SAFFICI, STROFE e METRO
La strofe saffica è chiamata così, perché tutto il primo libro delle liriche di Saffo nell'edizione alessandrina era composto in tal metro; ma faceva di essa, pare, altrettanto uso anche Alceo. È composta di tre saffici endecasillabi e di un adonio (v.). Dinnanzi alla clausola adonia non è necessario nei Lesbî fin di parola, benché il contrario sia anche in essi eccezione. Invece dopo ogni verso ê fin di parola iato e sillaba ancipite.
Schema dell'endecasillabo -⌣-⌣̅-⌣⌣-⌣-⌣̅. Analisi impossibile, non ammessa soluzione di lunghe. Il saffico come l'alcaico appartiene al genere propriamente eolico in cui l'unità minima, indecomponibile, è il verso e in cui il numero delle sillabe è fisso.
La strofa saffica è imitata nella letteratura romana già da Catullo (XI e LI: quest'ultima poesia è imitazione della seconda di Saffo), il quale riproduce anche la rara libertà della sinafia dell'adonio (XI, 11-12), e più largamente da Orazio. Orazio ha regolarmente, al posto della prima dipodia trocaica -⌣-⌣, epitrito -⌣-- e per lo più cesura dopo la quinta sillaba, talvolta (particolarmente nel quarto libro delle Odi e nel Carmen saeculare) dopo la sesta (la cesura indica che la strofa è da Orazio sentita non più quale metro di canto ma come recitativo). Egli ha, del resto di rado, sinafia non solo dinnanzi all'adonio ma anche (tre volte) tra il secondo e il terzo verso.
Imitano Orazio poeti romani posteriori, quali Seneca e Prudenzio. Anche la poetessa greca Melinno scrisse un carme in strofe saffiche in onore di Roma.