Storiografia
di Giuseppe Galasso
SOMMARIO: 1. Dal XIX al XX secolo. ▭ 2. Tra le due guerre. ▭ 3. Dopo il 1945. ▭ 4. Nel crepuscolo del XX secolo. ▭ 5. Agli inizi del XXI secolo. ▭ Bibliografia.
1. Dal XIX al XX secolo.
Le "osservazioni conclusive" di Eduard Fueter nella sua Geschichte der neueren Historiographie (v. Fueter, 1911) sono l'introduzione forse più conveniente a quello che può essere considerato il giudizio prevalente sulla storiografia e sulle sue condizioni alla vigilia della prima guerra mondiale.
Soprattutto sembrano, però, da mettere in rilievo, in esse, il senso vivissimo che lo studioso svizzero vi manifestava di una doppia necessità. Innanzitutto, "il nesso della storiografia colla vita": grandi storici erano stati quelli partiti "dalla realtà, da un pezzo magari piccolissimo, di realtà esattamente osservata". Non si poteva dire che fosse molto chiaro, e neppure molto profondo. In secondo luogo, la diffidenza verso la tentazione di credere "di aver trovato in una sola formula la spiegazione di tutti gli avvenimenti storici", e ciò "sotto l'impressione di un'esperienza unilaterale o, ancor più spesso, di un avvenimento del più recente passato attirante su di sé l'attenzione generale".
A differenza del primo, questo punto era articolato da Fueter in una serie di indicazioni specifiche: nessuna "formula semplice" è utilizzabile per "la storia umana"; le collettività umane hanno bisogni svariatissimi, spesso fra loro contraddittori; tali bisogni, anche se reciprocamente influenti fra loro, non seguono "una organica successione di gradini"; la loro forza e i rapporti di forza tra loro possono variare, e talora anche molto rapidamente; perfino quando questo o quello di essi sono in netta prevalenza, non è da credere "che da quelli momentaneamente più forti possano essere semplicemente dedotti gli altri". Può apparire generico, ma Fueter lo dettagliava poi in qualche esemplificazione chiarificatrice risolutiva. "Non si può pensare - egli scrive - un cambiamento delle condizioni economiche che non produca un cambiamento anche in quelle religiose; ma - aggiunge - da ciò non consegue che i movimenti religiosi si spieghino senz'altro con sovvertimenti economici".
Un'affermazione antideterministica, certo, ma non solo questo. Vi si può, infatti, facilmente cogliere una chiara rivendicazione dell'autonomia dei valori e delle forze agenti nella storia, che diventa un criterio storiografico imprescindibile. Fueter si soffermava, infine, su una terza necessità, e cioè che "i poteri dello Stato, della Chiesa e dell'economia concedano agli studi storici piena libertà", perché - diceva - "la scienza dell'uomo come creatura sociale, se non vuole inaridire, deve avere la libertà di affrontare i suoi problemi senza riguardo per politiche necessità". Qui il senso dell'affermazione di Fueter era del tutto trasparente, ma ciò che non deve sfuggire è che per lui la libertà è necessaria alla storiografia in rapporto al suo "significato scientifico": è questo significato che si perderebbe, se venisse meno la libertà degli studi storici.
Collegamento stretto, dunque, con la scienza: anzi, identificazione della storia come scienza retta dalla stessa logica euristica e interpretativa di tutte le altre scienze. Il cammino della storiografia nell'età moderna era visto non solo nel suo progressivo assumere un "aspetto sociale", ma anche nel suo cercare "di porre criteri scientifici (sociologici) al posto di soggettivi giudizi di valore", per cui nel secolo XIX la storiografia aveva realizzato "lo stesso cambiamento" che nella "storia naturale" Seignobos aveva "giustamente fatto notare" per il secolo XVIII, e cioè il distacco dalla considerazione letteraria che le era stata propria fino ad allora. Fueter auspicava, tuttavia, che ciò non si risolvesse in un rinunzia "a sedurre il gran pubblico" perdendo il lustro letterario proprio della concezione e della prassi oratoria tradizionale della storia. Essa doveva "soddisfare esteticamente come in generale la disadorna conformità allo scopo, come una ben costruita macchina", e "altrettanto bene quanto le scienze naturali".
La conclusione era eloquente: "non c'è motivo per cui non possa sorgere una esposizione storica che si possa mettere a fianco dell'Origine dell'uomo di Darwin o della Teoria delle sensazioni acustiche di Helmholtz"; e tanto più in quanto, secondo Fueter, la storiografia poteva già allora "offrire prodotti che si approssimano molto a questo fine".
Non è, quindi, una forzatura affermare che l'orizzonte metodologico di Fueter era di schietta impronta positivistica. Modelli attinti all'ambito delle scienze fisiche e naturali (Darwin, Helmholtz) fornivano non solo i criteri euristici e logici del lavoro storico, bensì addirittura la forma letteraria a cui lo storico avrebbe dovuto ispirarsi e conformarsi. La sostituzione di criteri sociologici, presunti come strumento di oggettività, ai soggettivi giudizi di valore e la riaffermazione del distacco della storia dall'ambito dell'opus oratorium della sua tradizione più antica e dallo stile brillante rafforzavano il richiamo positivistico. E, tuttavia, già in Fueter traspaiono chiaramente i motivi sui quali si sarebbe consumata, e si andava anzi già allora consumando, la crisi del positivismo come generale posizione di pensiero: l'antideterminsimo, la libertà di ricerca e di pensiero, il nesso con la vita, l'autonomia e il pluralismo da far valere nella considerazione dei campi di studio coltivati dalla storia.
I nomi dei maggiori e più reputati storici europei a cavaliere tra il XIX e il XX secolo convalidano la fisionomia del panorama problematico delineato da Fueter. Nelle stesse pagine dell'ultima parte della sua opera erano citati, fra gli altri, i nomi di Sybel, Treitschke, Mommsen, Droysen, Green, Lecky, Gardiner, Tocqueville, Fustel de Coulanges, Taine, Renan, Burckhardt. Tutti erano assegnati a quella che Fueter definiva "la reazione realistica contro la storiografia romantica e l'influsso del movimento sociale", ma tutti erano anche in gran parte riferibili alla fase anteriore al 1870, che costituisce in effetti il termine ad quem tendenziale dell'opera del Fueter.
Nelle storie posteriori della storiografia i nomi più spesso ricorrenti per il periodo posteriore al 1870 sarebbero stati soprattutto quelli di Monod, di Lavisse, di Seignobos, di Aulard, di Freeman, di Stubbs, di Maitland, di Carlyle, di Harnack, di Pirenne, di Jullian, di Jansenn, di Lamprecht, di Schmoller, di Simiand, di Berr, di Cochin, di Acton, di Seeley, di Leslie Stephen. Non sono tutti i nomi possibili, e forse necessari, ma bastano a dare una idea della ricchezza di motivi e di assunti che in essi si esprimono, molti dei quali destinati a far sentire la loro influenza a lungo anche nel periodo posteriore (per fare solo un nome: Pirenne). Il panorama si arrichisce, anzi, molto già se si fanno, accanto a quelli del triangolo Francia-Germania-Inghilterra, i nomi di altre storiografie nazionali, come quella italiana (M. Amari, F. De Sanctis, C. Cipolla, G. De Leva, P. Villari, G. Romano) o russa o spagnola; oppure se si tengono presenti imprese come quella della Storia dei papi del von Pastor.
Anche le tematiche sono di grande significato: ad esempio, contrapposizione fra visione piccolo-tedesca e grande-tedesca della storia germanica; rapporto fra componente celtica e componente germanica della storia nazionale francese e della sua dimensione latina e cattolica; continuità o rottura fra ancien régime e Rivoluzione ed essenza giacobina o girondina della Rivoluzione francese; antitesi fra origini germaniche o celtiche e romanistiche dell'esperienza nazionale e costituzionale inglese e ruolo dell'elemento normanno e francese; ruolo della Chiesa nella storia nazionale italiana e, anche qui, equilibrio fra componenti latine e germaniche della stessa storia nazionale; elemento religioso ed elemento sociale nella Riforma protestante. Da alcuni di questi storici vennero agitati problemi che sarebbero rimasti non solo fra i nodi storiografici fondamentali nella ricerca e nel dibattito degli studi storici, ma sarebbero anche diventati temi di una più generale e complessa riflessione: il cesarismo, la decadenza italiana, le prospettive di una civiltà di massa, l'incontro-scontro fra liberalismo e democrazia.
Non minore spazio trovarono le questioni metodologiche, che ebbero non piccola influenza negli studi, e non solo con il Methodenstreit divampato in Germania negli anni novanta sulla contrapposizione fra storiografia individualizzante o politica e storiografia attenta alle dimensioni collettive del processo storico o storia sociale, né solo con i manuali che ebbero allora maggiore fortuna (come quelli del Droysen e del Bernstein in Germania e quelli di Langlois e Seignobos in Francia). A questo dibattito, per la contrapposizione fra storia politica e storia sociale, si collega, inoltre, in certo qual modo anche l'emergere della prima grande stagione di influenza, a cavaliere fra secolo XIX e secolo XX, del marxismo o materialismo storico o dialettico e delle scienze economiche sugli studi storici. Già infatti nella scia di una tradizione abbozzata in Germania da List a Lamprecht gli interessi di storia economica rafforzarono di molto anche l'interesse per la storia sociale, a cui il marxismo diede un impulso decisivo.
Anche in questo campo alcuni nomi sarebbero rimasti classici: da Max Weber a Werner Sombart, da von Below a Beloch, da L. M. Hartmann a Meyer, da J. Jaurès a É. Levasseur, da Rostovzev, da Salvioli a Salvemini, da Charles-Victor Langlois a Paul Mantoux, da A. Toynbee (primo a usare il titolo The industrial revolution, 1884) ai coniugi J. L. e B. Hammond. Da Weber si dipartivano fila che sarebbero state a lungo e profondamente dipanate nella storiografia posteriore: etica protestante e capitalismo, il potere burocratico, il rapporto tra classi o ceti e partiti, la tipologia del potere da quello carismatico a quello legale-razionale, la condizione professionale degli intellettuali, il problema storico della città. In Sombart si coagulava sia la tematica relativa alla genesi e alla teoria dello sviluppo del capitalismo, sia il problema dello "spirito borghese". Rostovzev agitava in particolare problemi come quello della borghesia municipale quale fattore determinante della prosperità economica della civiltà urbana greco-romana e come quello della crisi di questa civiltà per effetto di una sovversione da parte delle masse rurali, con la connessa implicazione del rapporto tra masse e civiltà. Levasseur apriva la storiografia francese, fino ad allora riluttante, a interessi di storia economica (ma solo più tardi Henri Hauser avrebbe inaugurato la cattedra di storia economica alla Sorbona), che implicavano la storia sociale di settori particolari di grande rilievo nel mondo contemporaneo, quali le classes ouvrières cui dedicavano le loro ricerche anche i coniugi Hammond. Salvemini dava una svolta in senso accentuatamente sociale alla storia medievale in una delle sue maggiori applicazioni, qual è la storia dei comuni italiani. Beloch portava nel massimo rilievo vari temi tecnici quali la demografia storica e la topografia in chiave anche storico-culturale. Meyer poneva problemi fondamentali quali il rapporto tra antichità greco-romana e mondo dell'Oriente antico e il concetto di storia universale.
2. Tra le due guerre.
Già, tuttavia, alla vigilia della prima guerra mondiale erano apparsi segni più che chiari di crisi delle tendenze dominanti nell'epoca che può complessivamente definirsi del positivismo, e in parte già con molti dei nomi che abbiamo fatto finora. Basti pensare all'itinerario di Lamprecht dai suoi interessi di storia economica a quelli di una Kulturgeschichte a base psicologico-sociale; oppure a quello di Below verso un recupero progressivo del modello storiografico di impianto più tradizionale; e ancor più, e soprattutto, a un Weber, a un Berr o a un Pirenne. All'inizio del nuovo secolo in Italia Benedetto Croce apre una lunga stagione di riflessione metodologica e critica sulla natura e le forme della storiografia, che, partita da una totale contrapposizione ai modelli storiografici positivistici e da una professione di storicismo aperto e realistico, lo porterà poi, negli anni venti, alla concezione della storia etico-politica come storia per eccellenza e, negli anni trenta, alla dichiarazione della storia come storia della libertà e a una prospettazione della drammatica presenza del vitale nell'esperienza individuale e collettiva dell'uomo. Anche indipendentemente da Croce si sviluppano, inoltre, in Italia tendenze e studi che si allontanano sempre più consapevolmente da quelli del periodo precedente. In Francia, attraverso Bergson, Mauss, Durkheim e recuperando lezioni quale quella di un geografo eminente come Vidal de la Blache - dunque, dall'esterno: filosofia e sociologia - e, d'altro canto, attraverso Sorel e altre disparate influenze si va formando tutto un corpo di nuove esigenze e pratiche storiografiche. Lo stesso accade in Germania nella scia del Methodenstreit, e con una vigorosa continuità o, come in Italia, ripresa di motivi storicistici. Alquanto più modesto fu l'interesse per i problemi di ordine metodologico in Inghilterra, dove prese, peraltro, a manifestarsi la tendenza a una consapevole professionalizzazione della storiografia, soprattutto a livello universitario, secondo un impulso che aveva dietro di sé in Germania, Francia, Italia e altri paesi un ormai lungo passato.
Tra la vigilia e l'indomani della prima guerra mondiale in parte continuò, così, l'attività storiografica a cui sono legati gli storici di cui abbiamo già fatto i nomi, in parte svolse la sua attività tutta una nuova leva di studiosi, in parte ancora si affacciò alla ribalta la generazione che avrebbe tenuto il campo fin oltre la seconda guerra mondiale. Gaetano De Sanctis ed Ettore Pais, Ettore Ciccotti e, a suo modo, Guglielmo Ferrero per la storia antica, Gioacchino Volpe per la storia medievale e poi moderna, Luigi Salvatorelli per la storia del cristianesimo e poi più in generale per la storia italiana ed europea, Ernesto Buonaiuti e Adolfo Omodeo per la storia del cristianesimo, poi lo stesso Omodeo per la storia contemporanea italiana ed europea, Michelangelo Schipa e Croce per la storia del Mezzogiorno d'Italia e dell'età barocca, Guido De Ruggiero per la storia del pensiero e delle idee, Giorgio Levi Della Vida per la storia islamica e araba, Luigi Einaudi e Giuseppe Prato e, per altro verso, Corrado Barbagallo per la storia economica possono dare con i loro nomi un' idea del panorama storiografico italiano in questo periodo, fino a quelli dei più giovani Armando Sapori, Federico Chabod, Roberto Cessi, Arnaldo Momigliano, Walter Maturi, Luigi Pareti, Giorgio Falco, Nino Valeri, Carlo Morandi, Giuseppe Maranini e una schiera di studiosi di letteratura, arte, filosofia con opere di grande interesse storiografico. Quelli di Friedrich Meinecke, di Rudolf Otto, di Otto Hintze, di Karl Hampe, di Hans Delbrück, di Johannes Haller, di Eberhard Gothein, di Friedrich Bezold, di Paul Kehr, di Hermann Oncken, di Percy Ernst Schramm, di Adolf Dempf, di Karl Burdach, di H. Wölfflin, di K. Brandi danno, a loro volta, una prima idea del ricchissimo panorama della storiografia tedesca. Quanto alla Francia, i nomi di Henri Hauser, Georges Lefebvre, Lucien Febvre, Henri Focillon, Marc Bloch, Alexandre Koyré, Augustin Renaudet, Albert Mathiez, Ernest Labrousse, Henri Brémond, Paul Mantoux, Émile Mâle, Paul Lavedan, Gustave Glotz, Louis Halphen, Philippe Sagnac, André Piganiol, André Aymard, Fernand Lot, Émile Benveniste, Marcel Bataillon danno, a loro volta, pur elencati alla rinfusa, e al di fuori di ogni ordine, un'idea della non minore ricchezza della storiografia francese nello stesso periodo di tempo. Trevelyan, Pollard, Clapham, Frith, Ashley, Unwin (primo cattedratico di storia economica in Inghilterra), Namier, lord Ernle, H. A. L. Fisher, Ch. H. Dawson, Ch. J. Singer e A. P. Usher (entrambi con opere importanti per la storia delle scienze e della tecnica) possono dare, infine, un quadro per l'Inghilterra, certo inadeguato, come i precedenti e, tuttavia, altrettanto certamente significativo.
Non è, comunque, soltanto per i molti nomi qui ricordati e per i molti altri suscettibili di esserlo che appare difficile caratterizzare con un unico tratto la vicenda della prima parte del secolo XX. Da respingere è, intanto, la molto diffusa impressione che la prima guerra mondiale abbia segnato, fra i tanti, anche un netto spartiacque storiografico. Appare, infatti, più conforme al vero che un tale spartiacque, per quanto riguarda gli storici, vi fu, ma non tale da indurre a credere che con la fine di quella guerra coincidano i veri inizi del secolo XX, nato tardi, come si sa, secondo alcuni, e finito prima del tempo.
In realtà, evidente, per la storiografia (ma non solo per essa, del resto), è piuttosto la continuità fra l'anteguerra e il dopoguerra; è la prosecuzione di metodi e istanze già largamente affacciatisi prima della guerra. La prosecuzione non esclude affatto, come è naturale, l'innovazione. Nell'Europa dell'anteguerra si erano manifestati, senza che vi fosse alcuno sconvolgimento paragonabile al grande conflitto, mutamenti di idee, di ideali, di comportamenti destinati a un lungo futuro; ed è a essi che per la massima parte si legano anche le innovazioni del dopoguerra, che, quindi, continua organicamente sia le novità che le tradizioni dell'anteguerra. Continua, ad esempio, senza sostanziali modificazioni il predominio tradizionale della storia politica intesa come storia e degli uomini politici e della loro azione per il potere e per la potenza, come storia degli eventi (quella che le posteriori polemiche francesi definiranno come histoire événementielle). E continua, peraltro, con opere insigni. Contemporaneamente maturano le novità già sbocciate o fiorite nell'anteguerra. Accanto al pieno riconoscimento dello statuto accademico della storia economica (del 1928 è la "Economic History Review" e della fine degli anni trenta è l'avvio della Cambridge economic history of Europe, sotto la direzione di M. M. Postan e di E. Power) si ha il più consapevole avvio di una nuova storia sociale, strettamente associata non più solo all'economia, bensì anche, e più, alle scienze sociali (1929: "Annales d'histoire économique et sociale", con M. Bloch e L. Febvre). Sono novità che restano a lungo più sintomatiche che realtà diffuse (così le "Annales"), ma bastano a dare per il loro tempo la sensazione di un mutamento che viene da più lontano del 1914 e che andrà assai oltre nel tempo.
Alcune questioni si ricollegano, comunque, direttamente al grande conflitto, poiché, come si è detto, la continuità non significa affatto assenza di novità e, tanto meno, di svolgimenti. Già l'idea che quel conflitto potesse significare un avvio al declino del mondo dei valori e della stessa realtà di potenza con cui si identificava l'Europa (un'idea serpeggiata, in tutt'altra chiave, già prima del conflitto e indipendentemente da esso) ebbe uno sviluppo composito e farraginoso, ma dimostratosi di grande effetto nella circolazione delle idee con l'opera di Oswald Spengler, Der Untergang des Abendlandes (1918-1922). Vi si esponeva una filosofia della storia fondata sulla teoria del fatale evolvere dei mondi storici considerati alla stregua di organismi che nascono e crescono fino al culmine della loro maturazione, definito come stadio di una Zivilisation, che prelude al loro inevitabile dissolvimento: fase nella quale, appunto, si sarebbe trovata l'Europa del tempo. Il motivo sarebbe ritornato frequentemente nella letteratura, non solo storica, degli anni successivi, ma senza trovare inveramenti storiografici per cui se ne superasse l'intrinseca genericità e povertà concettuale.
Ben più efficace fu l'iniziativa assunta dal governo germanico di reagire sul piano della documentazione dei fatti alla Schuldfrage, alla questione cioè della colpa attribuita dai vincitori alla Germania di aver scatenato la guerra del 1914 con la sua politica e le sue iniziative di Machtpolitik per l'egemonia mondiale. Ne nacque la serie Die grosse Politik der europäischen Kabinette, imponente raccolta di circa 16.000 documenti diplomatici germanici e stranieri dal 1871 al 1914, curata, fra il 1922 e il 1927, da studiosi come J. Lepsius, A. Mendelssohn-Bartholdy e F. Thimme. All'iniziativa tedesca rispose quella di altri paesi che egualmente pubblicarono loro raccolte di documenti diplomatici. Si venne così a formare un inconsueto patrimonio documentario contemporaneo di grande giovamento agli studi, e non solo a quelli di storia diplomatica.
Un impulso forte alla riflessione storica venne, inoltre, come era ovvio, dalle vicende politiche e sociali del mondo post-bellico. L'instaurazione del regime comunista nella Russia zarista, l'avvento del fascismo in Italia, poi quello del nazismo in Germania, le ripercussioni della crisi economica mondiale del 1929, il primo governo laburista in Inghilterra, le vicende della repubblica spagnola con la loro conclusione nella guerra civile, il fronte popolare in Francia, la conquista italiana dell'Etiopia e la crisi della Società delle Nazioni, il cammino espansionistico del Giappone, l'esperienza della presidenza Roosevelt negli Stati Uniti - per citare soltanto alcuni degli eventi di maggiore risonanza - portarono a un approfondimento spesso notevole delle storie nazionali di alcuni dei maggiori paesi e, insieme, all'introduzione di nuove o rinnovate tematiche, solo in parte legate a quella congiuntura storica, e destinate per lo più a grandi fortune storiografiche.
Su alcune tematiche storiche il riflesso di tali vicende fu diretto e immediato. Un caso assolutamente esemplare in tal senso fu l'ambito degli studi sulla Rivoluzione francese. Alla luce della piega presa dal movimento socialista in Europa con l'instaurazione di un regime comunista totalitario in Russia, con la formazione della Terza Internazionale, con la dittatura staliniana nell'Unione Sovietica, con l'imposizione di una ferrea disciplina rivoluzionaria anche nel movimento comunista internazionale si ebbe, infatti, una più o meno esplicita lettura del giacobinismo e soprattutto della figura di Robespierre come autentico cuore della rivoluzione, della rivoluzione stessa come movimento di classe egemonizzato e sfruttato dalla borghesia, della componente agraria e contadina come impulso a una maggiore spinta rivoluzionaria, delle classi popolari urbane come fonte di un eguale impulso e come classes dangereuses, della funzione svolta dagli intellettuali e dai loro gruppi prima e durante la rivoluzione come momento ideologico e politico di primaria importanza negli svolgimenti della rivoluzione.
È da notare, peraltro, proprio in un caso storiografico così 'forte', che la lettura politica non impedì il contemporaneo progresso della ricerca e della riflessione. Georges Lefebvre mise, per parte sua, in rilievo (Les paysans du Nord, 1924, La grande peur, 1932 e Foules révolutionnaires, 1934) sia le componenti di psicologia sociale delle vicende rivoluzionarie fin nei loro inizi, sia le forze di resistenza alle trasformazioni rivoluzionarie non solo da parte di privilegiati e borghesi, bensì anche da parte dei contadini legati a modelli rurali che escludevano il moderno individualismo del possesso e dell'uso della terra. A sua volta Ernest Labrousse evidenziò l'influenza della difficilissima congiuntura economica degli anni ottanta, all'uscita di un lungo periodo di crescita economica e sociale, sullo scoppio della rivoluzione secondo le diversificazioni sociali intervenute a seguito di quella crescita e di quella congiuntura; e si avviò a trarre da ciò una generale veduta sull'insorgere delle rivoluzioni da congiunture drammatiche che mettono in luce le contraddizioni e i problemi di una struttura politica e sociale.
È solo un esempio dei molti possibili in una tale prospettiva.
Pure da segnalare in questo stesso periodo è la maturità che viene dimostrata dalla storiografia americana, debitrice di una tempestiva presa di coscienza alla larga influenza di Mommsen e di Ranke quali capifila di un metodo storico moderno, e soprattutto all'instancabile opera di promozione e di organizzazione di Henry Baxter Adams (alla John Hopkins University dal 1876 alla morte nel 1901 e autore di una monumentale storia degli Stati Uniti sotto le presidenze Jefferson e Madison in 9 volumi), nonché promotore dell'American Historical Association (1884) e della "American historical review" (1895). Alcuni suoi scolari si dimostrarono studiosi di valore, contribuendo a tematiche europee importanti (come quelle trattate da Charles Homer Haskin, i cui studi sulle istituzioni normanne e sulla scienza e la cultura dei secoli XII e XIII ne fecero uno dei maggiori medievisti del tempo) o tentando originali interpretazioni della storia americana (come Frederick Jackson Turner, a cui è legata dal 1893 la tesi secondo cui l'enorme disponibilità di terra nel West degli Stati Uniti era stata il vero motore degli sviluppi della storia nazionale in senso democratico e individualistico, mentre la contrapposizione fra i gruppi oligarchici patrizi e capitalistici della East Coast e i colonizzatori del Middle West coi loro bisogni ne avrebbe costituito la dimensione sociale). Accanto alla teoria della frontiera di Turner (The frontier in American history, 1920) grande importanza avrebbe avuto, a sua volta, l'interpretazione, autodefinita "economica" dall'autore Charles A. Beard (An economic interpretation of the Constitution of the United States, 1913), della storia americana, vista nel suo condizionamento da parte di precisi interessi economici e di classe: la Costituzione americana non era, perciò, il prodotto della saggia opera legislativa di menti illuminate da grandi ideali e da idonee dottrine, bensì di un conflitto sociale, in cui gli interessi del capitale mobiliare avevano rappresentato la prima espressione veramente 'nazionale' della struttura sociale del paese e della sua coscienza politica. Accolta con scarso entusiasmo per il dominante tradizionalismo, la tesi di Beard sarebbe rimasta in seguito a base delle correnti dette 'progressiste' fra gli storici americani.
3. Dopo il 1945.
All'indomani della seconda guerra mondiale non si sarebbe più potuto parlare, come dopo la prima, di una prevalente continuità degli studi storici. Non solo questi studi allargavano il loro ambito e i loro interessi in maniera dirompente rispetto al tradizionale quadrilatero anglo-franco-italo-tedesco, rimasto dominante fino ad allora, malgrado la già forte presenza di altre storiografie come quella iberica e quelle slave, ma si ebbero anche spostamenti di influenze e di centri di ricerca che ne modificarono sensibilmente il panorama globale.
Tra queste modificazioni vanno segnalati il netto declino dell'influenza e del primato germanico dopo un secolo di indiscussa egemonia, il ruolo indubbiamente centrale acquisito dalla cosiddetta 'scuola storica francese', l'esplosione della presenza storiografica degli Stati Uniti e il graduale predominio della lingua inglese come lingua veicolare della comunicazione scientifica, la persistente debolezza della storiografia sovietica fin quasi a tutta la durata del regime comunista, una più aggiornata e aperta maturazione della storiografia iberica e ibero-americana, l'affacciarsi in posizione di prestigio di storiografie nuove o rinnovate come, ad esempio, la polacca o la giapponese. Si aggiunga, inoltre, il definitivo diffondersi della metodologia storica europea in ambiti ancora non maturati alla sua influenza: influenza alla quale si deve per intero, nella sostanza, lo sviluppo critico e tecnicamente rigoroso della storiografia moderna in tali ambiti (l'islamico, il cinese, l'indiano, ecc.) che, più o meno apertisi a essa fino ad allora, non avevano da proporre alternative valide e hanno dovuto adeguarvisi, sia pure secondo le rispettive personalità e caratteristiche culturali, nel momento in cui hanno intrapreso una moderna attività storiografica.
Non minori sono state le modificazioni dovute al forte incremento di nuove possibilità tecniche della ricerca, che in alcuni settori (come, fra gli altri, climatologia, paleontologia, archeologia della produzione agraria e della nutrizione così come della morbilità) hanno consentito progressi inaspettatamente rapidi; o le acquisizioni fornite da scoperte come quelle dei manoscritti di Qumran sul Mar Morto e di alcune tombe cinesi o da casi come, nell'ambito greco, quello della decifrazione della scrittura detta 'lineare B'; o, ancora, quelle dovute allo sviluppo di branche archeologiche nuove o particolari (archeologia medievale o archeologia industriale, ad esempio).
La vivacità della storiografia dopo il 1945 è, comunque, dimostrata dalla diffusione, frequenza e importanza delle discussioni storiografiche su problemi storici recenti e non recenti, che hanno avuto larga eco nei mezzi di informazione più moderni, hanno attratto l'attenzione di un pubblico colto come mai prima, hanno fatto del libro di storia un articolo di mercato, hanno dato luogo a successi di best-seller anch'essi senza precedenti e hanno agito sensibilmente sull'immaginario collettivo alimentando, fra l'altro, una produzione di fictions (a stampa o via radio, cinema, televisione e altri tipi di media) talora di grande successo. Questi aspetti (come altri: in primo luogo, ad esempio, il predominio linguistico dell'inglese) non sono stati esclusivi della storiografia di questo periodo (basti pensare alla diffusione contemporaneamente raggiunta nel campo della divulgazione di temi e problemi delle scienze fisiche e naturali o delle scienze matematiche ed economiche e al pratico monopolio dell'inglese come lingua della ricerca e della comunicazione scientifica) e, come in altri settori dell'attività intellettuale contemporanea, hanno avuto non poche ripercussioni nel lavoro degli storici di mestiere, oltre che alimentare la formazione di una non esigua schiera di scrittori di storia più o meno improvvisati e più o meno lodevoli o riprovevoli.
Questi elementi non hanno affatto ridotto la consistenza e l'importanza di un'ulteriore caratteristica dello stesso periodo. Malgrado l'accrescimento delle possibilità tecniche di informazione, riproduzione, comunicazione, elaborazione, formalizzazione, ecc. di dati, fonti, notizie, ecc., è diventato sempre più difficile padroneggiare campi di studio molto ampi. Già solo sotto il profilo dell'informazione bibliografica la difficoltà di dominio e di tempestività e completezza è cresciuta a dismisura, essendo il numero degli studiosi, dei centri di studio, delle pubblicazioni tanto aumentato da rendere pressoché utopistica, se non un puro e semplice principio di dover essere, la vecchia massima del "leggere tutto ciò che si è scritto sull'argomento" come canone ineludibile di serietà, attendibilità e valore scientifico. Le figure degli storici che continuano la tradizione di una larga apertura di interessi di studio e di ricerca si sono fatte, perciò, sempre meno frequenti. Non si tratta, però, soltanto di una conseguenza di quella tendenza allo specialismo che ha portato tutto il lavoro scientifico moderno a particolareggiare sempre più i suoi oggetti, fino a giungere in tutte le branche delle sue varie discipline a una condizione perfino frustrante di una chiusura dello scienziato e dello studioso nei rigorosamente definiti limiti della loro specializzazione. Ciò su cui richiamiamo qui l'attenzione è proprio il fattore della moltiplicazione quantitativa degli studi, il loro imponente sviluppo materiale, che ne ha fatto un caso non meno esemplare di altri nel contesto degli analoghi sviluppi in tutte le attività culturali del mondo contemporaneo.
Si può, inoltre, notare, a proposito dello specialismo, che i suoi effetti non appaiono nel campo storiografico diversi che in qualsiasi altro campo di studi, portando a una parcellizzazione dei temi, della ricerca, della riflessione, delle competenze, ai cui aspetti positivi, facili a cogliersi nella loro immediata evidenza, corrispondono aspetti negativi forse meno facili a percepirsi, ma di ancora maggiore rilievo. Sono, infatti, via via emersi e vanno progressivamente assumendo maggiore visibilità i limiti della parcellizzazione, non diversi, pur nell'ovvia specificità dei vari ambiti disciplinari, da quelli assai più tempestivamente lamentati nel campo delle scienze fisiche e naturali e che hanno portato a porre e riproporre il problema dell'unità del sapere, della comunicabilità tra specialisti, della funzionalità conoscitiva di un sapere disarticolato in settori fortemente differenziati fra loro, nonché, al livello psicologico soggettivo sul quale lo studioso si muove e dal quale è inevitabilmente condizionato anche per quanto concerne il suo studio e la sua ricerca, una 'nostalgia' irreprimibile di più ampi orizzonti intellettuali, sia fattuali che immaginativi.
Nel campo delle scienze fisiche e naturali, almeno per quanto riguarda l'aspetto operativo e pratico del lavoro scientifico, la prassi del lavoro di équipe e della cooperazione interdisciplinare ha posto largamente rimedio a tutto ciò. Nel campo delle discipline cosiddette 'umane' o 'morali' interdisciplinarità ed équipe hanno costituito egualmente una parola d'ordine di larga circolazione, sia per un assemblaggio di competenze all'interno del campo storiografico, sia in vista di una collaborazione tra cultori di discipline diverse. Giudicando in via molto generale, si può, tuttavia, ritenere che i frutti degli sforzi esercitati al riguardo non siano stati pari né alle attese, né a quanto forse si sarebbe potuto fare sulla base di quei due criteri. Difetto di applicazione di quei principî o renitenza derivante dalla forma mentis umanistica e storiografica alla logica che essi implicano? Una risposta prevalente non è emersa; anzi, poco ci si è posti già il problema. Si è, perciò, continuato a esaltare i principî in questione, senza neppure notare, ad esempio, tranne che da parte di pochi, la differenza che può correre fra interdisciplinarità e multidisciplinarità e senza neppure notare, sempre a titolo di esempio, che ogni ricerca di per se stessa comporta al suo interno, nella sua logica e nella sua ottica, interdisciplinarità e multidisciplinarità sostanziali e spontanee, oltre che autonome, non determinabili canonicamente.
In ultima analisi, si può, peraltro, agevolmente vedere nei punti ora accennati un non secondario riflesso di una crisi di identità, sulla quale si avrà modo di ritornare. Nella misura in cui ciò ha dato luogo a una qualche riflessione specifica, si è pure avvertita l'esigenza di un lavoro storiografico che non rinunci a priori a una considerazione storica di ordine più generale. È, tuttavia, significativo che un tale livello o tipo non sia riuscito a guadagnare la considerazione della corporazione degli storici, presso i quali gli autori di quelle che vengono definite con qualche degnazione 'grandi sintesi' o semplicemente sintesi sono ritenuti storici non di prima linea. Non è mancato, però, chi ha fatto osservare che quella dello 'storico generalista' (definizione a sua volta un po' ironica che pure è stata data) è anch'essa un'attività storiografica suscettibile di essere considerata come una specializzazione, è una dimensione storiografica equivalente a qualsiasi altra, con una propria filologia e proprie fonti e relativa esegesi, e con proprie regole ed esigenze.
Una svolta ancor più decisa è stata, inoltre, segnata negli sviluppi postbellici dalla netta prevalenza che la storia contemporanea, secondo un indirizzo visibile già a partire dagli ultimi decenni del secolo XIX, ha acquisito, nel generale equilibrio settoriale degli studi, rispetto agli ambiti storici tradizionali della storia moderna, medievale, antica, nonché della preistoria. La svolta è tanto più notevole in quanto in quegli ambiti tradizionali sono state frequenti le novità di ordine tematico, metodologico, filologico. Alla fine del XX secolo, se una tale svolta fosse per consolidarsi fino al punto da dover essere considerata irreversibile e, magari, accentuarsi ulteriormente era difficile dire. Poteva dirsi, tuttavia, anche stando agli sviluppi degli ordinamenti universitari e al termometro pur sempre rappresentato dal mercato librario, che questa, appunto, di un progressivo consolidamento fosse l'impressione che sembrava ricavarsi dagli svolgimenti in corso.
È da vedere in ciò un ulteriore effetto di quella esaltazione della novità, del tempo reale e dell'attualità che è così spesso imputata a carico della civiltà e società industriale o, come suol dirsi, post-industriale? Una tale ipotesi non ha nulla di inverosimile; e tuttavia non può affatto escludersi che vi sia, ancor più forte, al riguardo, il segno di processi storici più profondi e sostanziali. Ci riferiamo alla travagliata ed evidente ricerca, genesi, manifestazione, riappropriazione o costruzione e invenzione di nuove identità o 'radici', che il mondo contemporaneo presenta così diffusamente nelle più varie forme, scale e dimensioni: sociale e culturale, etnica e nazionale, politica e professionale, di grandi e piccoli gruppi come dei singoli individui.
Al generale evolvere degli studi ha, infatti, contribuito nelle contemporanee circostanze storiche il potente impulso ricevuto da vicende come quelle costituite dall'affacciarsi alla ribalta storica di molti 'paesi nuovi', dalla dissoluzione di grandi spazi politici unitari come nel caso dell'Unione Sovietica, dall'insorgere di molteplici e spesso imprevedibili localismi o regionalismi, dalla grande e tutt'altro che soltanto storiografica fortuna del tema delle 'radici', dalla tendenza al 'revisionismo' di cui riparleremo e anch'essa di grande diffusione e dalla connessa tendenza a contrapporsi alla cosiddetta storiografia 'ufficiale' o 'tradizionale', dalla continua ricerca di storie 'alternative' in vecchi o nuovi campi di studio, da molti imprevedibili sviluppi della vita sociale e dei relativi contrasti e lotte e dal connesso affacciarsi o riaffacciarsi di vecchie e nuove realtà di ceto e di classe che hanno reso il panorama sociale della fine del secolo XX tanto diverso e più complesso che agli inizi del secolo: insomma da una serie di elementi variamente, ma sicuramente legati ad aspetti di primaria importanza nella storia del mondo contemporaneo. Né va trascurato il fatto che nel corso di questo periodo è andato crescendo il tema delle differenze tra culture, religioni, civiltà, con riflessi storiografici molto significativi che hanno riacceso a volte contrapposizioni ideologiche e confessionali, ma hanno anche costituito un banco di prova importante della capacità e maturità di molte tradizioni storiografiche e hanno talora procurato lo sviluppo di tematiche importanti con opere che talora hanno suscitato un più che giustificato interesse. E tra le nuove tematiche basti solo accennare a quella della genesi e natura delle varie forme di terrorismo sviluppatesi in questo periodo per rendersi conto della pregnanza di interessi storici che, nati nel e dal presente, si sono largamente riflessi anche su studi e ricerche attinenti a tutt'altri tempi.
Non ha, dunque, agito soltanto il mercato, al quale ci siamo sopra riferiti, nel sollecitare una super-produzione storiografica. Hanno agito spinte molteplici sia dall'interno del mondo degli studi, sia dall'esterno e dalla vita civile in generale, tanto nello specifico ambito disciplinare della storiografia quanto per riflesso dello sviluppo generale degli studi e del pensiero contemporaneo. Il che ha conferito alla presenza della storiografia nella società contemporanea una maggiore e più viva organicità, ma l'ha anche esposta, in misura assai più rilevante che per il passato, a condizionamenti di vario genere.
Si può, peraltro, osservare che siffatte spinte e motivazioni non sono una novità assoluta della seconda metà del secolo XX, essendo piuttosto una facies perenne del movimento e della coscienza storica; ed è vero. Sufficientemente nuovo per essere considerato un qualcosa degno di particolare nota è, però, che a quelle spinte e motivazioni si dia ora una risposta ricercata soprattutto nei fili tessuti e intrecciati dalla storia contemporanea, per cui ciò che un tempo veniva letto nella filigrana di storie passate e spesso concluse da tempo - dei secoli precedenti, dell'età medievale o antica o della preistoria e perfino della Urgeschichte - veniva ora, invece, letto e visto nelle trame prossime al presente, in processi che sono spesso ancora in pieno corso, in vicende delle quali i contemporanei sono stati e continuano a essere diretti partecipi o protagonisti e delle quali, in vari modi e in varia misura, possono fornire diretta testimonianza. A questa luce può, perciò, non apparire un caso neppure che proprio in tale congiuntura storica, e per essa - e non solo, quindi, per effetto di scambi disciplinari con altre discipline come la sociologia o l'antropologia o la psicologia - sia affiorata e abbia messo non esili radici la nozione di 'storia orale': quasi una sanzione metodologica e pratica delle esigenze di cui si è detto.
Può, nel complesso, dirsi che una vicenda così ricca di novità e di sviluppi abbia segnato un'internazionalizzazione degli studi storici tale da dissolvere il rilievo e il condizionamento dei quadri nazionali in cui, in misura di gran lunga maggiore sul totale dei cultori di tali studi, gli storici hanno continuato a formarsi, a lavorare e a proporsi i temi dei loro lavori? La risposta dev'essere forse più negativa di quanto indurrebbero a pensare l'indubbia moltiplicazione dei rapporti (scambio di docenti fra le università, congressi e convegni, riviste e pubblicazioni in varie lingue, possibilità maggiori di viaggi di studio all'estero, e così via), il più diffuso plurilinguismo degli studiosi e, innanzitutto e soprattutto, la realtà di un mondo in marcia verso la globalizzazione, nonché vari altri fattori che si possono facilmente individuare. E la permanenza dei quadri e delle tradizioni nazionali non è cosa che si riveli e influisca solo sul piano delle scelte tematiche. Essa implica in notevole misura un'eguale permanenza di metodi, di criteri, di bagagli informativi, di orientamenti e finalità della ricerca e del giudizio, di preferenze settoriali, insomma di elementi quasi sempre determinanti anche per il livello qualitativo degli studi, e corroborati dalla prosecuzione della propria attività da parte di molti degli studiosi più importanti attivi già prima della guerra, dei quali alcuni diedero, anzi, proprio dopo il 1945 il meglio o parte del meglio della loro attività.
Sarebbe avventato vedere in ciò il segno di una condizione poco dinamica nella sostanza o dinamica solo all'apparenza o in superficie. In molti casi e per molti aspetti questa permanenza ha avuto un grande significato. Essa ha, infatti, contribuito a salvaguardare tradizioni e valori storiografici che hanno protetto il lavoro storiografico da influenze politiche e da interessi allogeni di ogni genere in misura tale da trasformare i succhi vitali, che la storiografia ha bisogno di ricevere dal suo rapporto col mondo per poter essere se stessa e dare il meglio di sé, in veleni pestiferi e mortali, oltre che depotenzianti e deformanti, con l'effetto di perdere la sostanza della propria autonomia ideale e scientifica. E ciò in un contesto generale che già di per sé ha la forza condizionante della società industriale matura, o post-industriale, fonte di influssi e sviluppi repentini o avventurosi o indebiti o distorcenti che si esprimono specialmente nell'incalzare della 'moda', con le sue leggi del 'nuovo' e del 'sensazionale' a tutti i costi e con il suo ritmo incalzante e la velocità dei suoi consumi e delle sue usure, e nella 'spettacolarizzazione' di ciò che è e di ciò che non è spettacolare, con le sue esigenze di semplificazione, di alterazione, di 'effetti speciali' funzionali agli scopi voluti. Il che non è solo un'artificiosa o ipotetica costruzione di eventualità remote dai santuari degli studi; non è un'indebita illazione da schemi correnti e più o meno semplicistici circa la civiltà contemporanea. È quanto si è visto e si vede anche in quel rapporto degli studi storici con i media a cui si è già accennato, e non è possibile non vedere dal momento che, su una scala più ampia, la generale affermazione dell'industria culturale tipica dell'epoca non poteva non comprendere il settore storiografico fra gli altri.
Nella storia della storiografia posteriore al 1945 un episodio centrale è stato certamente rappresentato dalla preminenza rapidamente acquisita, fin dagli anni cinquanta, da quella che molto impropriamente viene designata come 'scuola francese'. Si tratta, infatti, di una serie di indirizzi che hanno fatto variamente capo alla rivista "Annales", di cui abbiamo già ricordato la fondazione nel 1929 e che hanno fatto parlare di una 'scuola francese' come realtà assiomatica nel quadro degli studi storici su un piano praticamente mondiale. Sarebbe, tuttavia, estremamente riduttivo incentrare l'attenzione su questo episodio e considerare dipendenti e subalterni, marginali o periferici i numerosi altri movimenti ed episodi che hanno caratterizzato la seconda metà del XX secolo. Già questo sarebbe impossibile nella stessa Francia, dove fioriva contemporaneamente una storiografia di ispirazione marxistica che ebbe anch'essa un notevole ascolto internazionale e che non mancò di esercitare a sua volta una non trascurabile influenza sugli storici riconducibili in una maniera o nell'altra agli interessi e alle tecniche e ai metodi delle "Annales", i cui rapporti col marxismo si atteggiarono perciò in modo ambiguo a seconda dei casi e delle circostanze. Ancora in Francia si ebbe con lo strutturalismo una corrente dalle forti implicazioni filosofiche e culturali su un piano assai più generale di quello degli studi storici, che su questi studi ebbe, tuttavia, effetti per nulla trascurabili e, per alcuni aspetti, molto rilevanti. E si potrebbe proseguire con altre osservazioni, ma più importante è notare che il panorama si presenta ancora più complesso se ci si sposta sul piano internazionale.
Qui egualmente risalta la forte presenza marxistica, che, se nei paesi del 'socialismo reale' si tradusse con poche eccezioni in un forte impoverimento critico e metodologico degli studi e in una loro disciplina scolastica e conformistica, nel mondo occidentale ebbe espressioni storiografiche notevoli e funse indubbiamente da stimolo a un più vivace moto della cultura e della ricerca storica: basti pensare agli storici inglesi facenti capo alla rivista "Past and present" e agli importanti dibattiti che essa alimentò. Fu, però, soprattutto in Italia che nella versione del marxismo data da Antonio Gramsci si ebbe l'influenza marxistica, in senso assai lato, più incisiva e diffusa. Gramsci è, anzi, tra i non molti nomi nuovi di teorici del marxismo che, dopo il 1945, abbiano dato luogo a più interessanti discorsi di critica e di metodo recepiti e fioriti negli studi storici, concretandosi in una serie cospicua di opere spesso di effettivo rilievo.
4. Nel crepuscolo del XX secolo.
Sia per la via delle "Annales" nella loro serie caratterizzata dalla presenza direttiva di Fernand Braudel negli anni cinquanta e nei primi anni sessanta e, ancor più, nella fase successiva dalla metà degli anni cinquanta, sia per la via prima delle influenze e poi della crisi degli orientamenti marxistici, sia per altri canali culturali o, più specificamente storiografici, l'incontro fra storici e scienze sociali ha assunto rapidamente il carattere di un tratto dominante rispetto a tutti gli altri nell'attività e nella fisionomia delle esperienze storiografiche durante la seconda metà del secolo XX. Solo all'apparenza più superficiale poteva sembrare un ritorno alle tendenze nello stesso senso conosciute un secolo prima e dalle quali abbiamo qui preso le mosse. In quel caso, infatti, il rapporto fra storia e scienze sociali era stato vissuto sulla base di una profonda convinzione della specificità e del primato delle scienze storiche (come allora le si definiva), tanto da potersi parlare di uno storicismo positivistico non meno effettivo e corposo di quello romantico e da poter abbracciare l'intero secolo XIX nella definizione di "secolo della storia". Nella seconda metà del secolo XX il rapporto è stato diverso e ha comportato un'abbastanza rapida conversione della storiografia in una disciplina - a dirla in termini un po' immaginosi - vassalla o tributaria delle scienze sociali, fino a far perdere a essa, nei casi estremi, gran parte della sua identità e autonomia disciplinare, oltre che concettuale.
La nuova condanna della storia politica e diplomatica come pura histoire événementielle, come histoire-bataille e la correlativa domanda di una storiografia che fosse essenzialmente storia sociale sono state solo l'aspetto più generale e immediato di questa vicenda. Al di là di tale aspetto vi è stato un suo senso più profondo. Va registrato che, parlando di storia sociale, ci si è molto spostati dal suo precedente, se non originario, senso di storia delle strutture sociali nelle loro stratificazioni e nelle loro conflittualità, come storia quindi di classi e di ceti e delle loro lotte. Questo senso originario non era soltanto marxistico, come fin troppo spesso si è creduto e si crede, bensì molto più diffuso nella tradizione storiografica occidentale. Non dovrebbe essere necessario ricordare che le nozioni di classe e di lotta di classe furono largamente elaborate, ad esempio, nella cultura francese della Restaurazione, di cui fu largamente tributario lo stesso Marx. Da questo senso antecedente si è poi passati abbastanza rapidamente, già dai primi anni sessanta, all'idea di una nuova storia sociale.
Si tratta di un'idea della storia come storia essenzialmente di mentalità e di comportamenti, storia delle persistenze e delle lunghe durate di elementi antropologici (antropologico-culturali) o altrimenti strutturali; storia di sentimenti e sensibilità incidenti anche nell'ideario, oltre che nell'immaginario, individuale e collettivo (amore, morte, amicizia, condizione filiale, ecc.) e storia di condizionamenti ed esperienze della quotidianità più immediata (fino al caso di una storia sociale degli odori); storia di settori e forme della marginalità e dell'emarginazione sociale; storia delle idee come storia della loro circolazione e delle forme e condizioni e fruizioni di tale circolazione (dalla storia del libro, ad esempio, a quella del mercato librario e dell'alfabetizzazione); storia delle forme e degli strumenti del consenso o dell'aggregazione e del dissenso o della disgregazione sociale (dalle strutture della famiglia e della parentela alle repressioni, come quella carceraria o, in genere, penale; dall'associazionismo nei suoi più vari aspetti effimeri o duraturi alle forme egualmente più varie di banditismo, delinquenza e criminalità in genere; dalle istituzioni assistenziali od ospedaliere a quelle del credito o dell'usura, sempre a titolo di esempio; dalla considerazione delle malattie, e prima e più di tutte di quelle psichiche); storia di momenti sociali critici o, comunque, pregnanti e significativi (le feste, ad esempio, o i cerimoniali e i rituali) e di prassi sociali civili e religiose (conversazione o ricorrenze private e pubbliche o culti e devozioni, ad esempio); storia della cosiddetta 'cultura materiale', o anche 'civiltà materiale', come storia delle concrete condizioni di vita (strumentazione e oggettistica domestica ed extradomestica, arredamento e abbigliamento, 'beni' fisici di ogni genere, pratiche e mentalità dei relativi usi, ecc.).
L'esemplificazione potrebbe continuare, ma, oltre al rischio di trasformarsi in una troppo schematica elencazione, ove non conservi il suo senso, appunto, esemplificativo, essa appare subito anche, in certo qual modo, da integrare con il richiamo alle varie esperienze, più o meno nuove o innovative, che, direttamente o indirettamente, possono essere collegate alla domanda di storia sociale, progressivamente cresciuta in tale periodo fino ad affermarsi come il modulo storiografico più conosciuto e atteso. Ci riferiamo, per fare solo un esempio, alla cosiddetta 'microstoria' (nata specialmente in ambiente italiano) che rifiuta le grandi scale dell'analisi storica e restringe la sua attenzione a casi specifici materialmente o metodologicamente determinati (una persona, una località, una giornata, una particolare vicenda, e così via) al fine di cogliere i sensi più profondi, umani e concreti che sarebbero resi più evidenti e percepibili da tali singole fattispecie. Almeno, però, un richiamo va fatto alla fioritura, nella stessa scia, di discipline particolari, più o meno riconosciute e riconoscibili come, forse più esemplare di altre, la cosiddetta 'psicostoria', che, partendo anche dalle non nuove postulazioni di una 'psicologia storica' come storia dei movimenti e delle realtà storiche dal punto di vista della psicologia di singoli individui o di gruppi e masse, ha cercato di sviluppare tali postulazioni alla luce delle più recenti e avanzate acquisizioni delle scienze psicologiche, della psichiatria, della psicanalisi, finendo però molto spesso con lo sfociare in storie dell'immaginario, dei 'riti' e dei 'miti' più correnti in questo o quel contesto storico, del comportamento sociale in rapporto alla memoria collettiva, delle forme espressive di tali 'contenuti' o 'fatti psicostorici', e quindi con una sostanziale perdita di quell'identità disciplinare in cui si voleva tradurre, con la psicostoria, l'apertura della psicologia alla storia o della storia alla psicologia.
A sua volta, solo in parte può essere collegata alla stessa affermazione della storia sociale la rapida e impressionante fortuna conseguita, a partire soprattutto dagli inizi degli anni settanta, dalla 'storia di genere' (gender history), come con termine non del tutto felice la si definisce: ossia, la storia delle donne non più viste quasi esclusivamente come elemento della storia delle famiglie o come soggetti giuridici o di singoli aspetti o momenti della vita sociale (religione, cultura, lavoro, ecc.), ma come soggetto complessivo e da considerare autonomamente dell'intera vita sociale. Non si trattava, dunque, tanto di una novità quanto all'oggetto di questa storia, essendo davvero difficile sostenere l'assenza delle donne nella storiografia tradizionale, quanto di un modo nuovo e diverso di concepire, considerare e trattare storiograficamente quell'oggetto, le donne, fino a farne un protagonista für sich e an sich della storia generale di ogni tempo e di ogni paese. Proposta concettualmente e metodologicamente rischiosa, ma da intendere e inquadrare nella sua genesi, largamente collegata ai movimenti femministi sviluppatisi impetuosamente dalla fine degli anni sessanta.
Solo in parte può essere, invece, collegata all'onda montante della storia sociale la spinta alla quantificazione, che ugualmente ha dato luogo, dopo il 1945, a una larga prassi storiografica. È vero, infatti, che essa ha ricevuto un impulso sostanziale dall'influenza della 'scuola francese', nella quale la determinazione anche quantitativa dei fenomeni è venuta in primo piano non tanto per esigenze di concretezza e di individuazione storica, quanto per disporre di uno strumento 'oggettivo' di comparabilità sincronica e diacronica dei fenomeni e per procurarsi un criterio di giudizio che, attraverso la quantità, permettesse di rendersi meglio conto della qualità e del significato dei fenomeni. Nelle fortune della quantificazione ha, tuttavia, inciso, e forse ancor più profondamente, la storiografia anglosassone, anche - occorre notare - per l'incidenza, in essa, dell'alquanto più consolidata e tecnicizzata tradizione di una storia economica in più diretto rapporto col pensiero e le dottrine economiche, come si sarebbe visto con maggiore evidenza nella vicenda della new economic history. Superfluo è, inoltre, parlare dell'influenza che nello stesso senso hanno potuto esercitare le sopravviventi tradizioni positivistiche e le nuove o rinnovate visioni del carattere scientifico della storiografia. Per esse la quantificazione poteva rappresentare la garanzia più evidente della vagheggiata scientificità della disciplina e, insieme, la rassicurazione migliore della sua equiparabilità ed equiparazione alle scienze fisiche e naturali in quanto, fra l'altro, 'scienze esatte'.
La spinta alla quantificazione ha investito, peraltro, anche gli aspetti della storia sociale che, almeno in via di principio e per sperimentata tradizione storiografica, apparivano più refrattari alla possibilità di misurazioni quantitative, come la diffusione di fedi religiose o politiche oppure l'impatto sociale di movimenti di cultura o di arte. L'assai ardua praticabilità di una tale istanza ha fatto sì che si finisse per praticare la quantificazione restringendola sempre più ai vari campi della storia economica e della storia sociale nei suoi aspetti sociologici e culturali più esteriorizzati ed esteriorizzabili. In qualche campo particolare, come quello della storia della scienza e della tecnica, la cosiddetta 'scientometria' si è provata a studiare la consistenza e la rilevanza perfino di scoperte e invenzioni attraverso standard quantitativi variamente determinati. Nella stessa storia economica la new economic history ha cercato la via di una 'cliometria' (cliometrics), per la quale l'adozione di modelli economici come assunti della ricerca, da controllare attraverso tecniche statistiche appropriate e sofisticate, avrebbe permesso di riscontrare la rispondenza dei processi economici storici a logiche dell'economia e la loro effettiva rilevanza.
Facilmente imputabile di scarso senso storico così come di imperialismo e di insuperabili incertezze quanto all'attendibilità delle sue misure e relative deduzioni, e, a sua volta, incline a contrapporre il proprio rigore econometrico alla sostanziale narratività che essa imputava alla 'storia tradizionale', la new economic history, rimanendo confinata in misura di gran lunga prevalente nell'ambito anglosassone, ha dovuto ridimensionare le sue pretese, in una prima fase proiettate su un arco storiografico di spessore molto più ampio. Essa, però, ha anche raffinato le sue tecniche di indagine e i suoi procedimenti statistici e, mentre ha meglio circoscritto e definito il suo campo di applicazione, ne ha, d'altra parte, esteso la scala di indagine, puntando ai livelli della macroeconomia e, quindi, alla ricostruzione dei grandi indicatori dei processi economici e sociali (dai prezzi, ai redditi, ai salari, al prodotto nazionale, agli investimenti e a simili altri referenti).
Come reazione, fra l'altro, alla cliometria e, più in generale, alla new economic history si è sviluppata nell'ambito soprattutto francese la petizione di una 'storia seriale', che rifiuta la proiezione retrospettiva di modelli economici sostanzialmente contemporanei e, quindi, da ritenere anacronistici per l'oggetto storico a cui vengono applicati. La serialità viene costruita con una tecnica statistica, più immediata rispetto a quelle cliometriche, che inquadra i fenomeni di massa e di natura e durata non événementielle in periodicità che possono essere cicliche o di lunga durata e per tale via intende coglierne non solo la consistenza ultima, bensì anche la reale natura e il significato di fondo. Il trattamento statistico di una massa significativa, e quindi fatalmente amplissima, di dati per renderli attendibilmente suscettibili di una effettiva serializzazione diventava così un punto qualificante della storia seriale e finiva col porre problemi non meno complessi di quelli imposti dalla metodologia cliometrica, fino, ad esempio, in qualche caso, al calcolo delle matrici implicabili in determinate ricerche, senza sfuggire, peraltro, più di quella metodologia alla discutibilità delle sue ricostruzioni. Analoga era, invece, la tendenza ad allargare progressivamente il focus delle proprie ricerche a livelli da quelli economici e demografici a quelli culturali e a quelli delle mentalità e dell'immaginario, con risultati che nel complesso sono apparsi almeno nell'ambito europeo più interessanti e ricchi che quelli della new economic history.
A quest'ultima era dovuta la tendenza a spingere la modellistica come criterio di indagine storica a un'applicazione del tutto particolare con l'appello a una counterfactual history. Si volevano, con essa, ipotizzare svolgimenti del corso storico diversi da quelli reali, ma sulla base di elementi della realtà conosciuta, e svolgerli in deduzioni-induzioni che, prospettando altri panorami storici potenziali o possibili, dovrebbero portare a una migliore intelligenza del corso effettivo dei processi storici conosciuti. Le implicazioni gnoseologiche ed epistemologiche di tale tendenza portano, invero, molto lontano da una prassi storiografica che, comunque si proponga dal punto di vista dei valori, dei fini, dei suoi caratteri propri e del metodo, sia però pur sempre concepita come una disciplina volta alla rievocazione e alla ricostruzione conoscitiva del passato dell'uomo. E questa inevitabile lontananza ha in sostanza privato la 'storia controfattuale' di serie possibilità di svolgimento, anche quando a tentarla sono stati storici indubbiamente sperimentati e accorti, e ne ha fatto un episodio di importanza più legata a una sperimentazione logica che a un'attività intrinsecamente storiografica o, per altro verso, uno degli indizi dei disagi e delle crisi della storiografia del tempo.
5. Agli inizi del XXI secolo.
Disagi e crisi di cui la prima e già più che sufficiente documentazione è in quella moltiplicazione degli indirizzi, delle tendenze e delle 'scuole' storiche, che qui è stata molto sinteticamente compendiata in quanto finora si è detto, e nei numerosi neologismi disciplinari a cui, come si è appena visto in qualche caso, essa ha dato luogo, così come nelle numerose svolte e rifondazioni a cui si è aspirato o preteso di sottoporre la storiografia. Al di là di questi dati di fatto, che già vanno molto oltre il fenomeno della moda o del consumismo e relativo mercato storiografico di cui si è fatto cenno, si pone, però, un problema teoretico e ideologico insieme che nella cultura contemporanea ha trovato espressioni di immediato e profondo interesse storiografico nella generalizzata ripulsa, in particolare, dello storicismo come singola opzione filosofica e storiografica, ma, molto più in generale un'ancor più determinante ripercussione nella storiografia, ha poi avuto la egualmente molto generalizzata ripulsa della storicità come fondamento conoscitivo e dimensione effettiva della realtà, per cui la storicità è stata posposta o del tutto negata rispetto ad altri moduli o istanze conoscitive ed effettuali. Non si tratta più, quindi, di una semplice riduzione della storiografia a disciplina scientifica secondo il modello positivistico o, come nel corso del secolo XX è ritornato a proporsi, neo-positivistico, né si tratta di altre opzioni storiografiche che variamente si sono poste in tale periodo. Si tratta di una petizione molto più generale, di insieme teoretico non tanto allogeno quanto allotrio rispetto alla specificità originaria e irrinunciabile della storiografia, che, fuori di una prospettiva effettuale, sostanziosa e ampia della storicità, presenta più che comprensibili difficoltà a soddisfare alle sue esigenze e alle condizioni stesse della sua ragion d'essere.
Storiograficamente è, peraltro, irrinunciabile, oltre che inevitabile, interrogarsi sulla ragione e sul significato storico di disagi e crisi che hanno posto e riproposto con sempre più sospetta frequenza il problema della identità della storia. Né è da trascurare che, in certo qual modo, è proprio nella inevitabilità e irrinunciabilità di un tale interrogarsi che la storia riacquista ipso facto, a dispetto di ogni negazione dall'interno o dall'esterno della disciplina, i suoi indiscutibili titoli di insopprimibile prospettiva della conoscenza e della realtà.
A ben vedere, appare naturale e per così dire obbligato riferirsi alla crisi profonda dell'identità e della consapevolezza europea dopo la seconda guerra mondiale, che ha profondamente caratterizzato stati d'animo e atteggiamenti culturali dell'Europa contemporanea. Quando si parla di Europa, ci si riferisce in questo caso alla parte occidentale del continente, quella che ne aveva formato per quindici secoli il cuore e il quadro storico, essendo diventata la metà orientale il cuore e il quadro storico, a sua volta, di un altro universo con altra identità e altra prospettiva, l'universo, come è noto, del socialismo reale. Si aggiunga che dopo la guerra, nel giro di appena qualche lustro, il polo culturale rappresentato dagli Stati Uniti si impose ben presto quale centro e motore della ricerca scientifica e tecnica e degli studi in ogni vecchio e nuovo campo disciplinare, come e più di quanto l'Europa lo era stata fino al 1945, diventando una formidabile attrazione centripeta dal punto di vista dell'organizzazione e della promozione degli studi e dell'attività degli studiosi, imprimendo al movimento della cultura il particolare accento della tradizione anglosassone nella sua versione americana e dando così al già rilevato predominio linguistico dell'inglese una sostanziale giustificazione di ordine propriamente culturale.
La crisi europea si tradusse ben presto in un rifiuto anche del patrimonio storico europeo, nel senso che un vero e proprio 'processo all'Europa' e alle sue varie versioni e tradizioni nazionali e culturali e alla loro azione e funzione nei riguardi del mondo extra-europeo e all"ideologia europea' che tale azione e funzione avevano comportato divenne quasi una koiné di quel che la cultura contemporanea intendeva e poteva intendere come 'corretto' e 'vero'. Non fu un caso che la cultura europea postbellica fosse subito caratterizzata dalla già accennata, e analoga e ancor più esplicita e immediata, ripulsa dello storicismo come filosofia e come gnoseologia, nonché come espressione teorico-formale di quella categoria della storicità, che esso aveva assunto quale presupposto tacito, inconfutabile e irrefutabile del pensiero e della conoscenza e, in particolare, dell'attività storiografica. Lo storicismo aveva, infatti, costituito il culmine del moderno pensiero europeo e aveva contraddistinto l'Europa - nell'ambito della cui tradizione a partire dalle origini elleniche e romane erano sorti i concetti, strettamente interconnessi, di storia e di storiografia - più d'ogni altra prospettiva teoretica e culturale elaborata nel corso della sua vicenda. Perciò il rifiuto dello storicismo significò la rottura di un cordone ombelicale che legava la tradizione europea con uno dei suoi fili più robusti e più originalmente intessuti e di più alto e creativo significato. Né in seguito, pur nel vivacissimo movimento intellettuale dell'Europa postbellica, e nello sforzo ininterrotto e talora geniale di sostituzione dello storicismo e delle sue implicazioni storiografiche con una nuova veduta critica della ragione storica e con l'elaborazione di nuovi modelli storiografici, a partire da quello delle "Annales", si riuscì più a proporre una identità storiografica europea comparabile a quella che soprattutto nel secolo XIX, il "secolo della storia", come si è detto, e fino alla metà del XX aveva accomunato la cultura europea al di sopra delle sue molte e ricche articolazioni e aveva toccato il vertice del suo pensiero storico e della sua modernità e maturità storiografica. Si ebbe, anzi, il caso di una delle voci più forti dello storicismo europeo, e cioè il marxismo, che andò gradualmente attenuando la sua originaria ispirazione storicistica e ricercando un incontro teoreticamente difficile e pragmaticamente problematico con le scienze sociali, nuovo verbo del mondo culturale postbellico: nel che era un indizio evidente dell'indebolimento progressivo del vangelo marxistico, in parallelo con la coeva e finale consunzione del socialismo reale, ma anche in linea con la generale vicenda storica e culturale alla quale andiamo qui accennando.
Dall'altro polo, l'anglosassone, del mondo storico europeo non giunse, e non era da attendersi per le sue sopra accennate connotazioni, una supplenza della crisi europea. Giunsero, invece, suggestioni e concezioni come quella della storia controfattuale, di cui si è detto, o quella della "fine della storia", che assumeva, alla fine del secolo XX, una fossilizzazione del quadro storico mondiale per effetto degli equilibri creatisi nel mezzo secolo precedente, d'onde sarebbe derivata una radicale riduzione delle possibilità di evoluzione e mutamento di quel quadro. Giunsero elaborazioni epistemologiche a volte assai sofisticate (a partire da una notevole filosofia analitica), inflessioni molteplici da filosofia della storia (spesso per la via di una considerazione sociologica o antropologica), riduzioni tecnicistiche della prospettiva storiografica inadatte a supplire alla carenza di un'autonoma e robusta geschichtliche Ansicht quale quella della tradizione europea. Giunsero il verbo del flowing stream of research e sollecitazioni del tipo "più idee e problemi che verità e conoscenze". Giunse la troppo frequente, e perciò, come si è già accennato, sospetta ricorrenza di svolte semplicistiche o improbabili, come quella del social turn degli storici in corrispondenza dell'historic turn dei cultori delle scienze sociali in vista di una cross-fertilization dei rispettivi campi disciplinari; o quella del linguistic turn per una soluzione semantica della tematica e degli esiti della ricerca storica, o quella di una risoluzione semantica e retorica o 'narratologica' dei problemi storiografici di critica e metodologia; o come quella di una post-modern history, e anche di un post-structuralism, con congiunte tematiche di deconstruction o disfiguring o recounting history, in una varietà di alternative teoretiche per lo più poco compatibili fra loro, di cui non sembra aversi piena la percezione.
Non sorprende, quindi, che nella cultura storica della seconda metà del secolo XX si siano prodotti o siano giunti a finale maturazione molti processi dissolutivi del patrimonio concettuale più lungamente e robustamente elaborato dalla storiografia e dalla cultura precedente. Basti accennare alla sorte di nozioni come quelle di Medioevo o di Rinascimento, di modernità e di Stato moderno, di nazione e di nazionalismo, o quelle di imperialismo e di impero o di classi e lotta di classe, o quella di problema storico rispetto a quella di svolgimento storiografico tematico, e così via per un lungo ordine di casi, che sarebbe difficile elencare o, peggio, inserire in un ordine più sostanziale. E speculare, in certo qual senso, rispetto a tale processo dissolutivo può essere ritenuto il moto che ha spinto a una pratica in molti casi generalizzata del 'revisionismo' come canone storiografico che postula rovesciamenti (fino a convertirsi in vari 'negazionismi') o corpose modificazioni di idee e fatti assunti come tradizionali, a volte con effettivo vantaggio di liberazione da tesi e modi di vedere aduggiati da interessi di parte e, comunque, allogeni alla logica storiografica, ma, più spesso, espressione di punti di vista a tesi altrettanto ideologicamente condizionati di quelli di cui si ha di mira il rovesciamento: processo revisionistico da cui è stata investita, in particolare, la storia contemporanea a partire dalla Rivoluzione francese e fino ai casi macroscopici dei totalitarismi del secolo XX.
Di fronte a un panorama così caratterizzato può essere lecito considerare molte delle parole d'ordine più in auge della storiografia alla fine di tale secolo - dal "ritorno" alla storia politica e al racconto storico alla moltiplicazione dei turns e toward o new di volta in volta proposti (anche towards a critical historiography) - come rifugi a cui si ricorre per quella crisi di identità e di sicurezza o, a non voler essere così drastici, per quei disagi, perfino esistenziali, che, comunque, determinano indubbiamente la cifra più appariscente della storiografia contemporanea.
Una tale considerazione è lecita, certo; ma ancor più certamente non ci si può fermare a essa. Da un lato, infatti, è impossibile non osservare come un tempo tanto caratterizzato da una finale professione di disagio e di crisi e dalla sensazione acuta o, per lo meno, dal timore di una perdita radicale di identità e di ruolo non può essere giudicato, in base a ciò, storiograficamente povero di significato e di conseguimenti. Al contrario. Il patrimonio storiografico accumulato in un cinquantennio di attività, come si è detto, in progressiva intensificazione delinea il quadro di un tempo tra i più fervidi nella storia della storiografia moderna, avendo esso offerto agli studi e alla cultura contemporanea una messe di opere e ricerche, originali e fondanti di alto livello in misura addirittura superiore a quanto era accaduto nello stesso "secolo della storia" e nella prima metà del secolo XX e tali da incrementare il canone dei "classici della storiografia" con lavori destinati a durare nel tempo e a interessare, come spesso è accaduto al loro stesso apparire, un arco culturale molto più ampio di quello disciplinare della storiografia.
Del resto, lo dimostrerebbe già la semplice consultazione di un onomasticon degli storici di questo periodo quale può ritrovarsi in manuali, dizionari, enciclopedie, repertori o altro tipo di opera affine dedicata alle scienze storiche e alla storiografia, con l'abbondanza, a tacer d'altro, dei nomi di storici di sicuro e riconosciuto rilievo e autorevolezza e con il rinvio alle loro opere. Né può ritenersi che l'enorme lavoro svolto in vecchi e nuovi campi di studio e di ricerca con la preziosa acquisizione di molte innovazioni e raffinatezze tecniche sia destinato a passare senza lasciare tracce (e tracce, in questo caso, profonde) sul futuro della disciplina e senza ulteriori tracce, altresì, delle sue più generali implicazioni culturali.
D'altro lato, il tempo dei disagi e della crisi è coinciso con un interessamento nuovo o rinnovato per una riconsiderazione teoretica del problema della storia e della storiografia. E ciò denuncia fin troppo evidentemente una capacità, oltre che una esigenza, molto significativa di andare sia oltre il livello del riorientamento pragmatico e immediato di una condizione avvertita come insoddisfacente, sia oltre soluzioni facili o superficiali come quelle o di una pura restaurazione di moduli e criteri del passato anche vicino o di una ulteriore estremizzazione dell'avanguardismo e della spregiudicatezza così largamente praticate nell'ultimo periodo. Sono segnali che richiamano l'attenzione, e altri se ne possono ravvisare nel fatto che ci si sia chiesto, fra l'altro, se are we being theoretical yet e che si sia pure parlato, in maniera non casuale e marginale, benché con frequente impertinenza e con fraintendimenti e sviamenti altrettanto frequenti, di "storicismo" o di "nuovo storicismo".
Anche chi non condivide la persuasione (di chi scrive qui) che sia proprio in una ripresa e rielaborazione potenziata e originale dello storicismo la via regia da seguire per un nuovo secolo della storia che accompagni un nuovo secolo di più alto sviluppo culturale e civile, potrà convenire che si tratta di segnali significativi, nei quali è lecito leggere qualcosa di più, e magari di diverso, di quanto essi di per sé, immediatamente e letteralmente, sembrano dire.
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