STRONGYLION (Στρογγύλιων, Strongylion)
Scultore greco attivo tra il V ed il IV sec. a. C., forse ateniese, noto soprattutto come bronzista.
Non si conosce la provenienza di S., ma il fatto che una firma dello scultore su una base dell'acropoli di Atene non sia accompagnata dall'etnico, fa credere che si tratti di un cittadino ateniese; potrebbe essere stato discepolo di Mirone e di Kalamis, a giudicare dalla sua fama di bronzista ed autore di figure di animali (Paus., ix, 30, 1).
Sull'acropoli di Atene si ammirava un Cavallo di legno (Δούριος ἵππος), cioè il cavallo di Troia che è già ricordato nel 414 a. C. (Arist., Aves, v. 1128). Gli scolî al passo di Aristofane precisano che si trattava di un dono votivo di Chairedemos opera di S.; è descritto anche da Pausania (1, 23, 8) in prossimità del recinto di Artemide Braurònia, nel quale era forse compreso. Pausania ricorda dettagliatamente i personaggi che erano rappresentati affacciati ad un'apertura nel corpo del cavallo: Menesteo, Teucro, ed i figli di Teseo. Lo scultore aveva dunque inteso valorizzare la partecipazione degli Ateniesi all'impresa troiana, secondo la tendenza già manifestatasi in età arcaica, con la ricomposizione dei poemi omerici ispirata da Pisistrato. Pausania non cita il nome dell'artefice, ma il ritrovamento nell'area del santuario di Artemide Braurònia (sia pure non esattamente in situ) di alcuni blocchi della base del cavallo, con la dedica di Chairedemos e la firma di S., identifica il monumento con quello ricordato da Aristofane. Si trattava di una colossale scultura in bronzo, alta più di cinque metri a giudicare dalle proporzioni della base: le figure dei guerrieri affacciati dovevano pertanto essere in grandezza naturale (Stevens). Sull'Acropoli era un altro bronzo, raffigurante un toro, di simili proporzioni: quest'opera, famosa per aver dettato l'espressione proverbiale: βοῦς ἐν πόλει, è ricordata dallo scrittore comico Platone, contemporaneo di Aristofane, insieme al Cavallo di legno (framm. 210, Kock). Se esso rappresentava, come pare, l'offerta del tribunale dell'Areopago, forse a Zeus Polièus, potrebbe essere del tempo immediatamente successivo alla caduta di Atene (404-3 a. C.), quando l'Areopago fu reintegrato dei suoi poteri, e venir attribuito a S. per la sua fama di scultore "di tori e di cavalli". Con quest'opera della cui base si sono ricuperati alcuni blocchi, si potrebbe forse considerare concluso un primo periodo dell'attività di S. ad Atene (Lippold). È certo che dopo la fine della guerra del Peloponneso, e prima della metà del IV sec. a. C., quando ci furono ostilità con Megara, si inquadra un periodo di attività di S. fuori di Atene. A Megara, S. eseguì il simulacro di Artemide Sotèira, che si conservava nello stesso tempio arcaico in cui era il gruppo prassitelico dei dodici dèi (Paus., i, 40, 2). L'attributo di Sotèira ricordava un prodigio della dea al tempo dell'invasione persiana, che avrebbe deviato la marcia di un reparto di Mardonio. L'episodio si era svolto tra Megara e Pagae; dove si conservava, infatti, una copia della stessa statua, forse opera di S.; sulle monete delle due città appare il medesimo tipo di Artemide in corsa che protende due fiaccole, con evidente allusione all'epifania notturna della dea; è forse il primo esempio dell'iconografia di Artemide (v.) nell'abito corto di cacciatrice.
Un'opera tarda di S. è forse quella eseguita in collaborazione con Kephisodotos ed Olympiosthenes nel santuario delle muse sull'Elicona. Pausania gli attribuisce le ultime tre figure del gruppo di nove muse, descritto da sinistra verso destra. Un'altra prova dell'attività di S. fuori di Atene si è creduto di riconoscere in un frammento di firma su base di statua da Pherai, ma la restituzione del nome è fondata solo sulle tre ultime lettere.
Nessuna delle opere di S. note dalle fonti greche è ricordata da Plinio, che ci informa invece di un efebo di S. posseduto da Bruto, che lo prediligeva (Nat. hist., xxxiv, 32); questo Bruti puer, o Βρούτου παιδίον, ricorre spesso negli epigrammi di Marziale (ii, 77, 3 s.; ix, 51, 1 s.) che ne ricorda anche una copia di terracotta (Apophoreta, xiv, 171). Concorde nelle fonti è l'ammirazione per la piccola misura della statua, un bronzo evidentemente, per il quale non è possibile nessuna identificazione. La stessa incertezza resta per l'altra opera di S. nota a Roma per essere particolarmente apprezzata da Nerone che usava portarla con sé in viaggio (Plin., Nat. hist., xxxix, 82): era un'amazzone, soprannominata Èuknemos per la perfezione del disegno delle gambe. Un'ipotesi da abbandonare è l'identificazione con l'amazzone a cavallo del Museo Nazionale di Napoli (v. amazzoni).
Impossibile è la ricostruzione dell'arte di s., tranne che per l'accenno alla finezza del modellato, che si può vedere nell'ammirazione degli antichi per l'Efebo e l'Èuknemos; la fama di S. è tuttavia documentata dal fatto che le sue opere nel mondo greco come nel mondo romano godevano la popolarità delle immagini passate in proverbio.
Bibl.: J. Overbeck, Schriftquellen, n. 877 ss.; A. H. Woodward, in Journ. Hell. Studies, XLVI, 1926, p. 274, nota 26, per la base di Pherai in Tessaglia; G. Lippold, in Pauly-Wissowa, IV A, 1931, c. 372 ss.; G. P. Stevens, in Hesperia, V, 1936, p. 460, fig. 14; Hesperia, Suppl. III, p. 19 ss.; M. Bieber, in Thieme-Becker, XXXII, 1938, p. 205 s.; Ch. Picard, Manuel, II, p. 641 ss.; S. Ferri, Plinio il Vecchio, Roma 1946, p. 102 ss.; A. E. Raubitschek, Dedications from the Athenian Akropolis, Cambridge Mass. 1949, n. 176, p. 524; G. Lippold, Griechische Plastik, in Handbuch der Archaeologie, III, i, 1950, p. 189; G. M. A. Richter, The Sculpture and Sculptors of the Greeks, New Haven2, 1955, p. 184, nota 10.