und Gesellschaft in Gallien, den Rheinlanden und Bayern am Beispiel der monastischen Entwicklung 4. bis 8. Jahrhundert, 19882). Anche in Germania, storia della società e della ''politica'' più accentuatamente che della ''economia'': ma complessivamente una storia affidata all'analisi minuziosa delle fonti, specialmente anche se non esclusivamente documentarie, e del loro specifico significato, senza tentazioni di anticipazioni semantiche estranee al ''tipico'' medievale. Il che spiega la straordinaria fioritura − unica nel mondo − di edizioni e riedizioni di cronache, diplomi, necrologi, scritti dottrinari, giuridici, di spiritualità, che ha caratterizzato la prodigiosa attività del massimo organo medievistico del mondo, i Monumenta Germaniae Historica. Da questa priorità del dato filologicamente accertato nasce, praticamente in ogni settore della medievistica, l'impressione non solo di rigore, ma di distacco nei riguardi di ogni problematica troppo ''coinvolgente'' che si voglia evincere dal dato testimoniale. E questo anche nei casi più classici del dibattito storiografico della medievistica tedesca (Papato e Impero) e della pubblicistica che ne derivò. La centralità che ha assunto l'utilizzazione di testi canonistici rinomatissimi, quali le Pseudo isidoriane e le collezioni di canones del secolo 11° nonché dei pamphlets a esse variamente ispirati, ha subito per opera di uno dei più eminenti e acuti studiosi della canonistica altomedievale, H. Fuhrmann, non a caso sino a poco tempo fa presidente dei Monumenta Germaniae Historica, una completa, talora radicale revisione proprio attraverso il riesame della tradizione manoscritta, l'individuazione dei centri di diffusione delle opere, la valutazione stessa della diffusione per il loro tramite di idee e prese di posizione (Einfluss und Verbreitung der pseudoisidorischen Fälschungen, 3 voll., 1972-74). E alla stessa prudenza e distacco, molto significativamente, appare ispirata dello stesso autore la Einladung ins Mittelalter (1987; trad. it., Guida al Medioevo, 1989).
La coincidenza tra acribia filologica e impegno alla sintesi che ancora qualche decennio or sono si registrava nei medievisti ''storici'' (più che nei filologi ''anche'' storici) sembra aver lasciato il posto − come in Francia, del resto, ma più vistosamente e deliberatamente − allo studio di laboratorio: per dire che è diverso il clima in cui operarono un H. Grundmann e un P. Classen, del quale ultimo si vorrà almeno ricordare la monografia su Gerhoh von Reichersberg. Eine Biographie (1960) e la raccolta di saggi Ausgewählte Aufsätze (1983), significativamente pubblicata dal Konstanzer Arbeitskreis für mittelalterliche Geschichte, che nella collana Vorträge und Forschungen si propone, se non in alternativa ai Monumenta, come occasione di s. pluriproblematica e saggistica, non strettamente legata e condizionata dall'ermeneutica di un testo preciso. Analogo discorso andrebbe fatto per la collana Monographien zur Geschichte des Mittelalters dell'editore Hiersemann di Stoccarda, attiva dal 1970, con il volume, che ha avuto notevole risonanza per ovvi motivi in Italia, di A. Haverkamp, Herrschaftsformen der frühstaufer Reichitaliens (1970). E a indicare un trend caratteristico di questa medievistica − la cui produzione, quasi come in Francia e in Italia, è immensa − si vorrà ancora ricordare il notevole rilievo che ha assunto l'opera di J. Miethke, per gli studi di storia del pensiero politico, nello sforzo di una sintesi tra massima cautela e scrupolo filologico e problematica storiografica di cui è esempio, dello stesso autore, Ockhams Weg zu Sozialgeschichte (1969).
Si sono così indicate le testimonianze delle due medievistiche più rilevanti in Europa, oltre a quella italiana, la cui vicenda, che è in debito e insieme autonoma rispetto alle stesse, dev'essere ripercorsa non solo attraverso un lineamento ovviamente più lungo e analitico, ma avendo ben chiaro il presupposto che, alla fine del secondo conflitto mondiale, la medievistica italiana era abbastanza chiaramente tagliata fuori dalle tematiche e dalle problematiche europee, come del resto hanno in più casi ribadito le non molte opere di storia della s. uscite specialmente tra la fine degli anni Sessanta e gli anni Ottanta, che saranno indicate più avanti.
Per l'Italia, ogni discorso sulla s. medievistica deve rifarsi a parametri non solo teorici, ma soprattutto cronologici diversi da quelli che possono essere assunti per altre aree culturali. E non solo per la quasi totale mancanza di riflessione sul senso dell'agire storico proprio del Medioevo sino agli anni Sessanta inoltrati (a parte singole dichiarazioni di fede medievistica, teoricamente non molto fondate), ma perché l'affermarsi, anche anteriormente al primo conflitto mondiale, del crocianesimo ne svuotò le motivazioni profonde, in un contesto di cultura storiografica e filosofica che andava scoprendo, con molte peculiarità oltre che con molte limitatezze di ''mestiere'', le possibilità interpretative di un Medioevo italico, d'impronta tematicamente ''romantica'', alla luce di una lettura di quel Medioevo in chiave di materialismo storico. Per dire che dovremo di necessità incominciare dagli inizi del 20° secolo e da G. Volpe.
Il ''caso'' Volpe si è presentato solo parzialmente e molto tardivamente come un problema di storia della s. medievale: ed è già questo un segno. Solo parzialmente perché si presentò come prospettiva ''unitaria'' della storia d'Italia, ereditata dalla s. romantica (desiderosa tuttavia di mostrarsi immune da questioni d'indipendenza dallo straniero o di germanesimo e latinità) senza un sostanziale approfondimento di problemi che altrove, specie in Germania, avevano e avrebbero comunque avuto uno sviluppo e un dibattito, circa la periodizzazione tra Medioevo ed età moderna (e poi tra Medioevo e Rinascimento e tra Umanesimo ''civile'' e Rinascimento, più o meno tirannico, di contro a utopie di libertas comunale), con la vera e propria ossessione di un recupero d'identità nazionale, magari attraverso le chiavi interpretative del ''materialismo storico'' o, come si disse, della ''scuola economico-giuridica''.
Sono da meditare in senso critico le affermazioni di B. Croce (Storia della storiografia italiana nel secolo decimonono, ii, 1930, pp. 143-46 e spec. p. 144) circa il fatto che nella s. di G. Salvemini e G. Volpe si fece valere "l'esigenza energicamente espressa del materialismo storico, in cui viene ristabilito il nesso tra storia ed esperienza politica del presente". Ragione per la quale era più che ovvio che in una prospettiva di "lotte sociali ed economiche e dei problemi intorno alla produzione della ricchezza" ci si volgesse alla storia comunale, dissolvendosi i problemi attribuiti alla "scuola storiografica neoguelfa" che, come già detto, si attardavano intorno a "germanesimo e romanità, libertà comunale ed Impero e simili", mentre "ora la scena storica veniva occupata dal differenziarsi e contendere di alta e bassa feudalità, di feudalità e borghesia, di popolo grasso e popolo minuto, di proprietari terrieri e contadini" (p. 145). Con il risultato che dovendosi, per virtù del materialismo storico, "diffidare delle ideologie", i moti ereticali, il francescanesimo, l'escatologismo apparivano espressioni delle forze economiche, onde le ire di F. Tocco. E significativamente − aggiungeva Croce − agiva Salvemini, il quale anticipava nella rivoluzione francese il significato di "quel che poi si chiamò movimento proletario; e nella storia del Risorgimento, dove prima si discorreva quasi soltanto d'eroi e di tiranni, di oppressione straniera e di ribellione nazionale, d'ideale e di delusioni, di scoraggiamenti e di ardimenti, si discorre ora invece assai di agricoltura, latifondi, artigianato, contadinato, differenze economiche tra le varie regioni, protezionismo, centri produttori, mercati" (p. 145). Era questo il risultato della "s. interessata nel senso buono della parola" (p. 146).
È pur troppo evidente − al di là della fin troppo facile critica che si potrebbe muovere a tante di queste affermazioni − che a Croce non interessava tanto il Medioevo come ''storicità'', in quanto al di sopra di essa ciò che contava era il ''senso'' unitario della nazione italiana. È legittimo chiedersi se il problema dell'identità ''unitaria'' della storia italiana potesse essere in qualche modo recuperato più concretamente e più latamente, al di là dei miti romantici recepiti nei termini della scuola economico-giuridica come indicato da Croce, così come è legittimo chiedersi se quel problema potesse dar luogo a una presa di coscienza vera e propria della storia d'Italia nel Medioevo, di cui Croce si precludeva ogni possibilità di avvicinamento, non per difetto di ''filologia'' ma per rifiuto (che ha un connotato nettamente illuministico) delle componenti reali di quel Medioevo. Non è un caso che nell'elenco dei presunti motivi di reazione di Tocco non sia fatto cenno a un pensiero politico, a un pensiero economico medievale, appartenendo essi − o così si doveva credere − al mondo della mitologia religiosa. Di questo solo in tempi recentissimi si è cominciato a discutere: ed è il segno di un radicamento molto più profondo di quanto si sia voluto far credere dal 1960 in poi del crocianesimo nella coscienza storiografica italiana, così come la ripresa sull'onda di ''cavalli di ritorno stranieri'' (le Annales, in primo luogo) di tematiche della cosiddetta scuola ''economico-giuridica'' di crociana memoria è anch'essa il segno che, dietro un ostentato rifiuto della lezione storiografica di Croce si celava un'incapacità di proporsi il problema del Medioevo italiano in termini diversi da quelli che il filosofo napoletano aveva indicato nel 1930.
Soltanto nel 1977 I. Cervelli nel volume Gioacchino Volpe riproponeva il caso Volpe, dopo un revival di tematiche volpiane di ambito medievistico immediatamente successivo alla crisi d'identità culturale che l'Italia conobbe molto più profonda di altre nazioni europee. Un revival peraltro condizionato dai timori di ''apologia'' di fascismo e preoccupato, perché di matrice cattolica, di apparire ''paramarxistico''. Il disegno della s. volpiana, non considerandone distinta la fase medievalistica da quella modernistica e contemporaneistica, nelle sue matrici culturali, tedesche (K. Lamprecht, K. Breisig, H. Brunner) e italiane (B. Croce, A. Labriola, soprattutto, più che G. Gentile), si presentava, anche per puntualizzazioni successive di C. Violante, come aspirazione a una storia ''totale'', da cogliersi nel suo fluire ''oggettivo'', senza dialettiche o antitesi sovrappostevi da interventi ideologici dell'interprete: storiograficamente ciò vuol dire il superamento di ogni contrapposizione tra ''professanti legge longobarda'' e ''professanti legge romana'', quale si manifesta in Lambardi e Romani nelle campagne e nelle città (in Studi storici di A. Crivellucci, 1904-05; rist. 1976), di ogni antitesi tra città e contado, nella formazione del Comune italiano, di ogni ''monocausa'' o ''necessità'', quali si colgono in Medioevo italiano (si veda l'edizione con Introduzione di C. Violante, 1992, pp. v-xli), il conseguente senso di coralità anche negli aspetti istituzionali che è manifestato in Toscana medievale (1964) o in Studi sulle istituzioni comunali a Pisa nei secoli XII-XIII (1902). La medievistica volpiana oggi si deve intendere come problema dell'identità della storia d'Italia, al di là di ogni discussione sull'''irrazionalismo storiografico'', che pur è stato fatto con qualche ragione da D. Cantimori, al di là di una ormai sostanziale impossibilità di supporre un cosciente collegamento di Volpe al materialismo storico, se non nella dimensione di ''canone empirico d'interpretazione storica'', ma soprattutto per la non specificità che il crocianesimo dei primi anni de La Critica era disposto a riconoscere al Medioevo come ''storicità''. L'Italia al centro dell'interesse, perché l'Italia punto di arrivo: la connessione con il ''popolo'', le ''masse'' dei Comuni con le istituzioni, il farsi di una ''nazione comunale'' (elementi tutti opportunamente posti in evidenza da N. Ottokar, contro qualsiasi apparentamento di Volpe con ogni forma di ''materialismo storico'' o di ''scuola economico-giuridica'') può, dopo il libro di Cervelli, far intendere sia perché gli Studi storici di A. Crivellucci non dovessero più bastare a Volpe come ''spazio'' storiografico per perseguire uno scopo sempre più chiaro, sia perché Croce risultasse sollecitante, almeno in una prima valutazione, con quel suo riconoscere che Volpe concepiva la formazione del nuovo popolo italiano come una tessitura di molteplici fili, in cui anche "guelfismo e ghibellinismo ricompaiono, ma non come semplici cagioni della divisione del popolo italiano, sibbene come fattori e segni del suo unificarsi, del suo oltrepassare le cerchie delle patrie comunali, disporsi intorno a una sola, grande antinomia ideale, combattere e ottenere vittorie e subire disfatte, che furono avvenimenti generali e italiani" (B. Croce, Storia della storiografia, cit., ii, pp. 148-49). Nel 1930 il Medioevo di Volpe era, per Croce, un'entità "economico-politica, quella che meno interessa", astratta perché visione unilaterale della realtà (ibid., p. 238). Croce infatti nega che il ''medioevo'' di Volpe sia il Medioevo. Il Medioevo che Volpe per Croce non avrebbe colto nella sua interezza era esso stesso crocianamente un'età funzionale alle tradizioni utopiche contemporanee (l'universalità di un governo spirituale tradotta negli stati uniti d'Europa e nella Società delle Nazioni) o alle illusioni politiche o ideologiche (le ''crociate'' per la libertà e l'indipendenza dei popoli). In maniera indubbiamente singolare, Croce rimproverava a Volpe di aver trascurato la discussione sulla "forma di mente, sulla sua psicologia sul suo idealismo e realismo ecc. ecc." (ibid., p. 237), rimandando a K. Burdach, a W. Goetz, addirittura al recentissimo (per l'epoca) Herbst des Mittelalters, di J. Huizinga, quanto meno citato dalla traduzione tedesca. Una s. accusata di essere non ''dialettica'', ma concepita per contrapposizione, al limite della giustapposizione. A parte l'esattezza di certe notazioni (per le quali si vedano le considerazioni di C. Violante alla ristampa de Il Medio Evo, 1990, pp. xvi ss.), si deve por mente al fatto che veniva delegittimata tutta una metodologia di uno dei maggiori storici italiani e certamente del maggior esponente della medievistica italiana, con l'imputazione che quella metodologia era indirizzata a una s. senza scelte, nemmeno quella del nazionalismo. Una s. senza scelte e, dunque, senza problemi, che era l'accusa più grave che Croce potesse formulare a qualsiasi storiografia.
Le ragioni − o presunte tali − di Volpe e di Croce sono state oggetto di ampia e vivace discussione in questi ultimi anni. Per fare un solo rimando, che ha il vantaggio di essere recente e con rinvii alla bibliografia retrospettiva, si citerà F.J. Bauer, Geschichte, Philosophie, Geschichtsphilosophie. Croce, Volpe und die Geschichte des liberalen Italien, in Quellen und Forschungen aus Ital. Archiven und Bibliotheken (Bd. 73 [1993], pp. 682-95), che, pur non ponendosi il problema del Medioevo e della storia della s. medievistica, indica i vari saggi di R. De Felice, C. Pavone, G. Belardelli, B. Vigezzi, G. Turi, tutti importanti, anche se estranei alla specifica problematica medievistica. Rimane comunque assodato che vi è una sostanziale convergenza, anche se autonoma e di diversa genesi, sul fatto che sia il Finalismus di Volpe (''l'Italia in cammino'') sia il Determinismus di Croce, abbiano o non abbiano come protagonisti il popolo (Volpe) o le élites liberali (Croce), rappresentano la storia dell'Italia unita, anche retrospettiva, secondo Bauer, nelle sue ultime conseguenze, "come un processo senza alternative, come risultato o espressione di un'armonia prestabilita e perciò stesso di un principio metafisico", che, comunque, non è solo di Croce, ma anche di Volpe, senza magari la decantazione concettuale del filosofo napoletano. Rimane comunque il dato che nei primi anni Trenta non solo era in crisi la s. italiana, ma era in crisi una plausibilità della s. medievale in quanto tale, che non fosse funzionale a una ''Italia in cammino'', con tutte le cautele e le correzioni apportate da W. Maturi e da L. Salvatorelli alle accuse di strumentalizzazione politica mosse a Volpe (cfr. R. De Felice, Intellettuali di fronte al fascismo, 1985, pp. 206 ss.). Un Medioevo che, in Croce, non è se non momento dialettico, non del tutto superato, di un'ineluttabile vicenda dello Spirito, nella sua ascesa verso la Libertà e, perciò, da ricomprendersi in una sorta di residuale, vitalistica esistenza e resistenza: il che era, come spesso accennato (v. anche O. Capitani, Croce e il Medioevo, in La Cultura, 31 [1993], pp. 263-82), fissare il ''tipico'' medievale per svuotarne la storicità problematica. Così in Volpe, con tutte le dovute attenuazioni e sfumature, era il progresso a dettare le rilevanze del processo. Ma la problematica dell'identità unitaria della storia d'Italia − e cioè la giustificazione e l'inveramento del Risorgimento − non era la più adatta a promuovere la ricerca medievistica: ricerca che, dopo la non esaltante produzione storiografica degli anni Trenta (altro discorso è quello delle edizioni di fonti: v. oltre), si affacciava all'immediato secondo dopoguerra in stato di gravissima crisi.
Di tale circostanza, in ambito medievistico, ci si rese conto. Questo può spiegare perché dagli anni Cinquanta avanzati in poi si avvertì periodicamente la necessità di rassegne più o meno ampie e problematiche delle condizioni della nostra s. medievistica. Rassegne che vanno ricordate, non solo per la copia di informazioni, ma anche per rilevare che, pur nella diversità di orientamenti, preferenze e prospettive, manifestavano una generale tendenza a non credere a sviluppi ''omogenei'', né in senso crociano né in senso volpiano, della storia d'Italia dal Medioevo all'epoca contemporanea. Nel diffuso pessimismo circa ogni idea di ''processo/progresso'', circa il ''tipico'', la medievistica italiana andava invece cercando un suo autonomo, anche se non unitario, territorio d'identificazione. Così sono da ricordare le stimolanti considerazioni di G. Arnaldi e di C. Violante nel numero di Itinerari (6 [1956], 22-24) dedicato a G. Salvemini (Europa medioevale e Medioevo italiano, La società italiana nel basso Medioevo) e tese a rompere gli schemi indubbiamente angusti in cui la medievistica italiana s'era trovata a operare, anche nei confronti delle altre medievistiche; da ricordare inoltre la puntuale rassegna, curata da E. Dupré Theseider per il Sonderheft del 1958 della Historische Zeitschrift ("diligente, sobria e proba", venne definita nel 1967 da E. Sestan, che ne delineava perciò stesso il carattere di strumento di lavoro, più che di discussione problematica). Inoltre vanno citati: La storiografia italiana negli ultimi vent'anni, a cura di F. Valsecchi e G. Martini (2 voll., 1975), che pubblicava gli Atti del 1° Congresso nazionale di Scienze storiche organizzato a Perugia dal 9 al 13 ottobre 1967 dalla Società degli storici italiani con il patrocinio della Giunta centrale per gli Studi storici; Fonti medievali e problematica storiografica (2 voll., 1975-76), Atti del Congresso internazionale tenuto in occasione del 90° anniversario della fondazione dell'Istituto storico italiano (1883-1973); La storiografia italiana degli ultimi venti anni, a cura di L. De Rosa, 3 voll., 1989 (=Atti del Convegno della Società degli storici italiani del 2-6 giugno 1986). A questi vanno aggiunti i bilanci di O. Capitani, Dove va la storiografia medioevale italiana?, e Crisi epistemologica e crisi di identità: appunti sulla ateoreticità di una medievistica, apparsi prima in Studi Medievali, s. 3, 8 (1967), pp. 617-22, e 18 (1977), pp. 395-460, poi confluiti in Id., Medioevo passato prossimo, 1979, pp. 211-69 e 271-356; così pure gli interventi di varia provenienza di G. Tabacco, G. Rossetti, O. Capitani, contenuti in Forme di potere e struttura sociale in Italia nel Medioevo, a cura di G. Rossetti (1977, pp. 33-70).
Intorno agli studi di medievistica si cercò inoltre di individuare soprattutto nuovi criteri e strutture di un'organizzazione che non poteva più essere affidata a un centralismo romano che, nello specifico, non aveva dato gran prova, se si eccettua l'attività di edizione di fonti dell'Istituto storico italiano per il Medio Evo (che nel periodo tra il 1920 e il 1950 aveva pubblicato ben trenta volumi nella collana Fonti per la storia d'Italia), specialmente per una certa qual confusione di compiti, di attribuzioni, di inclinazioni politiche che i vari istituti romani, da quello di Storia antica a quello per la Storia del Risorgimento, avevano dovuto e voluto accettare. Espressione di questa necessità di organizzazione della medievistica italiana, divenuto presidente dell'Istituto storico italiano per il Medio Evo R. Morghen (che fu tra i massimi protagonisti, tra il 1950 e gli avanzati anni Settanta, della medievistica italiana), fu soprattutto il Centro italiano di Studi sull'Alto Medioevo, che sorse a Spoleto nel 1952 nell'ambito di un'iniziativa promossa dall'università di Perugia, il cui rettore, G. Ermini, ne fu presidente fino al 1977. Dal 1966 il Centro fu trasformato in ente pubblico non economico autonomo. Al di là di queste variazioni, comunque, il Centro di Spoleto fu il risultato della convinzione di alcuni tra i più eminenti medievisti italiani (da O. Bertolini a G. Falco, da R. Morghen a F. Cognasso, da G.P. Bognetti a E. Besta, da F. Bartoloni ad A. Monteverdi, da E. Franceschini a M. Salmi, da P.S. Leicht a C.G. Mor a C. Cecchelli) che la ricerca di un'identità italica dovesse non solo essere compiuta già nell'alto Medioevo, e non solo con l'apporto delle competenze più articolate (dalla storia istituzionale a quella culturale, da quella religiosa ed ecclesiastica a quella letteraria, dalla paleografia all'archeologia, alla storia dell'arte, alla glottologia, alla linguistica), ma nelle sue componenti essenziali, che era assurdo pretendere di derivare da Roma. Altrettanto illusorio e non vero era inoltre individuare il Medioevo solo a partire dal 1000 e dai Comuni, come aveva pur fatto, anche se con diverse o contrastanti prospettive, la medievistica romantica e quella stessa di G. Volpe. Era l'aprirsi del Medioevo italiano al Medioevo europeo: e ovviamente non solo nei singoli contenuti di ricerca, ma nella stessa comparazione della ricerca, dopo decenni d'isolamento, non solo e non tanto ideologico, quanto metodologico. Di necessità tutte le tematiche ''classiche'' della nostra s. medievistica vennero ''rivisitate'', con contrasti, diseguaglianze di risultati, tenaci incomprensioni e resistenti steccati specialistici, ma con considerevole profitto di una ricerca sempre meno ''preordinata'', sempre più costretta a fare i conti con quella degli altri, in Italia e fuori d'Italia.
Qualunque possa essere in un futuro più o meno lontano la sorte del Centro di Spoleto, esso ha rappresentato e rappresenta, nell'ambito della medievistica, un fattore fortemente innovativo nella storia della cultura storiografica europea. D'altro canto, il limite del secolo 11° posto come punto di arrivo cronologico dei temi da discutere nelle ''Settimane di studio'' che annualmente si sono susseguite ha consentito sempre di più anche ai non ''altomedievisti puri'' di trovare ampio spazio per interventi e per arricchimento proprio e altrui, cosa che la s. medievistica italiana, alle soglie degli anni Cinquanta, tendenzialmente non specialistica, non poteva trarre dalla propria tradizione. In fondo, tra i padri fondatori del Centro di Spoleto, i veri e propri ''altomedievisti'' erano O. Bertolini e G.P. Bognetti: gli altri si cimentarono, per naturale versatilità, nel verificare propri risultati e convincimenti, non solo con gli studiosi stranieri già chiaramente orientati verso una specializzazione ''altomedievistica'' − specie i tedeschi − ma con tipologie di fonti che richiedevano approcci ed ermeneutiche nuove. E si poté così acquisire il senso di una ben più concreta articolazione di quel generico Medioevo, che, per durare scolasticamente mille anni, finiva col perdere qualsiasi storicità. Molto più indicativa di processi omogenei risultava l'adozione della bipartizione alto medioevo/basso medioevo, e ancor più rispondente allo stato delle attuali conoscenze era il parlare di tardoantico/altomedievale; pieno medioevo; basso medioevo, secondo partizioni da tempo proficuamente accolte in Germania (cfr. in proposito O. Capitani, Storia medievale, 1992; v. anche tardoantico, in questa Appendice). Longobardi, carolingi, post-carolingi in Italia e fuori d'Italia riproponevano, nelle verifiche spoletine, nuove prospettive anche alla classica storia medievale italiana, quella dei Comuni, per intenderci. Caduti ''valori'' storiografici come ''latinità'' e ''germanesimo'', anticipazioni di conflittualità tra Stato e Chiesa d'ispirazione ottocentesca (ché altra cosa fu la lotta tra potere imperiale e regio e potere ecclesiastico) o il permanere o il non permanere di istituzioni romane nell'alto Medioevo, rimaneva da accertare lo stesso sviluppo della cosiddetta storia politica nella concretezza delle verifiche dei quadri territoriali sui quali si esercitava il potere, con tutte le connessioni sociali e ideologiche che esso comportava: e per una diversa, efficace sintesi, cfr. P. Delogu, Il regno longobardo (in Storia d'Italia, i, Torino 1980). Giustamente G. Tabacco poteva parlare di "una densità tale di connessioni destinata a far impallidire ogni visione semplificata della dialettica del potere e della dialettica del diritto in Italia" (Il problema del potere e del regno, in AA.VV., Il Centro italiano di studi sull'alto medioevo. Venticinque anni di attività: 1952-1977, 1977, p. 58). E poiché, finalmente, la storia medievale doveva servire solo a se stessa, si avviò proprio da Spoleto un processo di ampio recupero, anzi d'integrazione, concomitanza e concorrenza non solo delle forze sociali ed etniche che variamente avevano operato nella penisola e comunque nel solco di tradizioni che non ammettevano semplificazioni riduttive, ma anche degli stessi vertici di quella società, il papato, i regni germanici, l'impero bizantino e poi quello dei Franchi e dei Sassoni. Tutto ciò con un impegno a non concedere nulla alla tradizione storiografica passata che non fosse confrontato con una migliore e/o maggiore conoscenza di dati, e che non fosse considerato alla luce della plausibilità fornita dalla documentazione. Ne furono segni i fervidi ''scontri'' che, specie in tema di istituzioni, si ebbero nei primi dieci-venti anni dell'attività delle Settimane di studio: valga un solo caso per tutti, quello degli arimanni. I bisogni di chiarezza si moltiplicavano: crebbe enormemente − anche per lo stimolo di studi già avviati in Francia e in Germania − l'attenzione all'organizzazione del territorio, alla tipologia dello sfruttamento dello stesso, al paesaggio agrario e alla storia agraria, alla funzione di raccordo esercitata dalle chiese locali e dai monasteri; si ridiscusse − ma in Italia fu per la prima volta − la tesi di H. Pirenne; si cominciò a cogliere tutta una diversa potenzialità ermeneutica e informativa delle fonti narrative; si demitizzò ogni idea di diffusione omogenea e relativamente precoce del Cristianesimo e della conseguente cristianizzazione; si demitizzò soprattutto ogni idea di un ordinamento feudale, funzionante e non funzionante in Italia per la presenza decrescente dei sovrani carolingi: nella cosiddetta ''crisi di autorità'' del secolo 10° si colse la fenomenologia di un processo che aveva radici nelle mobilità sociali ed economiche di ceti variamente emergenti e quindi variamente orientati a esercitare il potere, fosse anche quello papale. Se non si tenesse conto di tutto ciò che si determinò in virtù del dibattito costante e veramente internazionale a Spoleto non si capirebbe il sorgere e l'affermarsi per il Medioevo italiano di un interesse nuovo per la storia politica, colta nelle sue articolazioni socio/economiche e culturali (e il costituirsi di una ben precisa scuola intorno al magistero di G. Tabacco); il riaffacciarsi delle stesse tematiche di Volpe con lo studio degli insediamenti che Violante (e la scuola ben presto formatasi intorno a lui prima a Milano e, poi, soprattutto a Pisa) proponeva con lo studio analitico delle strutture organizzative delle chiese plebanali e parrocchiali, ma tenendo viva l'esigenza di un raccordo con lo sviluppo di una precisa ecclesiologia, circa la funzione della Chiesa nella società (cfr. C. Violante, Le istituzioni ecclesiastiche, in AA.VV., Il Centro italiano di studi, cit., pp. 73-92); il porsi o in termini nuovi o per la prima volta delle tematiche su Arabi ed Ebrei; l'integrazione delle tematiche religiose con i problemi posti dall'antropologia culturale (agiografia, demonologia, simbologia) e conseguentemente dalla sociologia. Il Centro di Spoleto era in ogni caso nato come un'occasione d'incontro e di dibattito scientifico ad altissimo livello, non come un vero e proprio centro di ricerca autonoma: per dire che almeno fino a metà degli anni Ottanta esso ha piuttosto recepito istanze numerose e autonome di dibattito e di verifica, che non farsi esso suggeritore e promotore di indagini specifiche. Intatta, sostanzialmente, restava la responsabilità di ricerca delle istituzioni tradizionali, e cioè le Deputazioni di storia patria e, massimamente, l'Istituto storico italiano per il Medio Evo di cui si è già detto a proposito dell'edizione di fonti fra le due guerre. Un compito, quest'ultimo, molto grave, dovendo l'Istituto promuovere la continuazione della seconda edizione dei Rerum Italicarum Scriptores e contestualmente incentivare le pubblicazioni delle Fonti per la Storia d'Italia e dei Regesta Chartarum. Non è senza significato che nel 1953, subito dopo la nomina di Morghen alla presidenza dell'Istituto, si tenesse a Roma un convegno di Studi delle fonti del Medioevo europeo, in occasione del 70° anniversario della fondazione dell'Istituto storico italiano (La pubblicazione delle fonti del Medioevo Europeo negli ultimi settanta anni 1883-1953, 2 voll., 1954-57), così come non è senza significato che in quell'occasione fu caldamente patrocinata dallo stesso Morghen, con il consenso tutto sommato convinto del delegato dell'Unione internazionale degli Istituti di archeologia, storia e storia dell'arte in Roma, W. Holtzmann, direttore del Deutsches Historisches Institut a Roma, la proposta di una riedizione, da fare a Roma e per conto dell'Istituto, completamente rinnovata della Bibliotheca Historica Medii Aevi di A. Potthast, del 1896. Come si poteva evincere dalla prefazione del 1° volume dell'opera, che mutò il titolo in Repertorium Fontium Historiae Medii Aevi. Series Collectionum (1962, pp. vii-ix; volume poi aggiornato in Repertorium, cit., Series Collectionum: Additamenta 1962-1972, 1977), le prospettive erano di ben più ampio respiro di quello che s'era dato Potthast nei suoi due pur preziosi volumi. L'ambizione era infatti di fornire un Wegweiser complessivamente utile, aggiornato e corretto per tutte le fonti latamente intese come ''letterarie'' (narrative, giuridiche, epistolari, poetiche, teologiche, ecc.), con la sola esclusione di quelle strettamente documentarie, in modo spiccato per gli atti privati. In questo specifico settore non si sono avuti progetti di carattere generale − se si eccettuano le iniziative promosse inizialmente da C. Violante (di cui cfr. Lo studio dei documenti privati per la storia medioevale fino al XII secolo, in Fonti medioevali e problematica storiografica, cit., pp. 69-129) e che hanno dato l'avvio a un Repertorio delle fonti documentarie edite del Medioevo: Italia-Toscana, 1977 (=Biblioteca del Bollettino storico Pisano, 17, unico volume apparso) − mentre sterminata è la serie di edizioni di fonti documentarie locali, quasi esclusivamente private, di cui è difficile dominare anche sinteticamente il panorama: un criterio metodologicamente eccellente è quello proposto da P. Cammarosano, in Italia medievale. Struttura e geografia delle fonti scritte (1991, pp. 267-91).
Ma oltre la promozione di strumenti per la ricerca, l'Istituto storico italiano per il Medio Evo, dagli anni Cinquanta in poi, impostava la propria attività con un'opzione tematica originale e solo parzialmente compresa nelle annuali rassegne internazionali di Spoleto: lo studio cioè della fenomenologia religiosa, più che delle strutture ecclesiastiche, entrambi temi non elettivamente frequentati dalla s. medievistica sino alla fine del secondo conflitto mondiale. Tale studio assunse una preminenza quasi assoluta nelle prospettive d'indagine dell'Istituto, per precisa e consapevole volontà di Morghen che, dall'esperienza di discepolato di E. Buonaiuti, traeva il radicato convincimento dell'impossibilità d'intendere il ''cuore'' del Medioevo al di fuori di una s. che della religiosità cristiana facesse il proprio supporto strutturale e il termine ultimo della propria problematica (cfr. da ultimo in tal senso Lettere a Raffaello Morghen, a cura di G. Braga, E. Forni, P. Vian, con introd. di O. Capitani, 1994). Non si trattava comunque di un ritorno alla ''monocausa'' rifiutata da Volpe, poiché Morghen stesso, che era stato anche allievo di P. Fedele, aveva compiuto studi di erudizione e di storia politica: ma apparve un modo di riproporre un ''tipico'' medioevale, che fece pensare ad accostamenti a Croce. Accostamento erroneo, perché per Morghen − e in sostanza anche per G. Falco, sia pure con diversa accentuazione − la religiosità cristiana non è un epifenomeno della storia, ma il senso stesso della storia della civiltà occidentale e mediterranea. In questa prospettiva, anche se con adesione più o meno completa all'''esclusivismo storiografico'' di Morghen, vanno riportati gli interessi di molti tra gli studiosi di maggior rilievo che, non solo per il nostro paese, reinterpretarono il Medioevo italiano ed europeo in una chiave indubbiamente originale: A. Frugoni, P. Lamma e, soprattutto, R. Manselli, che ha focalizzato l'attenzione di tutta una generazione di medievisti contemporanei, italiani e non, sui problemi dell'escatologismo medievale, sulle eresie come espressione di una religiosità diversa se non opposta alla dottrina ufficiale, e sul francescanesimo (interessi e attività per i quali si rimanda a O. Capitani, Medioevo passato prossimo, cit., passim; Id., Una medievistica romana, 1986).
Storia religiosa, dunque, anche sull'onda delle problematiche accolte nel dibattito suscitato intorno alla nouvelle théologie, al Concilio ecumenico Vaticano ii, alla grande s. religiosa di M.-D. Chenu, di H. De Lubac, di Y. Congar, di J. Leclercq; una s. che, comunque, per diversità di tradizione di studi, poneva alla medievistica italiana la necessità di procurarsi un'ampia informazione e formazione di storia dell'erudizione ecclesiastica europea, indipendentemente da una specifica confessionalità, anche nella rigorosa intepretazione di P. Zerbi ('Ecclesia in hoc mundo posita', 1993) e dei suoi allievi: teologia, patristica, agiografia, diritto canonico, erano vie obbligate per porre storicamente le problematiche dell'interpretazione del cristianesimo medievale. E su questo terreno si manifestarono, all'interno della ''scuola romana'' formatasi attorno a Morghen, orientamenti diversi da quelli del maestro, di cui si accettava nel suo complesso la centralità del problema religioso-ecclesiastico, ma se ne voleva verificare la concreta storicità e incidenza sulla società medievale, sia pure nella spiccata tendenza verso una s. della coscienza di quella società da intendersi, come, a tacer d'altri, faceva assai perspicuamente G. Tabacco (I processi di formazione dell'Europa carolingia, in AA.VV., Nascita dell'Europa ed Europa carolingia: un'equazione da verificare, 1981, p. 40 n. 55), quale "coscienza che la prassi medesima, disponendosi sul piano delle istituzioni, via via tende a raggiungere allorché seleziona fra i propri orientamenti quelli che interpreta come sue finalità... una riflessione che può rendere palesi incoerenze già insite in una situazione o in una tradizione", e ciò detto di contro a rilievi mossi nel senso che in tal modo si promuoveva una s. al di sopra della realtà. Ed è il rilievo che proviene soprattutto dalla scuola di C. Violante (cfr., da ultimo, C.D. Fonseca, Intervista a C. Violante, in AA.VV., Società, istituzioni, spiritualità. Studi in onore di C. Violante, i, 1994, pp. 1-64, spec. pp. 33 ss.).
In ogni caso, come appariva già dalla lucida antologia di saggi raccolta da G. Rossetti (Forme di potere, cit.), la ''svolta'' essenziale per discutere di una problematica innovativa all'interno del processo della storia medievale dell'Italia (ma anche per l'Europa, in senso almeno continentale) era rappresentata dall'arco cronologico dell'11° secolo, con i profondi mutamenti di strutture di potere, ideologiche, economiche e sociali che si erano consumati nel grande conflitto tra Papato e Impero, nell'irreversibile anche se lento processo di distacco del mondo bizantino dagli intrecci politici e sociali del Mezzogiorno d'Italia, per l'irrompere dapprima della presenza e poi della dominazione normanna. Dopo quel secolo − ed è stato il segnale prevalente della medievistica italiana − i processi evolutivi della storia avrebbero preso ogni possibile, e anche autonomo e originale, cammino.
Questo spiega anche il rinnovato interesse per la storia comunale e regionale del Centro-Nord: per una sommaria, ma essenziale bibliografia sugli aspetti istituzionali e costituzionali fino al 1981 si rimanda a O. Capitani, Città e Comuni. Dal Comune alla Signoria, in O. Capitani, G. Cherubini, R. Manselli, A.I. Pini, G. Chittolini, Comuni e Signorie: istituzioni, società e lotte per l'egemonia, 1981, pp. 5-57 (=Storia d'Italia, diretta da G. Galasso, iv), e più recentemente e in maniera più complessiva a M. Ascheri (Istituzioni medievali, 1994, pp. 259-83; 285-309). Gli studi che sono indicati in questa bibliografia essenziale hanno amplissimamente riscattato un colpevole oblio dopo gli studi di Volpe, Salvemini, Caggese e Ottokar. Oblio che perdurava nonostante l'invito che − anche se non da parte della medievistica propriamente detta − era pur venuto dal più grande degli storici italiani del Novecento, F. Chabod (e si vedano le considerazioni in AA.VV., Federico Chabod e la 'nuova storiografia italiana' 1919-1950, 1983, specialmente di G. Arnaldi, Gli studi di storia medievale, pp. 21-63): invito a cui avrebbe risposto solo un allievo di O. Bertolini e allievo dell'Istituto italiano per gli Studi storici (=Istituto Croce) di Napoli, E. Cristiani, Nobiltà e popolo nel Comune di Pisa. Dalle origini del podestariato alla Signoria dei Donoratico (1962), la prima, importante monografia di storia comunale apparsa nel secondo decennio del dopoguerra, che raccoglieva anche molte delle indicazioni di carattere politico-sociale che Ottokar aveva dato negli anni Trenta, a proposito di Salvemini e di Volpe; e accanto a ciò il tema delle signorie, riproposto da E. Sestan in termini di storia politico-istituzionale (Le origini delle signorie cittadine: un problema storico esaurito?, in Bullettino dell'Istituto storico italiano per il Medio Evo, 73 [1961], pp. 41-69). A raccogliere quell'invito era stato anche E. Conti, allievo prima di Salvemini e poi di Sestan, ma in termini completamente diversi da quelli auspicati dal maestro: la storia dell'organizzazione del contado fiorentino (La formazione della struttura agraria moderna nel contado fiorentino, i: Le campagne nell'età precomunale, 1965; iii, 2: Monografie e tavole statistiche: secc. XV-XIX, 1965) fu progettata in una dimensione talmente dilatata, da giustificare sia la grandiosità dell'impianto (la prematura scomparsa di Conti, nel 1986, non gli consentì di portare a termine l'opera: ma si tenga presente che al momento in cui uscì il 1° volume, egli aveva già schedato oltre 100.000 documenti dell'Archivio di Stato di Firenze), sia la necessità di rispondere alla domanda iniziale (La società fiorentina nel Quattrocento, opera che non poté mai essere scritta) solo ''dopo'' aver compiuto il più completo accertamento della ''base economica'' di quella società: i lavori da lui dedicati a I ricordi fiscali (1427-1475) di Matteo Palmieri (1983) e L'imposta diretta a Firenze nel Quattrocento (1984) lo dimostrano chiaramente. Così il lavoro di Conti, pur nella sua attuazione incompleta, rimaneva e rimane l'unico modello italiano di sondaggio esemplare di una storia quantitativa per quanto concerne sia la storia dell'organizzazione del territorio, sia la storia agraria, sia, finalmente, per quanto riguarda una tipologia di storia economica medievale: dove medievale s'ha da intendere come punto di partenza, che, data la specificità economica, deve necessariamente conoscere il lungo periodo. Non si esagera dicendo che nessuno ha voluto ripercorrere la stessa strada, con l'unica eccezione di grande valore − anche per l'estrema coerenza con cui è applicato l'insegnamento metodologico di Conti − offerta dall'opera di P. Cammarosano, La famiglia dei Berardenghi. Contributo alla storia della società senese nei secoli XI-XIII (1974). La disponibilità, rara, di un materiale documentario molto omogeneo (il Cartulario della Berardenga) ha consentito a Cammarosano di cogliere all'interno della vicenda di una delle più importanti famiglie del territorio senese i riflessi e gli adattamenti che un vasto ed esterno processo evolutivo (lotta delle investiture, nascita dei Comuni) induce nel comportamento di un nucleo sociale, assunto non più come componente della ricerca, ma come termine unico e, a suo modo, illuminante dell'indagine. L'insegnamento di Conti è stato peraltro estremamente positivo, dal punto di vista del metodo, poiché l'interesse per la struttura delle campagne − pur articolata in lavori non di lunghissima diacronia, ma distinti tra alto Medioevo (secoli 8°-9° e 10°-11°) e basso Medioevo (secoli 12°-13° e 15°-16°) − ha dato luogo a vere e proprie scuole (V. Fumagalli, M. Montanari, B. Andreolli) anzitutto per l'Italia padana altomedievale: altamente significativa e fondamentale per l'avvio delle indagini in questo senso è l'opera di V. Fumagalli (Terra e società nell'Italia padana. I secoli IX e X, 1976) a cui si aggiungono i contributi di G. Cherubini, G. Pinto, G. Piccinni, D. Balestracci, A. Cortonesi per la Toscana e la Tuscia bassomedievali, fra i quali non possono non essere segnalati i due volumi di G. Cherubini (Signori, contadini, borghesi. Ricerche sulla società italiana del basso medioevo, 1974; L'Italia rurale del basso medioevo, 1985). Il metodo di Conti si è diffuso praticamente a tutta l'area centrosettentrionale per opera, anche, delle Deputazioni di storia patria o dei Dipartimenti storici delle università; in tale metodo, infatti, hanno ravvisato una ragione di felice accordo tra salvaguardia della peculiarità ''locale'' e interesse storiografico generale, anche se ciò è servito in alcuni casi più a fornire del materiale che a proporre consapevoli sforzi di sintesi.
È solo nel secondo dopoguerra che la grande esperienza di M. Bloch e l'insegnamento della Scuola delle Annales di seconda e terza generazione sono divenuti fenomeni italiani (cfr. G. Rossetti, Le ''Annales'' e la storiografia italiana. Note in margine ad alcuni bilanci e rilanci, in Annali dell'Istituto storico italo-germanico di Trento, 8 [1981], pp. 239-71), e la potenziale polivalenza di quell'insegnamento (recepita soprattutto dopo il vanificarsi delle catture ideologiche che di Bloch erano avvenute nell'immediato dopoguerra) agì anche in altre direzioni: la storia del commercio e della navigazione, dell'amministrazione cittadina e comunale, delle corporazioni, della demografia e della tassazione e, sino a farne una vera specializzazione, dell'alimentazione.
Basterà rimandare, in una letteratura oramai assolutamente incontrollabile, ai lavori di sintesi di A.I. Pini e M. Montanari: specialmente ad A.I. Pini, Città, comuni e corporazioni nel Medioevo italiano (1986); M. Montanari, La fame e l'abbondanza. Storia dell'alimentazione in Europa (1993; con bibliografia essenziale sull'argomento a pp. 237-57). Altro tema è quello della storia delle città, che ha visto dedicata un'apposita rivista, Storia della città (giunta al fasc. 56, nel 1990, ma 1993, con assunto monotematico a partire del fasc. 41), tema affrontato in senso non soltanto tradizionale, politico-istituzionale e di cui si può avere notizia nei volumi della già citata Storia d'Italia, diretta da G. Galasso, relativi alle varie regioni (voll. v-ix). E anche storia di castelli, di incastellamenti e di insediamenti intorno a castelli, come nuovi punti di aggregazione demica nel territorio e come fattori dirompenti di strutture curtensi o supposte tali da una s. medievistica italiana prima distratta da schemi desueti e non verificati: un incentivo derivato dall'esperienza di un sondaggio compiuto sul Lazio da uno dei migliori medievisti francesi, P. Toubert (Les structures du Latium médiéval, 2 voll., 1973), e per cui si rimanda ai lavori di A.A. Settia (Castelli e villaggi nell'Italia padana. Popolamento, potere e sicurezza fra IX e XII secolo, 1984; Chiese, strade e fortezze nell'Italia medievale, 1991). La polivalenza dell'insegnamento di scuola francese, di cui si è detto, ha agito anche nell'incentivare una diversa lettura di testi apparentemente non fruibili per una storia ''sociale'' a n dimensioni: come è stato per l'agiografia, settore di studio tradizionalmente di carattere erudito-religioso, di ambito molto ristretto, e viceversa interpretato − in dimensione strutturalistica, antropologica e sociologica, specie per gli aspetti femminili −, come ''spia'' di situazioni sociopsicologiche altrimenti inattingibili. L'Italia è stata tra le prime ad accogliere questa possibilità interpretativa, soprattutto per merito di S. Boesch Gaiano, la cui antologia pionieristica Agiografia altomedievale (1976) ha segnato un momento storiografico non ignorabile, in Italia come all'estero, nel panorama dell'epistemologia storica del secondo dopoguerra.
In questa esplosione di ricerche, edizioni di testi, monografie, si ricorda, come primo orientamento bibliografico, che esse sono puntualmente segnalate, per l'attenzione di un gruppo coordinato da C. Leonardi, in Medioevo latino. Bollettino bibliografico della cultura europea dal sec. VI al XIV (15 voll. usciti, 1980-94). In questo diffondersi di interessi agiografici è appena il caso di dire che tematica e ambito territoriale non si espandono in modo omogeneo, privilegiandosi soprattutto l'ambito umbro e la specificità francescana, anche per la possibilità offerta da un esito editoriale presso il Centro di Spoleto e soprattutto per la specificità degli interessi di uno studioso di agiografia come E. Menestò, di cui si ricorda almeno, tra le cose più recenti, Il processo di canonizzazione di Chiara da Montefalco (1984, rist. 1991) nonché la cura, spesso con C. Leonardi, di atti di convegni dedicati a temi agiografici. E si veda ancora la rivista Hagiographica, 1 (1994). Va comunque detto che l'interesse storiografico iniziatosi con la Boesch Gaiano ha trovato nell'attività di Leonardi e Menestò una proposizione certamente diversa di recupero d'identità agiografica, anche per il grande impegno di restituzione, prima ancora che d'interpretazione, dei testi agiografici: un'interpretazione che, comunque, è ispirata a un acceso spiritualismo. Una tensione è anche registrabile nell'imponente riconsiderazione della figura di Francesco d'Assisi e del francescanesimo, operata da parte sia di religiosi sia di laici, vuoi per questioni relative alle fonti francescane (scritti di Francesco anzitutto), vuoi per l'interpretazione della figura del santo di Assisi. Impensabile anche un cenno alla sterminata bibliografia; basterà rimandare, per Francesco, all'esemplarità tematica del volume di G. Miccoli, Francesco d'Assisi. Realtà e memoria di un'esperienza cristiana (1991) e per la s. ad AA.VV., Gli studi francescani dal dopoguerra ad oggi, a cura di F. Santi (1993).
Santità e religiosità, anche nelle dimensioni non necessariamente o prevalentemente istituzionali (che sono state poi quelle meno coltivate dalla medievistica italiana ''laica'' ottocentesca), suggerivano e suggeriscono comunque un punto di aggregazione, un ''pre-dato'', che le ipotesi di una storia totale avevano rifiutato in via di principio. E così, per questa s., sono entrati in crisi i due elementi che hanno in qualche modo sempre mediato una ''linea'' continua della medievistica: l'ipotesi di un ordinamento pubblico e la funzione sempre più chiaramente centralizzatrice della Chiesa di Roma.
Per quanto concerne il primo elemento, si è già detto della funzione demitizzante della s. sul potere di G. Tabacco (I liberi del re nell'Italia carolingia e post-carolingia, 1966; La dissoluzione medievale dello stato nella recente storiografia, 1979; Egemonie sociali e strutture del potere nel Medioevo italiano, 1979, esempi di una produzione assai ricca, su questo e su altri temi) e della sua scuola, della quale si citano particolarmente, fra altri e valenti studiosi, G. Sergi (Potere e territorio lungo la strada di Francia. Da Chambery a Torino fra X e XIII secolo, 1981; L'aristocrazia della preghiera, 1994) e R. Bordone (Città e territorio nell'Alto Medioevo, 1980; La società cittadina nel Regno d'Italia: funzione e sviluppo delle caratteristiche urbane nei secc. XI e XII, 1987). Una s. demitizzante del potere, ma comunque non al punto da negare un orientamento della società medievale, altomedievale in specie, verso forme di ordinamento pubblico e di attribuzione di caratteri pubblicistici alla morfologia del potere. Per quanto concerne il secondo elemento, cioè la tendenza centralizzatrice della Chiesa, e l'attenzione ad esso portata dalla s., pur nel generale riconoscimento delle scansioni temporali in cui essa si manifestò e realizzò, si devono fare due considerazioni. In primo luogo, che l'attenzione della medievistica italiana si è concentrata, anche ma non esclusivamente per influenza dell'insegnamento di R. Morghen, sui processi di trasformazione di istituzioni e religiosità che si operarono nell'11° secolo sfociando nella lotta delle investiture e nello scisma tra Papato e Impero. All'origine di tutta una letteratura storiografica di rilievo, non solo italiano, al riguardo, sono i lavori di G. Miccoli (Chiesa Gregoriana, 1966; La storia religiosa, in AA.VV., Storia d'Italia, Einaudi, 1974, ii, 1, pp. 431-975) e di O. Capitani (Immunità vescovili ed ecclesiologia in età ''pregregoriana'' e gregoriana, 1966, rist. 1973; Tradizione ed interpretazione: dialettiche ecclesiologiche del sec. XI, 1990). In secondo luogo, che da questa attenzione si è sviluppata tutta un'opera di riconsiderazione del significato della religiosità nella società del pieno Medioevo, che ha integrato e precisato anche la proposta interpretativa di Morghen circa il fenomeno dell'eresia nel Medioevo (R. Morghen, Medioevo cristiano, 19944). Fenomeno che è stato oggetto precipuo della vasta analisi di R. Manselli, che ha spaziato dal secolo 12° al 14°, anche per i coinvolgimenti francescani (un elenco completo degli studi di Manselli è in E. Pásztor, Bibliografia di Raoul Manselli, 1994), ma anche di studi generali e puntuali di G.G. Merlo, specie per le tipologie del valdismo, e quelli di tanti altri autori tra i quali L. Paolini, R. Orioli e G. Zanella (di Merlo e di Paolini v. le rispettive antologie Eretici ed eresie medievali, 1989, e L'albero selvatico. Eretici del Medioevo, 1989, con notevoli rinvii a bibliografia precedente; di R. Orioli, 'Venit perfidus heresiarcha', 1988). In questa dimensione va anche ricordata la cospicua attività dell'Accademia Tudertina-Centro di studi sulla spiritualità medievale-Centro italiano di studi sul basso Medioevo, operante dal 1957, che, pur attraverso alterne vicende di natura funzionale, ha offerto in quasi quarant'anni di promozione di studi tutta la gamma interpretativa che la medievistica italiana ha potuto dare della storia della religiosità e della mentalità: storia che ha coinvolto non solo gli eretici ma anche gruppi socialmente emarginati nel Medioevo come gli ebrei e le donne. Per la letteratura pressoché sterminata su questi due temi rimanderemo a: AA.VV., La storia degli ebrei nell'Italia medievale: tra filologia e metodologia, a cura di G. Muzzarelli e G. Todeschini (s.d. ma 1990), e Donna nel Medioevo: aspetti culturali e di vita quotidiana, a cura di M.C. De Matteis (1986 e varie rist.), che è tra i primi lavori dedicati al problema femminile nel Medioevo: problema che ha occupato dalla metà degli anni Ottanta tutta una biblioteca (cfr. AA.VV., Medioevo al femminile, 19892).
Nel clima di generale demitizzazione operata dalla s. del secondo dopoguerra, un profondo ripensamento dei termini tradizionali della medievistica ha pervaso le ricerche sul Mezzogiorno d'Italia. Specialmente sottoposti a revisione sono stati il radicato convincimento dell'indiscutibile positività dell'esperienza della ''monarchia'' normanno-sveva, come creazione originale e moderna, e l'altrettanto tradizionale e radicata tendenza della medievistica meridionale a guardare alle vicende medievali del Mezzogiorno in comparazione con quelle del Centro-Nord della penisola (monarchia, liberi Comuni; conseguenze dei Vespri per l'unità del Sud, ecc.). Si tratta di fattori, come ognuno può vedere, di essenziale matrice crociana (B. Croce, Storia del regno di Napoli, edizione a cura di G. Galasso, 1992).
La denunzia del carattere ''mitico'' di questi fattori è stata compiuta da M. Del Treppo in una rassegna di grande importanza e di altrettanto notevole influenza, Medioevo e Mezzogiorno: appunti per un bilancio storiografico, proposte per un'interpretazione, apparsa nella già citata antologia a cura di G. Rossetti (Forme di potere e struttura sociale, cit., pp. 249-83). Anche al di là di manifeste punte vivacemente polemiche, volte a esorcizzare gli studiosi di storia medievale del Mezzogiorno e al di là di una concezione generale del senso della ricerca storica (su cui comunque v. G. Tabacco, Il potere politico nel Mezzogiorno d'Italia dalla conquista normanna alla dominazione aragonese, in AA.VV., Il Mezzogiorno medievale nella storiografia del secondo dopoguerra: risultati e prospettive, Atti del 4° Convegno nazionale dell'Associazione dei medioevalisti italiani, a cura di P. De Leo, 1985; O. Capitani, Medioevo e Mezzogiorno dopo la lezione di Croce: una riconsiderazione, in Annali dell'Istituto italiano per gli studi storici, 10 [1987-88], pp. 393-419), la rassegna di Del Treppo poneva in discussione lo stesso principio di applicabilità di parametri interpretativi sperimentati nella storia meridionale dell'alto Medioevo da N. Cilento, G. Galasso e B. Ruggiero (per le cui opere si veda la predetta rassegna e il citato saggio di Tabacco, Il potere politico). D'altra parte è innegabile che gli studi sulla dominazione normanno-sveva (per cui si è creato un Centro di studi normanno-svevi presso l'università di Bari), specie per quanto concerne la Sicilia, sono stati proseguiti sotto l'impulso che alla medievistica dell'isola ha recato la Scuola di F. Giunta (I. Peri, V. D'Alessandro, S. Fodale, E. Pispisa) e gli studi di M. Caravale e di S. Tramontana e, per quanto concerne l'organizzazione ecclesiastica, di C.D. Fonseca, la cui opera (ampiamente indicata e illustrata nel saggio citato di Tabacco) si è valsa soprattutto del confronto con i risultati che studiosi stranieri (L. Ménager, A. Guillou, N. Kamp, a titolo d'esempio) hanno ottenuto sullo stesso tema e sullo stesso territorio, per aprire alla ricerca, tradizionalmente locale, prospettive comunque comparatistiche. Diverso il discorso per gli Aragonesi, la cui dominazione ha trovato la più originale interpretazione proprio nella ponderosa opera di Del Treppo, I mercanti catalani e l'espansione della Corona aragonese nel sec. XV (1967). Si è discusso da parte di Tabacco sulla valenza sostanzialmente politica, più che economica, dell'alleanza ''corona-mercanti'' nella dominazione aragonese del Mezzogiorno d'Italia, ma va comunque riconosciuto che la ''demitizzazione'' del politico come fattore centrale della storia medievale del Sud nasce in Del Treppo al di fuori di ogni suggestione di scuola, sia storicistico-crociana, sia d'impronta francese delle Annales. Nasce cioè da un raccordo tra ambiti d'indagine in cui non si riconosce nessuna previa gerarchia storiografica quale nodo centrale cui collegare in partenza gli esiti della ricerca: essa al limite, nella consapevolezza dello studioso, deve rispondere per un'età così remota più a una curiosità del conoscere, a un'esigenza "insopprimibile di verità", che non a un bisogno pratico cui condizionare il momento sorgivo della ricerca stessa (cfr. M. Del Treppo, Medioevo e Mezzogiorno, cit., p. 283, ma anche G. Arnaldi, testimonianza resa a E. Romeo, La scuola di Croce, 1992, pp. 179 ss.).
Comuni e monarchie meridionali affrontati quindi in chiave nuova e diversa; ma si è già detto che l'invito di F. Chabod, solo parzialmente ascoltato per i Comuni, trovava più ampia e consapevole accoglienza per gli stati regionali. E ciò è avvenuto in modo precipuo ed esemplare, per quello visconteo, nell'opera di G. Chittolini: da La crisi degli ordinamenti comunali e le origini dello stato del Rinascimento, da lui curato (1979), a La formazione dello stato regionale e le istituzioni del contado: secc. XIV-XV (1979), al saggio su Stati regionali e istituzioni ecclesiastiche nell'Italia centro-settentrionale del Quattrocento, in Storia d'Italia, Einaudi, Annali, 9 (1986), pp. 147-93. Ma al di là dei risultati e dello svecchiamento che l'adozione di metodologie dell'ultimo Chabod ha portato nel lineamento della storia degli stati regionali (lunghe e approfondite ricerche d'archivio sugli aspetti del quotidiano dell'apparato burocratico; concreti rapporti tra autorità laica, istituzione religiosa ed ecclesiastica; etica comune e sentimento religioso, ecc.), si dovrà osservare che il privilegiamento del ''lungo periodo'', della ''storia quantitativa'', può aver arrecato nello specifico una migliore conoscenza della formazione dello stato regionale, ma collocandolo sostanzialmente al di fuori delle ''ambiguità'' istituzionali di un Medioevo certo non più tradizionale, ma tuttavia non ancora in modo da poter sempre coerentemente essere sottoposto ai collegamenti politico-economici che la perizia e l'acribia di Chittolini e di tanti che da lui hanno preso le mosse sono riusciti a operare in area lombarda. Ripeto con convinzione un giudizio dato diversi anni fa (cfr. O. Capitani, Medioevo passato prossimo, cit., p. 338, seguito di n. 50), che Chabod non si era arreso a Braudel.
In questo disegno ''esploso'' della s. medievistica italiana, in questo deliberato ''andar ognuno per la sua strada'', progetti di riaggregazione sembrano essere proposti dalla storia culturale. Quello relativo alle fonti cronistiche, rivisitate non tanto e non solo per un nuovo fervore di edizioni registratosi per iniziativa di enti scientifici italiani (che nell'ultimo decennio hanno promosso e stanno promuovendo, in collegamento con il progredire del Repertorium Fontium Medii Aevi, nuove edizioni di opere come il Compendium Romanae Historiae, di Riccobaldo di Ferrara, a cura di T. Hankey, 1984, per le Fonti per la storia d'Italia; o come il De origine actibusque Getarum, di Giordane, a cura di F. Giunta e A. Grillone, 1991; o la Ystoria Rogerii regis Sicilie, Calabrie atque Apulie, di Alessandro di Telese, a cura di L. De Nava, commento di D. Clementi, 1991), quanto per un nuovo modo di avvicinarsi alle fonti, portatrici sì di notizie, ma soprattutto testimoni di moduli culturali dei singoli autori. In tal senso, dopo il sondaggio di A. Frugoni sulle fonti di Arnaldo da Brescia (Arnaldo da Brescia nelle fonti del XII secolo, 1954; rist. 1989, a cura di G. Sergi; trad. franc. di A. Boureau, con una nota d'aggiornamento di O. Capitani, 1993), di grande importanza si sono rivelati gli Studi sui cronisti della Marca Trevigiana nell'età di Ezzelino da Romano (1963), di G. Arnaldi che, dopo aver posto al centro dell'attenzione degli studiosi la figura del cronista-notaio come garante di un'autenticità di racconto (perciò stesso ufficializzato, in ambito comunale e cittadino italiano), ha poi esteso la sua indagine al significato dello scrivere storia nel Medioevo (con un superamento delle poco significative partizioni tradizionali in Annali, Cronache, Storie, sia per l'alto sia per il basso Medioevo), per approdare infine a interpretazioni molto originali su una modalità di ''scrittura'' storiografica che poco o quasi nulla ha a che vedere con il moderno concetto di storia (per l'ulteriore produzione di Arnaldi e quella di altri autori sul tema, v. l'efficace sintesi in G. Arnaldi, Annali, cronache, storie, in AA.VV., Lo spazio letterario del Medioevo, i, 2, 1993, pp. 463-514).
Non a caso il Veneto è stato la regione la cui cultura e i cui cronisti hanno richiamato l'attenzione di un'allieva di Arnaldi, L. Capo (di cui, tra le altre cose, v. gli studi in collaborazione con G. Arnaldi sui cronisti di Venezia e della Marca trevigiana, in AA.VV., Storia della cultura veneta, i-ii, 1976). L'area veneta ''riletta'' secondo matrici culturali comuni più che come ''storia politica'', è risultata così un punto aggregante per una s. tanto polidirezionale, e di qui l'avviarsi a una storia dei ''modi'' della vita medievale, colti in tratti sociali, prassi giudiziarie, comportamenti, costumi e mentalità, non necessariamente o esclusivamente legati a Venezia. Basterà fare il nome di G. Ortalli, altro allievo di Arnaldi, per capire cosa si voglia intendere: da Pingatur in palatio. La pittura infamante nei secoli XIII-XVI (1979), al volume da lui curato Bande armate banditi banditismo e repressione di giustizia negli stati europei di antico regime (1986). Unità di s. e unità regionale hanno singolare riscontro per il Veneto ma, in più lunga diacronia, anche nei molteplici interessi (storia della società e dello stato veneto, storia della religiosità) di G. Cracco in Venezia nel Medioevo. Un ''altro mondo'' (1987), amplissimo rinvio a bibliografia specifica e all'edizione di fonti narrative, statutarie e documentarie, e, per l'Emilia-Romagna, in A. Vasina (Comuni e Signorie in Emilia e Romagna, 1987), nel quale in maniera anche più palese si va manifestando l'intenzione di ricomporre in unità completa storia sociopolitica e cultura regionale, come dimostra da ultimo la promozione di un Repertorio della Cronachistica emiliano-romagnola (1991). E di un estremo allievo di A. Frugoni − ma ascoltatore anche di altre voci storiografiche − cioè M. Miglio, è da segnalare l'interpretazione delle fonti tardo medievali romane, per l'originalità di un recupero d'immagine della città in riferimento a un periodo da cui le coeve vicende avignonesi e scismatiche pareva avessero distolto l'attenzione della tradizionale s. medievistica (M. Miglio, Scritture, scrittori e storia, 2 voll., 1991-92).
Altro discorso da quello ''unitario'', di un Medioevo fortemente idealizzato, ha proposto F. Cardini, interprete del movimento crociato (v. da ultimo Studi sulla storia e sull'idea di Crociata, 1993), anelante a una riscoperta di un senso ''profondo'' e ''antico'' del simbolo archetipo dello spirito cavalleresco (Alle radici della cavalleria medievale, 1981), in diacronie di lungo periodo e relative a molteplici fenomenologie, in cui le esperienze di una notevole e articolata frequentazione della s. si fondono, non sempre nettamente distinguibili, con le curiosità per la storia religiosa, antropologica, della mentalità che hanno sempre animato l'autore: con qualche perplessità, s'intende, per chi è impegnato in un recupero razionalmente articolato, ma altrettanto razionalmente individuato e individuabile dei problemi del mondo culturale medievale. È questo il caso di una delle espressioni più nuove della medievistica italiana che, in strettissima connessione con quella europea e nordamericana, indaga la storia del pensiero economico e politico del Medioevo, recuperandone tutta la ricchezza delle problematiche dottrinarie, giuridiche, strutturali/lessematiche che la s. precedente, quando pure se n'era occupata, aveva ignorato o, peggio, trascurato. Ciò è avvenuto specialmente all'interno di un gruppo di discepoli bolognesi di O. Capitani: da M.C. De Matteis a C. Dolcini, da G. Todeschini a M.G. Muzzarelli, interessati rispettivamente alla Teologia politica di Remigio de' Girolami (1977), alla Crisi politologica e politologia in crisi nel basso medioevo (1988), alle fonti ''economiche'' francescane, alla Ricchezza degli Ebrei (1989), alle problematiche di Monti di pietà. Una valutazione complessiva dei risultati e dei collegamenti tematici negli interessi di questi studiosi − proiettati più latamente verso il mondo culturale francescano e penitenziale − si potrà leggere in C. Vasoli, Il pensiero della Scolastica e Papato e Impero nel tardo medioevo: Dante, Marsilio, Ockham, in AA.VV., Storia delle idee politiche, economiche e sociali, dir. da L. Firpo, ii (1983), pp. 367-462; 543-666 (recensione di J. Miethke in Deutsches Archiv, 45, 1 [1989], p. 215). Per la parte concernente lo sviluppo degli studi di storia del pensiero economico medievale, è significativa delle molteplici e amplissime motivazioni culturali la recentissima indagine di G. Todeschini, Il prezzo della salvezza. Lessici medievali del pensiero economico (1994). Si tratta di testimonianze di una s. che è giunta a un momento di riflessione, la cui coerenza concettuale e proprietà di strumentazione hanno definitivamente saldato il divario esistente alla fine del secondo conflitto mondiale tra la medievistica straniera e quella italiana: almeno sul piano dell'autonomia, dell'originalità, della libertà interpretativa di un'epoca storica decisiva per la società italiana ed europea.
Età moderna e contemporanea. - Negli ultimi vent'anni (1975-94), nella vasta area linguistica 'europea' (che copre Europa, America e Australia) è cresciuto il numero degli addetti al 'mestiere di storico', e di conseguenza la quantità del prodotto: se in Gran Bretagna tra il 1960 e il 1970 gli storici accademici passano da 1300 a 1700, in Francia si 'salta' dai 302 del 1963 ai 1155 del 1991; negli Stati Uniti, dove è in atto un processo di riaggregazione su base specialistica, si contano 6000 storici di professione. Anche in Italia, la creazione del corso di laurea in Storia (1975) e l'istituzione del dottorato di ricerca (1980) hanno portato a una crescita quantitativa della professione (dai 252 del 1951 ai 1160 del 1991) e del prodotto (monografie, saggi a più mani, interventi su periodici specializzati o di varia cultura). Sono anche aumentati i periodici specializzati, e tuttavia i maggiori lettori di s. sono gli storici di professione: agli altri, ai lettori 'profani', giungono − con le serie enciclopediche o con i trattati a più autori − in prevalenza biografie, storie militari e diplomatiche, processi celebri, ricerche di costume, saggi sulla vita quotidiana, ecc. Pertanto a un aumento dell'offerta non corrisponde una domanda visibile e articolata, e la cultura storica mantiene un peso minoritario nella cultura generale della società contemporanea. Eppure a questo periodo, che conosce una crescita così consistente e di s. e di storici, viene imputata una crisi che sembra investire l'identità stessa della professione, e mettere in discussione radicale la natura, i soggetti, la ragione stessa del conoscere storico. Da più parti si è alla ricerca di una spiegazione del paradosso rappresentato da un lavoro storico, che cresce in estensione tematica e in complessità metodologica, a opera di soggetti sociali in crisi di status e non certo aiutati dalle trionfanti filosofie antistoriciste, quando non addirittura negatrici della categoria stessa di storicità. Si suole fare, a tal proposito, riferimento alla decolonizzazione e alla fine dell'egemonia coloniale 'europea'. Ma nella vicenda descritta gli storici − europei e non − dell'Asia e dell'Africa hanno avuto ed hanno una parte tutto sommato aggiuntiva, nel senso che, se hanno contribuito fin dagli anni Trenta del 20° secolo a quella critica dell'approccio eurocentrico che caratterizza la s. afro-asiatica, questa stessa s. rimane culturalmente interna alla s. 'europea' e ai suoi problemi e metodi.
Nell'Ottocento, 'il secolo della storia', gli storici avevano avuto partita vinta sui filosofi nella competizione per l'ufficio di educatori della (nuova) classe politica: inoltre non avevano disdegnato i grandi modelli di filosofia della storia, che si reggevano sulle idee-forza del liberalismo e del nazionalismo. Ma a positivismo trionfante, alla fine di quel secolo, neppure dai socialisti e dai cattolici erano venute agli storici serie contestazioni a un ufficio che il nazionalismo del primo Novecento avrebbe persino voluto più incisivo. Tra storia e scienze sociali il circolo si chiudeva senza grandi crisi: insieme si lavorava alle idee-forza di evoluzione e/o rivoluzione. Fino alla prima guerra mondiale e oltre, gli storici furono più e meglio dei letterati assunti al compito di intellettuali, si considerassero al servizio della società (secondo il modello francese) ovvero dei regimi al governo (secondo il modello tedesco). Il nesso tra storia e azione politica fu strettissimo negli anni Venti e Trenta del Novecento, e nel secondo dopoguerra gli storici ebbero parte non piccola nel ribadito impegno civile degli intellettuali. Non solo la lezione del presente (e politico e sociale), ma le scelte del presente costituirono la griglia critica dell'interpretazione storica del passato: quel che si giudicava e condannava, quello che poteva essere salvato nel passato recente e remoto, da assumere a fondamento di nuove e più salde costruzioni politiche e sociali. Ma lo scontro ideologico degli anni Cinquanta e Sessanta ruotò anche attorno alle 'ragioni del passato', alla resistenza che il passato era supposto opponesse − attraverso la giustificazione storica dei suoi pretesi errori e nefandezze − alle manipolazioni o correzioni del presente. Dilagò in quegli anni la cosiddetta s. dei limiti (in Italia ne fu espressione il gramscismo storiografico), i quali 'limiti' (del Risorgimento, della borghesia, del socialismo) misuravano le inadeguatezze delle scelte che in passato erano prevalse e che di conseguenza imponevano oggi allo storico il dovere di schierarsi su posizioni di superamento di quei 'limiti' e/o di compimento dell'incompiuto; negli anni Sessanta le teorie dello sviluppo sovrapposero a questo modello rivoluzionario quello evolutivo delle riforme, che a loro volta erano dirette a consentire alle più varie formazioni politico-sociali di colmare i ritardi accumulati e a paesi in tutto o in parte sottosviluppati di raggiungere lo sviluppo. E queste posizioni politico-intellettuali furono rafforzate (come era nella stessa tradizione culturale europea) da un'attenzione positiva per il 'diverso' delle culture coloniali che furono anzi chiamate a svolgere, in questi anni, un ruolo critico nei confronti dei modelli egemoni della s. dell'Europa: l'altro, il 'diverso' dall'europeo, fu invocato e studiato in quanto rivelatore del 'diverso', dell'altro, nella società stessa dell'Europa moderna.
L'insuccesso di quel riformismo si consuma alla fine degli anni Sessanta; ma con esso si logorava anche la grande operazione storiografica delle Annales, il periodico francese di storia e scienze sociali, che aveva interpretato fino ai primi anni Settanta l'indirizzo ideologico e metodologico dominante in tutta la s. europea: "L. Febvre, vedendo del vuoto, ha creduto che toccasse agli storici di strutturare le scienze umane e sociali circondandosi di etnologi, di psicologi, di linguisti, ecc. ... La concezione di Febvre si è mantenuta una ventina di anni... Ma a partire da un certo momento, le scienze umane e sociali vicine hanno preso tale importanza che alla fine − specie a partire dalla presidenza di un non storico, Marc Augé, un grandissimo etnologo, per il quale la storia è forse la meno sicura, la meno scientifica delle scienze sociali − l'Ecole des Sciences sociales è diventata una specie di enciclopedia delle scienze sociali, in cui la storia non ha più avuto un ruolo dirigente, né come insegnata né come insegnante. Il che ha un senso: nell'evoluzione delle scienze sociali, e persino in generale, la storia non ha più il senso di direttiva, di sintesi che aveva voluto darle L. Febvre" (P. Vilar 1992 [1995]). Ma si era trattato invero di un attacco a fondo alla s. liberale, identificata con l'événement e con la storia (politica) dei fatti: si salutò come 'nuova storia' la storia del collettivo (e del seriale) in quanto opposto all'individuale; e in quel collettivo non era stata soltanto la storia economico-sociale a fare premio, ma aveva trovato attenzione crescente a partire dagli anni Sessanta 'la mentalità', le strutture mentali considerate base più solida della stessa struttura economica perché meglio in grado di resistere alla 'lunga durata' (una formula che identifica la scoperta sociologica degli strati profondi della società in lento, lentissimo mutamento); e modificare la mentalità comportava non un semplice rivolgimento politico bensì un'opera e spontanea di mutamento e altrimenti penetrante di manipolazione culturale. Fu per ciò che, per reazione, gli storici liberal di area tedesca o anglosassone guardarono con speranza a un ritorno della storia politica, come a una prospettiva storiografica incline a cogliere attraverso le scelte individuali e le volontà responsabili il mutamento altrimenti negato: e parvero poco disposti a trasferire in società complesse i modelli analitici usati per 'leggere' le società marginali.
Fin dagli anni Settanta e poi con la crisi delle ideologie degli anni Ottanta, la dichiarata crisi della storia − che interpretava anche il crollo di illusioni politiche maturate nell'Europa degli anni Trenta (e trasferite anche negli Stati Uniti) − risultava dalla somma di due crisi alle ali estreme dello schieramento: da destra per esorcizzare la storia alternativa della sinistra, e da sinistra per registrare l'insuccesso del progetto alternativo (il progetto della 'nuova storia', che oggi viene presentata non più, quale volle essere, come una alternativa alla vecchia s., bensì come una semplice proposta che i nuovi storici avrebbero fatto ai vecchi). Di collasso è forse legittimo parlare a proposito delle grandi filosofie, che avevano comunque discusso alla pari con la s. o avevano costruito per gli storici filosofie e metodologie della storia; e soprattutto a proposito delle scienze sociali, dall'economia all'etnologia, che negli stessi cinquant'anni avevano trionfato inducendo per ciò stesso la sezione più dinamica della s. francese a promuovere la storia a scienza (sociale).
Per A. Momigliano (v. App. IV, iii, p. 492) la caratteristica più persuasiva degli anni 1961-76 era stata "l'attenzione ai gruppi oppressi e/o minoritari nell'interno delle civiltà più avanzate: donne, bambini, schiavi, uomini di colore, o più semplicemente eretici, contadini, operai". Si era trattato infatti di riportare all'interno delle società europee quello studio degli oppressi da colonialismo e imperialismo, su cui fondare l'alleanza di tutti gli oppressi (i volghi europei e gli sfruttati 'esterni') per la rivoluzione mondiale terzomondista, in una prospettiva che unificava anticolonialismo e 'rivoluzione europea' e consolidava (soprattutto fuori dagli Stati Uniti) il prestigio della s. europea nelle culture nazionalistiche post-coloniali di Asia e di Africa. Da qui anche "l'attenzione crescente alle forme intellettuali associate con classi subalterne, quali la cultura di massa, la magia, il folklore e, fino a un certo punto, la tradizione orale". Tale scelta, in cui si riconobbero negli anni Sessanta anche le Annales dopo F. Braudel, continuava a escludere la storia politica nonostante l'insorgere di problemi istituzionali e nazionalistici anche nel Terzo Mondo decolonizzato.
Ma per lo stesso processo un acuto osservatore della generazione di Momigliano, lo storico statunitense J.H. Hexter − critico tenace del metodo delle Annales - avrebbe disegnato più tardi (1993) un differente, meglio articolato percorso. A giudizio di Hexter, nel più lungo periodo 1914-89 la s. europea ha conosciuto tre cambiamenti: a) delle fonti cui gli storici avevano rivolto tradizionale attenzione (per la prima volta "gli storici hanno fatto uso sistematico di aerofotogrammetrie, di registri di nascite, battesimi, matrimoni e morti, di misure fisiche di uomini chiamati alle armi, cataloghi di compagnie postali, registri di iscrizioni scolastiche e immatricolazioni universitarie, licenze automobilistiche, appartenenze a gilde, elenchi telefonici... Caratteristica comune di questa specie di dati era il loro prender significance, ''rilevanza'', per gli storici solo per aggregazione"); b) del soggetto (queste fonti hanno fornito dati su gente fino allora poco considerata dagli storici: lavoratori agricoli, contadini, manovali, soldati di fanteria, donne, fanciulli, "invero da sempre la maggior parte del genere umano". Con queste fonti gli storici poterono fare 'storia sociale', "scrivere in modo coerente di fenomeni che gli storici precedenti avevano pochi mezzi e minor inclinazione a trattare: dieta, salute, fonti energetiche e loro applicazione, alfabetismo, popolazione, produttività, epidemie"); c) del contesto entro cui gli storici collocano la disciplina. Tutto ciò ha avuto effetti sismici sull'immagine e sulla realtà della professione. "Nel periodo di fondazione della professione (1815-1914), gli storici per formazione avevano rivolto la maggiore attenzione agli atti compiuti in passato da maschi adulti bianchi, una piccola minoranza delle persone fino allora vissute sulla terra... Il portare alla luce il modo in cui nel passato umano la stragrande maggioranza degli esseri umani non bianchi, non maschi, non adulti erano vissuti e morti sfociava in un grande e confuso tumulto su cosa considerare come the significant past e come rappresentarlo". Il soggetto della disciplina era stato, nel periodo precedente, il sorgere dell'Occidente nelle due sezioni dell'antico (le culture greco-romana e giudeo-cristiana) e del moderno (dal 1492 in poi, che coincide con l'egemonia mondiale dei bianchi maschi adulti). Ora i 'nuovi storici' finivano per considerare quella vecchia storia narrativa un documento e persino uno strumento di servaggio. "La svalutazione degli individui in quanto centri di racconto storico e la svalutazione del racconto (stories) in quanto forma naturale di storia si collegano agevolmente ai tipi di evidence fornita dalle nuove fonti. Questa evidence dava risposte a molte domande storiche che finora nessuno storico si era posto. Non forniva risposte alla specie di domande che avevano interessato gli storici dell'800 e tra i loro successori quelli che avevano continuato ad avere le loro preoccupazioni. In una cultura che per 200 anni aveva assegnato un valore positivo senza precedenti all'innovazione, ci si doveva attendere che gli innovatori del 20° secolo liquidassero il valore del tipo di storia narrativa che i loro esercizi non erano più in grado di produrre... Così il modello innovativo del lavoro storico del 20° secolo marginalizzò gli scrittori di storia narrativa. Emarginò anche le persone umane, o piuttosto le disintegrò, ridusse a non entità storiche i reali attori dei molteplici racconti del passato, cioè la maggior parte di quello che la maggioranza degli storici aveva scritto nei passati cento anni". Questa vicenda andrebbe letta sullo sfondo di un secolo che è stato, nel suo nocciolo centrale, 'marxista': il successo della Russia sovietica, che realizza il socialismo e si appresta a portare il genere umano verso il comunismo, si esalta in presenza della Grande Depressione e della 'morte del capitalismo' (disoccupazione massiccia, il collasso in Italia e in Germania delle 'democrazie' prebelliche in fascismo e nazismo, la paralisi delle economie capitaliste, e le annunciate convulsioni di morte dell'imperialismo e dell'ordine mondiale borghese). Donde, via Francoforte e Parigi, la ''nuova storia sociale'' che sbarca negli anni Trenta e Quaranta negli Stati Uniti. Ma ora che tutto questo è finito − si chiede Hexter − dove andremo? Dopo tutto, per essere le "strutture di idee più durevoli che non le strutture istituzionali", e disponendo di custodi conservatori, le ideologie terranno: "Ma per uno storico − come per un intellettuale, che ha investito la propria vita ad acquisire una competenza, i cui prodotti il volgere degli eventi, cioè il cambiamento storico, ha reso invendibili − non è facile posar la penna, ancor meno a cancellare il valore del lavoro di tutta una vita". È la composta tristezza di un profeta 'vecchio-storico', che tuttavia avverte in tempo l'esaurirsi della 'quantofrenia' come dell'isteria anideologica degli anni Ottanta, e che non appare incline a prendere per buono il terrorismo psicologico indotto dal postmodernismo negli storici come L. Stone, e si rifiuta comunque d'identificare come crisi della storia la temuta perdita di status degli storici.
Questa perdita di ruolo e d'identità è particolarmente percepita negli Stati Uniti e in Germania − ove con diversa struttura operano le più influenti e numerose associazioni di storici, la American Historical Association e il Deutsche Historiker Verband − e l'argomento è da anni presente negli indirizzi dei loro presidenti e in occasione dei rispettivi congressi. Assai minor rilievo il tema ha trovato negli altri paesi (Italia compresa), ove tuttavia non manca di ricevere attenzione anche se in contesti meno formali. In Germania peraltro, più che in ogni altro paese, il ruolo della storia nel processo formativo, e di conseguenza la responsabilità della s. e l'adeguamento dei metodi nella ricerca e nell'insegnamento, sono stati e continuano a essere tema di dibattito in ogni aspetto, per iniziativa soprattutto di J. Rüsen (il docente di Storia generale a Bielefeld, che per la sua 'nuova istorica' guarda a J. Habermas, e tenta basi teoriche più salde per evitare la fine asfittica della Neue Sozialgeschichte di H.U. Wehler e J. Kocka). Il caso inglese (1985-91), segnato dallo scontro tra il liberal Schools Council, il cui History Project incoraggiava un rapporto critico col passato, e il conservatore History Working Group che faceva appello a una concezione 'positiva' della storia nazionale, resta − come quello statunitense e i più flebili casi italiano e spagnolo − un episodio tutto sommato politico, di assai minore incidenza culturale. Col dibattito sul nazismo e sulla Germania prima del 1989, torneremo sulle ragioni che spiegano questo interesse per il carattere formativo della s. e i riflessi che questa ha avuto nel lavoro storico, condizionato da polemiche su figure e momenti della storia tedesca moderna e contemporanea (da quella sui musei prussiani a quella sulla Germania 'centro dell'Europa', all'Olocausto e allo Historikerstreit aperto da E. Nolte). Ma fuor di Germania e Stati Uniti, gli storici poco discutono di metodologia e dei connessi problemi 'filosofici': oggettività della storia, scientificità del conoscere storico, la storia 'scienza sociale', storia comparata, modelli o 'tipi ideali', filosofie della storia, ecc. Eppure nel periodo tra le due guerre, per opera di B. Croce (e per il successo del suo modello di storico), fu l'Italia in Europa a contendere alla Germania (e alle dipendenti Olanda, Austria e Svizzera) l'iniziativa del dibattito sulle metodologie (e le tecniche) del lavoro storico. Il secondo dopoguerra in Italia è piuttosto dominato, mentre altrove si discute del rapporto fra s. e scienze sociali, dall'urgenza politica dello storico 'impegnato', e dalla conseguente marginalizzazione della s. 'neutrale'. Residuano due isole 'filosofiche': la Napoli neostoricista di P. Piovani e F. Tessitore, e la Torino neoilluminista di N. Abbagnano e di P. Rossi. A Napoli, l'operazione che porterà a una seria indagine sulle 'origini dello storicismo' procede sotto l'insegna vichiana; a Torino, le iniziative di P. Rossi (che abbandona l'illuminismo del maestro per una rivisitazione parallela a quella napoletana della s. tedesca) aspirano a (ri)fondare una "critica della ragione storica", mentre a Napoli Tessitore è impegnato a convertire nella Kulturgeschichte le tradizionali storie della filosofia e del pensiero politico. Dei due indirizzi, peraltro, solo quello napoletano ha avuto echi e destato interesse nel mondo degli storici; anche se il contagio francese ha favorito in questi anni l'ingresso (nella nostra s. del pensiero politico, e in genere nella storia intellettuale) dell'approccio di J.G.A. Pocock ai "linguaggi concettuali".
Nel maggio 1991 la rivista Past & Present ospitava un breve, preoccupato intervento di L. Stone, che aveva qualche anno prima registrato non senza tristezza il ritorno della biografia e della storia narrativa. La letteratura seppelliva la 'storia-problema'? "In questi ultimi 25 anni la materia della storia (eventi e comportamento) e i dati (cioè i testi contemporanei) e il problema (cioè la spiegazione del cambiamento nel tempo) sono stati messi seriamente in discussione, gettando così la professione, specie in Francia e America, in una crisi di fiducia su quel che sta facendo e su come lo sta facendo. La prima minaccia viene dalla linguistica, quale si costruisce da Saussure a Derrida, che sbocca nella 'decostruzione', per la quale non c'è nulla al di là del testo, aperto ciascun testo a interpretazioni personali senza riguardo alle intenzioni dell'autore. I testi diventano così una stanza degli specchi che riflettono solo se stessi, e non gettano luce sulla verità, che non esiste. Il secondo sviluppo, dapprincipio liberatore ma alla fine minaccioso, viene dall'influenza dell'antropologia simbolica e culturale sviluppata da un brillante gruppo di studiosi come C. Geertz, V. Turner, M. Douglas e altri. L'opera loro ha influenzato molti dei migliori storici dell'ultima decade, specie in America e in Francia. Ma lo storico culturale e l'antropologo simbolico si separano quando questo dice che ''il reale è altrettanto immaginato dell'immaginario''. Questo significa forse che entrambi, il reale e l'immaginario, sono solo codici semeiotici che governano tutte le rappresentazioni della vita, che il materiale viene dissolto nel significato, e che il testo vien lasciato senza connessioni col contesto. La terza minaccia viene dal Nuovo Storicismo. A prima vista un apprezzabile ritorno a uno studio del testo nel suo contesto geografico, temporale, sociale, economico e intellettuale, esso si è rivelato una variante della concezione simbolica e semeiotica delle produzioni culturali, nella quale il linguaggio è ''il medium in cui il reale si costruisce e si apprende''. Come risultato, il Nuovo Storicismo tratta le pratiche politiche, istituzionali e sociali come cultural scripts, vale a dire 'gruppi discorsivi di sistemi o codici simbolici'".
Stone muoveva per il suo intervento da un articolo pubblicato su Speculum (1990) da G.M. Spiegel sui guasti del postmodernismo e del 'nuovo storicismo', che aveva suscitato reazioni polemiche da parte di 'storici sociali' e di 'storici dei gruppi subalterni'. Per es. P. Joyce (1991): "Riconoscere il carattere irreducibilmente discorsivo del sociale mina l'idea della totalità sociale. Non c'è nessuna superiore coerenza evidente in politica, economia o nel sistema sociale. Ci sono casi (testi, eventi, idee, ecc.) che hanno contesti sociali essenziali al loro significato, ma non c'è alcuna struttura sottostante cui si possano riferire come espressioni o effetti. Perciò con la nozione di totalità sociale scompare la nozione di determinazione sociale, tanto centrale alla 'storia sociale'... E scompaiono anche le grandi narrazioni che storicizzano la nozione di totalità sociale. Accettare la logica antiriduzionista del post-modernismo significa pensare nuove versioni del sociale, per le quali gli storici han da essere gli inquisitori e forse i boia delle passate valutazioni. Qual che ne sia l'esito, va messa in discussione la santità della 'storia' come una distinta forma di conoscenza fondata sull'autonomia del sociale". Meglio, in replica (1992), la Spiegel: "Sebbene quanti entrano (me compresa) nel dibattito sul post-modernismo presentino l'argomento in termini epistemologici, da tempo mi è parso che la questione sia piuttosto di etica. Vale a dire, questioni epistemologiche e metodologiche sono spesso impiegate nel discorso dello storico come modi di codificare (coding) principi etici di comportamento: cosa è corretto, vero, 'virtuoso' nella nostra prassi: ... cosa in definitiva legittima la storia come un corpo disciplinare di conoscenza? Per gli storici il nocciolo etico del loro impegno professionale è sempre stato la persuasione che la loro ardua, spesso tediosa fatica produca qualche autentica conoscenza del morto 'altro', una conoscenza (ammettiamolo) plasmata secondo le percezioni e inclinazioni dello storico, ma che serba nondimeno un grado di autonomia, nel senso che non può (putativamente) essere del tutto piegata al volere dello storico. Questa credenza (qualcuno direbbe illusione) nell'irreducibile alterità del passato conferisce alla storia la sua funzione propria, che è di recuperare quell'alterità nell'approssimazione maggiore a ''come è effettivamente accaduto''. Nell'intento di preservare questa alterità, lo storico pratica la modestia come suprema virtù etica, mentre tiene discretamente in scacco le sue persuasioni, i pregiudizi e presupposti. Gli storici hanno sentito acutamente che il linguistic turn vuol distruggere questa base etica per la pratica della storia col mettere in discussione non solo i metodi dagli storici tradizionalmente impiegati per studiarla, ma la nozione stessa del passato come recuperabile oggetto di studio. Se i testi − documenti, opere letterarie, qualsiasi scrittura − non riflettono in modo trasparente la realtà, ma soltanto altri testi, sarà difficile allora distinguere lo studio storico dallo studio letterario, e il passato si dissolve nella letteratura".
Il senso di precarietà dello status professionale, che in molti casi ha preso i caratteri e il tono di una perdita d'identità, accompagna con espressioni certo eccessive di 'apocalisse' della s. le discussioni degli ultimi decenni sull'oggettività della conoscenza storica, sulla storia narrativa che segnerebbe la fine della 'storia-problema', e sulla decostruzione del testo storico (e perciò sull'impossibilità stessa di ricostruire il passato) come finale via di fuga dal precedente "abuso della storia". E il ritorno all'evento, la domanda di storia narrativa? Alla fine degli anni Settanta il narrativo (il quomodo, il what, che viene fatto coincidere con la 'descrizione', col racconto) è quasi esorcizzato (Stone 1979, Tilly 1981, Furet 1982) giacché non spiega, non risponde a un problema, confina il rapporto causale alla mera successione temporale (o alla mera contiguità), si chiude entro il particolare non generalizzabile e non comparabile. Si tratta per una s., resa avvertita dalla 'meta-istoria' di H. White, di un appiattimento sulla letteratura: ora che, soprattutto in Francia (Le Roy Ladurie 1975) e in Italia (Ginzburg 1981), lo storico è riuscito a sottrarre l'audience al letterato e a tenere i primi posti nelle graduatorie di vendita (ma par certo che, solo negli Stati Uniti, l'esistenza di un vasto mercato stimoli effettivamente la ricerca).
In questo modo però si resta prigionieri della 'storia degli storici' e all'esterno dei processi reali, entro i quali invece è sorta e si è consumata l'esperienza delle quattro o cinque passate generazioni di storici. Il periodo tra le due guerre e soprattutto gli anni Trenta avevano posto al centro della ricerca la nascita e la morte (inevitabile?) della civiltà; il dopoguerra per contro fu chiamato ad affrontare il nodo dell'inevitabilità dei fascismi, e l'idea stessa di rivoluzione; gli anni 1955-65 furono invece gli anni dell'illusione riformistica (e del neoilluminismo). Poi a cavallo degli anni Sessanta-Settanta lo strutturalismo e la 'lunga durata' esaltarono le permanenze, quasi esito scettico delle rivoluzioni solo vagheggiate e ragione della loro effettiva impraticabilità. Con gli anni Ottanta, e la fine delle ideologie, si è esaurita del tutto l'onda ottocentesca che allo storico assegnava il compito di educatore della classe politica (e fu la morte dell'intellettuale nelle versioni dell'intellettuale 'che contesta il potere' alla E. Zola, e dell'intellettuale 'che serve il potere' alla G. von Schmoller). Non servirebbe più una storia portatrice di senso, e si afferma − a denunciare il disagio più che a provveder terapie − il gioco testuale (del testo che rinvia al testo) del post-modernismo, il quale si spinge a dichiarare irrilevante la contestualizzazione storica del documento. Generato in Francia negli anni Sessanta, ancora poco ascoltato, questo messaggio 'decostruzionista' libera radicalmente il discorso storico dell'abuso ideologico, rompendo ogni legame tra la parola e le cose, e rendendo futile ogni tentativo di convertire le generalità in oggettività.
Nella Germania occidentale quelle preoccupazioni attorno all'uso/abuso della storia avevano trovato ascolto e suscitato discussione: il confronto con la s. della Repubblica Democratica Tedesca non poteva non dare rilievo al tema della 'parzialità' (o soggettività) del discorso storico, con vivaci contestazioni reciproche sulla crisi inevitabile della s. marxista-leninista (la voce del potere) e della s. 'borghese' (la nemesi soggettivista). Ma con gli anni Settanta la particolare versione tedesca della 'storia sociale', che voleva dare conto dell'ideologia e della politica (H.U. Wheler, J. Kocka), aveva comunque già esaurito il proprio ruolo: dopo che vi si era consumata e la linea neorankiana, e la classica linea Dilthey-Meinecke della 'storia rivissuta''. Perciò negli ultimi decenni, con la consapevolezza che lo storico nel porre i problemi è condizionato da precise prospettive, si è invece offerta la posizione Perspektivengebundenheit (e R. Koselleck l'ha definita persino una rivoluzione copernicana). È un modo di chiedere a un futuro possibile di legittimare un passato 'ricco di senso' (ma questo senso è il senso del futuro in prospettiva). Dall'interno dell'area marxista, in crisi di prospettive e politiche e metodologiche, insorgono nuove tesi. Se la s. polacca restava fedele ai temi (la cultura materiale, i marginali) che, negli anni bui, si era ritagliata come spazi consentiti; la s. della Germania orientale e dei paesi ex comunisti appariva priva di recuperi, cercava rifugi nella 'crisi generale', ed era travolta nella deriva poststrutturalista della s. marxista francese e italiana. Negli anni Settanta timori erano nati sul futuro dell'umanità (il conflitto Nord-Sud, le crisi finanziarie mondiali, lo sviluppo impossibile dei 4/5 del mondo, la crisi ecologica e gli effetti distruttori delle tecnologie avanzate) che distruggono l'ottimismo degli anni Cinquanta-Sessanta. Dilaga la critica della modernità/civiltà/cultura: l'importanza delle scienze sociali trascina la storiografia. È il tempo del linguistic turn; si guarda alla forma, alle forme intellettuali dell'esperienza storica e della memoria, alla metaforica e alla simbolica della lingua, alla simbolizzazione dei testi, a un nuovo 'narrativismo'. Si scivola così dalle scienze sociali verso la scienza della letteratura e della lingua, soprattutto alle concezioni di filosofia del linguaggio, alla semiologia e alla retorica. Ne discende il trapasso critico delle più giovani generazioni dalla storia delle strutture e dei sistemi, dalla storia sociale ed economica alla storia del quotidiano e della mentalità, all'antropologia storica, all'etnologia e alla oral history. Ma l'ampliamento dell'orizzonte ha coinciso con 'l'implosione della storia' e con "la storia in briciole" (F. Dosse 1987). Così il postmoderno resta a indicare appunto un deficit di prospettiva, è una fuga in avanti di fronte al vuoto del presente.
In area anglosassone, lo stesso disagio era stato avvertito negli anni Sessanta a Cambridge nella scuola di H. Butterfield: punto di partenza era sempre il condizionamento politico-ideologico della s. (nazionale), la denuncia dei guasti (l'abuso della storia!), e la ricerca delle origini 'presentiste' della storia a tesi. Terreno prescelto la storia della s. e la storia del pensiero politico come aspetti della 'storia intellettuale'. Due le vie di uscita: l'opera storica o la teoria politica vanno ricontestualizzate e relativizzate nel tempo e nelle intenzioni originarie dell'autore (Q. Skinner), un approccio che ha coinvolto anche la s. delle arti; la teoria politica o l'opera storica, in quanto espressione di 'intenzioni' non attingibili nella loro autenticità fuori dal linguaggio del tempo, vanno lette nel linguaggio del tempo storico (J.G.A. Pocock). Si cercava anche di superare l'impasse imposta dai politologi (soprattutto nordamericani) alle 'teorie (o idee) politiche' e alla storia di queste: una storia intellettuale, che era da più parti denunciata come un'archeologia della tradizione liberaldemocratica 'inventata' dall'Occidente, e della quale si voleva contestare non meno che per la storia della filosofia la pretesa di rappresentare idee e ideali di universale validità, mentre la politologia come la filosofia contemporanee di fatto le riducevano a schemi provvisori, a modi di lettura del reale e dell'ideologico strettamente confinati a esperienze significative solo in un certo luogo e in un certo tempo.
Entrambi gli approcci, quello di Skinner e l'altro di Pocock (con aggiustamenti e correzioni) hanno avuto fortuna soprattutto negli Stati Uniti e in Italia; meno in Francia e Germania, dove − quando si affermano nel nuovo clima degli anni Settanta-Ottanta, soprattutto nell'ambito della cosiddetta storia intellettuale − incontrano critiche radicali. In Francia, dove la storia socio-culturale privilegia la storia del libro prima, quindi (con R. Chartier e con lo statunitense R. Darnton) la storia della lettura, l'offensiva viene dal post-strutturalismo e dal decostruzionismo che dilaga di fronte alla ritirata delle scienze sociali. Via d'uscita si è tentata con la riproposizione in Francia della storia-problema (F. Furet), che deve bloccare il narrativismo considerato un cavallo di Troia dei poststrutturalisti, o con la microstoria (G. Levi-J. Revel), che è più della 'cronaca' e meno della 'storia', e che pur s'iscrive entro l'area descrittiva del racconto al fine di trovare posto (provvisorio) ai frammenti di una storia alternativa da costruire. In Germania e negli Stati Uniti sbocchi possibili sono invece cercati, oltre che nella Perspektivengebundenheit (R. Koselleck e W.J. Mommsen), nella Begriffsgeschichte: si vuol operare un controllo critico del linguaggio concettuale (con una linea vicina a quella di Pocock), quale si vien caricando di significati, e che urge 'ricontestualizzare'; una volta sgombrato il passato, si cerca nella 'prospettiva', cioè nel futuro potenziale, il fondamento della oggettività del discorso storico. Anche per lo statunitense D. Megill (1989), la 'prospettiva' dello storico identifica il livello dell'interpretazione, che dovrebbe seguire i due della descrizione (recounting) e della spiegazione; e più di recente, egli ha fatto appello all'identità disciplinare della s. (nei termini della Istorica di Rüsen).
Due aspetti che investono il rapporto tra la storia e lo storico sono emersi pertanto in quest'ultimo periodo: 1) la forbice si viene allargando tra lo storico di mestiere (quasi sempre uno storico che scrive per altri storici) e il filosofo della storia (è difficile trovare un tempo in cui questa estraneità sia maggiore); 2) si coglie un dato, che ha pochi precedenti nella cultura moderna dell'Occidente: la crescente irritazione, inquietudine, amarezza degli storici di mestiere, soprattutto accademici, sfidati nella loro tradizionale identità di 'maestri della politica'. Il modello tedesco posthegeliano, che fu di L. v. Ranke e di H. v. Treitschke, di B.G. Niebuhr e di E. Meyer, di K. Lamprecht e di F. Meinecke, dello storico politico che prende il posto del filosofo come educatore del popolo alla 'politica' (stato e religione), aveva trovato − attraverso varie trasformazioni e percorsi tortuosi − un modo di durare anche nel nostro tempo, quando l'operazione Annales è riuscita a rendere le rampanti scienze sociali subalterne alla 'storia', col sacrificio della storia politica ridotta a fantoccio da falò e con l'altrettanto simbolica apoteosi della histoire sociale. Era inevitabile che la crisi delle scienze sociali per un verso riportasse il pendolo verso la storia politica, per l'altro scompaginasse il fronte assai frastagliato degli storici sociali: l'accelerata conversione degli storici alla storia del 'collettivo' (e delle mentalità) non poteva bastare negli anni Settanta ad assicurare una tenuta di status, mentre nell'area tradizionale delle scienze umane il posto delle scienze sociali era conteso da filosofi (non solo di morale, ma anche di logica), da linguisti, da critici.
Il dibattito assai affollato negli Stati Uniti, ma già presente in modo marginale nella cultura europea degli anni Ottanta, sul postmodernismo e sul neostrutturalismo non ha forse grande interesse di per sé: è stato tuttavia rivelatore di un disagio complessivo determinato dalla pretesa di riclassificare le discipline e stabilirne una differente gerarchia. Se l'obiettivo resta quello di conquistare la posizione di comando nella 'educazione alla politica', e di legittimare − dopo la morte dell'intellettuale (organico o no) − la pretesa all'egemonia dei nuovi maîtres à penser, allo stato degli atti non si vede per quali vie gli storici possano sperare in una siffatta 'restaurazione'. In confronto al passato (e penso ai 50 anni che ci separano dalla fine della guerra) la ricerca − implicitamente o esplicitamente assistita da curiosità storico-storiografiche − si è sottratta alla polarità ricattatoria di storia degli storici e storia (autocertificata) della società. Compito morale e intellettuale dello storico resta sempre quello di 'liberare' il futuro dal passato, prima attraverso l'analisi critica (l'invenzione della tradizione!) della memoria che il presente ne serba, e poi attraverso una graduale e controllabile (dal soggetto agente) dilatazione o ricostituzione della stessa: lo storico può anche scegliere di essere 'profeta (del passato)', e cercare per sé o per altri nel passato i supporti o i precedenti del progetto in corso; può manipolare la memoria anziché ritesserla con l'obiettivo diretto d'influire sulle decisioni a breve. Ma "se il futuro è certo, il passato è imprevedibile". Lo storico non può perciò lamentare che questo 'abuso della storia' si risolva in una polemica dichiarazione della inutilità (o peggio) del suo lavoro: era scontato che all'inizio degli anni Settanta, quando l'edificio delle scienze sociali che ospitava la 'nuova storia' mostrava le prime crepe, gli storici conservatori o progressivi denunciassero l'abuso quasi per un'apologia anticipata. In verità si dichiaravano pronti a espellere le ideologie dal terreno dello storico, quando quelle non erano più che sterpi e bronchi, e qualche rara pianta superstite mostrava scoperte le radici secche e riarse. Eppure J. Le Goff, in quella che volle essere all'inizio degli anni Ottanta un'organica riflessione sulle 'nuove storie' (voce Storia dell'Enciclopedia Einaudi), chiudeva in rosso il bilancio: "La crisi del mondo degli storici nasce sia dai limiti e dalle incertezze della nuova storia, sia dal disincanto degli uomini di fronte alle asperità della storia vissuta... Ma si può, si deve − lo storico per primo − operare, lottare affinché la storia, nei due sensi del termine, sia 'altra'". Gli anni Ottanta sono perciò gli anni della sperimentazione, che spesso è stata un recupero di segmenti della s. tradizionale, e per lo più si è espressa in diffidenza verso i 'problemi' e con una propensione al frammentismo della microstoria. Della quale va apprezzato lo sforzo di conferire alla stessa un più saldo fondamento ermeneutico, ma si tratta pur sempre di tentativi che s'iscrivono in un orizzonte di attesa.
Nel 1975, un dibattito a tre voci (C. Lévi-Strauss, M. Augé, M. Godelier) era stato l'elogio funebre dello strutturalismo e dell'antropologia strutturalista nel metodo storico: un successo peraltro che aveva riguardato meno il metodo, più i contenuti. Come abbiamo visto, per Momigliano (v. App. IV, iii, p. 492) la caratteristica degli anni 1961-76 era stata l'attenzione crescente alle "forme intellettuali associate con classi subalterne", e per catturarle si era dovuto fare appello al metodo dell'antropologo, cui accresceva fascino l'offerta di spiegazioni totali. Tutto ciò finiva per emarginare la storia politica: non era utile misurare la dimensione morale di una società, mentre la critica dei regimi dittatoriali aveva contribuito alla rimozione dell'idea stessa di stato. La nuova storia universale non sceglieva più a suoi paradigmi stato e nazione, bensì vicende di istituti o di modelli socio-culturali, a proposito dei quali si sforzava di correggere la pretesa di 'verità' posta a fondamento della loro egemonia con l'analisi lenta del costituirsi di alternative, e l'esplorazione delle cause (non più strutturali, ma occasionali) del successo. Né poteva bastare neppure la resa (E. Le Roy Ladurie) allo événement, quando l'egemonia dell'uno (lo storico événementiel) era soprattutto il riflesso dell'impotenza dell'altro (lo storico sociale): nel vuoto creato dal ritiro dell'onda marxista sarebbe esploso nei tardi anni Settanta, a sinistra e a destra, il tema dell''autonomia del politico' e la ressa attorno a C. Schmitt (e alla nuova lettura di Hobbes).
All'inizio degli anni Ottanta persino Lévi-Strauss (1983) compirà il suo gesto di umiltà: chiede alla storia di salvare l'etnologia. "In una prima fase, l'etnologia si è limitata al più facile privilegiando per il suo studio piccole società i cui rapporti di parentela costituiscono essenzialmente l'armatura, e che formulano a uso interno leggi d'ordine assai semplici... E quando l'etnologia si arrischiava ad abbordare società più voluminose e più complesse, si limitava a luoghi relativamente al riparo, che gli sconvolgimenti della storia avevano ignorato o aggirato. È giunto il tempo per l'etnologia di attaccarsi alle turbolenze... Per farlo si rivolge di nuovo verso la storia: non più alla 'nuova storia', alla cui nascita ha forse contribuito, ma alla storia più tradizionalista e che talora si dice defunta; seppellita nelle cronache dinastiche, nei trattati genealogici, nelle memorie e in altri scritti consacrati agli affari delle grandi famiglie... Ché tra la storia événementielle e la nuova storia − l'una che registra giorno per giorno gli atti dei grandi personaggi, l'altra attenta alle lente trasformazioni di natura demografica, economica o ideologica che hanno la loro origine negli strati profondi della società − la distanza non pare più tanto grande, ove si confrontino le abili strategie matrimoniali di Bianca di Castiglia e quelle che, in pieno secolo XIX, le famiglie contadine continuano a praticare. In entrambi i casi, gli attori credono di obbedire ai calcoli dell'interesse, agli impulsi del sentimento o alle ingiunzioni del dovere: ma strategie individuali intricate lasciano intravvedere una forma. Per sbrogliare le une e fare venir fuori l'altra, gli etnologi debbono fare ricorso ai metodi e alle conoscenze degli storici. Quanti tra questi rimproverano talora allo strutturalismo di privilegiare l'immobile saranno forse sorpresi, e spero rassicurati di vederlo impegnato a riabilitare fin la storia più piccola, e sapere che la collaborazione degli etnologi è loro assicurata al fine di estrarre da un preteso serbatoio di dati e aneddoti taluni materiali, e non i meno solidi, per edificare insieme le scienze dell'uomo". È un sintomo importante: la crisi della storia immobile, il ritorno dell'evento induce lo strutturalista a 'saltare' lo storico, e a offrire attraverso una conciliazione la possibilità di fronteggiare la crisi minacciosa. Peraltro la parabola della oral history e della 'civiltà materiale' (la vita socio-culturale di gruppi umani considerata dal punto di vista del loro uso degli oggetti materiali) paiono convergere verso un approccio insieme più generale e più tradizionale. Eppure l'intesa rinegoziata non sarebbe riuscita a evitare la sconfitta, e nel contesto degli anni Novanta due debolezze non bastano a fare una forza.
Non è questa la sede per un bilancio del lavoro storico compiuto nel periodo considerato. Non mancano certo bilanci e rassegne parziali, tutti utili e spesso di notevole qualità critica. È possibile raccogliere alcune direttive di fondo, le molte persistenze e le più interessanti innovazioni. Esaurita la fase 'quantofrenica' ("lo storico ormai o sarà programmatore o non sarà"), e la politologia dei futuribili, la storia sociale ha perduto il nesso, prima costitutivo, con la storia economica; mentre la storia economica vede l'accento spostarsi dalla produzione (e dai produttori) al consumo (e ai consumatori). Prendendo congedo dall'economico (si pensi alla fortuna di E.P. Thompson, alla cosiddetta 'economia morale' e all'interesse per l'antropologia economica), la storia sociale esce dalla 'storia delle mentalità', e scivola irresistibilmente nella storia del costume, della moda e del quotidiano − cui gli storici tedeschi della Alltagsgeschichte continuano ad affidare il ruolo di rivelatore dello scarto tra comportamento e condizionamento ideologico. In calo l'interesse per la demografia storica e per la statistica sociale, in vista di un migliore assetto metodologico della classica storia della famiglia: il mancato decollo del 'diritto dell'economia', l'erosione sociologica e politologica della s. delle istituzioni pubbliche, il crescente tecnicismo di costituzionalisti e internazionalisti (l'ingegneria a spese della politica), hanno reso flebile il già forte dialogo tra storici sociali e storici del diritto e delle istituzioni. Nonostante la (discussa) ripresa della storia politica, resta puntiforme persino in Francia il dialogo − tanto forte sino agli anni Sessanta − con i geografi: la geopolitica non ha grande rilievo nella ripresa delle storie nazionali, in cui dominano invece lingua, razza, religione. E la nazione, se conosce i governi e gli apparati del potere, emargina intenzionalmente lo stato come concetto forte. La s. alternativa che, esaurita la storia degli oppressi (la classe operaia, i volghi del Terzo Mondo, le minoranze etniche), è oggi quasi soltanto la storia delle donne (e dei fanciulli), stenta a uscir di minorità, anche se, specie negli Stati Uniti, la ricerca vien lasciando gli approcci indifferenziati della gender history, per una più analitica individuazione degli spazi sociali della competenza e dell'interesse. Il narrativismo peraltro, affermatosi dagli anni Settanta come rinunzia o addirittura obliterazione del senso storico (il quia emarginato dai quomodo!), non esclude ormai programmaticamente la dimensione della storicità, laddove l'immaginario non si confina al mito ma tende a consolidarsi nella pratica liturgica del rito, cerca un nuovo equilibrio tra la simbolica e lo strutturalismo. E il tempo non misura più solo la durata, ma coglie il ritmo irregolare dei processi, il respiro ora disteso ora contratto delle crisi (P. Ricoeur 1983-85). Più problematico il rapporto con lo spazio, non solo per la tradizionale ambiguità del rapporto tra Weltgeschichte e Universalgeschichte, ma per la difficoltà di aggiornare il concetto di 'confine' nella fluidità di una condizione politico-economica multipolare. Un terreno di dialogo è stato individuato di recente nella cosiddetta ecostoria: ma non sono molti gli studi dell''imperialismo ecologico' (A. Crosby 1986). Residua, anche per spinte critiche provenienti dalla 'nuova archeologia', l'interesse per la storia urbana: la quale peraltro ha il nucleo forte nella s. inglese (nonostante i ritardi, rispetto a Francia e Germania, in fatto di storia urbana medievale); ed è costantemente insidiata, nel suo carattere 'forte' di storia sociale e politica, dall'interesse per il disegno urbano, per le piante di città, che si accompagna al nuovo interesse per i significati simbolici e al 'riduzionismo' presente nella storia sociale. "Una delle caratteristiche più sorprendenti della storiografia urbana inglese... è stata il crescere dell'interesse per i processi piuttosto che per la struttura, ed insieme per nuove aree di ricerca, quali il tempo libero, la demografia urbana, le relazioni familiari e sociali, il ruolo delle donne e l'ordinamento del tempo e dello spazio" (M. Reed 1994).
Sempre Momigliano notava nel periodo 1965-75 l'egemonia della s. francese e nordamericana. Nell'ultimo ventennio quella francese si è consumata, mentre è cresciuta − per qualità e quantità − la presenza nordamericana; in Europa, segnali di ripresa vengono dalla Germania e dalla Gran Bretagna, mentre non riescono a decollare Italia, Spagna e Austria. Ancora più significativa è la (normale) divaricazione tra storici e teorici della storia, che tuttavia − proprio con la fine delle grandi egemonie di scuole − si è piuttosto ridotta, nel senso che gli storici, lasciati liberi da vincoli e riferimenti di scuola, hanno cercato il senso della storia, o per negarlo o per identificarlo con le correnti di pensiero o gli indirizzi etico-intellettuali prevalenti. L'appello costante è al metodo empirico e alle 'combinazioni'. Tutti proclamano aperture. Il passato non è più la preparazione ai successi del presente, ma deve contenere in sé le nemesi del presente/futuro, in una concezione peraltro diacronica ma non progressiva della storia. Se ogni presente aveva un proprio passato, il presente 'aperto' imponeva l'apertura di tutte le alternative del passato: e allo storico spetta privilegiarne una sulle altre; e la microstoria agiva per questo verso come una posizione di attesa, indagando casi singoli e irrelati di oppressione o di protesta cui far ricorso al momento giusto per correggere il racconto tradizionale.
Era forse inevitabile, in un contesto culturale di rassegnato scetticismo, che si affermasse anche sul terreno storiografico il poststrutturalismo (altrimenti detto postmodernismo), che identifica il fatto storico col documento e, negando allo storico l'accesso epistemologico all'evento, costruisce la storia come storia di 'idee', di miti, di concezioni del mondo sostenuti dal testo (scritto od orale, poco importa). Realtà e verità sono perciò inattingibili, e l'opera storica non differisce in nulla dal romanzo, non solo perché prodotta con gli stessi strumenti intellettuali, ma perché fatta degli stessi materiali. La filologia che volesse 'collocare' il testo nel suo contesto storico deve sapere che si limita a operazioni tutte e soltanto di rispecchiamento, come mostra la linguistica postsaussuriana dei decostruzionisti. Con la 'morte' dell'autore crolla ogni interesse per la creazione e il momento creativo: l'intenzione è negata, la responsabilità individuale non esiste; e tutto si riversa all'estremo opposto del consumo, della lettura, del gusto, della moda, dell'identificazione tra 'recupero storico' e giudizio critico (M. Baxandall 1985). L'oggetto storico, il prodotto storico non ha una realtà nelle intenzioni di chi lo ha fatto: ed è invece il prodotto sociale di chi lo conosce, lo giudica, lo legge, lo consuma. La storia stessa del diritto (penale, privato, amministrativo, costituzionale, ecclesiastico) ha perso in interesse ed estensione come storia istituzionale del potere, per convertirsi in indagine del modo in cui quel potere viene percepito da chi comanda e da chi obbedisce. Il crescente interesse per la dimensione religiosa (mito e rito), a scapito del 'magismo', della stregoneria che avevano già richiamato l'attenzione negli anni Sessanta, si definisce anch'esso per il punto di osservazione che non è più quello del potere magico-religioso, bensì quello del rito e della pietà come momenti del vissuto e del quotidiano. Un'altra spia interessante è l'inattesa fortuna del concetto di 'sociabilità' (sociabilité, Geselligkeit): si esplorano i modi della vita associata, non i perché della stessa; d'altra parte, la storia non ha segreti da svelare (attraverso la demografia, ecc.) non per impotenza del metodo, ma perché non ci sono segreti e leggi da scoprire. Il senso della storia si è ridotto al 'senso' degli storici, che non possono andare aldilà delle ragioni consapevoli degli attori: ma rimane da chiederci come è possibile raggiungerle, se esse mancano dell'oggettività.
Osserva Harlan (1989): "Il contestualismo radicale − sia nella forma di Skinner (la ricerca delle vere intenzioni dell'autore) o della storia di Pocock (stabilire il significato di una teoria politica attraverso il linguaggio concettuale del periodo) ovvero nella forma di una storia del discorso (D. Hollinger, D. La Capra, ecc.) − è uno dei tentativi più influenti e importanti fatti finora per arrestare il declino della storia intellettuale. Ha riconosciuto e cercato di incorporare taluni degli sviluppi più recenti nella critica letteraria, nella filosofia del linguaggio, e nella filosofia della scienza... Ma non ha dato una risposta efficace alle critiche, ai dubbi, ai sospetti che i post-strutturalisti hanno avanzato sulla storia intellettuale: la credenza che il linguaggio sia un gioco autonomo di trasformazioni non intenzionali piuttosto che uno stabile complesso di referenze stabilite, una wayward (indocile) economia di opposizioni e differenze che costituiscono anziché riflettere; i dubbi conseguenti sulle capacità referenziali e rappresentative del linguaggio; il crescente sospetto che il racconto possa non esser capace di portare un significato fisso, determinato, accessibile; e infine l'eclisse dell'autore come soggetto autonomo, dotato di intenzioni". Il postmodernismo aggredisce le fonti: il testo che conosce il testo. La filologia si libera dal contesto storico e consuma il proprio suicidio. Un ritorno alle storie? Tornano i nazionalismi a base etnica, tornano i fondamentalismi religiosi e i neorazzismi: e l'illuminismo appare un messaggio remoto. Ma non regge più la storia comparata, e l'egemonia dell'antropologia (ultima spiaggia funzionalista delle scienze sociali) tramonta. Dal romanzo alla novella: c'è la microstoria nel nostro futuro? Opporre alla storia degli storici la 'memoria storica' ha una funzione solo pratica: significa sostituire l'immaginario collettivo al rigore epistemologico, l'arbitrio dell'indifferenza manipolabile alla scelta critica e per ciò stesso contestabile.
Nel 1955 Momigliano osservava come non fossero più gli storici antichi i creatori di modelli storiografici autorevoli per tutti, e che lo scettro della modellistica era passato nelle mani degli storici moderni (e degli scienziati sociali). Egli tuttavia non sembrava cogliere le ragioni di questa 'svolta', che era connessa all'ultimo grande scontro avvenuto nell'antichistica sulle origini dell'Occidente, uno scontro avviato negli anni Trenta e combattuto nel secondo dopoguerra fra 'classicisti' e 'anti-classicisti'. Nessuno dei due aveva vinto, ed il campo comune era rimasto devastato e deserto per le imminenti incursioni (e presto per le invasioni permanenti) della 'nuova storia' che aveva scelto a tema il rifiuto dell'Occidente, e trovava resistenza modesta nella s. liberaldemocratica (di cui l'italiana etico-politica si offriva come una variante), che tornava, malinconica e nostalgica, sul 'declino dell'Europa' accettato, persino consapevolmente costruito dalla s. inglese post-imperiale. Si deve tuttavia spiegare perché l'evidente perdita di prestigio del 'modello comunista' si sia accompagnata con le stanchezze della democrazia, di cui sono state, e sono figlie le denunciate, attuali 'stanchezze di Clio'. In verità l'allarme (vedi gli interventi di Stone e di Hexter) deriva dalla caduta di status della 'professione storico', una professione cui era unita la pretesa dell'intellettuale che aspirava a governare il presente sul fondamento delle sue conoscenze del passato: ma il ritorno degli indovini, che annunciano il futuro, ha messo da parte quelli che 'profetavano sul passato'. Prendiamo atto di una crisi che investe (come è comprensibile) i diversi ruoli disciplinari, ma non identifichiamo la crisi dello storico con la crisi della civiltà (libero ognuno di valutare la crisi dello storico come sintomo di più grave malattia).
L'attuale dibattito sulla s. contemporanea si è svolto comunque all'insegna della pendolarità. Gli anni Settanta, quelli della oral history, dell'antropologia economica (E. Grendi) e della microstoria (G. Levi), avevano conosciuto il rifiuto "delle centralità storicisticamente fondate del politico e dell'economico". Gli anni Ottanta si concludono con un ritorno pendolare alla 's. politica': non importa indagare o commentare le ragioni (o i modi?) di questo ritorno. Si è trattato però di un ritorno all'insegna del cosiddetto 'revisionismo', cioè della messa in questione delle 'rivoluzioni' europee (l'inglese del Seicento, la francese del Settecento, la russa del Novecento), del loro carattere epocale e periodizzante. Un paragrafo per tanti versi singolare della cultura contemporanea, preceduto e agevolato per un verso dallo strutturalismo, seguito e agevolato dal post-modernismo e dalla rinuncia al 'senso della storia'. E però la nuova storia politica ha, in Francia come altrove, emarginato il concetto e il ruolo dello stato: c'è una corsa affannosa a constatare, con le 'disunità', le resistenze alla centralizzazione. Mentre si afferma, in alternativa, la tendenza "a risolvere interamente in termini di networks, parentele e clientele, processi di mobilità sociale che hanno anche ragioni politiche e istituzionali" (E. Fasano Guarini 1993). E non è casuale che questa sia l'ultima versione della microstoria, e che in essa si riconoscano i superstiti delle Annales. E sul ritorno alla storia politica in Francia, persino al tema dello stato, si veda J. Boutier (1990) e J. Boutier-D. Julia (1995). Significativa mi pare l'ambiguità 'ideologica' dell'approccio: per un verso, è chiamato a dare conto delle resistenze, della continuità, della tenuta del 'tradizionale' nelle classi subalterne (entro la delusione di chi puntava su un loro oggettivo proporsi a soggetti d'una storia alternativa); per l'altro confida in una maieutica 'alternativa' rispetto alla coscienza di classe, e ai contenuti (rivoluzionari) della medesima. L'altro aspetto è un ritorno evidente di attenzione alla storia 'nazionale': il moto è partito dagli Stati Uniti alla ricerca delle 'radici' (e di una loro identità: quella bianco-protestante, o quella 'pluralista'), per riequilibrare la comunità scossa dalle conseguenze della guerra del Vietnam; è passato in Canada e quindi in Germania e in Francia. Dilagano negli anni Ottanta le storie della Germania (della Germania, com'era, 'centro dell'Europa'), mentre F. Braudel prende congedo con una storia della Francia (1986), e ancora oggi M. Vovelle sceglie la prospettiva 'nazionale'. Da citare ancora il contributo di Ph. Joutard (1993) e l'imponente raccolta di P. Nora (1984-93). Colpisce la ricerca di una forte identità storica della Francia, e la passione 'nazionale' per la storia nazionale, tutto il contrario della s. italiana, che pilota e amplifica lo storico disprezzo della 'nostra' storia. Le Annales chiudono una terza fase (Prost 1992), e da F. Braudel (1986) a M. Vovelle (1993) la 'nazione' e l'identità nazionale tornano a fare problema. Va notata peraltro l'ossessione anticentralista della s. francese, cui fa da pendant il disagio della s. italiana sul persistere dell'approccio dualistico sul lungo periodo, e le riserve sui caratteri della s. regionale.
La crisi della storia politica non ha certo giovato alla storia diplomatica, a quella militare, alla elettorale: la prima (nonostante gli appelli) non si è aperta alla storia culturale; la seconda resta molto al di qua della storia sociale, e l'ultima è solo materiale per la politologia. È vero che la social history è sempre più storia di immagini, simboli, segni delle identità collettive (ora con 'residui' fattuali, ora non), e tuttavia essa non ha spodestato la 'storia intellettuale', l'ultima versione della storia delle idee (Krieger 1992) in cui trovano posto ormai anche la musica e le arti figurative (come storia delle immagini). Una caduta notevole registrano la storia economica e la storia delle idee economiche: in forte ripresa la storia del diritto (istituti giuridici e idee) e la storia delle religioni. In assenza di un chiaro dibattito epistemologico, anche la storia della scienza sembra al passo (E. Bellone 1990; N. Beveridge 1991). Prevale sulle altre discipline la storia 'sociale' della medicina e delle scienze biologiche. E tuttavia prende vieppiù spazio il dibattito (storico) sulle catastrofi e sulla geomorfologia, da parte di storici ecologisti fisici filosofi.
Permangono, e spesso si consolidano (sostenute per lo più da articolazioni connesse con i nomi accademici) le tradizionali periodizzazioni in 'epoche' (Rinascimento, Barocco, Illuminismo, Romanticismo, Positivismo: spesso articolate in pre- e post-) e in secoli: ed è possibile di conseguenza indicare una 'tenuta' del Rinascimento, o piuttosto del cosiddetto 'lungo Cinquecento'; un arretramento di Illuminismo e Romanticismo, e la costante espansione di Barocco e di Positivismo sul terreno non solo della (trionfante) storia intellettuale, ma soprattutto della storia socio-culturale dei secoli 17° e 19°-20°. Merita un discorso a parte la storia dell'età contemporanea, vieppiù sbilanciata sul secolo 20°, dal primo dopoguerra alle 'turbolenze' degli anni Settanta e Ottanta.
"Il sapere della storia è tanto più scosso quanto più il suo potere è aumentato". Lo storico è sempre più contestato: perché, portavoce del gruppo sociale cui appartiene, si orienta secondo i mutamenti sociali che valuta possibili o desiderabili. Ma la polemica sull''obiettività possibile' vede in fatto la fuga dello storico che, se non è coinvolto, direttamente o per via mediata, dal dubbio dell'ermeneutica o dalla rinuncia post-modernista, si afferra al revisionismo, un tratto vincente del lavoro storico di questi decenni, che investe anzitutto il giudizio sulle grandi rivoluzioni storiche, sulle 'leggende nere' (l'Inquisizione, gli ebrei, ecc.) e sui movimenti totalitari (fascismo, nazismo, ecc.). Così, per la rivoluzione inglese del Seicento, è riuscito a C. Russell quel che non riuscì negli anni Cinquanta agli allievi di L. Namier o a G. Elton: di distruggere le basi sociali della rivoluzione, e di coglierne il senso in una reazione culturale di difesa o in una somma critica di scelte politiche irrelate. La rivoluzione francese non ha finito di essere il luogo classico dello scontro: il bilancio (non esaltante) del 2° centenario convalida il successo dell'operazione, non sempre rettilinea, di F. Furet, che liquidava l'interpretazione giacobino-marxista della rivoluzione. Ma anche qui il revisionismo si è posto sotto le ali del linguistic turn: con L. Hunt e K.M. Baker la retorica rivoluzionaria mescola i linguaggi concettuali di Pocock con le suggestioni dell'antropologia simbolica; e a una storia politica fatta di scelte occasionali restituisce coerenza l'unità o la diversità dei linguaggi. La rivoluzione russa non ha più ricevuto attenzione storiografica adeguata all'importanza dell'evento: la deplorazione degli esiti ha bloccato anche la ricerca 'indipendente'. Qui è forse più presente il problema etico-politico della responsabilità delle scelte, del 'ritorno dell'autore': il decisionismo come valore, la storia come scelta pragmatica. Ma il revisionismo è invero un rivoltare il guanto, è la confessione pubblica dell'abuso in una con l'invito a espiare ma anche con la pretesa di una nuova verità: è la rottura del patto di consorteria, dopo la quale c'è solo la confessione della disfatta.
Accanto al revisionismo 'forte', che aggredisce soprattutto le grandi rivoluzioni e gli istituti epocali (come l'Inquisizione, ecc.), c'è anche un revisionismo 'debole', che viene erodendo idee e pregiudizi storici del non lontano passato, in vista di un giudizio meno emblematico: ciò riguarda per es. la 'decadenza' spagnola, e in genere il giudizio critico che connotava il ruolo storico della Spagna moderna; il carattere policentrico dello stato assoluto; oppure il tentativo d'introdurre la categoria di 'polimorfismo istituzionale' nelle defunte democrazie popolari. È stato facile liquidare il concetto di 'decadenza', e trovare misure meglio adeguate a comprendere la realtà di quell'impero. Ciò vale anche per l''arretratezza' del Mezzogiorno, e la ricerca di approcci storiografici più flessibili e meno liquidatori.
Il 'vissuto ebraico' ha però aperto un dibattito tuttora in corso su almeno due temi acuti della s. contemporanea: a) l'illegittimità (impossibilità) di una s. di 'oppressi' (donne, gruppi marginali, popoli coloniali, minoranze etniche, ecc.) a opera di storici che non appartengano al gruppo etnico, o coloniale o marginale, ovvero al 'genere' che costituisce il soggetto storico della ricerca; b) l'esistenza di esperienze, di 'vissuti' non sempre individuali, che resistono (e debbono resistere) alla storicizzazione, quale che sia la motivazione di una siffatta irreducibilità (l'inesistenza di precondizioni culturali o psicologiche alla 'comprensione'; o piuttosto il timore che la comprensione storica del fatto possa coincidere con la giustificazione dello stesso). E se A. Dupront (1987), ricostruendo 'la pratica dell'inespiabile' da parte di folle violente, chiede di riconoscere "l'organicità di un mondo altro, coerente fin nell'atroce, nell'anormale e nello strano", F. Furet può concludere (1994) che "esiste un mistero del male nella dinamica delle idee politiche del secolo XX". Siamo al di là del limite della ragione, siamo alla legittimazione razionale dell''inumano'. Perciò si costituiscono aree politiche, sociali, culturali che oppongono una forma di autoesclusione quasi a risarcimento della loro storica esclusione, e che intendono con la loro diversità rappresentare una permanenza contestativa della possibilità stessa della ragione storica di risolvere in sé tutti gli aspetti dell'umano: fenomeno assai diverso dalla s. 'alternativa', o dal più tradizionale percorso ad approdi pluralisti, a dar voce a nuovi soggetti 'storici'.
Nel lavoro storico si afferma la separatezza, cresce la specializzazione: l'interdisciplinarietà sembra un vecchio, persino folle miraggio. E lo storico, che ormai legge solo i lavori di altri storici, non legge i lavori di altre discipline. Non conosco, salvo per gli Stati Uniti, indagini sull'estrazione sociale degli storici di professione: prevale là un'estrazione medio-bassa. Ma il discorso sull'influenza della professione dev'essere meglio radicato, e trattato in modo meno sommario; è comunque tradizione della storia intellettuale americana legare temi e approcci allo status della professione (quel che ora si legge degli storici, dei letterati o delle donne si lesse negli anni Settanta della disoccupazione intellettuale come 'causa delle rivoluzioni'). Il caso europeo resta più complesso e inesplorato.
"Perché insistere continuamente sul modo di comunicare quando non si sa cosa comunicare?" (P. Vilar 1992). Se aspro è il confronto teorico, più chiare sono le reazioni critiche delle proposte. I modi stessi del dibattito e i riferimenti (che vogliono essere emblematici) a questo o quel lavoro storico convincono a definire la stagione storiografica che abbiamo alle spalle come quella della ripresa e dell'amplificazione di istanze teoriche maturate negli anni Sessanta e che solo nei decenni successivi hanno trovato attenzione, sia per colmare il vuoto lasciato dalle grandi filosofie e dall'ideologia comunista, sia per una comprensibile reazione all''abuso della storia', individuato da posizioni di contestazione più che da prospettive liberali. Al centro si è posto il problema del linguaggio e dell'urgenza (politica) di liberarlo dalla subalternità al potere attraverso l'intercettazione del nesso significante/significato: decontestualizzato, il testo si affidava a una filologia senza storia e diventava lo strumento per 'smascherare' i castelli ideologici che i soggetti forti del passato avevano costruito attraverso il controllo e la manipolazione dei documenti (lingua+testo). Verso la decontestualizzazione procedeva l'approccio microstorico, che disgregando gerarchie e poteri consentiva di abbassare le voci dei forti e dare diapason ai flebili lamenti dei deboli in vista di una storia finale che restituisse al passato tratti cancellati dalla memoria selettiva dei vincitori storici. La scoperta (E.P. Thompson 1971) dell'economia morale, e l'invito (M. Godelier) a un'antropologia economica poterono così diventare parti di un comune discorso storiografico che prendeva congedo dal marxismo come storicismo, e assumeva il rifiuto della storia come un modo di liberare il futuro dai 'condizionamenti' del passato. In una prospettiva siffatta, persino il concetto (conservatore) di lunga durata, e lo studio (tradizionalista) delle mentalità trovavano favorevole accoglienza, solo a patto che entrambi venissero considerati blocchi di resistenza, da aggredire e scomporre, per evitare appunto che fossero loro a decidere del 'senso della storia'. Ma insieme con la 'storia totale' (o à part entière) delle Annales si era dissolta l'utopia della interdisciplinarietà (oggi si è osservato che gli storici economici parlano il linguaggio degli economisti, gli storici della cultura il linguaggio dei filosofi, lo storico sociale quello di sociologi o antropologi): e ne risultava messa in discussione la ragione stessa della 'storia generale', vale a dire l'esigenza di dar conto dell'intero ventaglio delle umane esperienze (qualunque fosse il punto di vista prescelto).
"Le nostre società sono diventate opache a se stesse, incerte del loro presente, del loro avvenire e, d'un tratto, persino del loro passato. Al tempo stesso i grandi paradigmi unificanti che erano serviti di architettura inglobante allo sviluppo delle scienze sociali si sono sgonfiati, e con loro il modello funzionalista che avevano, grosso modo, in comune. La storia globale (o la storia totale) il cui progetto aveva orientato gli sforzi di tre generazioni di storici si è così ritrovata, almeno provvisoriamente, posta tra parentesi" (Revel 1995). Se la storia non esiste, se il senso di essa è dato dal potere che prevale, allora il passato non può essere invocato a legittimare i 'diritti' del presente: e i nuovi soggetti sociali possono pretendere un riconoscimento della loro 'modernità', che non coincide con il capitalismo e con l'ascesa della borghesia. Le società nascono e muoiono senza pretendere di sopravvivere a se stesse, perché portatrici di modelli di civiltà: la civiltà umana è cosa diversa dalla civiltà occidentale, sia nella tradizione greco-romana, sia nella versione 'europea' del colonialismo. Si consuma così la crisi non della storia, ma della cultura europea come definita (e criticata) dall'Europa degli anni Trenta, nell'ultima stagione creativa di questa civiltà. Ma dopo mezzo secolo la 'nuova storia' ha perduto l'attrazione della s. alternativa: e si può dire anzi che, con la vicenda post-modernista, si sia anche esaurita la parabola radicale della s. di contestazione. La 'cultura popolare', la 'storia dal basso' e la storia del 'quotidiano' (della moda, della cucina, ecc.), sia nella versione di M. de Certeau (1980) che in quella della tedesca Alltagsgeschichte, e la stessa storia delle donne (gender history) tendono ormai a trovar posto all'interno di un approccio genericamente pluralista al passato. Intanto la storia orale cerca (Vansina 1985) un proprio nuovo statuto, ignorando l'imponente costruzione storicistica che la filologia otto-novecentesca ha realizzato nell'analisi storico-metodica del circolo oralità/scrittura, testo/tradizione orale, e collocandosi invece all'interno della cosiddetta invenzione della tradizione (Hobsbawm 1983). Dubito che la presente crisi di legittimità sia dovuta alla 'opacità dell'oggetto storico', o che "il problema vero per gli storici sia di riuscire a rendere la complessità del reale anche ricorrendo a tecniche descrittive e argomentative più problematiche, meno assertorie di quelle usate fin qui" (Revel 1989; Levi 1991). È la riproposizione di una tradizionale strategia di attesa in assenza di 'filosofie forti'. L'opacità è nell'oggetto o non piuttosto nello storico?
Non si è verificato nei vent'anni passati (e non ci sono prospettive per una 'svolta' imminente) quello che tanti avevano previsto negli anni Sessanta e Settanta, vale a dire la crescita di una s. sull'Europa a opera di storici afro-asiatici, o di paesi ex coloniali, mentre la 'nuova storia d'oltremare' continua a essere, anche nella versione più critica dell'eurocentrismo, opera di storici europei, vale a dire operanti in strutture di ricerca dell'area 'europea' e interni ai metodi e agli approcci pluralisti della contemporanea storiografia europea. Il revisionismo ha da tempo ormai esaurito la sua carica contestativa: e si riduce alla divertente, epperò ormai stanca 'voltura del guanto'. Si riaggrega lentamente la domanda di storia. Per vie non ancora tracciate con sicurezza, ma con crescente convergenza verso l'esplorazione di 'identità' e di valori nella società contemporanea, tre prospettive storiografiche sembrano in questi ultimi anni prendere corpo: quella attorno al sacro, cioè attorno all'esperienza religiosa nella definizione più ampia; quella attorno alla 'nazione' (lingua, etnia, tradizione), come a un recupero delle ragioni storiche dello 'stare insieme' dopo il deperimento dello stato come principio; e, infine, quella attorno alla 'cultura', ancor essa creatrice e depositaria di valori condivisi, e però portatrice di forti identità collettive. Cresce l'attenzione per i temi della violenza e della forza come esplosione d'irrazionale, mentre recedono le problematiche del conflitto e della repressione. E tutto ciò entro le maglie di un insegnamento scolastico (medio e universitario), ancora incerto tra la storia per periodi e la storia per problemi, in ogni caso comprensibilmente diffidente di tutte le innovazioni che prendono i tratti della moda.
L'ideologia pluralista, non certo nascosta, della 'nuova storia', o della storia post-moderna (in quanto 'nuova-nuova storia') è da qualche tempo chiamata a fare i conti nella società mondiale contemporanea con le fratturazioni del nazionalismo (etnico-politico) e col fondamentalismo (religioso) che ergono barriere alla comprensione storica persino più erte del 'vissuto' ebraico e della pretesa irreducibilità all'intelligenza razionale delle atrocità, dei mali, delle nefandezze della presente umanità. Nel comune rinvio alla proposta heideggeriana sembra esservi una base comune tra la via di fuga offerta da Gadamer alla s. tedesca e quella offerta da C. Geertz alla s. anglosassone: quella simbolica, come i Begriffe, dà alla realtà il senso che essa non 'possiede' per sé. Ma in entrambi i casi, il garante del pluralismo resta il relativismo culturale (e la ragione debole), non certo sottratto alla seduzione del decostruzionismo e della rinuncia al senso della storia, mentre riemerge tra i portatori della 'nuova storia', con la constatazione che "il passato, se malleabile, è fragile" (D. Julia), una sottile nostalgia di un 'passato forte'. Una diversità − sembrano concludere gli 'eterologi', che all'epistemologia oppongono l'irreducibilità della diversità dello storico, tanto più che entro ogni diversità nascono altre diversità: anche tra gli oppressi ci sono 'diversi' e integrati − può essere una forza o una disperata debolezza: ma la storia è ormai una maestra della vita che non ha discepoli. E forse non basta l'appello all'etica, o il ricorso a una deontologia professionale.
Bibl.: Il dibattito sulla 'crisi della storia' è particolarmente intenso negli Stati Uniti: da H.V. White, Metahistory: The historical imagination in Nineteenth-century Europe, Baltimora 1973, trad. it., Retorica e storia, Napoli 1978 (e al suo seguito H. Kellner, Language and historical representation. Getting the story crooked, Madison (Wisc.) 1989, e M. Mandelbaum, The anatomy of historical knowledge, Baltimora 1977), fino al più recente e discusso P. Novick, That noble dream. The 'objectivity question' and the American historical profession, Cambridge 1988. Meritano di essere ricordati: L.J. Goldstein, Historical knowing, Austin 1976; A. Megill, Foucault, structuralism and the ends of history, in Journal of Modern History, 1979, pp. 451-503; Ch. Tilly, As sociology meets history, New York 1981; Modern European intellectual history. Reappraisals and new perspectives, a cura di D. La Capra e S.L. Kaplan, Ithaca 1982; Ph. Abrams, Historical sociology, ivi 1983; Post-structuralism and the question of history, a cura di D. Attridge, G. Bennington, R. Young, Cambridge 1987; J.W. Scott, Gender and the politics of history, New York 1988; The new cultural history, a cura di L. Hunt, Berkeley 1989; The new historicism, a cura di H.A. Veeser, New York 1989; D.R. Kelley, What is happening to the history of ideas?, in Journal of the History of Ideas, 1990, pp. 3-25; L. Gossman, Between history and literature, Cambridge (Mass.) 1990.
Per il dibattito in Germania: R. Koselleck, J. Rüsen, W.J. Mommsen, Objektivität und Parteilichkeit, Monaco di B. 1977 (v. J. Kocka, Legende, Aufklärung und Objektivität in der Geschichtswissenschaft, in Geschichte und Gegenwart, 1980, pp. 449-63); R. Koselleck, H. Lutz, J. Rüsen, Formen der Geschichtsschreibung, ivi 1982; Sozialgeschichte in Deutschland, a cura di W. Schieder e V. Sellin: i. Die Sozialgeschichte innerhalb der Geschichtswissenschaft, Gottinga 1986; ii. Handlungsräume des Menschen in der Geschichte, ivi 1986; iii. Soziales Verhalten und soziale Aktionsformen in der Geschichte, ivi 1987; iv. Soziale Gruppen in Geschichte, ivi 1987; H.U. Wehler, Aus der Geschichte lernen? Essays, Monaco di B. 1988; R. Fletcher, History from below comes to Germany: The new history movement in the Federal Republic of Germany, in Journal of Modern History, 1988, pp. 557-68; Alltagsgeschichte. Zur Rekonstruktion historischer Erfahrungen und Lebensweisen, a cura di A. Lüdtke, Francoforte s.M. 1989; K.H. Jarausch, J. Rüsen, H. Schleier, Geschichtswissenschaft vor 2000. Perspektiven der Historiographiegeschichte, Geschichts-theorie, Sozial- und Kulturgeschichte. Festschrift für Georg G. Iggers, Hagen 1991; R. van Dülmen, Historische Anthropologie in der deutschen Geschichtsschreibung, in Geschichte in Wissenschaft und Unterricht, 1991, pp. 692-709; W. Schulze, Sozialgeschichte, Alltagsgeschichte, Mikro-Historie. Eine Diskussion (W. Schulze, W. Hardtwig, J. Kocka, H. Medick, U. Daniel, A. Lüdtke), Gottinga 1994.
Utili rassegne sono quella a cura di P. Burke, New perspectives on historical writing, Cambridge 1991 (trad. it., Roma-Bari 1993) e l'altra a cura di J. Boutier e D. Julia, Passés recomposés. Champs et chantiers de l'histoire, Parigi 1995; qui è l'intervista a P. Vilar del 1992, La mémoire vive des historiens, pp. 264-93.
Lo scritto di L. Stone su Past and Present (History and post-modernism, maggio 1991, pp. 217-18), che prendeva le mosse da G.M. Spiegel, History, historicism and the social logic of the text in the Middle Ages, in Speculum, 1990, pp. 59-86, ha registrato le repliche di P. Joyce (Manchester) e C. Kelly (Oxford), una storica delle donne, su Past and Present, novembre 1991, pp. 204-09 e pp. 209-13. Commentate ampiamente da Stone e dalla Spiegel (Past and Present, maggio 1992, pp. 189-94 e pp. 194-208). Di Stone si veda anche, The past and the present revisited, Londra 1981.
Di J.H. Hexter (professore emerito di Storia della libertà all'università di Washington), il riferimento è alla voce History in The Blackwell Dictionary of 20th-century social thought, Oxford 1993, pp. 262-66 (alle pp. 595-96 un breve intervento di A. Briggs su Social history). C. Lévi-Strauss, Histoire et ethnologie, in Annales, 38 (1983), pp. 1217-31: è il testo di una conferenza tenuta alla Sorbona il 2 giugno 1983. Il passo citato di E. Fasano Guarini si legge in Per una prosopografia dei giudici di rota. Linee di una ricerca collettiva, in Grandi tribunali e rote nell'Italia di antico regime, a cura di M. Sbriccoli e A. Bettoni, Milano 1993.
Per la storia della scienza, J. Roger, History of science: problems and practices. History of science(s), history of mentalities, micro-history, in Nuncius, 1993, pp. 4-26, presentato al xxix Corso Internazionale di Alta Cultura (1987); E. Bellone, Caos e armonia. Storia della fisica moderna e contemporanea, Torino 1990; W. Beveridge, The chronicle of Influenza epidemics, in History and philosophy of life sciences, 1991, pp. 223-34. Roger reagiva correttamente alla 'scuola di Edimburgo' (R. Young, D. Bloor, S. Shapin), per la quale la scienza era solo il prodotto dell'attività sociale, e la 'verità' che vince è quella del gruppo sociale (o dell'ideologia) dominante.
Per la nazione nella storiografia francese Ph. Joutard, Une passion frana̧ise: l'histoire, in Histoire de France, 4. Les formes de la culture, a cura di A. Burguière, Parigi 1993, pp. 511-70, e l'imponente raccolta di P. Nora (finora 7 volumi) di Les lieux de mémoire, i. La République, ivi 1984, ii. La Nation, ivi 1986 (3 voll.), iii. Les Frances, ivi 1993 (3 voll.).
Per la storia urbana D. Fraser, The urban history masquerade: Recent trends in the study of English urban development, in Historical Journal, 1983, pp. 263-64, e il n. 67/68 (aprile-settembre 1994) della rivista Storia urbana, dedicato tutto alla città inglese dalla conquista romana al secolo 19°.
Per la microstoria E. Grendi, Storia locale e storia delle comunità, in Tra storia e storiografia. Scritti in onore di Pasquale Villani, a cura di P. Macry e A. Massafra, Bologna, 1995, pp. 321-36; cfr. J. Revel, Micro-analyse et construction du social, ivi, pp. 307-19, e il dibattito in Quaderni storici, agosto 1994, pp. 511-75; J. Agirreazkuenaga e al., Storia locale e microstoria. Due visioni a confronto, Saragozza 1993.
Altri autori citati nel testo: E.P. Thompson, The moral economy of the English crowd in the XVIIIth century, in Past and Present, 50 (1971), pp. 76-136; E. Le Roy Ladurie, Montaillou, village occitan: de 1294 à 1324, Parigi 1975 (trad. it., Milano 1977); C. Ginzburg, Il formaggio e i vermi. Il cosmo di un mugnaio del '500, Torino 1976; L. Stone, The revival of narrative, in Past and Present, 1979, pp. 3-24 (trad. it., in Viaggio nella storia, Roma-Bari 1987); M. de Certeau, L'invention du quotidien, Parigi 1980; J. Le Goff, voce Storia, in Enciclopedia, Einaudi, 13, Torino 1981, pp. 566-670; F. Furet, L'atelier de l'histoire, Parigi 1982 (trad. it., Milano 1985); The invention of tradition, a cura di E. Hobsbawm e T. Ranger, Cambridge 1983 (trad. it., Torino 1987); P. Ricoeur, Temps et récit, Parigi 1983-85, 3 voll. (trad. it., Milano 1986-87); M. Baxandall, Patterns of intention. On the historical explanation of pictures, Londra 1985; J. Vansina, Oral tradition as history, Madison (Wisc.) 1985; F. Braudel, L'identité de la France. Espace et histoire, Parigi 1986; A.W. Crosby, Ecological imperialism, Cambridge 1986 (trad. it., Roma-Bari 1988); F. Dosse, L'histoire en miettes. Des Annales à la nouvelle histoire, Parigi 1987; A. Dupront, Du sacré. Croisades et pélerinages, images et langages, ivi 1987 (trad. it., Torino 1993); D. Harlan, Intellectual history and the return of literature, in American historical review, 1989, pp. 581-609; D. Megill, Recounting the past: ''description'', explanation, and narrative in historiography, ibid., 1989, pp. 627-53; J. Revel, L'histoire au ras du sol, in G. Levi, Le pouvoir au village. Histoire d'un eorciste dans le Piémont du XVIIe siècle, Parigi 1989 (ed. it., Torino 1985); J. Boutier, L'ancien régime senza politica? Riflessioni su un secolo di storiografia francese, in Ricerche storiche, 1990, pp. 73-97; G. Levi, On microhistory, in New perspectives in historical writing, a cura di P. Burke, cit., pp. 93-113; L. Krieger, Ideas and events. Professing history, Chicago 1992; A. Prost, What has happened to French social history?, in Historical journal, 1992, pp. 671-79; M. Vovelle, La découverte de la politique. Géopolitique de la Révolution Frana̧ise, Parigi 1993 (trad. it., Santo Spirito [Bari] 1995); F. Furet, La passion revolutionnaire au XXe siècle, in Ecrire l'histoire du XXe siècle, ivi 1994; M. Reed, La situazione attuale della storia urbana inglese, in Storia urbana, 18 (1994), pp. 5-12; J. Revel, Histoire et sciences sociales: une confrontation instable, in Passés recomposés. Champs et chantiers de l'histoire, cit., pp. 69-81.