STRUMENTAZIONE
. L'arte della strumentazione è basata sulla funzione espressiva, evocatrice e anche descrittiva del timbro (colore del suono) e fa parte integrante della creazione lirica musicale. La strumentazione - ancorché se ne possano riscontrare assai remote origini - è essenzialmente moderna e s'identifica dapprima con la nascita e lo sviluppo della musica da camera. Per quanto fossero già numerosi i tipi allora esistenti di strumenti, è impossibile parlare di una vera e propria arte della strumentazione prima del Cinqucento. Sino a quell'epoca, gli strumenti avevano per compito essenziale di raddoppiare e sostenere la polifonia vocale, e quindi non si trattava tanto di problemi di timbro, semplice o d'impasto (cioè di fusione tra due o più timbri elementari in uno sintetico), quanto di pure e semplici preoccupazioni di tessitura. Ma col Cinquecento vediamo, accanto alla musica della Chiesa, sorgere tutta una fioritura di ricercari, di madrigali, di piccole proporzioni, di canzoni, di "canzonette da suonare e da cantare", composizioni nelle quali si raddoppiano ancora bensì le voci, ma tuttavia si va già delineando una maggiore virtuosità strumentale. Nel Cinquecento poi, tiene anche un posto importante la danza, in fatto di strumentazione, ed è in questo campo che s'incontrano i primi complessi strumentali indipendenti dalle voci, come ad esempio l'orchestra della quale parla Thoinot Arbeau nel suo trattato Orchésographie et traicté en forme de dialogue (1588): due a quattro oboi, un tamburino, un flauto, una viella e un trombone. Queste erano però musiche rustiche e volgari. Nelle regge e nei palazzi le orchestre erano assai più grandi, come, ad es., l'orchestra della corte di Elisabetta a Londra (1568): 10 trombe, liuti, arpe, cantanti, cornamusa, 6 tromboni, 1 rebeca, 8 viole, 3 virginali, 3 tamburi, 2 flauti, organo, regale.
In Italia era poi particolarmente celebre l'orchestra del duca di Ferrara, dove si trovavano famosi suonatori di cornetta, trombone, flauto, viola, violino, liuto, cetra, arpa e cembalo.
Non pare che i maestri della Camerata Fiorentina abbiano dato soverchia importanza all'arte timbrica. Ma dobbiamo far menzione, invece, di Claudio Monteverdi, il quale seppe, di colpo, adeguare l'arte strumentale alle nuove esigenze melodrammatiche, creando con l'Orfeo la vera e propria orchestra drammatica moderna: 2 clavicembali, 2 contrabbassi, 10 viole da braccio, una doppia arpa, 2 violini piccoli alla francese, 2 chitarroni, 2 organi di legno, 3 bassi da gamba, 4 tromboni, un regale, 2 cornetti, un flauto alla vigesima seconda, un clarino con tre trombe sordina. In quest'opera, Monteverdi, immaginando il suo stile concitato, inaugura in pari tempo uno stile strumentale, il quale raggiunge di colpo un'altezza difficilmente superabile, principalmente per la meravigliosa rispondenza espressiva e coloristica fra azione drammatica e commento orchestrale. Ma questo stupendo esempio di arte orchestrale doveva poi rimanere dimenticato per lunghissimo tempo. Col Seicento, sorge in Italia la forma del concerto grosso, nel quale però il contrasto - basato sui rapporti fra "concertino" e "ripieno" - risiede piuttosto nella diversa intensità anziché nella differenza di timbro. Col grande favore di questa forma, l'orchestra italiana, così ricca di colore con Monteverdi, acquista bensì coesione, ma perde, a poco a poco, ricchezza di varietà timbrica. In teatro, questo nostro abbandono dei fiati è dovuto senza dubbio al culto dilagante della vocalità virtuosistica. Occorre tuttavia riconoscere che, mentre si adottava un'orchestra più docile e adatta a seguire e sostenere le voci, si lavorava anche progressivamente a rendere l'accompagnamento indipendente dal canto. Più tardi riappaiono alcuni fiati (1650-60) ma, nell'insieme e fino alla metà del Settecento, vi è poco a dire sullo strumentale in Italia. Il lavoro degli archi presso i maestri italiani dalla fine del Seicento e la prima metà del Settecento è già molto interessante, ma bisogna giungere sino a G. B. Pergolesi e N. Jommelli per trovare un reale progresso nella nostra strumentazione. Il violino, però, in quei tempi aveva fatto già progressi giganteschi per merito della scuola corelliana.
I Francesi rimasero fedeli alla strumentazione del Cinquecento fino al 1647, quando l'arrivo degl'Italiani chiamati da Mazzarino recò nuova vita nell'ambiente. Ma fu soprattutto col fiorentino G. B. Lulli che di colpo si verificò un grande mutamento. Anch'egli formò il fondo della sua orchestra con i violini, ma inoltre introdusse (e soprattutto impiegò magistralmente) trombe, timpani, oboi, fagotti e persino tamburelli, castagnette, tamburi, chitarre, ecc. Lulli cerca anzitutto una strumentazione che risponda pienamente alla verità dell'espressione - cosa, che, salvo il caso formidabile ma isolato di Monteverdi - non era ancora mai stata tentata. Lulli adopera poco i tutti, ma fa spesso dialogare oboi e flauto con la massa dei violini, timpani e trombe. Particolare è poi l'importanza che seppe dare ai flauti, dei quali si serve sia come soli, accanto alle voci, sia impastandoli con le trombe e con i violini. Tuttavia rimase sempre il violino lo strumento prediletto, al quale Lulli affida le scene più espressive.
Troviamo in J. B. Rameau un precursore di C. W. v. Gluck. Egli introduce larghissimo movimento in orchestra, sviluppa la polifonia, e supera di molto Lulli per la varietà degl'impasti timbrici. Fra le sue trovate più geniali citeremo, ad es., il balletto Les surprises de l'amour, dove violini e flauti evocano i Sibariti, mentre contemporaneamente trombe e timpani rendono le grida di guerra dei Crotoniati.
Intanto la Germania non perdeva tempo e studiava ardentemente la musica italiana. I monarchi e i principi chiamavano alle loro corti i migliori musici veneziani, romani e fiorentini e mandavano per contro molti artisti loro a studiare in Italia. Ma subito si vide che - invece di dirigere la loro attenzione principalmente verso la vocalità - essi accordavano alla strumentazione un posto assai più grande che gl'Italiani, con preferenza per gli strumenti di sonorità potente, e così avvenne che, mentre gl'Italiani si riducevano a poco a poco ai soli archi, i Tedeschi conservavano tutti gli strumenti più importanti del Cinquecento. Si delineava così già la preferenza tedesca per le sonorità strumentali multiple e varie contro l'amore degl'Italiani per la linea melodica e il vocalizzo. L'orchestra tedesca di quei tempi comprendeva, oltre agli archi e agli strumenti a corde pizzicate, flauti, oboi, fagotti, cornetti e tromboni. Questa strumentazione doveva essere senza dubbio pesante e impacciata; ma nondimeno vanno cercate in quell'arte le origini dell'orchestrazione monumentale e pomposa di J. S. Bach e di G. F. Händel. H. Schütz (1585-1672) studiò in Italia, dove conobbe lo stile di Monteverdi, dal quale riportò in Germania un senso della strumentazione che appare nei suoi principali lavori.
Händel, possente genio drammatico, assai più che non Bach aveva studiato gl'Italiani. Egli ebbe primo la visione della necessità di un colore orchestrale brillante, e intuì che le parti vocali non andavano semplicemente raddoppiate, ma sostenute da una strumentazione più leggiera e adatta. a valorizzarle. L'organico händeliano è molto numeroso: violini Ii, IIi, talvolta IIIi; viole, viole da gamba, violoncelli, contrabbassi, liuto, violette marine, tromboni (generalmente due), trombe, corni, flauti, oboi, fagotti, controfagotto, arpe, timpani, tamburi, cembalo e organo. Le parti di tromba giungono a una virtuosità straordinaria.
L'oboe appare però lo strumento favorito di Händel. I timpani suonano sempre con le trombe. In generale, senza raggiungere ancora una vera divisione di timbri, Händel varia però l'orchestrazione con forti contrasti di gruppi e giunge sino ad adottare, in molti melodrammi, un organico diverso per accompagnare ogni aria.
La strumentazione di J. S. Bach è meno irrequieta e variabile ("sperimentale", si potrebbe quasi dire) di quella di Händel. Adopera quasi sempre piccoli gruppi strumentali che si rispondono e che raramente si uniscono in tutti. Fanno però eccezione a questo principio i Concerti brandeburghesi, vero monumento del concerto grosso tedesco e dimostrazione luminosa dell'audacia e della forza di rinnovamento del genio bachiano. Mentre nella maggior parte dei concerti grossi di Torelli, di Vivaldi, ecc., il concertino svolge sempre una funzione indipendente dal ripieno degli archi, nei Concerti brandeburghesi il concertino, compenetrandosi con la massa degli archi, realizza una fusione, tra i due elementi, che gl'Italiani non raggiunsero mai. Ma ciò che soprattutto eleva questi concerti a un'altezza sconosciuta agli altri maestri (eccettuandone A. Vivaldi in alcuno dei suoi momenti più belli) è la magnificenza della polifonia e lo splendore di quello stile barocco. E - in questi sei concerti, come nelle grandi suites orchestrali del medesimo autore - si può dire che, per la prima volta nell'evoluzione della musica, ci troviamo di fronte a una strumentazione analitica invece che sintetica, a un'orchestrazione dove il timbro acquista finalmente la sua piena potenzialità poetica, espressiva ed evocatrice. Per la prima volta poi vi troviamo gli strumenti totalmente emancipati dall'imitazione vocale e li vediamo già dotati di quei caratteri espressivi fondamentali che durano oggi ancora. Curiosissimo in Bach come in Händel l'impiego della tromba, la quale si muove in una tessitura elevatissima e alla quale vengono sempre affidate parti di bravura. Carattere e funzioni che lo strumento doveva poi perdere verso il 1760, per riacquistare nuova vita con l'invenzione dei pistoni (1830).
Se non si può paragonare Gluck a un Mozart, egli va però considerato come un genio profondamente novatore nel campo strumentale. Prendendo le mosse dalle indicazioni di Rameau, egli legò più intimamente ancora la strumentazione all'azione scenica e usò forse per primo la progressione sonora, contribuendo così a rafforzare potentemente l'interesse drammatico. Raramente si serve di tutto l'organico riunito. E in questo caso lo adopera a quattro parti, senza tentare lontanamente di raggiungere la complessità del contrappunto di Bach. Bandisce il clavicembalo, ultimo residuo del "basso continuo", e scopre il vero carattere patetico dei tromboni. Nelle sue opere del periodo francese appare il clarinetto. Quello strumentale è raramente descrittivo, ma è sempre meravigliosamente adeguato alle necessità drammatiche. Per la prima volta nella storia teatrale la voce di ogni strumento giunge sempre al momento più opportuno e non vi è sentimento umano, dolore, gioia, amore paterno e filiale, passioni rudi e selvagge, maestà, grazia, ecc., che non trovi la sua giusta espressione in quella mirabile strumentazione. Va notato poi come ogni strumento venga utilizzato in varie possibilità espressive: flauto = barbaro o bucolico; oboe = pastorale, ma anche tragico; trombone = religioso, quanto terribile e violento. Né va dimenticato il magnifico uso degli archi, i quali acquistano una mobilità virtuosistica e una forza drammatica fin allora sconosciute.
Haydn fu autodidatta, ma porse ascolto all'arte italiana e sopra tutto alle sinfonie di Sammartini, il quale - in mezzo al dilagare della vocalità - sapeva tenere alto e vivo il culto strumentale; ed è esaurientemente dimostrata (specie da F. Torrefranca) l'influenza del Milanese sull'Austriaco. Nondimeno nessuno può contestare che Haydn sia stato veramente colui, che, fissando la forma della sinfonia, ne determinò anche definitivamente la strumentazione, dettandone l'organico, liberando l'orchestra dagli ultimi parassiti secenteschi, non conservando di ogni gruppo che il tipo principale e generalmente quello "soprano". Il quartetto viene stabilito irrevocabilmente in violini Ii e IIi, viole, violoncelli e contrabbassi, con l'esclusione definitiva delle antiche viole. I varî legni si riuniscono definitivamente in gruppo di otto. Da testimonianze autorevoli (Carpani) pare che nel comporre egli si preoccupasse moltissimo della distribuzione dei timbri e degli effetti strumentali come di uno fra gli elementi essenziali della costruzione sinfonica. Egli fu il primo a conferire ai vari strumenti un aspetto di veri "personaggi" conversanti tra di loro, animati ognuno da un proprio carattere, esprimentisi attraverso mezzi tecnici particolari ad ognuno di loro. Egli, assai più che non Mozart, è il precursore diretto di Beethoven, e occupa rispetto a questo la stessa posizione storica di Luca Signorelli per rapporto a Michelangelo. Né oggi, malgrado tutte le nostre conquiste, ha nulla perduto di genialità né di freschezza quello strumentale fine, arguto, agile, rustico e, ripetiamo, definitivo nel carattere assegnato a ogni strumento. A lui si deve insomma la creazione di quello stile classico sinfonico-quartettistico, che doveva durare sino al Tristano di Wagner.
Mozart può essere considerato come il maggiore orchestratore che sia mai esistito. Egli seppe dare al giuoco delle parti una ricchezza, una varietà, una mobilità totalmente nuove. Per la prima volta l'espressione lirica, fino allora privilegio dei violini, viene condivisa dagli strumentini, i quali raggiungono così l'eguaglianza nella scala gerarchica della famiglia orchestrale. Nessuno ha mai sorpassato la perfezione di Mozart nel trattare i fiati. Perfezione che è fatta di una suprema raffinatezza timbrica e di un senso infallibile nella scelta dei suoni e delle tessiture. Egli esitò alcuni anni prima di adottare i clarinetti, ma si può dire che dal giorno in cui si decise a quell'adozione, egli donò al clarinetto la sua piena e totale figura strumentale. E il fagotto è stato adoperato da Mozart in un modo così definitivo e completo da poter dire che nessuno ha mai migliorato quella meravigliosa pratica. La chiarezza, la luminosità, la ricchezza di contrasti della strumentazione mozartiana, ottenute con una tale semplicità di mezzi, ben meritano a quell'arte la qualifica (certo non esagerata) di "miracolosa".
Con L. v. Beethoven entriamo in un periodo tormentoso. Si è sovente discusso - e più che mai si discute oggi - sull'arte orchestrale di Beethoven. È certo che un pensiero musicale così arditamente novatore non poteva non recare con sé un profondo mutamento nella strumentazione. E infatti basta raffrontare l'Eroica (la IIIª) con la Seconda sinfonia per constatare che - nel campo particolare dell'orchestrazione come in quello generale della concezione sinfonica - quel trapasso rappresenta il balzo più formidabile che abbia mai compiuto un creatore con una sola opera. Ma bisogna anche riconoscere che - con la IIIª sinfonia - viene distrutto il mirabile equilibrio fra pensiero e mezzi sonori, che formava l'eccellenza dell'arte di Haydn e di Mozart, assicurando a quelle musiche una perfezione che invano si cercherebbe in Beethoven. Il conflitto beethoveniano fra pensiero e materia orchestrale, cominciato con l'Eroica, raggiunge il suo più alto (e drammatico) grado nella Nona sinfonia. Qui vediamo, da una parte, il genio che in venticinque anni aveva condotto la sinfonia mozartiana alla enorme eloquenza dell'Inno alla gioia; ma vediamo anche la ribellione costante della materia orchestrale, rimasta press'a poco quella dell'ultimo Settecento, mentre sarebbero già stati necessarî per quelle nuove esigenze musicali i perfezionamenti tecnici dei corni e delle trombe (i pistoni cromatici cioè, i quali non giunsero che dopo morto Beethoven). Senza contare poi che la sordità dell'ultimo periodo della vita di Beethoven non fu certo una circostanza atta a favorire uno spirito musicale audacissimo e che quindi aveva più di qualsiasi altro la necessità assoluta di udire realizzata ogni sua esperienza. Comunque, anche se l'arte orchestrale di Beethoven ci appare imperfetta e piena di contraddizioni e assai lontana dalla olimpica perfezione di Mozart, non si può negare al maestro di Bonn un'immensa genialità inventiva anche in questo campo. Egli ha saputo allargare grandemente il potere espressivo degli strumenti. I corni trovano in lui un impiego totalmente nuovo e già prossimo allo spirito romantico. Egli introduce nella sinfonia l'ottavino, il contrafagotto, i tromboni, gli strumenti a percussione, e porta il numero dei corni a quattro. Se la sonorità della sua strumentazione è generalmente cruda e spiacevole nei forti (e questo per colpa delle deficienze già rilevate dei corni e delle trombe), vi è per contro una meravigliosa poesia nelle mezze tinte, di cui basterà ricordare l'esempio della "scena al ruscello" nella Pastorale. Fra gli strumenti che Beethoven ha trattato in modo assolutamente nuovo, vanno menzionati i timpani, che egli emancipò completamente dalle schiavitù passate. Si può insomma dire che la sonorità orchestrale di Beethoven è quella di un'arte che allaccia il Settecento al Romanticismo: arte che in parte realizza le sonorità necessarie, in parte ha un valore soprattutto profetico e rivoluzionario.
Accanto a Beethoven va ricordato Rossini, ultimo figlio del Settecento. Se anche questi non raggiunge ancora (salvo che nel Guglielmo Tell) la forza espressiva e patetica dell'arte timbrica di un Weber, va però ricordata quell'arte come una strumentazione brillantissima e ricca di trovate. S'incontra in quell'orchestrazione un equilibrio perfetto, fra ogni elemento costitutivo, che può venire paragonato senza inconvenienti a quello di Mozart. Né va poi dimenticato che, mentre l'arte strumentale era da tempo in Germania già assurta a vera e propria magnificenza, quella italiana da oltre un secolo era rimasta assai indietro, così che il confronto fra la ricchezza orchestrale dello smagliante stile rossiniano con quello modesto dei suoi predecessori italiani basta a giustificare la qualifica di "rivoluzionaria" conferita a quest'arte dai suoi contemporanei. E soprattutto non si ammirerà mai troppo, in quella strumentazione, il suo buon gusto e il suo scintillante brio. Un solo lieve difetto, palese soprattutto nelle sinfonie: l'abuso dei piatti e della cassa. Ben poca cosa però di fronte alle qualità eccezionali di quell'arte così tipicamente italiana (checché ne abbiano detto certi critici che la trovavano troppo "tedesca"!).
L'arte dell'orchestrazione è giunta con Beethoven a una svolta decisiva, la quale richiede un momento di sosta nel presente studio storico. Come abbiamo veduto, l'orchestra sino all'Ottocento si era creata a poco a poco nascendo dalla musica da camera. Le sinfonie di Haydn e di Mozart erano sorte nel quadro sontuoso dei grandi palazzi principeschi e avevano gli stessi precisi scopi e funzioni di tutta la musica da camera scritta nel Seicento e nel Settecento. Occorre poi aggiungere un altro fatto importantissimo: che fino a Beethoven la strumentazione sinfonica non era sostanzialmente differente da quella melodrammatica. Basta paragonare l'orchestra di Haydn con quella di Gluck, oppure quella di Mozart sinfonista con l'altra del Mozart operista, per comprendere che le due arti non si differenziavano. L'Eroica introduce per la prima volta nella musica quelle preoccupazioni "extramusicali", le quali dovevano durante l'intero Ottocento alterare così gravemente il senso bachiano e mozartiano della musica pura; con questa terza sinfonia beethoveniana l'orchestra esce precisamente dal campo cameristico per orientarsi verso quello drammatico-pittoresco. Tale evoluzione si accentua più fortemente ancora nella Quinta e nella Sesta sinfonia, per giungere poi alla grandiosa visione della Nona, lavoro che racchiude già in sé la completa fusione del dramma e della sinfonia. Ormai l'orchestra cameristica e intima che bastò al genio di Bach e di Mozart per esprimersi, è scomparsa e sorge al suo posto un'arte strumentale interamente dominata da necessità non più solamente espressive, ma anche e soprattutto evocatrici, descrittive, narratrici perfino, coloristiche, e finalmente imitative, decorative e virtuosistiche. Questȧ orchestrazione rispecchia fedelmente l'epoca romantica e il suo luminoso ciclo e rappresenta propriamente la conquista progressiva dello stile sinfonico da parte di quello drammatico (e non il contrario, come si è asserito per troppo tempo). Riprendendo adesso il nostro studio vedremo quale sia stato lo svolgimento ottocentesco di questa evoluzione.
Con Weber, pur rimanendo egli fedele all'organico beethoveniano, l'orchestra acquista un carattere completamente nuovo, ed entra in musica, per mezzo dell'espressione timbrica, il naturalismo. Questo nuovo elemento essenzialmente romantico non poteva esprimersi che a mezzo di una tecnica orchestrale già assai evoluta. Weber non introduce nuovi strumenti; come abbiamo già detto, il suo organico è quello di Beethoven. Ma ogni strumento - attraverso quella visione romantica della natura - acquista impreveduto carattere. Basta citare le tre note di corno, con le quali s'inizia l'ouverture dell'Oberon, per far comprendere quali ignote risorse possa scoprire nella materia strumentale un entusiasmo spirituale così potente come quello che animò la Germania e la sua poesia al principio dello secolo XIX. L'orchestra weberiana è di un fascino incomparabile e ricca di accenti e di sonorità prima di allora sconosciute. L'estensione e la virtuosità raggiunta dagli archi, gli armonici dei violini introdotti in orchestra, le nuove funzioni cantabili dei violoncelli, l'espressività e la varietà nell'impiego degli strumentini (fra cui il meraviglioso sviluppo dato al clarinetto, strumento prediletto di Weber), lo splendore sonoro del quartetto dei corni, la profonda vita che anima il gruppo delle trombe e dei tromboni: tutto questo merita a Weber un posto veramente cospicuo nella storia dell'arte e si può bene affermare che con lui si inizia un periodo nuovo nella scienza dell'orchestrazione.
Intanto, mentre i Tedeschi si accingevano a sviluppare per conto loro l'arte strumentale inaugurata da Weber, in Francia nuovi orientamenti si manifestavano con singolare vigore. Nel gruppo cosiddetto del grand opéra si stacca, e di parecchio, la figura di Meyerbeer, musicista che, per quanto lontano oggi dalla nostra sensibilità e alla vigilia di essere dimenticato, va tuttavia ricordato in questo studio come uno strumentatore di rara abilità e anche di reale invenzione. È la sua una strumentazione che procede per grandi masse; egli scrive quasi sempre a quattro parti e quindi ricorre a costanti raddoppi, mediante i quali raggiunge sonorità potenti e brillanti (ben lontano però dalla trasparenza mediterranea rossiniana); ma accanto a questi elementi di forza non mancano nella sua arte accenti strumentali delicati ed espressivi. Particolare importanza assumono poi in Meyerbeer gli ottoni, dei quali egli fece larghissimo uso tanto nel piano quanto nel forte. Egli impiegò correntemente il corno inglese, il clarinetto basso e anche le prime trombe con pistoni.
Sulle tracce di Rossini e di Meyerbeer si sviluppa poi in Francia l'attività di Auber, Herold, Halévy, Fel. David, ecc.
Incontriamo adesso una figura di altissima importanza per la storia della strumentazione: quella del francese Berlioz. Dieci anni appena dividono la composizione della Nona Sinfonia da quella della Symphonie fantastique (1833), ma in realtà i due lavori appartengono a secoli diversi. Fu detto talvolta che Berlioz non ebbe un vero senso polifonico. Ma egli ebbe per contro - primo fra tutti i moderni orchestratori - un dono che in quel momento storico era ben altrimenti importante: quello di trarre la propria ispirazione dall'anima stessa degli strumenti, non più forzando la natura di quelli a obbedire alle leggi della polifonia, ma invece subordinando in certo qual modo la composizione al carattere e alle leggi del timbro. È con Berlioz che, per la prima volta nella storia della strumentazione, si può parlare veramente di un'estetica strumentale. Considerata poi dal lato puramente tecnico, l'orchestrazione di Berlioz presenta un interesse eccezionale. La molteplicità delle parti, la suddivisione degli archi da lui introdotta (sono frequenti le divisioni in tre o in quattro di ogni parte del quartetto), l'effettivo orchestrale portato a proporzioni talvolta colossali (come nel Requiem), l'impiego corrente del corno inglese, del clarinetto basso, del clarinetto piccolo, della percussione, delle campane, dell'arpa, persino del pianoforte a quattro mani (nel Lelio) e finalmente (negli ultimi lavori) del saxhorn (basso tuba) in sostituzione dell'oficleide: sono queste alcune fra le principali innovazioni introdotte dal maestro francese. Le associazioni timbriche di quello spirito bizzarro e paradossale sono di un'assoluta originalità, e si trovano così avvicinati per la prima volta fra di loro strumenti sino allora considerati incompatibili, quali, ad es., il flauto e il trombone. Egli non solo sviluppò moltissimo l'uso degli armonici dei violini, ma introdusse anche quelli dell'arpa. Gli ottoni occupano in questa orchestra una parte cospicua e vi disimpegnano funzioni espressive e descrittive assai diverse da quelle classiche. Le possibilità magiche e fantastiche della strumentazione scoperte da Weber si potenziano qui a un grado che doveva essere sorpassato solo nel Novecento. Non si può non ricordare qui il nome di Mendelssohn e del suo Sogno di una notte d'estate (1843), capolavoro dello strumentale romantico di quel periodo. Come pure dobbiamo accennare all'arte sinfonica di Fr. Liszt, il quale seppe trasfondere all'orchestra la virtuosità del pianoforte, giungendo a visioni avveniristiche che schiudono già la via a Saint-Saëns, a Rimskij-Korsakov e a Mahler.
Lo sviluppo espressivo e drammatico dello strumentale raggiunge un punto culminante con Riccardo Wagner. L'importanza storica di questo nella storia della strumentazione è troppo nota, e vano sarebbe d'altronde voler negare l'impulso enorme che egli diede allo sviluppo di quest'arte. Oggi però che molti anni ci separano dalle epiche battaglie che accompagnarono l'apparire del pensiero wagneriano, possiamo, con perfetta serenità, stabilire il bilancio dell'attivo e del passivo di quella strumentazione. È incontestabile che Wagner seppe conferire alla strumentazione una potenza espressiva "in profondità" che nessun altro aveva mai raggiunto. Il grande accrescimento dell'organico orchestrale melodrammatico e l'introduzione in orchestra di famiglie complete di strumenti, lo straordinario impulso dato alla virtuosità orchestrale, la particolare importanza accordata agli ottoni e l'adozione definitiva del tipo a pistoni, il ricorso costante allo stile polifonico e infine, e soprattutto, una potenza di penetrazione dell'idea poetica e musicale che nessuno aveva mai posseduto a questo grado: sono queste le qualità che fanno della strumentazione wagneriana uno dei momenti più importanti della storia della tecnica musicale. Ma è oggi palese che quella medesima strumentazione offre anche gravi difetti: la polifonia, la quale proviene in realtà dal quartetto classico germanico e che in conseguenza e sempre limitata a quattro voci, esige spesso una grande quantità di raddoppî, i quali distruggono troppo sovente il timbro individuale degli strumenti, sostituendo gruppi e accoppiamenti alle singole voci.
Di fronte all'arte eroica e massiccia di Wagner, l'orchestrazione di Verdi ci presenta una tecnica totalmente diversa. L'organico di Verdi è rimasto pressoché immutato durante tutta la sua vita (salvo alcune aggiunte negli ultimi lavori, come il corno inglese, il clarinetto basso, il terzo e quarto fagotto, ecc.). Ma la sua evoluzione dal Nabucco al Falstaff è molto grande. Nelle prime opere la tecnica rimane ancora prossima a quella di Beethoven, di Rossini e di Meyerbeer. Ma, seppur la sonorità nei forti non è scevra di qualche brutalità, già si manifesta in quella prima fase del pensiero verdiano un'eccezionale conoscenza del valore timbrico espressivo-drammatico, e i rapporti fra voci e orchestra si svolgono su un piano di equilibrio che Wagner non conobbe mai. La strumentazione verdiana acquista maggior ricchezza di colore sinfonico nei lavori del secondo periodo, per giungere poi all'arte sovrana dell'Aida, dell'Otello e del Falstaff. In queste partiture ci troviamo in presenza di un'arte strumentale profondamente italiana e diversa da ogni altra europea. La robustezza del quartetto, la varietà e la delicatezza di tocco nell'impiego degli strumentini, la forza rude ma anche agile e snella degli ottoni, la maschia energia e la trasparenza infine di questa sonorità nella quale pare che non sia mai una nota inutile: tutte queste qualità, insieme con una profondissima conoscenza della tecnica di ogni strumento, fanno dell'orchestrazione verdiana un modello di sonorità italiana il quale sembra acquistare ogni giorno maggior valore di attualità.
Mentre l'orchestra sinfonico-drammatica a grossi effettivi creata da Berlioz e sviluppata da Wagner si avviava a poco a poco verso i suoi ultimi eccessi, le scuole russa e francese preparavano nuovi orizzonti all'arte strumentale. Di fronte alla tecnica wagneriana (nella quale Debussy diceva malignamente di non saper distinguere il suono di un violino da quello di un trombone), Saint-Saëns e il gruppo dei "cinque Russi" mantenevano integra, pur sviluppandola, la religione mozartiana del timbro individuale degli strumenti. Pochi strumentatori hanno eguagliato Saint-Saëns per doni d'equilibrio e anche per poesia sonora. E, fra i "cinque Russi", un, posto particolare spetta a Rimskij-Korsakov, il quale ha molte affinità con Saint-Saëns, ma ne differisce per un maggiore sfoggio di virtuosità e un senso del pittoresco che nessun compositore aveva posseduto in simile misura dopo Berlioz. Per quanto molti anni siano passati sopra Sheherazade (1888), nondimeno il finale di questa può esser considerato oggi ancora come un capolavoro e come una creazione strumentale d'imperituro valore.
Molto di quanto è stato qui detto poco fa a proposito di Wagner si applica anche a Riccardo Strauss. L'impiego prediletto di un enorme effettivo orchestrale allontana sempre più quell'arte dalla concezione originale "cameristica" e dalla sobrietà, conservata in quel medesimo tempo dai Latini e dai Russi. Il difetto wagneriano di disprezzare e manomettere la tecnica naturale dei singoli strumenti affidando a ognuno di essi problemi tecnici i quali, nella migliore ipotesi, non possono essere risolti che approssimativamente, ci appare oggi certo come detestabile (Rimskij-Korsakov diceva sempre che il compositore dovesse scrivere parti perfettamente eseguibili e accessibili a orchestre di secondo ordine). Tuttavia è innegabile che l'orchestrazione di Strauss (e in special modo quella, ammirevole, di Salomè e di Elettra) realizza un grande progresso su quella wagneriana. Rimane però evidente il dramma di quest'arte strumentale che si dibatte in un vicolo senza uscita, nella febbrile ricerca di un avvenire il quale richiedeva che si percorressero ben altre vie, da ben altri punti di partenza.
Va qui ricordata la singolare personalità di Gustavo Mahler, il quale, come Strauss, adottò effettivi orchestrali di grandi e, talvolta, di gigantesche proporzioni. Tuttavia, l'arte orchestrale di Mahler differisce essenzialmente da quella di Strauss per una assai maggiore precisione e asciuttezza, per un'irrequietezza nella ricerca di nuovi impasti e colori, per un rispetto assai più acuto del timbro singolo strumentale, per una "modernità" infine di spirito e di ardimento che fanno oggi di quest'arte qualche cosa di assai più attuale che non quella straussiana.
Con Claudio Debussy vediamo l'impressionismo pittorico entrare anche nell'arte orchestrale. Reagendo violentemente al wagnerismo, Debussy cominciò a reintegrare nell'orchestra quel senso del timbro puro, che era stato così compromesso dall'arte di Wagner. Come l'arte impressionistica pittorica trova nelle vibrazioni del colore la base essenziale della sua tecnica, così un senso meravigliosamente sensibile del timbro forma il fondo dell'orchestrazione debussyana. Sino dal Prélude à l'Après-midi d'un Faune e dai tre Notturni appaiono in tutta la loro suggestiva magnificenza le principali caratteristiche di Debussy strumentatore: la divisione degli archi in molte parti, la voce degli strumentini restituita alla sua elementarità espressiva, l'impiego delle trombe con sordina (basti ricordare quello meraviglioso di Fêtes), l'estrema economia nell'uso dei tromboni, il forte impiego della percussione, una straordinaria e poetica vaporosità infine, la quale sembra cercare le sue leggi nel mistero stesso della natura: questa la fisionomia della strumentazione debussyana. Orchestrazione però che viene superata - nel senso della perfezione e della penetrazione del fenomeno sonoro - da quella di M. Ravel, orchestratore che può senza inconvenienti venir paragonato a un Mozart per la sua abilità davvero magica. L'orchestrazione di Ravel segna (come ben disse Vuillermoz) l'ultima parola delle ricerche musicali nel campo della "divisione atomica". Senza uscire mai un momento dalle possibilità normali e sane degli strumenti, Ravel opera in un mondo tutto suo, fatto di precisione, di logica, ma anche di mistero. Nelle sue mani il colorismo orchestrale berlioziano-russo-impressionistico giunge alla sua estrema perfezione, ma, come vedremo ora, scompare anche dalla pratica corrente.
Con la potente personalità di Igor Stravinskij un mondo sonoro nuovo si apre alla sinfonia. Musica essenzialmente intellettuale e motrice, dove l'energia ritmico-propulsiva sovrasta a quella espressivo-sentimentale, e dove l'influenza della civiltà meccanica moderna si fa sentire per la prima volta. In quest'arte gli archi perdono, insieme con la loro secolare preponderanza lirica, anche la loro posizione privilegiata di sovrani dello strumentale; gli strumenti a fiato assumono aspetti prepotenti e passano senz'altro al comando dell'orchestra. Gli ottoni rinunciano alle loro antiche prerogative di solennità maestosa e di eroismo guerriero, per apparire totalmente trasformati. La percussione non si limita più ad essere un'aggiunta coloristica all'orchestra, ma assume funzioni ritmiche di altissima importanza e una fisionomia autonoma tali, da poter essere definita come una vera e propria musica da camera percussiva per l'importanza solistica data a ognuna delle voci. Con questa orchestrazione che abolisce violentemente le imprecisioni e le iridescenze dell'impressionismo debussyano, che reagisce in pari tempo al colorismo pittoresco-orientale dei "cinque Russi", sostituendo a quelle sonorità voluttuose e seducenti uno stile tutto di asprezze, di dinamismo, di formidabile potenza ritmica e che crea pertanto una nuova forma di patetico pur volendo negare apparentemente ogni "debolezza" espressiva: con quest'arte orchestrale si chiude veramente il periodo romantico e se ne inizia un altro. L'influenza di Stravinskij è stata capitale nell'ultimo ventennio e non vi è musicista al mondo, degno di questo nome, che non abbia avuto da questa straordinaria personalità qualche ammaestramento. E il momento storico che egli rappresenta e domina è certamente paragonabile a quello che divide Beethoven da Weber.
Negli ultimi anni, attenuatasi la risonanza "esplosiva" che aveva accompagnato l'apparizione de La Sagra della Primavera e ritornando il mondo musicale a una vera e propria "normalità musicale" anche l'arte orchestrale si orienta verso una fase di assestamento più armoniosa e maggiormente riassuntiva della tradizione. Pur facendo tesoro della lezione stravinskiana, ogni compositore tende verso uno stile orchestrale nel quale si perpetuino anche talune caratteristiche liriche ed espressive che l'arte di Stravinskij sembrava aver compromesse. Ed è altamente tipico di quest'epoca il vedere l'arte strumentale ritornare con irresistibile forza al suo punto di origine, vale a dire alla concezione cameristica. Ormai l'orchestra mastodontica wagneriana e quella dei Gurre-Lieder di Schönberg oppure ancora quella della stessa Sagra della Primavera sono ricordi storici. Agli eccessi del romanticismo drammatico subentra oggi un chiaro ritorno alle origini settecentesche dell'orchestra sia pur sotto forma infinitamente evoluta. E, per quanto riguarda l'Italia, all'uscire dal periodo verista, il quale quando se ne tolga la musica di G. Puccini, non offerse purtroppo per noi alcun interesse orchestrale, vediamo che negli ultimi dieci anni la scuola italiana ha saputo riprendere un posto eminente nell'arte strumentale mondiale.