Strumenti per la percezione: i sensori
La possibilità di interagire con il mondo nel quale viviamo ci è fornita dagli organi di senso. Il ruolo di queste strutture è quello di trasformare gli stimoli esterni e interni in impulsi nervosi, che poi vengono trasmessi al sistema centrale. I cinque sensi, la vista, l’udito, il gusto, il tatto, l’olfatto, sono tutti coinvolti in questo tipo di interazione.
Il funzionamento degli organi di senso si basa sul fatto che uno stimolo viene captato da particolari recettori, i quali generano segnali elettrici che vengono poi trasmessi al cervello. L’interazione fra lo stimolo e il recettore, che dà luogo al successivo impulso elettrico, è chiamata conversione bioelettrica, ed è caratterizzata da un’alta specificità; ogni recettore, infatti, risponde a un ben preciso stimolo, che può essere di natura chimica oppure di natura fisica. La fase finale è quella di integrazione, in cui lo stimolo viene identificato e archiviato nella memoria cerebrale mediante diverse operazioni, molte delle quali ancora sconosciute, data la loro complessità di esecuzione. Grazie a questi tre passaggi, le informazioni giunte nel cervello, con il bagaglio culturale relativo ai numerosi processi di apprendimento e identificazione, forniscono un messaggio globale che attiene specificamente la percezione.
I recettori presenti nei sistemi sensoriali non sono gli unici sensori del corpo umano. Infatti, per es. per quanto riguarda la termoregolazione, nell’ipotalamo sono presenti due zone sensibili alle variazioni di temperatura del sangue che irrora l’ipotalamo stesso. Nell’ipotalamo anteriore si trovano cellule neuronali sensibili agli aumenti di temperatura corporea, le quali reagiscono a tali aumenti attivando i meccanismi di regolazione dissipatori di calore. Nell’ipotalamo posteriore, al contrario, vi sono neuroni che reagiscono alla diminuzione della temperatura corporea, attivando i meccanismi produttivi del calore. In presenza di febbre, per es., questi centri termoregolatori vengono automaticamente posizionati su un valore più alto.
Oltre ai tipi di sensori menzionati, gli esseri viventi sviluppano altre possibilità sensoriali, che convergono verso reali sensazioni in grado di suscitare particolare attenzione e di condizionare la vita di tutti i giorni. Possiamo dire che esistono varietà di modi di sentire: per es., siamo in grado di avvertire aspetti del mondo esterno come pressione atmosferica, temperatura, scorrere del tempo, calore e freddo.
Di notevole interesse sono le percezioni di natura meccanica: equilibrio, gravità, accelerazione angolare, accelerazione lineare, propriocezione, sinestesia-movimento delle articolazioni, allungamento dei tendini, allungamento delle fibre muscolari, propagazione del dolore. Non meno rilevanti, ma certamente più complesse, sono le percezioni di natura interna: pressione sanguigna, febbre, mancanza d’aria, infiammazione, sete, fame, volume d’aria nei polmoni, pressione nella vescica, pressione degli sfinteri, pesantezza di stomaco, nausea, rabbia, ira, paura, disgusto, noia, felicità, allegria, dolore morale, senso di colpa, localizzazione di disfunzioni, desiderio, fretta, emozione internamente stimolata, emozione indotta.
Sensori artificiali
Con la nascita della scienza moderna, e con lo sviluppo industriale della chimica, della meccanica, dell’elettronica, nonché dell’informatica nel secolo scorso, la necessità di misurare per verificare la riproducibilità dei fenomeni naturali e del funzionamento delle apparecchiature in senso generale, ha portato allo sviluppo dei sensori artificiali.
Questi sono materiali o dispositivi allo stato solido in grado di esprimere variazioni di una o più delle loro proprietà, per es. la conducibilità, l’indice di rifrazione, la temperatura, in presenza di cambiamenti di grandezze fisiche, chimiche, biologiche. I sensori artificiali devono poi essere ‘interrogati’ (con una delle numerose tecniche di misurazione disponibili) per fornire risposte in termini di segnali elettrici oppure ottici, in grado di consentire ulteriori elaborazioni, fino a giungere a un’efficiente presentazione dei dati o al loro immagazzinamento. Oggi è possibile affermare che lo sviluppo della sensoristica artificiale ha raggiunto livelli molto alti di perfezione, con innumerevoli applicazioni. L’impiego di sensori consente di esercitare tutte le azioni di controllo possibili, per es. nelle macchine utensili, nei segmenti di processo di qualsivoglia impianto industriale, nei veicoli di qualunque concezione, in modo particolare nell’ambito della robotica. In definitiva, ogni tipo di tecnologia, per essere applicata con precisione, necessita di adeguati sensori che possano monitorare, nel tempo, misurazioni accurate delle grandezze fisiche, chimiche o biologiche delle quali si vogliano garantire le funzionalità desiderate. Ne sono alcuni esempi: la misurazione della temperatura per il controllo del tasso di crescita di batteri in cultura; la misurazione della pressione in recipienti di processo, per evitare esplosioni; la misurazione della concentrazione chimica di un determinato composto comburente, per garantire, in un processo di termoregolazione, la generazione di calore costante; la misurazione della concentrazione di CO2 nel processo di adsorbimento da parte di liposomi per il controllo dell’energia da essi prodotta.
Al fine di fornire un’idea della vastità del campo dei sensori, le tabelle 1 e 2 raggruppano le loro tipologie, le tecniche di rilevazione, le grandezze da misurare e i tipi di conversioni energetiche coinvolti.
In generale, non è possibile soddisfare pienamente tutti i parametri che caratterizzano un sensore; quindi, in pratica, la via da seguire è la ricerca del migliore compromesso nell’ambito di una scelta ottimizzata. Tale scelta ruota attorno a una serie di parametri, ossia impedenza, sensibilità, intervallo dinamico di ingresso, stabilità (breve termine, lungo termine), risoluzione, selettività, velocità di risposta, condizioni ambientali permesse, caratteristiche di sovraccarico, vita media di funzionamento stimata, formato dell’uscita, costo, dimensioni, peso, biocompatibilità, dimensione della matrice di sensori, risposta in frequenza.
I campi più importanti dove trovano applicazione i sensori sono: agricoltura, autoveicoli (costruzione e controllo), ingegneria civile, costruzioni, distribuzioni, commercio, finanza, apparecchi domestici, energia, potenza, ambiente, meteorologia, sicurezza, salute, medicina, informatica, telecomunicazioni, settore manifatturiero, marina militare, misure scientifiche, spazio (missioni a lungo termine), trasporti (escludendo automotive), cura della casa, industria.
I dispositivi di base utilizzati come trasduttori per la realizzazione di sensori possono essere sensibili a variazioni della lunghezza d’onda (Δλ), della temperatura (ΔT), della carica elettrica (ΔQ), dei campi elettromagnetici (Δem), della massa (Δm), dell’indice di rifrazione (Δn), e in generale di proprietà dei materiali che siano convertibili in correnti o tensioni o fotoni di qualsivoglia energia. Quindi possiamo avere: MOSFET (Metal Oxide Semiconductor Field Effect Transistor), sensibili a ΔQ; MISFET (Metal Insulator Semiconductor Field Effect Transistor), sensibili a ΔQ; ISFET (Ion Selective Field Effect Transistor), sensibili a enzimi; ISFET ricoperti di antigeni, sensibili ad anticorpi; sistemi piezoelettrici, sensibili a Δm; termocoppie, termopile, termistori, piroelettrici, sensibili a ΔT; spettrofotometri integrati, sensibili a Δλ; dispositivi ottici, sensibili a Δn e a Δem.
Caratteristiche importanti per tutti i tipi di sensori, in relazione alle informazioni che ne derivano e che ne consentono un uso corretto sono: la curva di risposta, rappresentante la grandezza di uscita in funzione della sollecitazione di ingresso; la derivata della curva di risposta, ossia la curva di sensibilità; il rumore, nelle sue diverse manifestazioni (termico, burst, shot, flicker ecc.); la risoluzione (ossia la più piccola quantità misurabile della grandezza in esame), che è definita come il rapporto tra il livello di rumore e quello della sensibilità.
Sensori di temperatura
Un esempio di sensore singolo, scelto come uno dei tanti possibili, è rappresentato dalla classe di dispositivi in grado di fornire una misura della temperatura. Ne esistono di diversi tipi: oltre al comune termometro a mercurio, si hanno il termistore (metallico o a semiconduttore), la termocoppia, la termopila, il piroelettrico, il diodo, il transistor. Ciascuno ha caratteristiche termoelettriche, prestazioni e dimensioni tali da renderlo adatto per diverse applicazioni. Il termistore metallico presenta una resistenza elettrica proporzionale alla temperatura per ampi intervalli della medesima; il termistore a semiconduttore ha una resistenza legata esponenzialmente alla temperatura; nella termocoppia, due materiali diversi messi a contatto in un punto (giunzione di misura) sviluppano una tensione proporzionale alla temperatura, in accordo all’effetto Seebeck; la termopila è un’unione di termocoppie e viene impiegata laddove si desidera accrescere la sensibilità di misura della temperatura; nel diodo la misurazione della temperatura si ottiene tramite la misurazione della corrente indotta da una tensione costante; il transistor opera praticamente come un diodo, ma consente una più semplice integrabilità; il piroelettrico non misura direttamente la temperatura ma la sua variazione temporale, consentendo sensibilità elevatissime soprattutto nella misurazione delle variazioni termiche repentine.
Il MOSFET
Il MOSFET è probabilmente il componente fondamentale della microelettronica contemporanea. La funzione di base del dispositivo consiste nel controllare la corrente elettrica che scorre in un semiconduttore attraverso l’applicazione di un campo elettrico ortogonale alla direzione della corrente.
Lo schema di base del MOSFET è il seguente. Il materiale semiconduttore (per es. silicio drogato di tipo p, ossia nel quale sono aggiunte delle impurità che ne aumentano la conduttività) è dotato di due contatti, detti source e drain, attraverso i quali viene applicata la tensione ed estratta la corrente che scorre nel dispositivo. La tensione di controllo è applicata a un elettrodo metallico, detto gate, opportunamente separato dal conduttore attraverso un isolante. Se il MOSFET è fabbricato in silicio, l’isolante è l’ossido di silicio.
Questa struttura offre un’interessante possibilità per la realizzazione di sensori chimici nei quali l’adsorbimento di molecole di analita comporta la nascita di strati di potenziale superficiale. Tali fenomeni si manifestano, per es., nel caso dei sensori di specie ioniche oppure in sensori di gas, dove le molecole da rivelare presentano un momento di dipolo diverso da zero. Per motivi di stabilità elettrica, il potenziale dell’elettrodo di gate deve essere vincolato a un valore fissato dal circuito di polarizzazione. Pertanto, è necessario che il potenziale aggiunto, generato dalle interazioni con le molecole da rivelare, sia localizzato tra la superficie dell’isolante e l’elettrodo. Questo vincolo pone un problema alla realizzazione di sensori chimici in quanto, in prima approssimazione, lo strato metallico è, nella maggior parte dei casi, non penetrabile da molecole. Tale situazione può essere superata nei due casi relativi alla misurazione della concentrazione di ioni in soluzioni elettrolitiche e di molecole di idrogeno in aria.
L’ISFET
Il primo ISFET fu realizzato, nel 1968, da Piet Bergveld, alla Twente Universiteit di Enschede nei Paesi Bassi, semplicemente sostituendo nel MOSFET l’elettrodo metallico con una cella elettrolitica costituita dalla soluzione da analizzare e un elettrodo di riferimento. Il potenziale di gate applicato al dispositivo risulta quindi pari alla somma tra il potenziale applicato all’elettrodo di riferimento e la barriera di potenziale che si stabilisce tra la superficie dell’isolante e la soluzione stessa, qualora la superficie dell’ossido possegga qualche affinità di adsorbimento di una specie ionica presente in soluzione. Nel caso di dispositivi in silicio, sfruttando le proprietà chimiche dell’ossido di silicio si ottiene che il potenziale sulla superficie dell’ossido è proporzionale al pH della soluzione attraverso la ben nota legge di Nernst; quindi il potenziale totale di gate risulta proporzionale al pH della soluzione analizzata. Nel corso degli anni, l’ISFET ha subito ulteriori modifiche, in particolare attraverso opportune funzionalizzazioni chimiche della superficie dell’ossido. Di grande importanza è l’applicazione di biomolecole come enzimi, misura di specie di importanza biologica, oppure l’applicazione di anticorpi nei quali l’ISFET viene utilizzato come trasduttore di reazioni immunologiche.
L’anno successivo all’introduzione dell’ISFET, Ingemar Lundström, alla Chalmers tekniska högskola di Göteborg in Svezia, sfruttando le caratteristiche fisico-chimiche del palladio nei confronti dell’idrogeno, realizzò un MOSFET in cui il potenziale di gate risultava funzione della concentrazione di idrogeno molecolare in aria. Il principio di funzionamento si basa sulle proprietà peculiari del palladio che consentono, da un lato, l’adsorbimento dissociativo della molecola H2 sulla superficie esterna e, dall’altro, la diffusione dell’idrogeno atomico all’interno del film metallico. Utilizzando, quindi, un film di palladio come elettrodo di un normale MOSFET al silicio, si garantisce la corretta polarizzazione del dispositivo e, in presenza di molecole di idrogeno in aria, si ottiene una concentrazione di atomi di idrogeno che, diffondendo attraverso il palladio, raggiungono la superficie dell’ossido di silicio. Sulla superficie dell’ossido di silicio gli atomi di idrogeno possono formare dei legami OH che, in virtù della differente elettronegatività dell’idrogeno e dell’ossigeno, costituiscono uno strato di dipoli elettrici. La presenza dello strato di dipoli all’interfaccia ossido-palladio forma quindi una caduta di potenziale che si somma al potenziale di gate imposto dal circuito esterno provocando una variazione del punto di lavoro del dispositivo.
Il limite (ma anche il pregio) di tale configurazione è quello di essere sensibile in maniera esclusiva all’idrogeno molecolare e a tutte le molecole che, sulla superficie del palladio e in presenza di una temperatura opportuna, possono dissociarsi dando luogo a idrogeno atomico. Questo comportamento rende il sensore particolarmente selettivo per l’idrogeno molecolare in aria. Una notevole estensione della sensibilità ad altre specie chimiche è possibile utilizzando un elettrodo metallico discontinuo, nel quale cioè sia presente una serie di aperture che consentono di esporre una porzione della superficie dell’ossido direttamente all’ambiente esterno. La dimensione delle aperture deve essere comunque tale da garantire una sufficiente esposizione: in questo modo, l’adsorbimento di molecole dipolari sulla superficie di ossido esposta comporta una variazione della tensione di gate complessiva del dispositivo. Questa configurazione può essere utilizzata con altri metalli catalitici (come platino o iridio) al fine di estendere la misurazione ad altri gas, quali ammoniaca o etilene, e può anche essere utilizzata per sfruttare la sensibilità di materiali sensibili non conduttori come, per es., polimeri o film molecolari.
Sensori basati sull’uso di biossido di stagno
Gli ossidi dei metalli di transizione come, per es., il biossido di stagno (SnO2), hanno la caratteristica di comportarsi come semiconduttori. In generale, la loro conducibilità elettrica cambia in conseguenza dei fenomeni di adsorbimento e catalisi che avvengono all’interfaccia con la fase gassosa. Questi fenomeni si attivano solitamente a temperature comprese tra 100 e 600 °C.
Il principio di funzionamento di tali sensori è basato sul fatto che le molecole fisisorbite, in condizione energetiche opportune, possono essere chemisorbite. L’effetto del chemisorbimento consente un trasferimento di carica (ionosorbimento) tra il semiconduttore e la molecola legata in superficie. Per l’SnO2, in particolare, l’ossigeno è presente sulla superficie come O−, e la sua interazione con altre specie gassose comporta il rilascio di elettroni verso il semiconduttore che tenderanno ad aumentarne la conducibilità. I sensori di gas a SnO2 possiedono un’elevata sensibilità a basse concentrazioni di gas riducenti o ossidanti, causata da quella dinamica della barriera di potenziale di superficie. In generale, il potenziale di superficie è più elevato in aria. È sufficiente una piccola quantità di gas ossidante o riducente per produrre una forte variazione di potenziale, cui segue una notevole variazione della resistenza del sensore. La variazione di sensibilità dei sensori a SnO2 dipende da quella di temperatura dell’elemento sensibile.
Oltre all’SnO2, utilizzato come sensore conduttivo, sono molto utilizzati anche i materiali ZnO, In2O3, WO3, Fe2O3 e Ga2O3. Tali tipi di sensore possono essere prodotti semplicemente depositando uno strato di ossido metallico su un substrato dotato di due elettrodi preimpiantati. Due possibili esempi realizzativi del sensore sono a struttura tubolare e planare. Nella struttura tubolare il sensore comprende un supporto di allumina contenente un riscaldatore al platino. In questa tipologia di dispositivi l’SnO2 si trova sulla superficie esterna del tubo. Per la struttura planare può essere utilizzato un substrato di allumina o silice. Un vantaggio della struttura planare è che il film di SnO2 può essere depositato con diverse tecniche, per es., lo sputtering o la CVD (Chemical Vapor Deposition). Le strutture planari risultano più adatte per la progettazione di microsensori o dispositivi basati su arrays di sensori. Questo tipo di sensori è utilizzato soprattutto per la rilevazione di gas combustibili (per es. CH4) e di inquinanti ambientali (per es. CO, NO2).
Sensori ottici ed elettroottici ad assorbimento
Nei sensori elettroottici ad assorbimento la radiazione elettromagnetica subisce un’attenuazione che è funzione di un aumento della concentrazione del gas. Questa proprietà permette, per es., di analizzare differenti gas, ciascuno dotato di un caratteristico spettro di assorbimento dipendente dalla lunghezza d’onda. Per un gas a concentrazione C, il fenomeno dell’assorbimento ottico della radiazione elettromagnetica viene descritto dalla legge di Lambert-Beer
I1=I0e−α(λ)lC
dove I0 è l’intensità del segnale ottico in ingresso, I1 è l’intensità del segnale ottico in uscita, l è la lunghezza del percorso ottico nel volume in cui è presente il gas e α(λ) è il coefficiente di assorbimento del gas da rivelare alla lunghezza d’onda λ.
In base a tale equazione, dalla misura del rapporto tra l’intensità del segnale ottico in ingresso e in uscita, noti il coefficiente di assorbimento α(λ) e la lunghezza l del cammino ottico, è quindi possibile risalire alla concentrazione C del gas.
Il coefficiente di assorbimento α(λ) è il rapporto fra l’assorbanza α(λ,T) e il prodotto della concentrazione per il cammino ottico. L’assorbanza è definita come la frazione di potenza assorbita, ossia la frazione di energia incidente su un corpo a temperatura T che è assorbita dal corpo stesso. Per un corpo nero, si assume per definizione che α(λ,T)=1 per ogni λ e T.
Indipendentemente dalla banda di assorbimento del gas da misurare, tutti i sistemi sensoriali ottici a variazione di assorbanza sono costituiti da una camera di misura in cui viene immessa la massa gassosa, da una sorgente di energia radiante nella banda spettrale d’interesse, da uno o più filtri al fine di operare esattamente nella banda di assorbimento del gas e da uno o più rivelatori di radiazione (in genere almeno due, di cui uno usato come rivelatore di riferimento). Dispositivi di condizionamento elettronici consentono, inoltre, di pilotare la sorgente di radiazione e di filtrare e amplificare il segnale in uscita dal ricevitore. Sistemi di questo tipo possono essere integrati con sensori di temperatura e pressione per monitorare il valore delle variabili di stato del gas da analizzare.
Sensori a fibra ottica
Il principio di funzionamento di un sensore a fibra ottica si basa sulla variazione dei parametri di propagazione al suo interno a seguito della modificazione di una sua proprietà. Una fibra ottica è una guida coassiale realizzata con due materiali diversi, ed è in grado di consentire la propagazione della luce al suo interno. Uno dei due materiali è il cuore del dispositivo o la parte centrale (core), mentre l’altro è la parte esterna (cladding), detta anche mantello. I due materiali hanno indici di diffrazione differenti; la parte interna ha indice di rifrazione maggiore rispetto a quella esterna. Se il rapporto tra gli indici è tale da raggiungere l’angolo limite per la riflessione totale dell’onda si ottiene la proprietà caratteristica della fibra ottica, ossia quella di farsi attraversare, lungo la sua lunghezza, dalla luce. Coppie di materiali diversi possono consentire la propagazione di luce di differenti lunghezze d’onda. La proprietà caratteristica sulla quale solitamente agisce il sensore è appunto il rapporto tra gli indici di rifrazione dei due materiali. La modifica di tale rapporto può essere ottenuta, per es., tramite modificazioni meccaniche della fibra stessa (curvatura, distorsione) o tramite modificazioni chimiche del materiale del mantello esterno. La rilevazione avviene tramite la misurazione del ritardo (misurabile) di propagazione dell’onda luminosa a seguito delle modificazioni avvenute.
Nanosensori di gas
Le notevoli potenzialità fornite dallo sviluppo delle nanotecnologie hanno permesso, negli ultimi anni, di realizzare sensori di dimensioni nanometriche (cioè dell’ordine di 10−9 m), che basano il loro funzionamento sulle proprietà nanoscopiche dei materiali di cui sono costituiti. Recentemente, sono stati costruiti nanosensori di forme diverse: tubolari ed elicoidali, come i nanotubi di carbonio di metallo-porfirine. Nella figura 1 è rappresentato un esempio di sensore chimico realizzato da due contatti di metallo (a) messi a una distanza di circa 50 nm che consentono di misurare la variazione di resistenza, indotta dal gas (b) sul nanotubo (c), applicando una tensione tra gli elettrodi (d) e misurando la corrispondente corrente (e). La misura della corrente fornisce così informazioni sul valore della concentrazione del gas che ha causato la variazione della resistenza.
Naso elettronico
Il naso elettronico è uno strumento in grado di analizzare gli odori. La sua struttura prende spunto dal sistema olfattivo biologico, del quale non può senza alcun dubbio rispecchiare la complessità, ma rispetto al quale cerca di eliminare quella componente soggettiva che rende unica e non confrontabile la percezione olfattiva di ognuno di noi.
Il naso elettronico è fondamentalmente una matrice di sensori chimici non selettivi, ognuno con diversa specificità rispetto a un gruppo di odoranti. Sostanzialmente, ogni molecola odorosa è ‘sentita’ da più di un sensore, e ogni sensore è sensibile a più di una molecola. L’insieme delle risposte di tutti i sensori fornisce informazioni riguardo al campione analizzato.
Struttura del sistema olfattivo artificiale
La struttura di un naso elettronico si può analizzare dividendola in cinque sezioni (fig. 2): il sistema di campionamento chimico, la camera di misura, l’unità di controllo, il sistema di elaborazione del segnale e infine il sistema di identificazione e riconoscimento
Il sistema di campionamento chimico è un insieme di apparati in grado di convogliare il campione di gas proveniente da un ambiente esterno alla camera dei sensori del naso elettronico. Questi apparati possono essere integrati nel sistema olfattivo artificiale, nel quale è previsto anche l’uso di un opportuno sistema idraulico costituito da una micropompa e da una microvalvola; o possono essere esterni alla struttura, come i sistemi basati su MFC (Mass Flow Controller), in grado di inviare concentrazioni note di un determinato gas nella camera dei sensori. La geometria della camera di misura e la disposizione dei sensori sono progettati in modo da rendere uniforme il flusso del campione sulla superficie dei sensori stessi.
Le risposte dei sensori sono elaborate tramite un opportuno software come variazioni tra una frequenza di riferimento (ottenuta in genere dopo un processo di desorbimento con uno specifico carrier) e la frequenza ottenuta dopo un processo di adsorbimento del composto volatile da analizzare. Le riposte degli otto sensori forniscono, quindi, un pattern per la sostanza in esame.
L’insieme dei pattern ottenuti dopo misure di diverse sostanze o di una stessa sostanza a diverse concentrazioni viene analizzato con tecniche di pattern recognition. Se l’odore deriva da una miscela complessa di molecole, la composizione di un sistema multisensore costituito da elementi fortemente selettivi non può aiutare nella determinazione di un particolare odore. Una forte selettività permette di riconoscere una sola specie chimica, mentre una selettività parziale consente il riconoscimento di tutte le specie chimiche appartenenti a una stessa classe.
Un tipico naso artificiale, come il Libra nose progettato e realizzato presso il dipartimento di Ingegneria elettronica dell’Università di Roma Tor Vergata, è costituito essenzialmente da una matrice di otto sensori al quarzo sui quali sono stati depositati altrettanti materiali chimicamente sensibili. La risposta dei sensori fornisce un’immagine (pattern) per la miscela gassosa in esame. La memorizzazione e l’analisi di questa immagine rendono possibile la classificazione di diversi odori e l’individuazione di particolari caratteristiche correlate a determinare proprietà del campione in esame, che possono rivelarsi fondamentali nell’ambito dei diversi campi di applicazione dello strumento.
La gestione del sistema idraulico e degli otto oscillatori è regolata da un’unità di controllo basata su una logica programmabile su cui sono implementate tutte le funzioni di gestione (tempo di campionamento dei sensori, velocità della micropompa, controllo di apertura e chiusura della valvola e così via).
Applicazioni
Attualmente i nasi elettronici trovano spazio per determinare la freschezza dei cibi o la stagionatura dei formaggi e le caratteristiche dei vini, oppure vengono applicati nelle industrie cosmetiche e farmaceutiche. Il maggior utilizzo rimane quello in campo ambientale per la rilevazione dei gas nocivi e in campo automobilistico per la qualità dell’aria negli abitacoli, ma il loro costo e le loro dimensioni richiedono ancora utilizzi specifici e la loro produzione non può essere attualmente sviluppata su larga scala.
In campo medico sono numerosi gli esempi di sperimentazioni nelle quali il naso elettronico si è rivelato un dispositivo molto utile se affiancato a strumenti di diagnosi già affermati: analisi dell’espirato per lo studio e la diagnosi del tumore al polmone; analisi dell’odore della pelle; studio dell’alitosi; analisi delle urine per lo studio e la diagnosi del tumore alla prostata.
Le grandi potenzialità del naso elettronico in medicina, rispetto agli strumenti classici di diagnosi, risiedono nella possibilità di condurre esami non invasivi per il paziente e di poter studiare alcune patologie, come il tumore, in cui la presenza della malattia non è legata a quella di un marker specifico.
In analogia con il sistema olfattivo biologico (fig. 3), il naso elettronico è provvisto di un sistema idraulico che compie la stessa funzione effettuata tramite la respirazione, la quale permette di convogliare gli odori fino alle strutture sensoriali all’interno delle cavità nasali; in questo modo il sistema idraulico del naso elettronico convoglia gli odori da analizzare fino alla camera di misura.
Nella camera di misura sono presenti i sensori chimici equivalenti, nel funzionamento, ai neuroni sensoriali olfattivi. Il numero di questi sensori è ovviamente irrisorio rispetto a quelli presenti in natura, ma essi cercano comunque di riprenderne le caratteristiche fondamentali. I sensori sono tutti dello stesso tipo, ma possono essere funzionalizzati con materiali chimicamente interattivi diversi tra loro, in modo che ognuno di essi sia più sensibile rispetto a una diversa classe di molecole odorose.
Un sistema olfattivo artificiale, per essere definito tale, deve essere dotato di un sistema di elaborazione dati che permetta di estrarre le informazioni, in maniera equivalente a quanto avviene nelle strutture cerebrali nel processo di riconoscimento degli odori. Nel sistema biologico questo meccanismo è, tuttavia, assai complesso e non ancora totalmente compreso, in quanto le strutture cerebrali che compongono il sistema olfattivo sono, filogeneticamente, le più antiche, e inglobano meccanismi riguardanti anche gli istinti e la sopravvivenza. In un sistema artificiale di riconoscimento degli odori vengono inevitabilmente seguite strade diverse da quelle biologiche, per le quali è necessario l’impiego di analisi statistiche.
Le tre componenti fondamentali necessariamente presenti in ogni sistema olfattivo artificiale sono il materiale sensibile, che deve catturare gli odoranti; il trasduttore, che trasforma l’informazione chimica in informazione fisica; infine il dispositivo di base, che trasforma le quantità fisiche in segnali elettrici.
I vari tipi di trasduttori disponibili si differenziano per la quantità fisica analizzata. Per es., si possono avere sensori a variazioni di conducibilità (chemoresistenze), a variazioni di corrente ionica (sensori amperometrici), a variazioni di temperatura (termopile), a variazioni di massa (microbilance al quarzo), a variazioni di fluorescenza (fibre ottiche). Prescindendo dal tipo di sensore chimico utilizzato, è la scelta del materiale sensibile chimicamente interattivo che costituisce l’interfaccia con l’ambiente esterno a essere di fondamentale importanza. La scelta migliore, a parte quella del tipo di materiale impiegato (metallo-porfirine, polimeri ecc.), risulta quella di utilizzare, similarmente a quanto avviene nei sistemi biologici, sensori con sensibilità differenti rispetto ai diversi odoranti; così, per es., possono essere utilizzate metallo-porfirine funzionalizzate con diversi tipi di metalli centrali. Il materiale sensibile avrà, in questo modo, la stessa struttura di base in ogni sensore, ma il metallo centrale, diverso in ognuno di essi, permetterà di ottenere sensibilità differenti relativamente ai diversi composti volatili.
Il valore aggiunto apportato da un’analisi effettuata con il naso elettronico è un maggiore grado di oggettività rispetto alla stessa analisi compiuta dall’uomo con parametri meno obiettivi. Nel settore alimentare, per es., l’utilità applicativa del naso elettronico risiede nella capacità di valutare lo stato di conservazione degli alimenti, di poter seguire e controllare processi industriali, come nel caso della produzione vinicola, oppure di distinguere, nei prodotti finiti, la presenza di anomalie come muffe, batteri o parassiti.
L’applicazione del naso elettronico in medicina prende spunto dalle diagnosi effettuate nella medicina antica, e in particolare in quella cinese, in cui gli odori emessi dal corpo del malato erano veri e propri indici di molte patologie. Il monitoraggio della qualità dell’aria con i nasi elettronici ha raggiunto il suo apice con il controllo effettuato all’interno della Stazione spaziale internazionale nel 2004.
Sensore di massa
I sensori del Libra nose sono microbilance al quarzo, il cui principio di funzionamento si basa sulla variazione della frequenza fondamentale di oscillazione f di un sottile cristallo di quarzo in seguito all’assorbimento di molecole in fase gassosa. L’adsorbimento e il desorbimento delle molecole si traducono in una variazione della massa oscillante m, che introduce una variazione della frequenza di oscillazione. Il fenomeno è descritto, in prima approssimazione, da una relazione nota come equazione di Sauerbrey
Δf=− -- Cff20 A Δm
nella quale A è l’area della superficie della piastrina di quarzo che sarà poi ricoperta di materiale sensibile, Cf la costante della sensibilità alla massa e f0 la frequenza fondamentale. L’interazione chimica è resa possibile grazie alla deposizione di un materiale chimicamente interattivo sulla superficie del quarzo stesso (fig. 4).
Questo materiale sensibile consiste in differenti tipi di metallo-porfirine, sostanze composte da idrocarburi aromatici, la cui caratteristica principale è l’estrema facilità di dare luogo a reazioni di sostituzione piuttosto che di addizione. La ragione dell’utilizzo delle metallo-porfirine, come materiale sensibile per i sensori del naso elettronico, deriva dal fatto che molti composti odoranti si legano in maniera eccellente agli ioni metalli. I composti metallo-organici sono buoni candidati per sensori di gas, e tra questi composti le metallo-porfirine rappresentano forse la famiglia più ricca di possibilità, offrendo una grande varietà nei cambiamenti della loro struttura. In particolare, le proprietà sensoristiche offerte (in termini di selettività e sensibilità) dipendono sia dalla natura del metallo centrale sia dai costituenti periferici della struttura della porfirina.
La struttura più generale di una porfirina è composta di quattro pirroli legati da gruppi metenilici che formano il macrociclo. Le diverse metallo-porfirine si possono ottenere dalla struttura generale della porfirina sostituendo, parzialmente o totalmente, i legami periferici con vari composti. Variando il metallo posto al centro della molecola, è possibile ottenere diverse risposte a diverse sostanze, con il risultato di una differente sensibilità e selettività. Tale flessibilità rende questa classe di composti estremamente adeguata ad applicazioni in cui sono necessari sensori con differenti e ampie selettività, come nel naso elettronico.
Lingua elettronica
Dopo la nascita, a partire dagli anni Ottanta del Novecento, dei primi nasi elettronici, lo stesso principio di funzionamento è stato applicato allo sviluppo di un sistema multisensoriale per l’analisi dei liquidi, denominato lingua elettronica.
Tale dispositivo, in analogia con il sistema biologico, funziona in mezzi acquosi e riesce a garantire prestazioni simili ai sistemi olfattivi artificiali. Inoltre, dal momento che molti composti volatili hanno origine da mezzi liquidi o solidi, la lingua elettronica può anche essere impiegata per effettuare la rilevazione di tutti i tipi di composti, incluse le sostanze volatili che danno origine agli odori.
La lingua elettronica aumenta l’area di applicazione dei sensori chimici, grazie alla possibilità di identificare e classificare liquidi complessi, cosa impossibile con le altre tradizionali tecniche analitiche. Inoltre, a differenza del naso elettronico, non solo fornisce informazioni qualitative per la classificazione di soluzioni complesse, ma può essere utilizzata anche per la determinazione quantitativa delle concentrazioni di più specie in soluzioni miste. Si tratta di uno strumento analitico che comprende una matrice di sensori chimici non selettivi con parziale specificità riguardo alle differenti componenti di una soluzione e un’opportuna tecnica di riconoscimento dei pattern o di regressione multivariata, che permette l’identificazione della composizione quantitativa e qualitativa di soluzioni semplici o complesse.
La lingua elettronica sviluppata all’Università di Roma Tor Vergata, in collaborazione con l’Università di San Pietroburgo, è costituita da un array di sensori potenziometrici e da un’elettronica di supporto che li collega a un calcolatore, tramite un sistema di otto canali per il collegamento degli otto elettrodi di lavoro, oltre a un nono canale usato per il collegamento dell’elettrodo di riferimento. Si impiegano principalmente due tipi di sensori: vetri calcogeni oppure membrane polimeriche.
Il dispositivo elettronico è in grado di leggere le differenze di potenziale tra ognuno degli elettrodi di lavoro che compongono la matrice e l’elettrodo di riferimento. I dati acquisiti possono essere agevolmente registrati dal calcolatore elettronico a cui è collegato l’intero sistema di misurazione, e sono visualizzati in forma grafica sul monitor. Come esempi di risultati ottenuti, viene citato il riconoscimento dei tipi di latte oggi in commercio, nonché delle numerose varietà esistenti di acque minerali.
La ricerca in questo affascinante settore della sensoristica continua a svilupparsi con l’auspicio di poter realizzare sistemi artificiali in grado di dialogare proficuamente e senza disadattamenti con quelli biologici. Dall’interazione pluridisciplinare, oggi più che mai attiva, deriveranno dispositivi di forte impatto sociale che potranno rendere più semplice l’interazione tra le persone e la natura interna ed esterna all’uomo.
Protesi
Negli ultimi anni si è sviluppato un attivo interesse per la progettazione di protesi integrabili, con l’obiettivo di alleviare, almeno in parte, i bisogni derivanti da sensori non attivi o parzialmente compromessi. Lo sviluppo tecnologico sta compiendo progressi notevoli per raggiungere soluzioni soddisfacenti, e non sembra lontano il giorno in cui potremo inserire proficuamente sensori artificiali integrabili con i tessuti umani, caratterizzati da soddisfacente funzionalità.
La neural prosthetics è una disciplina a cavallo tra neuroscienze e ingegneria, che si occupa dello sviluppo di protesi e apparati artificiali in grado di sostituire un sistema nervoso difettoso o danneggiato. Il maggior campo di applicazione di questi apparati è ovviamente inerente le protesi sensoriali. Degni di nota in questo tipo di protesi troviamo gli impianti cocleari, spesso definiti orecchio bionico. Si tratta di dispostivi elettronici, impiantati chirurgicamente, che permettono di ripristinare il senso dell’udito in persone con deficit gravi, a livello profondo. In particolare, la loro funzione è quella di stimolare direttamente il nervo uditivo all’interno della coclea tramite impulsi elettrici. Gli impianti cocleari sono costituiti da una parte esterna che comprende un microfono, un processore e un trasmettitore; quest’ultimo invia le informazioni alla porzione interna (impiantata chirurgicamente), costituita da un ricevitore e da uno stimolatore che manda gli impulsi agli elettrodi intracocleari, in modo da ripristinare l’invio delle informazioni nervose verso il cervello.
Diversamente dagli impianti cocleari, gli apparecchi acustici sono deputati esclusivamente all’amplificazione e modulazione dei suoni ricevuti da persone con deficit uditivi lievi, se comparati a quelli dei portatori di impianti cocleari. Questo tipo di apparecchio, ovviamente, comprende soltanto una porzione esterna e non prevede impianti chirurgici.
Il secondo tipo di protesi sensoriali attualmente disponibili, anche se sviluppate solo recentemente, sono le protesi visive o occhio bionico. Questo tipo di protesi è di solito costituito da due parti, sulla scia del funzionamento degli impianti cocleari; una porzione esterna, costituita da una telecamera, invia le informazioni a uno stimolatore, che può essere impiantato sulla retina o direttamente sul nervo ottico.
Da anni ormai si lavora a una protesi intelligente capace di restituire, almeno parzialmente, la vista ai non vedenti. Nel 2006 è stato presentato all’American association for the advancement of science, a San Francisco, un progetto della Second sight (Sylmar, California) per una protesi permanente della retina. Il primo prototipo, Argus I retinal prosthesis system, tra il febbraio 2002 e il giugno 2004 è stato impiantato con successo e senza complicanze su sei volontari, tutti affetti da retinite pigmentosa. Questa prima generazione di dispositivi era costituita da un array di 16 elettrodi impiantati sulla retina, e permetteva di discriminare luci e ombre o la posizione di alcuni oggetti. Il dispositivo di seconda generazione, Argus II retinal stimulation system, è invece costituito da uno stimolatore composto da 60 elettrodi, che fornisce al paziente immagini a più alta risoluzione. Tra il 2008 e il 2009 il dispositivo è stato impiantato a titolo sperimentale su diciotto pazienti.
Anche in Germania sono stati ottenuti risultati molto incoraggianti. L’apparato bionico è costituito essenzialmente da una retina elettronica che ha lo scopo di emulare i fotorecettori dell’occhio che trasmettono il segnale elettrico al cervello tramite il nervo ottico. Nella figura 5 viene illustrato lo schema di principio del sistema.
Queste protesi, attualmente, consentono solamente la visione in bianco e nero. La risoluzione può essere, nella versione base, di 16 pixel: si visualizzano 16 grandi quadrati con una diversa tonalità di grigio, anche se alcuni prototipi danno la possibilità di vederne una sessantina (altri dispositivi, ancora in fase di sviluppo, consentirebbero di arrivare fino a 400 pixel, mentre altri arriverebbero fino a 1000).
Qualsiasi sollecitazione del percorso visivo permette di stimolare la sensazione visiva. È chiaro, quindi, che i siti dove una protesi può essere impiantata sono diversi. In generale, l’impiantazione avviene a monte della zona danneggiata. I siti più idonei risultano: il nervo ottico, il corpo genicolato laterale e la corteccia visiva. Attualmente, sono in fase di studio protesi epiretinali (in cui la protesi è posta tra lo strato di cellule gangliari e l’umor vitreo) e protesi subretinali (nelle quali la protesi è posta nella parte posteriore della retina, in sostituzione dei fotorecettori). La caratteristica che rende interessante questo tipo di protesi è la retinotopia, cioè quella proprietà per cui l’immagine viene trasmessa tra i vari strati della retina senza subire eccessive distorsioni di forma.
L’impiantazione sul nervo ottico consiste in genere nell’utilizzo di elettrodi circolari posizionati attorno allo stesso nervo. Nei test è stata evidenziata la difficoltà di focalizzare lo stimolo solo su una porzione di tessuto, senza coinvolgere le fibre circostanti. Un altro problema per questo tipo di protesi deriva dal fatto che le fibre del nervo ottico non sono rigidamente organizzate in accordo con la loro posizione nel campo visivo (fibre adiacenti nel nervo ottico non provengono necessariamente da cellule adiacenti nella retina).
Stimolazioni elettriche della corteccia visiva primaria su esseri umani sono state condotte dagli anni Sessanta del Novecento: i pazienti sottoposti a questo esperimento affermavano di vedere punti luminosi; gli esperimenti successivi hanno permesso ai pazienti ciechi di riconoscere semplici figure usando impianti corticali. Questo tipo di approccio, sebbene sia quello che finora ha fornito i migliori risultati, presenta ancora notevoli difficoltà, tra cui la necessità di sottoporre il paziente a un delicato intervento di neurochirurgia; ulteriori problemi sono dati dal corretto posizionamento e fissaggio degli elettrodi e dallo sviluppo di un efficace sistema per il trattamento del segnale.
Bibliografia
Handbook of biosensors and electronic noses. Medicine, food, and the environment, ed. E. Kress-Rogers, Boca Raton (Flo.) 1997.
K. Toko, Electronic tongue, «Biosensors and bioelectronics», 1998, 13, 6, pp. 701-09.
A.P.F. Turner, N. Magan, Electronic noses and disease diagnostic, «Nature reviews. Microbiology», 2004, 2, 2, pp. 161-66.
J.T. Roland Jr, Cochlear implant electrode insertion, «Operative techniques in otolaryngology, head and neck surgery», 2005, 16, 2, pp. 86-92.
I. Wickelgren, Biomedical engineering. A vision for the blind, «Science», 2006, 312, 5777, pp. 1124-26.
A. D’Amico, C. Di Natale, Introduzione ai sensori, Roma 2008.