STRUMENTI MUSICALI
Egitto. - I principali dati per la storia degli s. m. dell'antico Egitto sono forniti dai numerosi esemplari ritrovati, purtroppo per la maggior parte privi di notizie di provenienza, e dalla ricca iconografia religiosa e funeraria. Questa ha carattere selettivo: nei templi sono riprodotti gli s. m. usati nel culto o in ambito militare, nelle tombe quelli suonati nelle cerimonie funebri, quelli che figurano nelle «scene di vita quotidiana» (attestate dalla IV all'inizio della XIX dinastia), nonché quelli suonati dal defunto, quando si tratta di un musicista, in omaggio agli dei dell'oltretomba. Tra le fonti secondarie vi sono papiri, òstraka e statuette.
Idiofoni. - Le nacchere ('awy ?) sono raffigurate fin dall'Antico Regno, e numerosi sono gli esemplari rinvenuti, in legno, osso o avorio, sovente decorati a intaglio. La maggior parte è a forma di mano e avambraccio, ed evoca così iconicamente la propria funzione; altre sono a forma di boomerang, altre ancora sono sormontate da una testa antropo- o zoomorfa. Si suonavano tenendone una o più spesso due per mano (nel secondo caso sono sovente perforate alla base per essere legate a coppie), o percosse contro la nacchera di un compagno; figurano spesso nel culto della dea Ḥatḥor.
Le castagnette (epoca greco-romana) sono nacchere a coppa, simili a quelle odierne che probabilmente da esse derivano. Di epoca copta è la nacchera a manico, provvista di due tavolette mobili e una fissa centrale. Tipici dell'Egitto greco-romano e copto sono i piatti musicali (ḥemty?, greco kỳmbala) e i crotali, manici che si biforcano in due bracci flessibili alla cui estremità sono fissati due piccoli piatti musicali. Campane e campanelle in bronzo, a volte in argento o oro, variamente decorate, appaiono a partire dalla XXIII dinastia, poco dopo la loro comparsa in Assiria. Il loro uso nella messa copta riflette probabilmente un loro impiego rituale in epoca faraonica.
I sonagli egiziani possono essere cavi, a file o a intelaiatura. Quelli del tipo cavo, contenenti una o più biglie, con o senza manico, in alcuni casi provvisti di fori di sospensione per fissarli sulla persona, sono noti fin dall'epoca predinastica. Sono generalmente in terracotta, a volte in vimini intrecciati e, in epoca copta, in metallo o legno. È classificabile invece fra i sonagli «a file» la menit, una collana a file di perline fissate a un contrappeso di forma caratteristica che serviva a bilanciarla quando era portata al collo; raffigurava spesso la dea Hathor, al cui culto appare strettamente collegata fin dalla VI dinastia. Era suonata con scuotimento ritmico, spesso insieme al sistro (sekhem; sesheshet, nome onomatopeico; ib), un sonaglio consistente in un manico sormontato da una intelaiatura attraversata da barrette mobili sonanti in cui sono talvolta infilate rondelle o piattini in metallo.
sistro a naòs, in pietra, ebano, argento, faïence, ha l'intelaiatura a forma di edicola. Attestato dalla VI dinastia (un sistro a naòs in alabastro della Collezione Carnarvon reca il nome del re Teti), rimane in uso fino in epoca romana. Dal Medio Regno in poi fra il manico, spesso papiriforme, e l'intelaiatura è inserita una testa bifacciale di Ḥatḥor sormontata in genere dalle corna di un'altra dea con attributi bovini a essa assimilata, Bat. I sistri arcuati, per lo più metallici, a volte in legno o faïence, sono attestati dal Medio Regno all'epoca romana, quando si diffusero in tutto l'impero con i culti isiaci. Sono simili a quelli a naòs nel manico e nella testa hathorica (eliminata durante la parentesi amarniana, poi ripristinata); l'intelaiatura è però a ferro di cavallo, con barrette in genere a forma di serpente. Il sistro aveva un ruolo importante nel culto della dea Ḥatḥor (in seguito anche in quello di altre divinità femminili). Gli si attribuiva il potere di «allontanare il furore» della dea.
Membranofoni. - I tamburi (qemqem, khaʽ o sekhaʽ, sehat) sono attestati raramente. Ne esistevano di varî tipi, suonati a mani nude (le bacchette, di origine indiana, pare siano state introdotte nel I sec. a.C.). Il primo esemplare rinvenuto proviene da una tomba del Medio Regno. I tamburi sono raffigurati nelle tombe e nei templi del Nuovo Regno, soprattutto suonati da Nubiani, e in genere in scene militari. In epoca successiva (abbiamo sporadiche attestazioni fino all'epoca greco-romana) li ritroviamo anche nelle mani di donne e sacerdoti, e in quelle del dio Bes. I tamburelli (ser; teben), di probabile origine vicino-orientale, di forma tonda o quadrata, sono raffigurati a partire dal Nuovo Regno (salvo l'attestazione isolata di un esemplare di dimensioni gigantesche nei rilievi del tempio solare di Neuserreʽ, V dinastia), soprattutto nelle mani di donne, ma anche in quelle di sacerdoti e del dio Bes, protettore del parto, più raramente in quelle di Anubis.
Aerofoni. - Il flauto lungo (mat o met), chiamato anche flauto obliquo o nay (dal nome dell'analogo flauto usato ancora oggi nel mondo arabo), è ricavato da una canna (rari quelli in legno o metallo). I fori variano da tre a sette sopra, e da zero a due sotto. Nonostante si suonasse in posizione obliqua, il foro di insufflazione è posteriore, non laterale come nel flauto traverso. Attestato fin dall'epoca predinastica, sulla «paletta di Hierakonpolis», è il più antico strumento melodico conosciuto. Godette di grande favore nell'Antico Regno, epoca in cui lo strumento è frequentemente rappresentato - suonato esclusivamente da uomini - nelle tombe, e le fonti epigrafiche tramaṇḍano i nomi di divèrsi flautisti. E invece più raro nell'iconografia del Medio e Nuovo Regno, dove è raffigurato suonato anche da donne, e compare solo sporadicamente in epoca tarda. Numerosi sono gli esemplari conservati. Del flauto traverso (epoca greco-romana) restano pochi esemplari frammentarî; è però attestato più volte nella coroplastica. L'intonazione si regolava ruotando degli anelli, forati essi stessi, sui fori, per modificarne le dimensioni. Il flauto di Pan (greco sỳrinx, copto êbe) pare sia arrivato in Egitto con i Tolemei, ed è attestato nella coroplastica fra il II sec. a.C. e il III sec. d.C.
Pochi sono gli strumenti conservati. Fra l'epoca preistorica e quella greco-romana sono attestati vari tipi di ocarina, per lo più in terracotta e senza fori. Alcuni esemplari preistorici sono fatti/con gusci di chiocciola perforati.
Passando agli aerofoni ad ancia, il clarinetto doppio (memet) consiste di due canne parallele, con egual numero di fori allineati, tenute insieme da strisce di stoffa, cordicelle e resina, suonate coprendo con ogni dito una coppia di fori allineati, quindi senza polifonia (l'accordatura delle canne fra loro era però intenzionalmente lasciata imperfetta per creare un suono ricco di battimenti). E suonato da uomini, in gruppi strumentali, nell'iconografia funeraria dalla V dinastia fino alla fine del Medio Regno; successivamente pare non sia più rappresentato (con l'eccezione di una scena rurale nella tomba tebana 57). Deve essere rimasto comunque in uso ininterrottamente fino a oggi, in quanto nell'Egitto odierno si suonano strumenti identici (zummāra e mashūra). Varî esemplari sono stati ritrovati, di cui uno datato al VII sec. a.C.
L'oboe (udjeni) consisteva di un tubo di canna in cui si inseriva una doppia ancia. Se ne suonavano sempre due insieme, tenuti ad angolo. Il numero dei fori sui molti strumenti conservati varia fra tre e undici sopra, uno o più sotto. La canna sinistra, che nelle raffigurazioni è più lunga e ha un minor numero di fori, doveva avere una funzione di bordone. Lo strumento si accordava usando una pasta resinosa per otturare parzialmente i fori. Solo in pochi casi le ance si sono conservate, per cui gli oboi possono confondersi con il flauto; il loro diametro è però inferiore, e la canna è in genere di arundo donax anziché di bambù. L'oboe compare nel Nuovo Regno, a quanto pare importato dal Vicino Oriente. E suonato quasi esclusivamente da donne, in genere in gruppi strumentali. E occasionalmente raffigurato anche in epoca tarda e greco-romana.
Della tromba egiziana (sheneb, greco sàlpinx) si sono conservati solo i due esemplari della tomba di Tutankhamon, rispettivamente in argento e in bronzo, decorati e iscritti con figure e nomi di divinità probabilmente rappresentanti reparti dell'esercito egiziano a esse intitolati, e i nomi del re. Lo strumento compare nelle raffigurazioni a partire dal Nuovo Regno, spesso in scene militari (doveva essere usato per le segnalazioni), ma anche in quelle di culto. I corni sono menzionati nella corrispondenza di ʽAmārna fra i doni degli Ittiti ad Amenophis IV; in epoca greco-romana abbiamo dei simulacri votivi del corno curvo, nonché varî esemplari di rhytòn, un corno che fungeva al contempo da vaso per bere; i Romani, infine, introdussero in Egitto i loro corni militari, il lituus e la buccina, nonché la tuba, simile alle trombe egiziane. L'organo ad acqua (hỳdraulos) sarebbe stato inventato in Egitto da Ctesibio di Alessandria nel III sec. d.C.
Cordofoni. - Le arpe egiziane (binet o benet, copto boinê, cfr. sumerico pan, ban, sanscrito vīṇā; djadjat) sono formate da un manico fissato a una cassa di risonanza in legno coperta da pelle tesa cucita e incollata. Le corde (da quattro a trentuno, a seconda del tipo) erano in genere legate al manico tramite perni fissi, mentre dal lato della cassa erano fissate a un attaccacorde. Le arpe egiziane sono variamente classificate in base alla morfologia, alle dimensioni e alla tecnica esecutiva. Si distinguono innanzitutto in arpe arcuate (binet o benet, djadjat) e angolari (djadjat). Le prime hanno una tipologia molto varia.
L'arpa ad arco appiattito, di cui si conserva qualche esemplare, ha cassa a forma di losanga o pala, e manico poco incurvato. Il musicista la suonava in ginocchio, tenendola appoggiata a terra. Tipica dell'Antico Regno, ancora attestata fino al Medio Regno, ricompare nell'iconografia funeraria di epoca tarda, ma in imitazioni arcaizzanti delle scene delle tombe dell'Antico Regno.
L'arpa naviforme portatile è simile, ma con la cassa allungata a forma di barca. Poteva essere suonata tenuta sollevata. Il più antico dei molti esemplari conservati è datato al Medio Regno. Compare nell'iconografia solo fra il regno di Thutmosis III e quello di Amenophis III.
La c.d. arpa naviforme è simile alla precedente, ma di dimensioni maggiori; il musicista la suonava in piedi, tenendola appoggiata a terra. E attestata solo iconograficamente, fra il regno di Thutmosis III e quello di Ramesse VIII (una testimonianza dubbia è datata al VI sec. a.C.). La c.d. arpa a forma di mestolo, di dimensioni medie o grandi, ha cassa emisferica e manico incurvato spesso decorato con una testa antropo-o zoomorfa, ed è in genere poggiata su un sostegno mentre viene suonata dal musicista in ginocchio; ne esisteva anche un tipo più grande, suonato in piedi. E frequentemente raffigurata nel Nuovo Regno, anche se nessun esemplare si è conservato.
L'arpa a crescente, di dimensioni medie o grandi, presenta una cassa molto allungata (per cui viene assimilata all'arpa naviforme), dal fondo piatto o curvo, e un manico fortemente incurvato, a volte decorato con una testa. E attestata nell'iconografia fin dalla tarda XVIII dinastia e sovente in epoca ramesside, occasionalmente in età sai- tica. Un paio di esemplari sono conservati al British Museum. L'arpa a crescente portatile è una variante di piccole dimensioni della precedente. E sempre suonata appoggiata su un supporto, e il manico è spesso decorato con una testa femminile recante una corona composita. Compare nelle scene dei templi di epoca greco-romana; un esemplare è conservato all'Oriental Institute di Chicago.
Un tipo del tutto diverso di arpa è quella angolare, in cui il manico e la cassa formano un angolo, e che veniva suonata tenendola in posizione verticale o obliqua, con la cassa in alto. Di origine sumerica, fu introdotta in Egitto nel Nuovo Regno, sostituendosi gradualmente agli altri tipi. Attestata iconograficamente dalla XVIII dinastia fino all'epoca romana, ne restano varí esemplari (fra cui uno molto ben conservato al Louvre). Se ne distinguono diversi tipi a seconda della forma, delle dimensioni (grandi o medie) e dell'angolo formato dalla cassa col corpo.
Sempre di importazione vicino-orientale è la lira (kennur, dal semitico kinnor), consistente in una cassa di risonanza rettangolare o trapezoidale da cui sporgono due bracci (di lunghezza diversa nelle lire asimmetriche, uguale in quelle simmetriche) uniti da un attaccacorde cui si fissavano da cinque a quindici corde tramite pezzi di stoffa o di papiro, o cordicelle, stringendo o allentando i quali si accordava
lo strumento. Figura principalmente in gruppi strumentali e nelle mani di donne, ed è suonata in genere con il plettro. A parte una raffigurazione dell'epoca di Sesostris II, dove compare però come strumento esotico, suonato da un beduino semitico, la lira asimmetrica è attestata nell'iconografia dal regno di Hatshepsut a quello di Ramesse III, quella simmetrica dal Nuovo Regno fino in epoca tarda e tolemaica. Della prima ci sono pervenuti diversi esemplari, della seconda nessuno. La lira gigante, raffigurata, in epoca amarniana, sulle thalathāt di Karnak e nelle tombe di el-ʽAmārna, è del tipo simmetrico. Veniva suonata, con le dita anziché col plettro, da due persone contemporaneamente.
Altro strumento di derivazione orientale è il liuto (gengenet, copto mpandoura, cfr. greco pandoura), dotato di una cassa scolpita nel legno o ricavata da un guscio di tartaruga, su cui si tendeva una pelle che fungeva da tavola armonica; un manico diritto a sezione circolare attraversava la cassa da una parte all'altra. Due o tre corde di budello, suonate in genere col plettro, erano fissate alla sommità del manico e, dal lato della cassa, all'altra estremità del manico stesso, direttamente o tramite un congegno che permetteva di accordarle variandone la tensione. In genere dipinto di rosso, il liuto era a volte decorato con una testa zoomorfa o antropomorfa. Nelle raffigurazioni il manico appare a volte solcato da strisce a esso perpendicolari, che sono state ipoteticamente interpretate come tasti costituiti da cordicelle legate intorno al manico, spostando le quali sarebbe stato possibile regolare l'intonazione delle corde. Il liuto veniva suonato da solo, come accompagnamento al canto e in gruppi strumentali sia nella musica di «intrattenimento», sia in quella di culto.
Del liuto a cassa ovale si conservano diversi esemplari, e le numerose attestazioni iconografiche vanno dal regno di Ḥatshepsut e Thutmosis III all'epoca augustea. Del liuto a cassa piriforme esistono due esemplari a Berlino (c.a 700 a.C.), ritrovati con un plettro lungo ben 12,5 cm· È sporadicamente raffigurato fra il Nuovo Regno e l'epoca greco-romana. Il liuto a fianchi concavi, precursore della moderna chitarra, è attestato iconograficamente nella XVIII dinastia, e poi ancora in epoca tolemaica, mentre gli esemplari conservati sono di epoca copta.
Bibl.: In generale: H. Hickmann, Catalogue général des antiquités égyptiennes du Musée du Caire. N 69201-69582. Instruments de musique, Il Cairo 1949; id., in Die Musik in Geschichte und Gegenwart. Allgemeine Enzyklopädie der Musik, Basilea-Tours-Londra 1949-1931 e 1968 (ν. le voci relative ai singoli s. m. egiziani); id., Ägypten (Musikgeschichte in Bildern, II, ι), Lipsia 1961; L. Manniche, Ancient Egyptian Musical Instruments (Münchner Ägyptologische Studien, 34), Monaco 1975; R. D. Anderson, Musical Instruments (Catalogue of Egyptian Antiquities in the British Museum, III), Londra 1976; Ch. Ziegler, Musée du Louvre. Département des antiquités égyptiennes. Catalogue des instruments de musique égyptiens, Parigi 1979; H. Hickmann, Miscellanea Musicologica (Vies et Travaux, I), s.l. 1980; M. Duchesne-Guillemin, Music in Ancient Mesopotamia and Egypt, in WorldA, XII, 1981, pp. 287-297; E. Hickmann, in LÄ, IV, 1982, cc. 234-235, s.v. Musikinstrumente (v. anche le voci ivi citate relativamente ai singoli s. m.). - Idiofoni: N. De Garis Davies, An Alabaster Sistrum Dedicated by King Teta, in JEA, VI, 1920, pp. 69-72, tav. VIII; H. Hickmann, La danse aux miroirs, in ASAE, XLIX, 1949, pp. 151-190, tav. I; id., Cymbales et crotales dans l'Egypte ancienne, ibid., pp. 451- 545; id., Die altägyptische Rassel, in ZÄS, LXXIX, 1954, PP- 116-125, tavv. X-XI; id., Du battement des mains aux planchettes entrechoquées, in Bulletin de l'Institut Egyptien, XXXVII, 1956, pp. 67-122; D. Meeks, L'année lexicographique, II, Parigi 1978 (1981), n. 78.2696; E. Staehelin, in LÄ, IV, 1982, cc. 52-54, s.v. Meniv, M. Reynders, The Egyptian Sistrum: Names and Types, in Seventh International Congress of Egyptologists, Cambridge 1995. Abstracts of Papers (atti del convegno di prossima pubblicazione). - Membranofoni: H. Hickmann, Die Gefäßtrommeln der Ägypter, in MDIK, XIV, 1956, pp. 76-79; M. Bietak, Eine «Rhytmusgruppe» aus der Zeit des späten Mittleren Reiches: ein Beitrag zur Instrumentenkunde des alten Ägypten, in ÖJh, LVI, 1985, pp. 3-18. - Aerofoni: H. Hickmann, La trompette dans l'Egypte ancienne (ASAE, Suppl. I), Il Cairo 1946; id., Miscellanea Musicologica IV. Un sifflet de l'époque préhistorique, in ASAE, XLIX, 1949, pp. 428-431; id., Classement et classification des flûtes, clarinettes et hautbois de l'Egypte ancienne, in ChrEg, XXVI, 1951, pp. 17-27; id., La flüte de Pan à l'époque pharaonique, ibid., XXX, 1955, pp. 217-224. - Cordofoni: H. Hickmann, Miscellanea Musicologica II. Sur l'accordage des instruments à cordes, in ASAE, XLVIII, 1948, pp. 646-663; id., Les harpes de l'Egypte pharaonique. Essai d'une nouvelle classification, in Bulletin de l'Institut Egyptien, XXXV, 1954, PP- 309-368; ido Miscellanea Musicologica XI. Les luths aux frettes du Nouvel Empire, in ASAE, LU, 1954, pp. 161-183; M. Duchesne-Guillemin, Sur la typologie des harpes égyptiennes, in ChrEg, XLlV, 1969, pp. 60-68; B. Lawergren, Reconstruction of a Shoulder Harp in the British Museum, in JEA, LXVI, 1980, pp. 165-168; K. Krah, Die Harfe im pharaonischen Ägypten. Ihre Entwicklung und Funktion (Orbis Musicarum, VII), Gottinga 1991.
(F. Poole)
Vicino Oriente. - Idiofoni. - Nei più antichi documenti figurativi della civiltà sumerica, particolarmente in sigilli del III millennio a.C., appaiono sovente sistri, nacchere e tavolette a percussione reciproca; pochi però ne sono stati rinvenuti in sede di scavo: da Ur, in particolare, provengono frammenti di sistri e alcune nacchere in rame, attestate anche a Kiš. Un sistro è stato trovato a Horoztepe in Anatolia. Dei cembali si hanno raffigurazioni frequenti solo dal VII sec. a.C. e in ambito assiro, con il gruppo dei «quattro musici», probabilmente di aggregazione militare, nei bassorilievi di Assurbanipal da Ninive (Louvre). Altri idiofoni, soprattutto nacchere, appaiono sui bassorilievi siro-ittiti di Karkemiš con scene di musica e danza (IX-VIII sec. a.C.; Ankara, Museo Archeologico).
L'uso di sonagli, campanelli e campane metalliche è diffuso in ambito magico-religioso: una campana con complesse decorazioni simboliche appartiene all'arte neoassira (Berlino, Vorderasiatisches Museum); sonagli in ceramica si trovano spesso depositati in tombe dell'area palestinese; i testi veterotestamentari hanno lasciato memoria dei měnăʽanʽīm, sonagli o sistri, e del paʿʽamōn, campanello o sonaglio che pendeva dalla veste del sommo sacerdote.
Aerofoni. - Degli aerofoni sumerici si dispone di poche e schematiche immagini, per lo più in sigilli e figurine di terracotta, e di dati ricavabili dai testi cuneiformi: questi ultimi mostrano dalla prima metà del II millennio a.C., in ambito cortigiano e rituale, l'uso di flauti di canna - dal determinativo gi- in sostantivi quali gi-gid, «canna lunga» o ti-gi (accadico tigu), probabilmente da riferirsi al flauto diritto; negli scavi sono stati rinvenuti oboi o flauti in materiali più resistenti, in osso da Gawra e in argento da Ur (Baghdad, Iraq Museum; Filadelfia, University Museum); perduto è un flauto globulare di terracotta, di area babilonese, già alla Royal Asiatic Society.
Il corno si-im, in oro o in metallo vile e attestato dal tempo di Gudea, era suonato in ambito rituale insieme a un tamburo, come appare in un rilievo di Karkemiš del 1250 a.C. (British Museum); anche nei testi babilonesi l'oboe (accadico khalkhallatu) reca il determinativo urudu del metallo. La terminologia in uso ad Assur sin dall'800 a.C. è invece imbubu o ebubu e può forse riferirsi anche alle lunghe trombe dritte di metallo usate dalle schiere assire. In area siro-palestinese, flauti e oboi doppi sono frequenti nelle scene di corte di influsso egiziano incise sugli avori di Tell el-Farʽa (Gerusalemme, Rockefeller Museum) e Nimrud (British Museum); suonatori di oboe doppio e corno compaiono su diversi monumenti anatolici (vaso di Inandik, sigilli, rilievi siro-ittiti di Karkemiš).
Nell'Antico Testamento si trova il raro termine ʽugab, usato per varî tipi di aerofoni a canna; gli oboi doppi halīl e la doppia tromba d'argento ḥaṣōṣra, di cui parla anche Flavio Giuseppe (Ant. lud., III, 291-294) e che appare nel rilievo romano dell'Arco di Tito in cui sono raffigurate le spoglie del tempio di Gerusalemme. Di particolare importanza nel mondo ebraico lo šofar, corno di capro o di montone, con imboccatura d'oro o d'argento, la cui immagine è frequente sulle tarde iscrizioni funerarie come simbolo escatologico.
Membranofoni. - Suonati in genere insieme a strumenti aerofoni, i grandi tamburi sumerici (come il balag) avevano uno spiccato utilizzo magico-sacrale e potevano essere esposti nei templi e ricevere offerte: frequentemente se ne trova menzione in testi esorcistici o nei rituali legati alla divinità Enki (Ea); tamburelli a cornice erano invece impiegati, soprattutto da donne: esemplari a cornice circolare e, meno frequentemente, rettangolare, appaiono nei sigilli sin dall'età protodinastica.
Fra i grandi tamburi, il lilis è quello di cui si trova più spesso menzione ed è anche l'unico di cui sia giunto integro il complesso rituale di costruzione; sue immagini certe sono di epoca babilonese. Al II o al III millennio risalirebbero invece le immagini di un altro tamburo di eccezionali dimensioni, probabilmente da identificare con il šu-gu-galli, «grande pelle di toro», raffigurato al tempo di Urnammu su un vaso da Lagaš (Louvre) e su una sua stele da Ur (Filadelfia, University Museum).
Di più modeste dimensioni sono i tamburi monopelle, conici o cilindrici, presenti nei bassorilievi assiri di Nini- ve, in scene sia di corte che militari (Louvre; British Museum). Raffigurazioni di tamburi e tamburelli di ogni tipo e dimensione nell'VIII sec. a.C. si hanno nei rilievi di Karatepe, Karkemiš e Zincirli: importante, da quest'ultimo sito, una scena con quattro musici i cui tamburelli rotondi sono tenuti con la sinistra e percossi con la destra (Istanbul, Museo dell'Antico Oriente). Negli antichi avori di area siro-palestinese (British Museum; Iraq Museum) appare soltanto un tamburello monopelle, assimilabile al tof di cui parla l'Antico Testamento, forse bipelle, di pertinenza delle donne.
Cordofoni. - Si vuole, in genere, che i Sumeri abbiano conosciuto prima l'arpa e poi la lira, che le lire sumeriche fossero solo inizialmente grandi e pesanti e che il tipo più caratteristico fosse la lira asimmetrica; certo è, invece, che furono usati contemporaneamente più tipi di lire e che la lira asimmetrica appare prima a Sumer che in Egitto, ove la sua presenza sembra essere un prestito dalla bassa Mesopotamia.
La «grande lira» è uno strumento alto e pesante, con la cassa armonica spesso ornata da una protome taurina, poggiata al suolo e da suonarsi seduti: ingombrante, ma mai del tutto sostituita dalle! lire «a braccio», essa è attestata in varî sigilli, intarsi e bassorilievi. Una lira più piccola ed evoluta appare sia nello «stendardo» di Ur (British Museum), risalente al XXV sec. a.C. - forse esso stesso decorazione di un cordofono - sia in quello di Mari (Louvre): lo strumento, a undici corde, è tenuto nella destra ed è ornato dalla classica protome taurina. Dagli scavi di Ur poco è rimasto di una lira a dieci corde dalla tomba PG 115 (Iraq Museum) e delle due lire deposte nella «tomba del re», una delle quali reca nella decorazione a intarsio una scena di «concerto di animali» (Filadelfia, University Museum); strumenti quasi completi sono stati invece rinvenuti nel «pozzo della morte», fra cui la c.d. lira aurea e due lire laminate d'argento. La «lira aurea» (Iraq Museum), ricostruita da L. Woolley, presenta la cassa di legno ornata da una testa taurina e un ricco intarsio in conchiglia, lapislazzuli, oro e pietre dure; la cassa aveva forse quattro piccoli piedi. La prima lira d'argento (British Museum), a undici corde, ha la cassa rivestita da un intarsio a tre registri con scene di animali; la seconda lira d'argento (Filadelfia, University Museum) è in realtà un'arpa cui sono stati aggiunti il giogo e un braccio di lira, ed è contraddistinta da una figurina di cervo rampante al posto della più consueta immagine taurina: tipologicamente è un ibrido, forse eccezionale, di cui non sono noti altri esempî. Infatti un'altra pretesa «lira-arpa» dalla tomba di Pu-abi (o Šub-ad) da Ur è stata poi riconosciuta come il prodotto di una confusa ricostruzione con parti di due strumenti diversi (British Museum): eliminati gli elementi pertinenti all'arpa, la lira si è rivelata di tipologia comune, con una vivace decorazione a intarsio.
Per quanto riguarda le arpe, i Sumeri fecero uso del solo tipo arcuato, sia orizzontale che verticale, che non durò molto oltre la loro scomparsa; la variante più antica è quella arcuata verticale, le cui migliori attestazioni sono fra le lastre a rilievo di Khafāěğa (Baghdad, Iraq Museum), in un bassorilievo da Lagaš e in un sigillo da Ur (Filadelfia, University Museum). Dalla tomba della regina Puabi a Ur proviene l'esemplare di arpa arcuata, probabilmente verticale, deposto insieme alla lira con cui fu inizialmente confusa (British Museum), a dodici corde e con la cassa armonica a forma di barca rivestita d'argento; una seconda arpa da Ur consta di pochi frammenti. La disparità di modelli in uso per le arpe arcuate orizzontali, probabilmente suonate con un plettro e le cui raffigurazioni più significative risalgono all'inizio del II millennio, è ben documentata in alcune delle tavolette in terracotta da Ešnunna (Tell Asmar) raffiguranti arpisti, i cui strumenti hanno in comune il fatto di essere scarsamente arcuati o pressoché angolari (Louvre). In età accadica, in cui la progressiva sostituzione delle arpe arcuate con quelle angolari è stata posta in relazione - come pure l'uso del plettro - a una importazione culturale semitica, un sigillo mostra ancora uno di due musici con un'arpa arcuata verticale (New York, collezione privata); da Larsa proviene una placca in terracotta con un suonatore d'arpa verticale angolare (Berkeley Museum); un'arpa orizzontale angolare appare forse su un rilievo in terracotta da Nippur di inizio I millennio (Istanbul, Museo Archeologico). Le prime arpe angolari orizzontali sono attestate nei bassorilievi assiri dell'XI sec. a.C.: la cassa armonica, evoluta, sostiene il braccio verticale non alla fine, ma in posizione anteriore e inclinato verso l'interno con funzione di ponticello; varî tipi di cordofoni appaiono poi nei bassorilievi di Assurbanipal da Ninive (VII sec. a.C.): nella scena con l'offerta rituale del re (British Museum) vi sono due suonatori di arpa angolare orizzontale, suonata con un plettro lungo e sottile, la cui cassa armonica è quasi triangolare; nel rilievo dei «quattro musici» (Louvre) vi sono soltanto lire, di due tipi diversi, di cui è ben visibile quella a destra: asimmetrica e orizzontale, a otto corde, con il braccio più lungo di curvatura insolita; il secondo strumento, suonato col plettro, è una lira simmetrica a cinque corde la cui cassa non è visibile. Nella scena del convito privato di Assurbanipal appare un musico con una grande arpa verticale; un bassorilievo di Sennacherib da Ninive (British Museum) mostra tre musici prigionieri di guerra, tutti con il medesimo strumento, una lira asimmetrica orizzontale, probabilmente a sei corde e suonata con un plettro.
Il liuto, noto agli Assiri con il nome sumerico di pantur, sembra sia stato mutuato dalle popolazioni anatoliche, che ne hanno lasciato diverse raffigurazioni (vaso di Inandik, sigilli) al tempo delle colonie in Cappadocia (XX- XVIII sec. a.C.); su un bassorilievo siro-ittita di Karke- miš (Ankara) un liutista ha uno strumento a manico infisso e con piccola cassa armonica, attaccato al braccio sinistro tramite un cordone con frange decorative. In un rilievo dell'VIII sec. a.C. di Karatepe appaiono invece musici con due tipi di lire: l'una verticale simmetrica a sei corde, sulla cui cassa arcuata è visibile la cordiera a forma di arco, l'altra asimmetrica verticale a otto corde, con cassa rettangolare e cordiera semitrapezoidale. Sul bassorilievo dei musici di Zincirli (Vili sec. a.C.) appaiono strumenti di tipo diverso (Istanbul): una tradizionale lira angolare verticale a dodici corde, di cui è ben visibile il ponticello, e una lira simmetrica a sei corde suonata con un piccolo plettro.
Per l'area siro-palestinese, una placchetta in avorio da Megiddo del XII sec. a.C. raffigurante la celebrazione di un principe, mostra una suonatrice di lira a cassa asimmetrica, con grandi bracci ricurvi e nove corde, apparentemente suonata a pizzico (Gerusalemme, Rockefeller Museum); fonti greche ricordano come fenicia un'arpa chiamata nabla, ma i Fenici usarono anche la cetra, forse per primi in Oriente; lo strumento, raffigurato su una delle pissidi in avorio da Nimrud (VIII sec. a.C.), ha dieci corde suonate a pizzico, parallele ai lati minori di un telaio rettangolare in posizione verticale; un altro frammento da Nimrud mostra parte di uno strumento a dieci corde, forse una lira simmetrica, come si ha sulla pisside dell'Iraq Museum, a cassa rettangolare e bracci arcuati. Alcune immagini sono state attribuite ai Filistei: un musico con la lira a cassa asimmetrica a quattro corde e bracci curvi, dipinto su una brocca da Megiddo dell'XI sec. a.C.; una figurina in terracotta di suonatore di lira da Ašdod (VIII sec. a.C.) del cui strumento, non ben definito, si distingue la sagoma simmetrica e la parte inferiore della cassa arcuata. Le fonti ebraiche si diffondono sul kinnor, lo strumento davidico, probabilmente una lira «siriana» a cassa di legno, simmetrica o asimmetrica e simile alla kithàra greca; incerta è l'interpretazione del nebel e la sua assimilazione alla nabla cananea: tradizioni post-bibliche descrivono uno strumento con la cassa armonica posta in alto, quindi un'arpa verticale angolare, dalle dimensioni pronunciate e dal suono più grave del kinnor; dubbia è l'identificazione dell' 'asor come cetra fenicia o con la lira simmetrica a dieci corde.
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(G. Lacerenza)
Grecia, Etruria, Roma . - Grecia. - Fonti essenziali per lo studio degli s. m. dell'antica Grecia sono l'iconografia, i modelli miniaturistici dedicati come ex voto e i materiali provenienti da scavi archeologici. In questa sede, prescindendo dal dibattuto problema della classificazione, si adotta la comune divisione: cordofoni, aerofoni, membranofoni e idiofoni.
Cordofoni. - Possono essere distinti in tre famiglie, definibili con nomi moderni: quella delle lire, caratterizzata da strumenti con corde di uguale lunghezza; quella delle arpe, da strumenti con corde di lunghezza diversa, e quella dei liuti, provvisti di una tastiera (prolungamento della cassa di risonanza) su cui venivano premute le corde.
La famiglia delle lire include strumenti molto diversi nella loro morfologia (cassa di risonanza, misure e sonorità). La lyra ha la cassa di risonanza (echèion) costituita da un carapace di testuggine sul quale è tesa una pelle di animale con funzione di tavola armonica; dalla cassa si dipartono i bracci (pècheis o kèrata), i quali, dopo una leggera curvatura, tendono ad avvicinarsi nel punto in cui è posto il giogo (zygòn), un sostegno trasversale in legno su cui vengono applicate le corde per mezzo di piroli (kòllaboi o kòllopes). Le corde, di budello ritorto, sono collegate alla parte inferiore della cassa mediante una cordiera (chordotònon) e sostenute da un ponticello (magàs). Oltre alla c.d. lỳra Elgin (Londra, British Museum), che conserva i bracci e il giogo, sono noti resti di altri esemplari di carapace di tartaruga pertinenti a lỳrai (due da Argo, frammenti da Délo, Arta, Bassae e Corfù, tre carapaci da Locri). Inoltre, una cassa in bronzo lavorata è stata trovata a Kerč e un modellino votivo di lyra in bronzo è ora presso l'Istituto dell'Università di Heidelberg. La lỳra è lo strumento principe nella scuola per l'insegnamento della musica e del canto (Plat., Leg., VII, 812b- 813a; Polit., III, 399d) ed è frequente nelle scene di gineceo; viene suonata da divinità ed esseri semidivini (Orfeo, Lino), è impiegata nel simposio e nel corteggio dionisiaco.
Simile alla lỳra, per la cassa di risonanza costituita da un carapace di tartaruga, è il bàrbitos (o bàrbiton), il quale ha tuttavia lunghi bracci che costituiscono circa i tre quarti della lunghezza dell'intero strumento. A giudicare dalla lunghezza delle corde, la loro intonazione doveva essere grave. Associato alla poesia lirica, al simposio e a Dioniso, esso compare nella ceramografia attica nell'ultimo quarto del VI sec. a.C., tendendo a scomparire verso la fine del V sec. a.C., allorché si trova spesso raffigurato nelle mani di figure femminili.
Uno strumento imponente è la kithàra, da distinguersi da altri due cordofoni oggi denominati convenzionalmente «kithàra a culla» e «kithàra di Tamiri». Se, infatti, le fonti letterarie permettono l'identificazione della kithàra in uno strumento di forma trapezoidale raffigurato in mano a musici che indossano l'abito dei professionisti, esse non forniscono notizie altrettanto chiare riguardo agli altri due strumenti, i quali presentano - a giudicare dalla documentazione archeologica - caratteristiche morfologiche diverse dalla kithàra. Quest'ultima, dalla fine del VII sec. (corazza bronzea, museo di Olimpia) fino alla prima metà del IV sec. a.C., ha una struttura trapezoidale, con un complesso meccanismo alla congiuntura tra la cassa e i bracci; in seguito, e durante tutto il periodo ellenistico, appare semplificata, di forma allungata e rettangolare senza il peculiare meccanismo (kithàra in bronzo, Atene, Museo Nazionale).
La kithàra non ha connotazioni quotidiane e sociali, se non esclusivamente per il musicista professionista che la suona, per lo più stante su un podio. E lo strumento di Apollo, sebbene sia suonata da altre divinità quali Atena e Artemide, e di Eracle. Lo strumento partecipa del mondo dionisiaco ed è spesso associato all'aulòs in cortei e processioni. La comparsa della kithàra nel mondo femminile risale invece al periodo ellenistico. La c.d. «kithàra a culla» deve tale denominazione alla sua forma caratteristica che richiama quella di una culla vista di fronte, ma è detta anche «kithàra a cilindri» (Lawergren) per gli elementi cilindrici che talvolta sono presenti alla congiuntura tra la cassa e i bracci. Di piccole dimensioni (cm 30-40), dunque di tonalità acuta, presenta numerose varianti. Per lo più viene suonata da donne e da Muse, ma frequentemente anche da giovani, soprattutto in ambito scolastico. Sembra dunque uno strumento per ambienti chiusi, quali il gineceo e la scuola, sebbene talvolta essa accompagni i canti del kòmos e i corteggi dionisiaci. La kithàra a culla mostra una somiglianza morfologica con la phòrminx, strumento presente nelle raffigurazioni vascolari attiche di stile geometrico, caratterizzato dalla cassa di risonanza con base arrotondata, verosimilmente da considerarsi un antecedente della kithàra a culla.
Per gli strumenti della famiglia delle lire il numero usuale delle corde dal VII sec. a.C. in poi è di sette, mentre nell'VIII sec. si hanno phòrminges con tre o quattro corde, e ancora in periodo classico bàrbitoi con cinque o sei corde. Nonostante una lỳra a nove corde sia già presente su un'hydrìa corinzia databile intorno al 560 a.C. (Parigi, Louvre), le fonti letterarie indicano la metà del V sec. a.C. come il momento in cui vengono aggiunte corde a lyrai e kithàrai. Le lire erano sorrette in posizione verticale inclinata, per mezzo di una fascia applicata a un braccio dello strumento e passante intorno all'avambraccio sinistro del suonatore. Con la mano destra veniva impugnato il plettro (plèktron), trattenuto da una cordicella alla base della lira, mentre con la sinistra venivano messe in sordina le corde che non dovevano risuonare.
La famiglia delle arpe comprende strumenti di forma diversa, in genere triangolare, con numerose corde che venivano suonate senza l'uso del plettro. La tradizione letteraria ha tramaṇḍato più nomi (trìgonon, pektìs, màgadis, psaltèrion, ecc.) riferibili a varî tipi di arpa, ma le evidenze a nostra disposizione non consentono l'identificazione dei singoli tipi. Importata dall'Oriente, l'arpa non viene riprodotta frequentemente nell'arte greca; la prima rappresentazione conosciuta risale al III millennio a.C. (statuetta cicladica da Keros, New York, Metropolitan Museum). Non se ne conoscono altre raffigurazioni fino alla seconda metà del V sec. a.C., quando nella ceramografia attica sono presenti tre tipi diversi di arpa, generalmente suonata da figure femminili. La polychordìa tipica dell'arpa è criticata da Platone (Leg., m, 399d), che esclude questo strumento da quelli utili alla paidèia del cittadino.
La famiglia dei liuti comprende due tipi, entrambi importati dall'Asia e presenti in Grecia solo dal IV sec. a.C. (lastra di Mantinea, Atene, Museo Nazionale): l'uno con cassa di risonanza leggermente squadrata e chiaramente distinta dalla cordiera e l'altro con cassa piriforme. Generalmente lo strumento, provvisto di poche corde, è tenuto orizzontalmente. Le fonti letterarie tramaṇḍano il nome pandoura (pandourìs, pandourion), che potrebbe riferirsi a un liuto, ma a questo proposito sono contraddittorie.
Aerofoni. - Il più diffuso è l'aulòs, una canna sonora di legno, avorio od osso, provvista di un bocchino nel quale veniva applicata un'ancia singola o doppia (glòttai). In genere vengono suonate due canne in coppia, con l'ausilio di una benda (phorbeià) che, stretta attorno alla bocca, passa sulle guance del suonatore ed è legata dietro la nuca. I più antichi esemplari di aulòs ritrovati in varie località della Grecia (Efeso, Delo, Corinto, Atene, Brauron, Perachora), sempre privi di bocchino, hanno cinque fori sul lato anteriore (di cui uno è il c.d. vent-hole) e un foro su quello posteriore; la canna può essere a un segmento (Efeso, Perachora) o a più segmenti inseribili l'uno nell'altro. In seguito alle modifiche apportate dall'auletès Pronomos nel V sec. a.C. (Paus., ix, 12,5; Ath., XIV, 631e), gli aulòi acquistano un maggior numero di fori; inoltre, a partire dal periodo ellenistico, sono attestati esemplari con chiavi in metallo per chiudere i fori supplementari. Polluce (Onomast., IV, 74- 77, 80-82) elenca numerosi tipi di aulòi semplici e doppi, che si differenziano per l'origine, per i materiali e per l'uso cui vengono generalmente destinati. L'aulòs viene impiegato in varie occasioni: cerimonie religiose, azioni militari, processioni pubbliche e private; occupa un grande spazio nel simposio, dove è suonato dalle hetàirai, e nel corteggio dionisiaco; partecipa agli agoni musicali e inoltre, dalla seconda metà del V sec. a.C., è spesso raffigurato in scene di gineceo. Non abbiamo certezza dell'esistenza del flauto traverso, anche se, tra i numerosi nomi che definiscono i varî tipi di aulòi, il plagìaulos potrebbe identificarlo.
La sỳrinx consiste di una serie di canne, nelle quali si soffia poggiando direttamente il labbro inferiore sulla sommità. Le canne sono di uguale lunghezza, internamente bloccate con la cera a intervalli regolari; il loro numero usuale è di sette, ma possono variare da quattro a dodici. Lo strumento, detto anche «flauto di Pan», è essenzialmente legato al mondo pastorale, mentre non è ammesso agli agoni musicali. Dalla sỳrinx è verosimilmente derivato L'hỳdraulis (o hỳdraulos), l'antico organo ad acqua, la cui invenzione è attribuita dalle fonti letterarie a Ctesibio di Alessandria, vissuto nel III sec. a.C. Tale strumento, dotato di un sistema di stabilizzazione ad acqua per regolare il flusso dell'aria nelle canne, è dettagliatamente descritto da Erone di Alessandria (Pneum., I, 42) e da Vitruvio (X, 8, 3-6). Tre sono gli elementi essenziali dell' hỳdraulis. una serie di canne (da quattro/cinque a diciotto; la media è di otto), ognuna con una diversa intonazione, un dispositivo per il rifornimento artificiale dell'aria (consistente in una pompa per l'aria e un recipiente per l'acqua), e chiavi per l'apertura e la chiusura del passaggio dell'aria. Un'iscrizione del 90 a.C. (W. Dittenberger, Sylloge Inscriptionum Graecarum, III, Lipsia 1917, pp. 737-738) attesta che Yhydraulis aveva parte nei concorsi musicali di Delfi, ricordando l'esistenza di virtuosi di tale strumento. Comunque, la documentazione dell' hỳdraulis è fornita soprattutto da manufatti di epoca romana.
Un altro strumento a fiato diffuso in Grecia è la sàlpinx, una tromba generalmente in bronzo (Soph., Eleg., 711; Aiax, 17), con canneggio diritto, lievemente conico, desinente in un padiglione di varie forme (fatto che ovviamente determina un diverso timbro sonoro); il bocchino è a tazza, benché sia stata proposta l'esistenza di una sàlpinx ad ancia sulla base di un passo di Polluce (Onomast., IV, 85; cfr. Bélis, 1986, pp. 212-215). Una sàlpinx in bronzo e avorio (in tredici sezioni), datata nella seconda metà del V sec. a.C., è conservata a Boston. Esemplari in terracotta (due integri e frammenti), probabilmente destinati a uso votivo, sono stati rinvenuti a Salamina di Cipro; una sàlpinx in terracotta dello stesso tipo è conservata a Oxford (Ashmolean Museum). Strumento quasi esclusivamente maschile, suonato da guerrieri e giovani, ma raffigurato nelle mani di Atena su una lèkythos a figure rosse (Atene, Museo dell'Acropoli), è spesso suonato dalle Amazzoni, talvolta anche da Satiri. La sàlpinx ha svariate funzioni, soprattutto in occasioni pubbliche: dà il segnale d'inizio degli agoni di Platea (Plut., Arist., 21,3), e indica l'ultimo giro delle corse dei cavalli a Olimpia. Dal V sec. a.C. in Beozia e dal IV sec. a.C. a Olimpia, i salpinktài hanno i loro propri agoni, e con la sàlpinx si richiama al silenzio nelle occasioni pubbliche. Nonostante questo tipo di utilizzo, essa è tuttavia considerata principalmente uno strumento per la guerra (Hom., II., XVIII, 219-222; Aesch., Theb., 393-394). Il corno (kèras) e lo stròmbos (tipo di conchiglia) avevano entrambi connotazioni molto simili a quelle della sàlpinx.
Membranojoni e idiofoni. - Questi strumenti vengono per lo più associati ai culti orgiastici di Cibele e Dioniso. Il tỳmpanon, di origine orientale, è un cilindro (il diametro varia tra 30 e 50 cm) di legno o metallo, coperto di pelle su entrambi i lati. Provvisto di maniglie, è in genere tenuto con la mano sinistra e suonato con la punta delle dita della destra. Uno strumento che invece produce il suono quando viene scosso è il sèistron, griglia metallica con elementi mobili tintinnanti. I kròtala, formati da due tavolette di legno o metallo collegate con una cerniera, potrebbero corrispondere alle moderne nacchere. Sono raffigurati nella ceramografia attica fin dal VI sec. a.C., soprattutto in mano a figure femminili e a menadi; in genere non vengono impiegati da divinità, quantunque talvolta siano suonati da Artemide. I kỳmbala, un paio di piccoli elementi a disco o più spesso a forma di coppetta in bronzo, sono per lo più associati a Dioniso. Il kroupèzion è anch'esso uno strumento a percussione; legato sotto il piede tramite due corregge (Satiro del gruppo «Invito alla danza», Firenze, Uffizi), è usato nei culti orgiastici e nell'accompagnamento del mimo e della danza. Tale strumento è composto nella parte inferiore da una sorta di suola molto spessa, che corrisponde alla forma del piede, di spessore uniforme oppure più sottile nella parte anteriore. Una cerniera congiunge questa suola con un'altra posta a diretto contatto del piede dello strumentista; tra le due suole sono collocati in genere due elementi circolari, probabilmente una sorta di kỳmbala che risuonavano quando il piede percuoteva lo strumento.
Le categorie di strumenti greci fin qui presentate sono riscontrabili anche in Sicilia e in Magna Grecia, seppure con caratteristiche proprie: la kithàra è improntata a una maggiore sobrietà che la accomuna alla lỳra; l'arpa, spesso decorata con un collo di cigno, è eccezionalmente inserita in ambito dionisiaco. L'aulòs è raffigurato nella ceramografia italiota in una più ampia varietà rispetto alla sua iconografia nella ceramografia attica; i tympana sono di dimensioni maggiori rispetto a quelli greci e presentano una ricchezza di ornamenti, nastri, sonagli e maniglie assente negli strumenti della madrepatria. Se raramente sono raffigurati kỳmbala e kròtala, un nuovo strumento, non presente nella ceramografia greca, si riscontra fra quelli a percussione: il c.d. «sistro apulo» o xilofono o plagatè. Esso è rappresentato nella ceramografia italiota come una sorta di scaletta, due legni paralleli tenuti insieme da una serie di traverse (da sei a venti). Si suppone che tale strumento producesse il suono allorché scosso.
ETRURIA. - Anche se gli elementi in comune tra gli s. m. greci e quelli etruschi sono numerosi, alcuni aspetti della pratica musicale etrusca permettono di apprezzare immediatamente l'originalità di quest'ultima: in particolare, la preferenza per la musica strumentale e la predilezione per gli strumenti a fiato rispetto a quelli a corda.
Cordofoni. - La lỳra è raffigurata con caratteristiche analoghe a quella greca, con la resa del carapace di tartaruga sul lato posteriore (timpano della Tomba della Caccia e della Pesca a Tarquinia). Tuttavia, la cassa ha spesso una forma quasi circolare oppure ovale, o ancora semiellittica. Inoltre, i bracci possono essere resi in varî modi, desinenti in due sorte di volute o a collo di cigno. Certamente si ha una varietà maggiore rispetto all'iconografia dell'analogo strumento in Grecia. La lỳra è impiegata nei banchetti, in contesti funerari, è raffigurata nelle mani di Aplu e di Artemu. La kithàra greca è attestata in Etruria solo in rari casi, nei quali comunque non viene descritta con le sue tipiche caratteristiche; in particolare non viene riprodotto fedelmente il peculiare meccanismo posto alla congiuntura tra la cassa e i bracci. Spesso è raffigurata sugli specchi una cetra con la cassa armonica rettangolare e i bracci elaborati in modo tale da sembrare una «imitazione» del suddetto meccanismo. Anche fra le cetre si riscontra una notevole varietà: la cassa può variare da un piccolo rettangolo a una forma più elaborata con i bracci talvolta desinenti in collo di cigno. Nel III sec. a.C. si trova il tipo di cetra rettangolare allungata, frequente anche in Grecia. Invero, lo strumento a corde più diffuso in Etruria è la c.d. kithàra a culla, la preferenza per la quale è probabilmente già evidente dall'adozione della phòrminx fin dal primo-secondo quarto del VII sec. a.C. La kithàra a culla è raffigurata con caratteristiche analoghe a quella greca, ma il suo impiego è senza dubbio più ampio in Etruria. Essa viene suonata, anche in associazione con altri strumenti, in svariate occasioni: banchetti, processioni, danze, cortei. La famiglia delle arpe e quella dei liuti non sembrano essere presenti nella pratica musicale etrusca.
Aerofoni. - Tra gli strumenti di questa categoria, ampiamente documentata, è particolarmente diffuso il doppio aulòs (o tibiae), a tal punto che Polistrato di Atene, allievo di Teofrasto, viene soprannominato l'Etrusco perché indossa un costume da auletès (Ath., XIII, 607f). In epoca arcaica e classica sono noti due tipi di aulòs, uno di forma cilindrica, corrispondente a quello greco, e l'altro di forma conica. Il primo tipo può essere diritto o desinente in un padiglione, le due canne possono avere la stessa lunghezza o una può essere più corta dell'altra. Anche per questo strumento è documentata una varietà maggiore che nelle raffigurazioni greche. L'aulòs di tipo conico, che non sembra avere corrispondenti in Grecia, ha una forma esterna svasata (Tomba del Triclinio, Tarquinia). L'aulòs viene impiegato costantemente nella vita quotidiana, accompagna le cerimonie religiose, le danze, serve a dare il ritmo nei lavori manuali; è, inoltre, frequentemente usato per gare sportive e per cerimonie funerarie. Il flauto traverso è documentato dal rilievo dell'urna cineraria di Arnth Anani, rinvenuta nell'Ipogeo dei Volumnî di Perugia.
La sỳrinx corrisponde al tipo greco, con canne della medesima lunghezza internamente chiuse con cera; comunque, tale strumento non sembra aver goduto di larga diffusione. Al contrario, una grande importanza è conferita agli altri strumenti a fiato. Ateneo (iv, 82, 184) e Polluce (Onomast., IV, 85) attribuiscono agli Etruschi l'invenzione della sàlpinx o tuba, e i tragici greci menzionano la tyrsenikè sàlpinx (Aesch., Eumen., 567; Soph., Aiax, 17; Eurip., Phoen., 1377). Si tratta di uno strumento prevalentemente militare e dalle fonti letterarie per lo più associato alla pirateria. Una variante della tuba è il lituus, costituito da un lungo canneggio bronzeo cilindrico, diritto, con un padiglione rientrante all'estremità inferiore e quindi simile all'omonimo bastone degli auguri.
Oltre ad alcuni esemplari antichi, tale strumento è raffigurato in tombe (Tomba dei Rilievi, Cerveteri), rilievi e nella ceramografia. Sono rilevabili alcune differenze tipologiche, soprattutto in relazione alla lunghezza del tubo, che può variare determinandone la sonorità. Inoltre, è verosimile che esistessero litui con il bocchino movibile o senza. I liticines possono suonare singolarmente o in coppia, spesso assieme a suonatori di cornua o di cetre. Di origine etrusca, poi passato nella pratica musicale romana, è il cornu, di frequente associato al lituus e, come quest'ultimo, considerato una variante della tuba. Esso consiste di un tubo di bronzo ritorto in forma semicircolare, con il bocchino inseribile nell'estremità superiore, e un padiglione all'estremità inferiore. Viene suonato in posizione verticale, con l'aiuto di una traversa posta nel diametro, così da poterlo accomodare sulla spalla. Lo strumento può variare nelle dimensioni e talvolta è tale da non necessitare del rinforzo trasversale, che è invece evidente nei cornua riprodotti nella Tomba dei Rilievi a Cerveteri. Due esemplari in bronzo, entrambi privi di traversa, sono conservati a Londra: uno proviene da Tuscania e l'altro da Toscanella; un altro esemplare, al Museo di Villa Giulia a Roma, è invece dotato di traversa.
Membranofoni e idiofoni. - Il tỳmpanon ha caratteristiche simili ai tỳmpana magnogreci, con una ricca decorazione e dimensioni maggiori rispetto agli esemplari greci. Non si conoscono raffigurazioni di kỳmbala, mentre sono diffusi i kròtala, soprattutto in scene di danza.
roma. - Gli s. m. romani derivano in parte da quelli etruschi e in parte da quelli greci, ma col tempo saranno accolti gli strumenti e le conoscenze musicali dei popoli dell'impero. In età romana si raggiunge un notevole progresso tecnico relativamente alla costruzione e alla tecnica degli strumenti; si sviluppa inoltre la musica orchestrale (Luc., Salt., 68; Ovid., Rem., 753-756; Sen., Ep., 84, 9-10), con evidente ricchezza di mezzi impiegati. L'importanza crescente della musica strumentale fa sì che essa venga utilizzata negli intermezzi delle commedie (Plaut., Pseud., 573b).
Cordofoni. - È documentata la lỳra, ma soprattutto la cithara, la quale, nella versione greca di periodo classico, si ritrova in maniera consistente nella ceramica aretina e nella produzione neoattica di periodo imperiale che tanto amò il tema dell'Apollo citaredo. Nella pittura pompeiana si rileva una notevole varietà di forme, e spesso la cithara è suonata da figure femminili o da fanciulli. Cetre di varie forme e dimensioni sono, inoltre, raffigurate su sarcofagi. L'elaborazione dello strumento risulta evidente soprattutto dall'aumento del numero delle corde. L'arpa, introdotta dall'Oriente (luv., III, 63-64), diviene popolare, così come il liuto, il quale ricopre a Roma un ruolo più consistente che non in Grecia.
Aerofoni. - Un'importante funzione viene svolta dalle tibiae, termine probabilmente derivante dal materiale con cui lo strumento era prevalentemente costruito (tibie di animale). Esse vengono suonate, talvolta con l'ausilio del capistrum (una sorta di phorbeià greca), durante i sacrifici, nei riti funerari e, inoltre, hanno un ruolo preminente nel teatro. Di questo strumento sono noti varî tipi: tibiae pares, di uguale lunghezza, tibiae impares, dette anche berecynthiae o frigie, tibiae sarranae o fenicie. Una tibia in osso con chiavi supplementari in metallo è stata recuperata presso le rive del Tamigi (Londra, Museum of London), quattro tibiae da Pompei sono conservate al Museo Nazionale di Napoli. Non attestate da rinvenimenti, ma molto diffuse nell'iconografia, sono le tibiae frigie, che corrispondono all'aulòs frigio o èlymos, composto da due canne lignee di diversa lunghezza, una di sezione costante e l'altra desinente in un padiglione di corno: è verosimile che tale strumento potesse suonare a intervallo di ottava. L'èlymos si presta a essere impiegato soprattutto a scopi religiosi, e a Roma conosce un grande favore nel culto di Cibele.
Sono noti almeno due tipi di cornu, uno con canneggio cilindrico con svasatura terminale e di forma circolare (cornu conservato al Museo Nazionale di Napoli), l'altro con canneggio conico piegato a semicerchio. Strumento prevalentemente militare, viene impiegato anche nell'arena e, seppure più raramente, nel culto di Cibele. Esso è spesso confuso con la bucina, un semplice corno di animale, utilizzato per dare segnali sia nell'ambiente militare sia in quello rurale e pastorizio, e, inoltre, talvolta associato a Tritone. La tuba, strumento bronzeo con canneggio lievemente conico lungo circa un metro e mezzo, è impiegata come strumento militare ed è spesso presente in contesti di trionfo. Il lituus corrisponde nella sua forma a quello etrusco, ma la sua destinazione sembra essere limitata a occasioni solenni e cerimonie di stato. Un lituus proviene dal Reno presso Düsseldorf, un altro esemplare da Malbork, in Polonia, si trova in una collezione privata.
La sỳrinx o fistula, in genere del tipo a canne di lunghezza decrescente, mantiene la sua connotazione prevalentemente pastorale. Non è dato sapere quando L'hỳdraulis fu introdotto a Roma, dove sembra molto diffuso almeno dalla metà del I sec. d.C. Varie monete e contornia- ti ritraggono suonatori di hydraulis, mentre mosaici del I-II sec. d.C. rinvenuti a Zliten in Libia e a Nennig sulla Mosella raffigurano scene gladiatorie accompagnate da una hỳdraulis, cornua e tubae. Una lucerna raffigurante una hỳdraulis a triplice ordine di canne è stata rinvenuta a Cartagine; altri due esemplari simili sono conservati rispettivamente nel museo di Copenaghen e nel British Museum. Oltre all'organo ad acqua, è noto anche un tipo di organo di struttura più semplice e maneggevole, privo di stabilizzatore ad acqua ma alimentato direttamente da mantici, ricordato da Polluce (Onomast., IV, 70). Apparteneva probabilmente a questo tipo di organo lo strumento rinvenuto ad Aquincum, presso Budapest, per le sue piccole dimensioni. Due organi a mantici, insieme a tibiae e tubae, sono riprodotti sull'obelisco di Teodosio a Costantinopoli.
Membranofoni e idiofoni. - Tra gli strumenti a percussione vengono impiegati tỳmpana, crotala, cymbala e varî tipi di campanelli. Questi strumenti hanno una funzione sacra nelle cerimonie dedicate a Cibele, mentre il sistrum (o crepitaculum) è frequente nei riti di Iside. La combinazione di crotala, cymbala, insieme allo scabellum, viene impiegata per l'accompagnamento della danza. Lo scabellum, corrispondente del kroupèzion greco, viene suonato da due auletài sul mosaico del Tempio di Diana sull'Aventino (Roma, Musei Vaticani), e ancora, una figura maschile nuda suona contemporaneamente le tibiae frigie e lo scabellum in una scena raffigurante il trionfo di Dioniso (sarcofago in marmo, Roma, Palazzo dei Conservatori).
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(S. Sarti)
Iran. - Cordofoni. - L'arpa arcuata verticale, probabilmente derivata dall'arco da caccia mediante l'aggiunta di una cassa di risonanza, è raffigurata su un'impronta di sigillo del IV millennio a.C. da Čoqā Miš, presso Susa, in territorio elamitico, oggi nel Chicago Orientai Institute. Lo stesso modello è attestato a Sumer all'epoca di Mesilim (c.a 2600 a.C.) su placche di pietra originariamente fissate alle pareti di un tempio. Alla stessa epoca risale una placca da Susa simile alla precedente, con raffigurazione di un'arpa arcuata orizzontale, che è però tenuta in posizione verticale (particolare che ha fuorviato diversi studiosi), perché in posizione di riposo: la coppa che il musico regge nella mano sinistra allude a un'altra funzione della musica, quella di allietare i banchetti. La posizione esecutiva di quest'arpa è illustrata da un vaso trovato a Bismaya (Mesopotamia), ma di fattura iranica a giudicare dallo stile. L'arpa venne modificata per mezzo di un'asta conficcata ad angolo retto nella cassa di risonanza, sulla quale si avvolgevano le corde. Un tipo di transizione, con l'asta ancora non perpendicolare, è raffigurato su due terrecotte da Susa del II millennio a.C. conservate nei musei di Ginevra e del Louvre.
La più antica attestazione del modello di arpa angolare verticale in Iran figura in una situla da Tepe Giyan (II millennio a.C.); nel XIV sec. a.C. la troviamo raffigurata su una tazza di bronzo. Quest'arpa compare poi sui rilievi rupestri di Kul-e Fara (Malamir), in particolare in una scena di sacrificio officiato in presenza di un capo locale, vassallo del re elamita Šutruk-Nakhkhunte (Vili-VII sec. a.C.). Le estremità delle corde terminano con una nappina. Lo stesso strumento compare in due altri rilievi dello stesso santuario. E inoltre raffigurata su un sigillo di marmo rosa (VIII-VII sec. a.C.), oggi al Louvre, in una scena cui prendono parte animali musicanti (per le dimensioni ridotte dell'oggetto sono indicate solo quattro corde), su un grande rilievo da Ninive (VII sec. a.C.) con rappresentazione di una processione di musici elamiti prigionieri e su una gemma greco-iranica achemenide in cui una donna seduta suona lo strumento davanti a un cane. In epoca sasanide l'arpa angolare verticale è raffigurata su un mosaico di Bišāpur (ν.) e nei rilievi rupestri di Kul-e Fara e di Tāq-e Bostān. E questo l'unico tipo di arpa il cui uso si protrarrà in epoca islamica.
L'arpa angolare orizzontale, suonata con il plettro, è rappresentata in una terracotta del III millennio a.C. da Šahr-e Sokhta, oggi nel Museo Nazionale d'Arte Orientale di Roma, e in terrecotte da Susa dal XVIII sec. a.C. in poi. Il rigonfiamento visibile al di sotto dell'arpa è un cuscino inserito nella cintura utile a sostenere lo strumento. Quest'arpa è raffigurata due volte nella scena di sacrificio a Kul-e Fara e nella processione eia- mitica del già menzionato rilievo di Ninive, nel quale si distingue la pelle chiodata sulla cassa di risonanza. Compare infine sui rilievi di Tāq-e Bostān, sia isolato, sia in un gruppo comprendente altre cinque suonatrici di arpa verticale; in queste rappresentazioni il plettro non è visibile.
La lira (o cetra) viene erroneamente confusa con l'arpa; in realtà, se in quest'ultima le corde sono tese perpendicolarmente alla cassa di risonanza, nella lira il piano delle corde è parallelo alla cassa. Una lira di grandi dimensioni poggiata a terra figura su un sigillo da Susa; su un altro sigillo dallo stesso sito è incisa una cetra con protome taurina; nell'isola di Failaka, nel Golfo Persico, ê attestato lo stesso modello con due tori, o camosci, sovrapposti.
Il liuto è il più ingegnoso dei cordofoni, in quanto permette di produrre, con poche corde, una notevole varietà di suoni. Le sue prime attestazioni sono due sigilli babilonesi del 2400 a.C. circa. A Susa, un tipo di liuto con cassa ovale attraversata dal manico è suonato sia da personaggi di alto rango, sia da danzatori ignudi. La sua struttura è stata studiata da Eichmann (1988). L'altro tipo, a cassa circolare, è suonato soltanto da danzatori. Lo strumento figura anche su situle di bronzo del Luristan (IX sec. a.C.) e nelle mani di una marionetta di epoca partica. La particolare frequenza delle rappresentazioni del liuto a Susa lascia supporre che lo strumento sia di origine elamitica. In epoca sasanide il liuto è lo strumento più comunemente raffigurato nella toreutica, sia con manico lungo e rettilineo, sia con manico corto, spesso caratterizzato dal cavigliere piegato ad angolo retto, forma nella quale ha raggiunto l'Europa.
Aerofoni. - La conchiglia è rappresentata in un rilievo di Tāq-e Bostān, suonata da una figura maschile che cavalca un elefante. Un paio di corni sono raffigurati nel IV millennio a.C. a Čoqā Miš, tuttavia è presumibile che la loro funzione fosse quella di dare un segnale. Su un oggetto di argenteria sasanide un corno accompagna Cibele. Piccole trombe d'oro e d'argento, di probabile carattere votivo, sono state rinvenute in siti protostorici, quali Tepe Giyan e Asta- rābād (II millennio a.C.). Una tromba conica, di una lunghezza stimabile intorno ai 75 cm e tenuta in posizione orizzontale, è raffigurata sul già citato vaso da Bismaya. In un contesto militare è rappresentata su un tessuto sasanide ritrovato ad Arsinoe, in Egitto. Trombe lunghe sono attestate nell'argenteria sasanide e sui rilievi di Tāq-e Bostān. La lunga tromba rettilinea raffigurata in un rilievo partico (oggi perduto) sembra analoga alla tuba romana.
Uno strumento a fiato monocalamo compare su un sigillo elamitico (c.a 2400 a.C.) e su un avorio achemenide, rispettivamente nelle mani di una scimmia e di una sirena. Un dicalamo, suonato da una volpe, è attestato in un sigillo di marmo rosa. L'oboe (greco aulòs) è di frequente rappresentato nella toreutica sasanide. Caratterizzato da una terminazione conica, sembra combinare il principio dell'oboe e della tromba; in persiano è designato come surnay, termine composto (come l'inglese horn-pipe) da nay, «flauto», e sur, forse derivante dall'avestico sußrā nome del corno suonato da Yima per condurre i suoi sudditi nel rifugio sotterraneo. Il termine sur è sopravvissuto nel Corano a indicare la tromba del giudizio. Nella toreutica sasanide è attestato anche l'oboe doppio. Originario della Cina è, infine, l'organo a bocca. Di piccole dimensioni è tenuto, durante l'esecuzione, nel cavo della mano, onde il suo nome persiano mušta, da must, «pugno». E rappresentato a Tāq-e Bostān e, in maniera particolarmente nitida, su una brocca d'argento sasanide (museo di Lione).
Membranofoni. - Il grande tamburo mesopotamico, poggiato sul suolo e percosso dalle mani nude, si diffuse, in un modello di dimensioni alquanto più contenute, verso O a Ebla, in Siria, e a E a Togolok, nel delta interno del Murgāb, dove, in una tomba, è stato rinvenuto un sigillo con rappresentazione incisa di questo strumento suonato da un animale nell'ambito di una scena rituale. Un tamburo circolare tenuto sotto l'ascella, è raffigurato sul vaso da Bismaya. E probabile che uno strumento affine fosse retto da tre statuette di pietra reputate provenire dal Fārs (Ghirshman, 1963), per le quali è tuttavia da preferire un'origine battriana. Un tamburo sospeso alla cintura figura nel già citato rilievo da Ninive con processione di musici elamiti. Un timpano a cassa emisferica su piede è scolpito a Tāq-e Bostān, mentre la presenza di uno strumento simile a Čoqā Miš è dubbia. Un tamburo portatile, percosso da un leone, è visibile su un sigillo di marmo rosa, databile all'VIII-VII sec. a.C. Un tamburello quadrato compare su una situla da Tepe Giyan (II millennio a.C.), nei rilievi rupestri di Kul-e Fara (VIII- VII sec. a.C.) e, in epoca tardo-sasanide, a Tāq-e Bostān. Un tamburo orizzontale a forma di diabolo è attestato nella toreutica sasanide.
Idiofoni. - Una certa varietà di campanelli, sonagli e crepitacoli testimonia il gusto degli Iranici per i tintinnii delicati. Campanelli d'oro, di varia forma, sono stati rinvenuti a Pasargade e figurano anche nel tesoro dell'Oxus. Un campanello di argilla appeso a un anello di ferro al collo di una gallina di terracotta proviene da una tomba del II millennio a.C. a Khurvin. Sonagli ingabbiati, foggiati a forma di melarance traforate, di sfere cave con anelli laterali o di gabbie a forma di uccello, facevano parte della bardatura dei cavalli; numerosi esemplari mostrano una decorazione geometrica. Sonagli applicati alla bardatura dei cavalli sono testimoniati in epoca sasanide sui rilievi di Naqš-e Rostam e di Tāq-e Bostān, e nella toreutica. E documentato l'impiego di crepitacoli di bronzo su aste di legno come emblemi militari e apotropaici. In un primo tempo di forma semplice - p.es. una sfera cava sormontata da un cavaliere - si arricchirono poi di tubi contenenti una o più sferette, e di animali coricati (mufloni, cani, uccelli); in un caso è raffigurato un personaggio nel tipico costume eia- mitico. L'area di diffusione di tali crepitacoli si estese fino ai Carpazi.
Cembali più o meno decorati sono stati rinvenuti nel Luristan e sono databili a partire dal X sec. a.C. Nella toreutica sasanide sono attestati un cimbalo di grandi dimensioni, nella mano di una danzatrice ignuda, nonché piccoli crotali a dischi, consistenti in piccoli cembali fissati alla estremità di crotali flessibili. Esemplari di raspa in metallo o in terracotta (di carattere votivo) sono attestati in epoca protostorica (musei di Teheran, Oxford, Leida e al Louvre; v. M. Duchesne-Guillemin 1979).
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(M. Duchesne-Gujllemin)
India. - In contrasto con una diffusa opinione che vede nell'attuale cultura musicale indiana l'eredità di una tradizione millenaria particolarmente conservatrice, lo studio degli s. m. dell'India pre-islamica, essenzialmente basato sulle arti figurative e sulle fonti letterarie, pone in evidenza alcune differenze sostanziali rispetto all'instrumentarium odierno, la cui fisionomia si definisce nel Medioevo islamico ed è debitrice, in una misura da non sottovalutare, dell'apporto iranico e turco. Se il flauto traverso e le diverse varietà di tamburo bipelle testimoniano un legame ininterrotto tra l'epoca śuṅga e l'età moderna, il repertorio dei cordofoni ¡dell'India pre-islamica, nel quale invano si cercherebbe il prototipo del sitār, è dominato dall'arpa arcuata, di cui il subcontinente non serba più traccia da oltre un millennio e che a giudicare dalle caratteristiche strutturali e dalla tecnica esecutiva svolgeva un ruolo di accompagnamento (del canto e della danza).
La funzione di strumento melodico solista poteva essere più adeguatamente assolta dall'«iranica» arpa angolare verticale, probabilmente dotata di un numero maggiore di corde, ma piuttosto rara in India, e soprattutto dal liuto. Quest'ultimo, antenato dei moderni rabāb e sarod, si affiancò all'arpa arcuata nel II-III sec. d.C. Benché l'iconografia ne testimoni un impiego relativamente marginale (eccetto che nel Nord-Ovest), è probabile che la sua adozione abbia contribuito al lento processo di trasformazione della pratica e dell'estetica musicale in India (cui va verisimilmente imputata la scomparsa dell'ormai inadeguata arpa), che avrebbe raggiunto il massimo impatto nel periodo islamico; anche la diffusione dei cordofoni ad arco non sembra anteriore al Medioevo.
Le arti figurative offrono numerose testimonianze di scene di musica di ambiente colto, o comunque «cameristica»; anche in questo caso le divergenze con il presente non sono meno significative, in quanto i compositi gruppi strumentali sulle sculture di Sāñcī, Amarāvatī o del Gandhāra restituiscono l'idea di una pratica musicale difficilmente assimilabile alla teoria del rāga, spiccatamente monodica, dunque solistica.
Per quanto concerne la documentazione letteraria, le menzioni di s. m. ricorrono numerose praticamente in tutta la letteratura dell'India antica. In diversi casi le fonti scritte ci informano sulle occasioni in cui determinati s. m. trovavano impiego, ma per molte delle varietà elencate sussistono problemi di identificazione tipologica, perché assai meno spesso i testi si soffermano sulle descrizioni degli strumenti o forniscono indicazioni che consentano almeno di dedurne la categoria di appartenenza (ciò è vero soprattutto per le fonti più antiche); si deve inoltre tener conto del fatto che il medesimo termine poteva indicare strumenti diversi in epoche diverse. Notevolmente più affidabili sono, da questo punto di vista, le fonti iconografiche, che però ci danno informazioni solo a partire dal I sec. a.C.
Un notevole contributo viene dall'arte del Gandhāra. La sua cultura musicale si pone all'incrocio della tradizione indiana (arpa arcuata orizzontale, tamburi bipelle, flauto traverso) e di quelle dell'Asia occidentale e centrale (arpa angolare verticale, liuto, siringa, oboe, tamburello a cornice, cimbali). Sia nell'antichità che nel Medioevo, dal Nord-Ovest penetrarono nel subcontinente importanti elementi innovativi di origine vicino-orientale, iranica e centroasiatica.
Cordofoni. - Nell'India antica sono documentati due tipi di arpa: l'arpa arcuata orizzontale e l'arpa angolare verticale. Sulla prima disponiamo di copiose testimonianze iconografiche e letterarie, la seconda è attestata quasi esclusivamente, e con una frequenza relativamente bassa, nel Nord-Ovest d'epoca śaka e kuṣāṇa. E l'arpa arcuata lo strumento che le fonti letterarie designavano con il termine di vīṇā, solo dopo la sua scomparsa (intorno all'VIII sec. d.C.) lo stesso termine sarebbe passato a designare la cetra a bastone, affermatasi in epoca medievale e ancora oggi strumento tra i più rappresentativi della musica classica indiana.
Sia nella struttura, sia nella tecnica esecutiva la corrispondenza tra l'arpa arcuata indiana e quella mesopotamica è pressoché completa. Sebbene si sia voluta riconoscere la schematica rappresentazione dello strumento su un sigillo da Mohenjo-daro, le sue prime raffigurazioni certe nel subcontinente compaiono a Bhārhut (c.a 100 a.C.); è tuttavia ragionevole supporre che l'arpa sia stata introdotta in India dall'Asia occidentale in un'epoca imprecisata, ma di diversi secoli precedente l'èra cristiana. Sembra invece meno plausibile l'ipotesi della Marsel-Dubois che ne attribuiva l'origine all'Egitto tolemaico, regione in cui sin dalla più remota antichità era conosciuta soltanto la varietà arcuata verticale, che presuppone una tecnica esecutiva fondamentalmente diversa.
Di notevole interesse documentario sono gli esemplari di arpa arcuata orizzontale in uso ancora nel nostro secolo nell'isolato e arcaico Nuristan (Afghanistan); la sua struttura riflette uno stadio evolutivo intermedio tra l'arco musicale e l'arpa arcuata ed è dunque da considerare più arcaica rispetto alle più antiche arpe note dall'iconografia orientale. A meno che non si voglia considerare il Nord-Ovest indiano il centro di elaborazione e di irradiazione di questo strumento, si dovrà vedere nel «fossile» nuristano la testimonianza di un contributo mesopotamico (o elamitico) risalente a un'epoca in cui l'evoluzione dello strumento non era ancora definitivamente compiuta.
L'arpa arcuata indiana è costituita da un bastone ricurvo alla cui estremità è applicata una cassa di risonanza; le corde, da quattro (nel Gandhāra) a sette, sono tese tra il manico e il fondo della cassa di risonanza (nell'arpa nuristana sono tese tra le due estremità del manico, strutturalmente indipendente dalla cassa); durante l'esecuzione è poggiata sul fianco sinistro in posizione orizzontale o con la parte anteriore più o meno sollevata. Le corde erano suonate per mezzo di un grosso plettro, mentre le dita della destra mettevano la sordina alle corde che non dovevano risuonare. Lo strumento era usato sia dalle donne che dagli uomini (il più celebre esecutore è il gandharva Pañcaśikha nell'episodio della visita di Indra alla grotta di Indraśāla, assai frequente nell'arte del Gandhāra); tramite una cinghia attaccata a metà dell'arco, visibile in numerose raffigurazioni, l'arpa poteva essere appesa alla parete, come attestato anche nel Guttila Jātaka. Oltre che a Bhārhut, l'arpa arcuata è rappresentata a Bhājā, Sāñcī, Mathurā, Amarāvatī, nel Gandhāra, sugli avorî indiani da Begrām, e inoltre a Goli, Pawāyā e ad Ajaṇṭā. Si ricorderà inoltre la serie c.d. vīnāvādana nell'ambito della monetazione di Samudragupta (335-376 d.C.), e le più tarde imitazioni di Kumāragupta (415-454 d.C.), che ritraggono il sovrano nell'atto di suonare un'arpa arcuata orizzontale. A partire dall'VIII-IX sec., questo strumento non è più attestato in India, ma continuerà a riscuotere favori in Indocina: la moderna arpa birmana (saun) ne è la diretta erede.
L'arpa angolare verticale, di struttura identica al tipo vicino-orientale e iranico, è documentata nel Gandhāra in contesti iconografici di ispirazione occidentale o iranica (piattello da cosmetici con scena dionisiaca da Taxila, rilievi da Butkara I e dal Buner) e, nell'ambito di una scena potoria di impronta ellenistica, su un pilastro di balaustra da Mathurā (II sec. d.C.), nel Cleveland Museum.
Il liuto è strumento tra i più frequentemente rappresentati nell'iconografia gandharica: con cassa di risonanza piriforme, spesso caratterizzata da una strozzatura nella parte centrale, e manico di lunghezza non superiore a quella della cassa, il liuto corto gandharico presenta quattro corde fissate a cavicchi laterali, due o quattro fori sulla tavola armonica, e trova i confronti più pertinenti nell'Asia centrale d'epoca kuṣāna e in Iran (ma solo dall'epoca sasanide). Quelli che il Krishna Murthy identifica come liuti in un rilievo di un toraṇa di Sāñcī sono molto più probabilmente due tamburi percossi con mazzuolo; lo strumento compare però in un pilastro di vedikā con rappresentazione «dionisiaca» da Mathurā (Cleveland Museum). Le prime testimonianze certe dell'integrazione dello strumento in contesti iconografici indiani compaiono ad Amarāvatī (II-III sec. d.C.) e a Nāgārjunakoṇḍa (III-IV sec. d.C.); successivamente si ritroverà il liuto anche in altre località (Ajaṇṭā, Pawāyā). L'unica testimonianza indiana pre-islamica del liuto lungo, caratterizzato da una piccola cassa di risonanza circolare e da un lungo manico, è fornita da un rilievo gandharico da Andān Dherī, nel Dir (Pakistan settentrionale), in cui è suonato da due donne accompagnate da guerrieri in costume iranico.
Occorre infine ricordare le sporadiche raffigurazioni gandhariche della kithàra, che compare in alcuni rilievi di ispirazione iranica o ellenistica. Questo strumento, che nel subcontinente lascia un'episodica testimonianza nella scena dionisiaca da Mathurā già citata, non ebbe alcun impatto sulla cultura musicale indiana.
Aerofoni. - L'arte dell'India antica offre un'abbondante documentazione sullo strumento a fiato che ancora oggi è tra i più rappresentativi e diffusi nel subcontinente: il flauto traverso (nādi, vaṃśa, veṇu). Di struttura molto semplice - un segmento tubolare di canna o legno - presenta solitamente sette fori e un'imboccatura sulla parete laterale della canna, ed è tenuto in posizione orizzontale, rivolto verso la destra dell'esecutore. Nell'iconografia indiana esso è testimoniato in ogni regione e periodo (Bhārhut, Sāñcī, Amarāvatī, avori indiani di Begrām, Ajaṇṭā, ecc.), e altrettanto frequenti sono le sue menzioni nelle fonti letterarie, a partire dal Ṛgveda.
Alla categoria dei flauti appartiene anche la siringa; fondamentalmente estranea alla tradizione indiana (compare episodicamente a Sāñcī e a Mathurā), essa conobbe una certa diffusione nell'arte del Gandhāra, dove le sue raffigurazioni ricorrono in contesti iconografici non direttamente legati a tematiche buddhistiche (scene di genere, «dionisiache», eroti con ghirlaṇḍa, ecc.). Lo strumento è solitamente provvisto di sei o sette canne di lunghezza graduata ed è da ricondurre alla sỳrinx greca.
Entrambe le varietà di oboe documentate nell'arte indiana antica - l'oboe doppio e l'oboe conico - sembra abbiano avuto una diffusione: limitata alle regioni del Nord- Ovest, cui pervennero dal Vicino Oriente ellenizzato. L'oboe doppio risultante dalla combinazione di due oboi, solitamente di lunghezza diversa, suonati contemporaneamente, ma indipendenti da un punto di vista strutturale, figura solitamente nelle mani di personaggi di secondo piano occupanti spazi decorativi. Al di fuori del Gandhāra, l'unica testimonianza indiana di questo strumento è fornita da un rilievo di Sāñcī con scena di venerazione dello Stūpa, ma anche qui nell'ambito di un gruppo strumentale di provenienza nord-occidentale, come è evidente dai costumi.
L'oboe conico, ossia lo śāhnāī, strumento principe della tradizione popolare e da poco assurto all'ambito della musica colta, è testimoniato in epoca pre-islamica soltanto nell'arte gandharica e trova confronti, seppure di epoca più tarda, nell'Iran sasanide e in Asia centrale. Nei rilievi del Nord-Ovest compare con particolare frequenza nell'episodio del matrimonio di Siddhārtha e, in scene connesse al culto dei Nāga, ma anche in soggetti di ispirazione non buddhista, nonché nelle mani di figure isolate. La sua ampia diffusione nel subcontinente è probabilmente da porsi nel Medioevo islamico.
Fatta eccezione per la conchiglia, la documentazione sulle trombe (tūriya) è piuttosto limitata. Una tromba con padiglione ricurvo è raffigurata in un rilievo in pietra da Haḍḍa; dalla stessa località proviene una placca circolare in stucco con rappresentazione di un suonatore di corno. Due trombe con padiglione caratterizzato da duplice curvatura e terminazione a protome zoomorfa figurano a Sāñcī nel già menzionato rilievo con gruppo strumentale «gandharico». Trombe con padiglione rettilineo e svasato si segnalano nelle pitture di Ajaṇṭā.
Diffusamente attestata nell'arte indiana antica è, invece, la conchiglia (śaṅkha), o tromba di conchiglia, ricavata dal guscio di Turbinella rapa, nel quale l'aria veniva insufflata dall'alto o tramite un foro laterale o ancora attraverso una cannuccia. Il suo suono profondo era il segnale che preludeva a un attacco bellico, ma dell'utilizzazione di questo strumento in ambito rituale (si ricordi che la conchiglia è emblema del dio Viṣṇu) testimonia il rinvenimento di esemplari di śaṅkha (spesso recanti iscrizioni votive) in strutture templari e monastiche a Nāgārjunakoṇḍa, Sāli- huṇḍām e in diversi altri siti del subcontinente.
Membranofoni. - E questa la categoria organologica in cui si manifesta in modo particolarmente tenace il tradizionalismo della musica indiana. Almeno da un punto di vista formale, il campionario degli strumenti a percussione dell'India antica, già notevolmente diversificato ed evoluto, non mostra sostanziali differenze rispetto a quello attuale. Varietà tra le più diffuse e frequentemente testimoniate nell'iconografia, il tamburo «a barile», bipelle, di forma cilindrica e bombata, presenta un sistema di cinghie incrociate per la tensione delle pelli tenute da una correggia centrale. E con ogni probabilità lo strumento che le fonti scritte designano con i termini mṛdaṅga (lett. «fatto d'argilla») e mardala. La tecnica esecutiva, che prevedeva esclusivamente l'uso delle mani, è attestata in tre varianti: a) lo strumento è sospeso alle spalle per mezzo di una cinghia e l'esecutore ne percuote entrambe le facce (aṅkya mṛdaṅga); b) entrambe le mani percuotono una sola pelle del tamburo, poggiato sul fianco sinistro (ūrdhvaka mṛdaṅga)·, c) uso combinato di due mṛdaṅga, uno in posizione orizzontale, l'altro in posizione verticale.
Nelle scene di musica all'aperto (processioni e simili) è spesso rappresentato un più grande tamburo cilindrico sospeso alla spalla e percosso con un mazzuolo dall'estremità ricurva; il corpo dello strumento è spesso nascosto dal braccio dell'esecutore, pertanto non è possibile stabilire se si tratti di un tamburo a cornice (in cui la lunghezza non supera il diametro delle facce).
Il tamburo biconico, costituito da due tronchi di cono uniti per le basi minori, è testimoniato già a Bhārhut. A differenza del tamburo a barile, rispetto al quale sembra meno diffuso, presenta dimensioni alquanto contenute e le cinghie per la tensione delle pelli non sono incrociate, ma parallele. Benché relativamente frequenti, nel Gandhāra le sue rappresentazioni ricorrono quasi esclusivamente nell'episodio della nascita di Siddhārtha, ossia nel gruppo di strumenti fluttuanti che simboleggiano la «musica celeste» che accompagna l'evento. Di concezione non molto dissimile è il tamburo «a clessidra»; questo è solitamente tenuto sotto il braccio sinistro e se ne percuote una sola faccia con le mani o con un mazzuolo.
Tra i modelli documentati soltanto nell'arte del Nord- Ovest possiamo citare una sorta di tamburo «a caldaia», di forma emisferica e percosso da entrambe le mani. Le sue rappresentazioni sembrano circoscritte allo Swāt e al Buner e ricorrono in scene di musica e danza di probabile carattere rituale e dalla marcata connotazione iranica. Nel repertorio «minore» di ispirazione ellenistica si segnala inoltre il tamburello a cornice (il tỳmpanon greco).
Idiofoni. - La categoria è rappresentata principalmente dai cembali, a forma di imbuto e concussi con movimento orizzontale. Di origine occidentale (il Mahāvastu li designa con il termine kiṃphalas, cfr. greco kỳmbalon), oltre che nell'arte del Gandhāra, i cembali sono attestati a Mathurā, in avori da Begrām, e nelle pitture di Ajaṇtā.
Bibl.: C. Sachs, Die Musikinstrumente Indiens und Indonesiens, Berlino 1923; Α. Κ. Coomaraswamy, The Parts of a Vīṇā, in JAOS, L, 1930, 3, pp. 244-253; id., Old Indian Vīṇā, ibid., LI, 1931, 1, pp. 47-50; C. Marsel-Dubois, Notes sur les instruments de musique figurés dans l'art plastique de l'Inde ancienne, in Revue des Arts Asiatiques, XI, 1937, pp. 36-48; ead., Les instruments de musique de l'Inde ancienne, Parigi 1941; T. Alvad, E. Edelberg, The Nuristani Harp, in Afghanistan, 1953, 3, pp. 34-42; C. Sivaramamurti, Indian Musical Instruments, in Sh. Ritti, Β. R. Gopal (ed.), Studies in Indian History and Culture, Dharwar 1971, pp. 183-192; B. Goldman, Parthians at Gandhāra, in EastWest, XXVIII, 1978, 1-4, pp. 189-202; L. Edelberg, S. Jones, Nuristan, Graz 1979, p. 142 ss.; W. Kaufmann, Altindien (Musikgeschichte in Bildern, II.8), Lipsia 1981; M. Carter, The Bacchants of Mathura: New Evidence of Dionysiac Yaksha Imagery from Kushan Mathura, in The Bulletin of the Cleveland Museum of Art, LXIX, 1982, pp. 246-257; K. Krishna Murthy, Archaeology of Indian Musical Instruments, Delhi 1985; F. Tissot, Gandhâra, Parigi 1985, pp. 115- 121, tavv. XLI, XLII, figg. 272-281; C. Lo Muzio, Classificazione degli strumenti musicali raffigurati nell'arte gandhārica, in RivStOr, LXIII, 1989, pp. 257-284.
(C. Lo Muzio)
Asia centrale. - La cultura musicale centroasiatica d'epoca preislamica si sviluppa dall'incontro tra diverse tradizioni: l'iranica (arpa angolare, liuti), a sua volta formatasi da quella vicino-orientale, l'ellenistica (siringa, oboe doppio, lira), che ebbe come principale centro di irradiazione il regno greco-battriano, e l'indiana (arpa arcuata, tamburi bipelle), il cui influsso fu di entità variabile a seconda delle epoche. Le due ultime non avrebbero lasciato un'impronta durevole nell'instrumentarium della regione. L'evoluzione e la fioritura della cultura musicale dell'Asia centrale islamica furono essenzialmente caratterizzate dall'interazione dell'elemento iranico con quello turco.
Assolutamente trascurabile fu invece, in epoca antica, l'influsso della Cina, fatta eccezione per Dunhuang, località di frontiera. L'arte degli altri siti buddhisti del Xinjiang documenta un campionario notevolmente diversificato di s. m., nel quale l'elemento cinese è quasi del tutto assente. Si segnala per la sua eccezionalità la rappresentazione di una cetra cinese (qin), insieme a un liuto, in un dipinto da Afrāsyāb raffigurante un gruppo di fanciulle cinesi in barca. Al contrario, le tradizioni dell'Asia centrale trovarono sorprendente accoglienza in Cina sin dai primi secoli dell'era cristiana (v. oltre, cina).
La classificazione degli s. m. in uso nell'Asia centrale preislamica è resa possibile quasi esclusivamente dall'iconografia, poiché non si dispone di testimonianze letterarie dirette e i reperti archeologici sono assai sporadici. Indicazioni sugli s. m. delle oasi del bacino del Tarim, in special modo Kuča, sono fornite dalle cronache cinesi, mentre per determinate categorie di strumenti, e soprattutto per la relativa terminologia, sono di un certo ausilio le fonti iraniche d'epoca sasanide.
Cordofoni. - Arpe. - Fino al VII sec. d.C. circa in Asia centrale fu in uso quasi esclusivamente l'arpa angolare. L'arpa angolare orizzontale è finora testimoniata soltanto da una placca in nefrite a rilievo da Termez (Battriana), datata al III-IV sec. d.C.; alla stessa tipologia si suole attribuire l'arpa angolare rinvenuta in un kurgan di Pazïrïk, nell'Altai (V-IV sec. a.C.), per la quale si può senz'altro ipotizzare un'origine centroasiatica o iranica. La raffigurazione più antica a noi nota della varietà verticale compare in un frammento di fiasca a rilievo da Koy Krïlgan Kala in Chorasmia (IVTII sec. a.C.?); successivamente è attestata a Dalverzin Tepe in Battriana (figurina fittile; I-II sec. d.C.), nel «fregio» scultoreo di Airtam in Battriana (II-III sec. d.C.?), nelle pitture del palazzo di Toprak Kala in Chorasmia («sala dell'arpista», «sala dei cerchi»; III- IV sec. d.C.). Quella di Airtam è la rappresentazione più chiara e dettagliata: cassa di risonanza a piramide rovesciata con motivo a freccia nella parte centrale, nove corde annodate al braccio orizzontale e pizzicate dalle dita. In epoca successiva, al modello sopra descritto con cassa a tronco di piramide si affianca una varietà di grandi dimensioni con cassa di risonanza arcuata e rastremata e numerose corde tese perpendicolarmente al braccio orizzontale. Le lastre incise di un monumento funerario presso An'yang, in Cina, identificato con la
sepoltura di un signore sogdiano (Scaglia,1969), ne forniscono per ora la più antica testimonianza (VI sec. d.C.), anteriore a quella dei rilievi di Tāq-e Bostān, in Iran (VII sec.); non è tuttavia escluso che questo modello fosse in uso in area iranica in epoca precedente. Altre raffigurazioni centroasiatiche altomedievali sono fornite dalla Sogdiana (pitture di Penǰikent e ossuarî) e dall'Ustrušāna (pitture di Qal'a-ye Kakhkakha). La grande arpa angolare con cassa ricurva, da identificare con il čang delle fonti persiane, è ampiamente attestata nella pittura del Xinjiang (Kuča, Turfan, Dunhuang); da questa regione fu introdotta in Cina.
L'arpa arcuata orizzontale, di origine indiana, compare in Asia centrale intorno al VII sec. ed è nota esclusivamente da raffigurazioni pittoriche: a Bāmiyān, a Penǰikent e, con maggiore frequenza, nell'oasi di Kuča (Qïzïl e Qumtura). La sua permanenza nell'instrumentarium centroasiatico è di breve durata; non lascia testimonianze posteriori alla conquista araba.
Liuti. - Il liuto «corto» è senz'altro lo strumento più frequentemente documentato nell'iconografia centroasiatica, sin dai primi secoli della nostra era. Esso compare nel fregio scultoreo in argilla cruda di Khalčayan (I sec. d.C.), in Battriana, mentre al I-III sec. d.C. risalgono numerose figurine fittili di liutisti dalla Battriana (Dalverzin Tepe, Babatag, Termez), dalla Margiana (Gyaur Kala, Erk Kala), dalla Chorasmia (Koy Krïlgan Kala, Bazar Kala, Kunya Uaz), dalla Sogdiana (Afrāsyāb); lo strumento è raffigurato inoltre nel «fregio» di Airtam (II-III sec. d.C.), in un dipinto di Toprak Kala (III-IV sec. d.C.) e nelle terrecotte da Yotkan, nell'oasi di Khotan (III-IV sec. d.C.); da qui proviene anche il frammento di un manico di liuto. Soprattutto nella coroplastica la sua struttura è resa spesso con notevole approssimazione; ciò nondimeno possiamo rilevare che in quest'epoca il liuto è di dimensioni contenute, presenta una cassa di risonanza piriforme o approssimativamente rettangolare con gli angoli arrotondati (Chorasmia) o, ancora, con un restringimento più o meno marcato nella parte centrale (p.es. nel «fregio» di Airtam), tipo che trova numerosi confronti nell'arte gandharica. Il numero delle corde non è superiore a quattro; in alcune rappresentazioni è evidente l'impiego del plettro e sulla tavola armonica sono spesso visibili da due a quattro fori di risonanza.
In epoca altomedievale diverrà prevalente il tipo a cassa piriforme: le sue attestazioni, in modelli di piccole e grandi dimensioni (che prefigurano lo ʽūd arabo e il liuto dell'Europa medievale e rinascimentale), sono frequenti soprattutto in Sogdiana, nella toreutica, nella produzione in terracotta (ossuarî) e nelle pitture (Penǰikent); tra le testimonianze sogdiane possiamo annoverare quella del già citato monumento funerario presso An'yang, in Cina. Numerosissime sono infine le rappresentazioni pittoriche di questo strumento nei siti del Xinjiang. È probabile che anche in Asia centrale, come nell'Iran sasanide, il liuto, o per lo meno uno dei suoi modelli, fosse designato con il termine barbat (da cui, si è ipotizzato, potrebbe essere derivato il cinese pipa, «liuto»).
Il liuto «lungo», con piccola cassa circolare e lungo manico (cfr. i moderni tār persiano, saz turco e dombra centroasiatico), è sicuramente raffigurato in alcuni rhytà di Nisa. Non è escluso che alcuni dei liuti schematicamente rappresentati nelle terrecotte centroasiatiche dei primi secoli d.C. corrispondano a questo tipo, tuttavia se ne riconosce ben più chiaramente la tipica struttura in alcune rappresentazioni pittoriche di Qïzïl (VII sec. d.C.), nel Xinjiang.
Lire. - La kithàra greca ha lasciato sporadiche testimonianze nella regione. Le rappresentazioni di eroti con lira dal Tempio dell'Oxus a Takht-e Sangin (II-I sec. a.C.-I sec. d.C.) sono direttamente riconducibili a un influsso ellenistico; inaspettata è invece la comparsa dello strumento nelle mani di figure aristocratiche rappresentate sulle pareti di ossuari sogdiani (c.a VII d.C.); la descrizione approssimata dello strumento fa dubitare che esso fosse realmente in uso nella regione.
Aerofoni. - Flauti. - La syrinx polykàlamos, penetrata in Asia centrale in epoca ellenistica, ha lasciato una discreta documentazione. Nel periodo compreso tra il II sec. a.C. e il III d.C. se ne contano diverse raffigurazioni nei rhytà di Nisa e nella coroplastica della Chorasmia e della Battriana. Lo strumento presenta di solito canne di lunghezza graduata, spesso tenute assieme da due fasce trasversali. Nel VII-VIII sec. d.C. la siringa compare in un dipinto di Penǰikent, ma è ampiamente attestata anche nelle pitture di Qïzïl. Il flauto traverso, di origine indiana, ebbe notevole diffusione nel Xinjiang (terrecotte khotanesi, pitture di Kuča, Turfan, Dunhuang), ma non sembra abbia incontrato successo nell'Asia centrale occidentale, dove compare in una terracotta da Afrāsyāb e in una nota coppa d'argento da Perm, all'Ermitage. Sul flauto diritto non vi sono testimonianze certe; mancano sue raffigurazioni nella scultura e nella pittura. Alcune delle figurine fittili da Afrāsyāb e da Khotan sembra rechino questo strumento, ma non si può escludere che si tratti invece di un oboe.
Oboi. - L'oboe doppio, ulteriore apporto ellenistico, è testimoniato in diversi rhytà di Nisa, nell'altare con dedica al dio Oxus da Takht-e Sangin, in cui figura nelle mani di Marsia (allo stesso tipo di strumento appartenevano probabilmente i circa quaranta segmenti di osso, recanti tre fori ciascuno, rinvenuti tra le offerte votive dello stesso tempio), nel «fregio» di Airtam, in terrecotte da Termez e da Šahr-e Bānu (Afghanistan). Il suo impiego fu dunque limitato alle regioni meridionali dell'Asia centrale nei secoli a cavallo dell'era cristiana. L'oboe conico, antenato del surnay, era con ogni probabilità già in uso in epoca pre-islamica, se come tale possiamo identificare lo strumento a fiato, a volte di forma svasata, riprodotto in alcune figurine fittili da Afrāsyāb. Mancano sue attestazioni nella pittura, mentre nella toreutica compare in alcuni pezzi di incerta attribuzione geografica e cronologica.
Trombe. - L'unica raffigurazione di trombe compare in un piatto d'argento dell'Ermitage, rinvenuto ad Anikovo (Russia) ma attribuito alla toreutica centroasiatica (VIII-IX sec. d.C.?), che illustra una scena di assedio: sei suonatori di tromba si dispongono ai lati di un personaggio centrale recante una grossa urna. Gli strumenti presentano un lungo tubo svasato leggermente ricurvo appena al di sotto dell'imboccatura, e sono tenuti in posizione verticale puntati verso l'alto.
Nella pittura del Xinjiang è infine attestato uno strumento tipicamente cinese, l'organo a bocca (sheng; v. oltre, cina), che ha lasciato sporadiche testimonianze anche nella toreutica sasanide.
Membranofoni e idiofoni. - Le rappresentazioni degli strumenti a percussione non sono molto frequenti, né il loro repertorio particolarmente diversificato. Due le principali varietà di tamburo attestate nell'iconografia, entrambe di origine indiana: il tamburo «a barile» («fregio» di Airtam; coroplastica khotanese, II-IV sec. d.C.; pitture di Bāmiyān e di Qïzïl, VII sec. d.C.) e il tamburo biconico (coppa d'argento da Perm, terrecotte khotanesi, terracotta da Penjikent e pitture di Penjikent e di Qïzïl). Quanto agli idiofoni, i cimbali figurano nei rhytà di Nisa, nel «fregio» di Airtam, in terrecotte khotanesi. Alla stessa categoria appartengono i campanelli che gli scavi di edifici cultuali in diverse località della regione hanno riportato alla luce in grandi quantità (p.es., «Tempio dei Dioscuri» a Dilberǰin); si tratta evidentemente di offerte votive, ma è probabile che essi trovassero impiego nel contesto rituale. Cordoni con campanelli sono indossati da figure diverse (divinità, danzatrici) nella pittura sogdiana. Citeremo, per concludere, il singolare attributo di una dea a più braccia, in un dipinto di Penǰikent, costituito da una fascia rettangolare con una fila di campanelli lungo i margini, attaccata alla sommità di un'asta.
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(C. Lo Muzio)
Cina. - La Cina antica assegna alla pratica musicale uno specifico valore formativo nella vita spirituale dell'individuo. Secondo la visione filosofica e cosmologica cinese, la musica rientra nel sistema di corrispondenze esistenti tra i diversi aspetti del cosmo: il suono deve armonizzarsi perfettamente alle leggi che regolano l'universo. L'esigenza di un controllo rigoroso sulla qualità del suono spiega il primato degli idiofoni rispetto alle altre categorie organologiche. Litofoni e campane, oggi relegati ai riti confuciani, trovavano impiego nei contesti più diversi: cerimonie religiose e ufficiali, ricevimenti e banchetti privati. Con i loro suoni puri e prolungati, questi strumenti incarnano nella maniera più schietta i valori fondamentali della musica tradizionale della Cina e costituiscono l'ambito privilegiato della sperimentazione acustica tra l'epoca Shang (c.a XVI-XI sec. a.C.) e la fine del I millennio a.C. Nella sfera privata, il carattere contemplativo e raffinato della musica cinese trova la sua massima espressione nelle cetre lunghe (qin, zheng, se).
Con la drastica cesura segnata dal regno Qin (221-206 a.C.) ha termine una lunga fase di ricerca e di evoluzione ininterrotta e ne ha inizio una nuova improntata al tradizionalismo e, soprattutto, al recupero dell'eredità perduta.
Nella prima metà del I millennio d.C. la Cina settentrionale si apre in modo crescente agli influssi della cultura musicale centroasiatica, a sua volta fortemente permeata da elementi iranici e indiani. Questi trovano terreno fertile nelle corti delle dinastie cinesi di estrazione «barbarica», a cominciare dai Liang, dove, insieme a strumenti di origine occidentale (liuto, arpa, oboe, tamburi), si fecero strada nuove concezioni che contribuirono a modificare l'estetica musicale cinese. Le fonti assegnano un ruolo primario alla musica di Kuča, soprattutto in seguito alla conquista dell'oasi da parte dei Liang, nel 384 d.C. Alla corte di Liangzhou, essa si fuse con la musica cinese e con altre tradizioni forestiere dando vita a quel genere che, con i Wei, si sarebbe diffuso nella Cina settentrionale con il nome di «musica dei Liang occidentali» e, dalla metà del VI sec., di «musica imperiale». Questa tradizione sincretistica fu accolta dai Qi e dai Zhou Settentrionali, rinvigorita da un ulteriore afflusso di musicisti kuceani, alcuni dei quali (p.es. Cao Miaoda e Sujibo, entrambi liutisti) lasciarono una durevole impronta nella teoria musicale cinese.
Delle «sette orchestre» che i Sui istituirono negli ultimi decenni del VI sec., una era indiana, una di Bukhara e una di Kuča. Tra il 605 e il 616 d.C., le orchestre furono portate a nove, con l'entrata di musici di Samarcaṇḍa e di Kašgar. Dopo la conquista di Gaochang (Turfan) da parte dei Tang, nel 640 d.C., anche la musica di quest'oasi fece il suo ingresso a corte: le orchestre erano ormai dieci e accanto alla musica cinese (profana e da banchetto), coreana e Liang occidentale (in parte di derivazione kuceana), le tradizioni occidentali (India, Samarcaṇḍa, Bukhara, Kašgar, Kuča, Turfan) divennero decisamente dominanti. Il ruolo degli strumenti kuceani fu rilevante anche in altre due orchestre - la «stante» e la «seduta» - istituite alla corte Tang nella prima metà dell'VIII sec. d.C.
È inoltre importante ricordare che nel corso dei secoli precedenti i confini tra musica rituale (yayue), popolare e «forestiera» erano divenuti sempre meno netti e la tradizione di eseguire nei rituali brani tratti dallo Shijing («Libro delle Odi», epoca dei Zhou Occidentali, XI-VIII sec. a.C.), rispettata fino a epoca Han, sempre più desueta, fino a scomparire del tutto con i Tang. Ed è proprio la musica forestiera che avrebbe assunto lo statuto di nuovo yayue, del quale il gagaku giapponese è diretto erede. A partire dalla seconda metà del IX sec. d.C., l'antico yayue cade definitivamente in disuso.
Idiofoni. - I litofoni, o pietre sonore, e le campane sono due espressioni diverse (per la natura dei materiali) di una medesima concezione musicale. Frequentemente associati sia nei testi sia nei contesti archeologici, entrambi gli strumenti condividono la tipica configurazione in carillons costituiti da due file di elementi sovrapposti sospesi a un sostegno verticale e percossi da un mazzuolo. I litofoni (qing) sono lastre di pietra a forma di triangolo scaleno cui sono stati asportati gli angoli acuti. Negli esemplari più arcaici la base del triangolo è rettilinea, ma già in epoca Zhou, col progredire della sperimentazione, essa diviene arcuata. E probabile che le pietre venissero ricavate da un anello dal margine interno circolare ed esterno esagonale, successivamente suddiviso in sei sezioni. Le differenze di tonalità delle pietre che compongono un carillon sono determinate dal loro diverso spessore, mentre lunghezza e larghezza non presentano un grande scarto (a partire da epoca Han tutte le pietre avranno dimensioni uniformi). Inoltre, la curvatura della base dei litofoni cesserà col tempo di svolgere la sua originaria funzione di ottimizzazione acustica per assumere una funzione meramente decorativa (VII-VIII sec. d.C.).
La campana (zhong) consiste in un vaso di bronzo provvisto di orlo armonico; è questo a produrre le vibrazioni, mentre la parte superiore è muta. Oltre al tipo provvisto di battaglio interno (ling), assai più importante nell'instrumentarium cinese è la campana percossa esternamente da un mazzuolo, secondo una tecnica comune ai litofoni. Inizialmente a sezione trasversale quadrangolare, le campane assunsero in epoca Zhou forma ellittica. I trentasei (talvolta quarantotto) spunzoni presenti sulla parete esterna delle campane, destinati a diffondere il suono, ma anche ad attutirne il volume, sembra sfruttino il principio applicato ai bracieri con un accorgimento analogo e finalizzato a una migliore diffusione del calore. Sebbene i testi indichino un numero di sedici elementi per fila sia nei carillons di litofoni (bianqing), che in quelli di campane (bianzhong), gli scavi archeologici hanno riportato alla luce (soprattutto in sepolture) un numero inferiore di elementi (fino a un massimo di due serie di quattordici elementi, ma più di frequente sette o nove). Particolare scalpore ha destato la scoperta di una serie di undici lastre di pietra a Ndut Lieng Krak (Vietnam); sulla loro identificazione come carillon di litofoni e sulla loro datazione al III millennio a.C., accettate da diversi studiosi, sono state espresse forti perplessità da F. Kuttner.
Entrambi gli strumenti sono testimoniati da reperti di epoca Shang; tra i litofoni più antichi, a volte con decorazione zoomorfa incisa (tigre, pesce), si segnala un esemplare a forma di tigre da una tomba regale di Wu Guancun (Henan) (XIV sec. a.C.). Litofoni e campane sono stati rinvenuti anche in sepolture di An'yang. Da una tomba dei Zhou Orientali a Ν di Canton proviene un carillon di sette campane bronzee. Per l'epoca degli Stati Combattenti (475-221 a.C.), una documentazione eccezionalmente ricca è quella fornita dalla tomba del marchese Yi di Zeng, a Suijiu (Hebei), datata alla seconda metà del V sec. a.C.: centoventiquattro strumenti musicali, tra cui sessantacinque campane bronzee (la più grande pesa 203 kg e misura 153 cm di altezza) sospese in tre file a telai lignei alti c.a 3 m e trentadue litofoni (con i nomi dei semitoni incisi); della stessa epoca sono le campane e i litofoni provenienti dalle sepolture di Fenshuiling (Shanxi), Changtaiguan (Xinyang, Henan), Liuhexian (Jiangsu).
Le prime testimonianze iconografiche ricorrono in incisioni su pietre tombali Han, mentre nelle epoche successive occuperanno un ruolo sempre più marginale nelle rappresentazioni delle orchestre di corte, ormai fortemente occidentalizzate. Di indubbio interesse è la proposta del Kuttner di considerare i dischi di giada (bi; v. giada e liangzhu) come s. m. da assimilare alla categoria degli idiofoni. L'esatta accordatura su di una nota prescelta sarebbe stata ottenuta mediante l'asportazione di schegge di materiale o la levigatura sia del margine esterno (per incrementare le sonorità acute) sia delle superfici larghe del disco (per ottenere una tonalità più bassa). Le parti così lavorate erano successivamente polite. I dischi potevano essere rifiniti con una decorazione incisa geometrica a motivi simbolici. E presumibile che anche i dischi di giada, come litofoni e campane, fossero raggruppati in carillons e sospesi a telai.
Si segnalano, infine, due tipi di idiofoni introdotti in Cina dall'esterno: i cembali, la cui prima menzione è successiva al 384 d.C. (conquista di Kuča), dunque di presumibile provenienza centroasiatica, e il gong (luo) attestato nelle fonti del VI sec. d.C. e originario, secondo la tradizione, dell'area tibeto-birmana. Anche il gong, nel quale a differenza delle campane la diffusione delle vibrazioni avviene dal centro verso l'esterno, può trovare impiego in carillons (yunluo).
Cordofoni. - Le cetre lunghe costituiscono l'unica tipologia autoctona in area estremo-orientale. Suoi principali rappresentanti, il qin, il zheng e il se sono accomunati da una struttura costituita da una cassa di risonanza lignea semitubolare, di forma rastremata, chiusa in basso da una tavola piana; sono tuttavia differenziati dal numero delle corde e dalla tecnica esecutiva. I prototipi di tali cetre presentavano una struttura semitubolare in bambù e corde consistenti in striscioline di corteccia, tese ciascuna da due ponticelli mobili posti alle due estremità; la tonalità della corda era determinata dalla distanza tra i due ponticelli. Successivamente la cassa divenne lignea e si fece uso di ponticelli collettivi di forma arcuata. Un ulteriore sviluppo (fine del I millennio a.C.?) avrebbe prodotto un modello dotato di un unico ponte collocato all'estremità destra della cassa, il qin. Il zheng e il se, che ne conservano due, sono dunque da considerare più arcaici. Attualmente il qin ha sette corde (si ritiene che anticamente ne avesse cinque), il zheng ne ha tredici, il se ventiquattro.
È probabile che inizialmente in tutti e tre i modelli le corde fossero fatte vibrare aperte e che la tastatura sia stata introdotta nella tecnica esecutiva del qin solo in un secondo momento. Lo strumento è poggiato orizzontalmente sulle ginocchia dell'esecutore seduto a gambe incrociate. La perdita del ponte sul lato sinistro e il conseguente avvicinamento delle corde alla tavola armonica favorirono in epoca successiva fenomeni di contaminazione reciproca tra la tecnica esecutiva del qin e quella del pipa (liuto corto), testimoniati in epoca Tang dalle numerose coincidenze nelle rispettive terminologie. Altra caratteristica del qin è la presenza lungo il margine della tavola armonica di tacche in madreperla intarsiata; queste non indicano le note della scala, bensì i nodi acustici che consentono la produzione di armonici. Il qin e il se sono menzionati per la prima volta (ma non descritti) nello Shijing. Esemplari di qin e di se sono stati rinvenuti nella tomba del marchese Yi di Zeng (v. supra). La loro comparsa nell'iconografia si registra in epoca Han, ma risulta difficile identificare con precisione le diverse tipologie, benché la loro differenziazione fosse verosimilmente già a uno stadio avanzato.
Importato dall'Asia centrale, il liuto fu il principale veicolo di innovazioni cruciali nella teoria e nella pratica musicale della Cina. E difficile precisare il momento della sua introduzione nel paese, tuttavia l'iconografia e le fonti scritte indicano l'epoca tardo-Han o Qin e testimoniano la presenza sia del liuto lungo che del liuto corto. L'attuale sanxian, un liuto lungo dalla struttura particolarmente arcaica (assenza di tasti, tre corde, grosso plettro, tavola armonica in pelle), simile a quella dell'odierno dombra centroasiatico, potrebbe essere stato, secondo L. Picken, uno dei primi modelli introdotti in Cina.
A ben più alto prestigio assurse il liuto corto (pipa), del tutto affine al modello centroasiatico. Fu impiegato in diverse varietà differenziate sia dalle dimensioni, sia da alcuni particolari strutturali. La cassa di risonanza è più o meno larga, il manico diritto o con cavigliere piegato all'indietro; in luogo dei tasti, la parte superiore del manico presenta degli elementi trasversali semicilindrici, tali da consentire effetti di glissando. A quattro o cinque corde, suonato con un grosso plettro (come in Asia centrale), presenta al centro della tavola armonica una larga fascia trasversale, inizialmente in pelle, poi in lacca, destinata ad assorbire i colpi del plettro. Quest'ultimo cessa di essere utilizzato nel secondo quarto del VII sec. d.C.
Intorno alla metà del I millennio d.C. si registra la comparsa del c.d. liuto piatto (l'odierno yue qin). La cassa di risonanza circolare è costituita da due superfici unite da una fascia sottile; il manico è breve e distinto dalla cassa.
Strumento tipico delle orchestre di influsso occidentale fu anche l'arpa (konghou), sempre del tipo angolare verticale, con cassa di risonanza rastremata e ricurva in avanti, identica, dunque, a uno dei tipi attestati nell'arte iranica e centroasiatica. Il suo successo in Cina, che raggiunge l'apice in epoca Tang, declina nel giro di pochi secoli.
Tamburi. - Nel XV-XIV sec. a.C. sono attestati tamburi metallici (gu), derivanti da modelli lignei dei quali conservano i chiodi per il fissaggio delle pelli; se ne sono conservati due esemplari in bronzo. L'esemplare di una collezione privata giapponese presenta sulla faccia superiore un motivo a scaglie di rettile. Un tamburo analogo, ottenuto per fusione mediante quattro stampi, fu scoperto nel Hupei nel 1977. La produzione di tamburi bronzei a imitazione di quelli lignei è da localizzare nella Cina nord-orientale. I tamburi bronzei rivestono da tempo particolare importanza nello studio delle culture della Cina meridionale e, soprattutto, del Vietnam. Nelle provincie dello Yunnan e del Gungxi, in Cina, e nell'area della cultura di Dong Son, nel Vietnam, sono state riportate alla luce centinaia di esemplari risalenti al periodo compreso tra il VII e il V sec. a.C.
La superficie di percussione di questi tamburi, che può raggiungere un metro di diametro, presenta quasi invariabilmente un motivo centrale a stella (di solito a dodici punte) che, con ogni probabilità, influiva sulla resa acustica; una serie di bande a decorazione zoomorfa o geometrica occupa lo spazio tra la stella e il margine, lungo il quale, in alcuni casi, è rappresentata una serie di animali a tutto tondo (solitamente rane). Le decorazioni figurate dei tamburi Dong Son indicano il culto funerario come l'ambito privilegiato del loro impiego; non sono tuttavia esclusi altri tipi di funzioni simboliche (emblema di sovranità) e pratiche (come dono, urna, o contenitore di preziosi). Dal Vietnam questo strumento si diffuse al resto dell'Indocina e al Sud-Est asiatico.
Nell'epoca di maggior successo delle orchestre di impronta occidentale si registra la comparsa episodica di due varietà di membranofoni di origine indiana, evidentemente mediati dall'Asia centrale: il tamburo «a barile» e il tamburo «a clessidra».
Aerofoni. - L'esistenza di flauti diritti (xiao) e traversi (chi e di) ci è testimoniata dalle fonti scritte sin da epoca remota; queste registrano una serie di termini che ne identificavano le diverse varietà, sulle cui caratteristiche strut- turali e tecniche le nostre conoscenze sono assai meno precise. Il flauto globulare (xun) è strutturalmente affine all'ocarina, ma tipologicamente più arcaico, in quanto invece che in un beccuccio l'aria viene insufflata direttamente in un foro. Sulla parete dello strumento sono altri cinque fori che, tappati dalle dita, consentono la produzione di diverse note. L'esemplare più antico, in osso e decorato da due taotie, è quello rinvenuto in una tomba di An'yang (seconda metà II millennio a.C.).
Tipico aerofono cinese è la siringa (pai xiao), risultante dall'unione di una serie di canne diritte a tacca (cioè con taglio obliquo alla sommità) prive di fori, tappate all'estremità inferiore. L'usanza di racchiudere le canne in una sorta di cassetta, dalla cui parte superiore fuoriuscivano le canne, è già attestata in epoca Tang.
Un altro strumento peculiare alla cultura cinese è l'organo a bocca (sheng), costituito da un serbatoio in legno (originariamente ricavato da una zucca), nel quale è inserito un fascio di canne (tredici o più) di diversa lunghezza (fino a 50 cm). Ciascuna di esse è provvista di un foro laterale, all'interno del serbatoio, coperto da una linguetta che entra in vibrazione al passaggio dell'aria insufflata. Nella parte della canna fuoriuscente dal serbatoio è un altro foro per le dita; se questo viene ostruito, la linguetta occlude il primo foro, e la canna risuona. Lo strumento è tenuto in posizione fortemente obliqua, quasi orizzontale. Le prime raffigurazioni ricorrono intorno alla metà del I millennio d.C.
Sin dall'antichità la Cina conobbe l'oboe, presente in due varietà: l'oboe cilindrico (guan), che la tradizione vuole di origine kuceana, e l'oboe conico, anche questo di probabile provenienza occidentale. In quest'ultimo i fori sono situati all'interno di scanalature che solcano lo strumento trasversalmente.
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(C.Lo Muzio)