Strumenti scientifici
Nei secc. 16° e 17° la produzione italiana di strumenti era tra le più ricche e varie d’Europa. Fu un periodo caratterizzato da una ricerca affannosa di strumenti per ‘misurare’: misurare con la vista, naturalmente, perché fino all’invenzione del cannocchiale, del ‘telescopio’, come lo chiamarono i Lincei, si poteva osservare solo a occhio nudo. Misurare distanze terrestri e astronomiche, conoscere i propri confini e definire coordinate astronomiche, tutto era affidato alle capacità della vista, alla determinazione di quel ‘pressappoco’ che poi, nel giro di pochi anni, si trasformerà nella ricerca dell’universo della precisione.
Nel Seicento, come ricorda Paolo Rossi (1962, 20072), il termine novus ricorre nel titolo di centinaia di libri scientifici. Primo tra tutti, il Novum organon (1620) di Francis Bacon. Sono gli inventori i veri protagonisti: sono essi che aggiungono davvero qualcosa di nuovo a quanto prima già noto. Il cannocchiale è solo il più spettacolare, ma non l’unico strumento che contribuisce alla nascita di un uomo ‘nuovo’. L’Italia, con le sue prestigiose collezioni scientifiche, con le accademie e con la fitta rete di rapporti scientifici e collaborazioni intellettuali, si presenta come una fucina: strumenti originali vengono ideati e prodotti, anche se poi il loro sviluppo si svolgerà altrove.
Il panorama muta nel Settecento. In questo secolo, infatti, gli strumenti prodotti in Italia sono soprattutto la realizzazione di apparecchiature ideate oltralpe e destinate all’illustrazione dei fenomeni della fisica. Nonostante l’esistenza di centri di ricerca, l’Italia è ormai relegata a un ruolo marginale, anche se l’ancora ricco patrimonio storico-scientifico rivela la permanenza di interessi e curiosità conoscitive non banali.
Politicamente divisa, governata da principi diversi, soggetta alle influenze e alle dominazioni di altri popoli, nel Rinascimento la penisola italiana annoverava più centri di attrazione che richiamavano artefici e artisti. Nell’epoca delle Wunderkammern, dei cabinets de merveilles, le raccolte di naturalia et mirabilia italiane trovavano numerosi committenti che si servivano della collaborazione delle più varie maestranze.
Gli strumenti di osservazione e misura sono la testimonianza concreta sia dello sviluppo delle riflessioni scientifiche dell’epoca sia del gusto di committenti e collezionisti. I perfezionamenti tecnici, che andavano di pari passo con l’evolversi delle indagini fisiche e astronomiche, permettevano la produzione di una varietà enorme di dispositivi, a volte frutto delle ingegnose ideazioni di costruttori intraprendenti. Si tratta sempre e comunque di un tipo di strumentaria capace di offrire la maggiore precisione possibile osservando i fenomeni e calcolando a occhio nudo.
Vengono prodotti compassi da disegno, odometri (che calcolano la strada percorsa), orologi (solari, notturni, da torre e da tavolo), strumenti nautici (che permettono di calcolare la velocità della nave, la profondità dei fondali, la posizione degli astri), catastali (per fissare confini e delimitare proprietà), geometrici e astronomici (per effettuare misurazioni angolari, sia fisiche sia stellari), bellici, crittografici.
Gli artigiani possono ricorrere a numerosi manuali, elaborati talvolta da ‘tecnici’ che operano come indispensabili collaboratori degli studiosi e degli scienziati. Fabbrica e uso sono le due parole-guida che danno il titolo ed esprimono il senso di pubblicazioni che riguardano ogni tipo di apparecchiatura. Se gli strumenti di osservazione hanno consentito di realizzare scoperte fondamentali, il progressivo incremento dell’attendibilità dei calcoli ha permesso di raggiungere risultati sempre più esatti. Al conseguimento di questi risultati hanno collaborato maestranze di ogni genere, artigiani che hanno fondato botteghe fiorenti, frequentate da signori e da scienziati, da geometri e da tecnici, e capaci di restare attive nei secoli diversificando e aggiornando la loro produzione.
Grande attenzione è riservata alla gnomonica, la scienza che sovrintende all’orologeria solare, perché la misura del tempo è uno dei temi più coltivati tra Cinquecento e Seicento: il percorso apparente del Sole dall’alba al tramonto, la ‘giornata‘, è il principio su cui essi si basano, mentre gli orologi notturni assumono come punto di riferimento la stella polare. Gli orologi solari potevano essere fissi, collocati sulle pareti o all’interno di edifici civili o religiosi, o monumentali, come torri e pinnacoli, oppure portatili, tascabili, dotati di bussole per poter essere orientati correttamente. La varietà di questi ultimi è enorme: da quelli detti dittici, costituiti da una specie di scatoletta, a quelli a tazza o a scafea, da orologetti cilindrici o a colonna, a orologetti a forma di libro, costituiti da ‘pagine’ che si ‘sfogliano’ e che possono presentare, ciascuna, tipi di orologi diversi, fino a orologi cubici, poliedrici oppure ad anello.
Della loro progettazione, condotta secondo alcuni semplici principi e regole matematiche, e del loro disegno si occupano i testi di gnomonica, relativi alle tecniche costruttive (sia teoriche sia pratiche), oppure a ‘la fabbrica e l’uso’ dei diversi tipi di orologi solari, in rapporto sia al gusto dell’epoca sia alle diverse richieste del mercato.
Nel corso dei secoli, gli orologi solari e notturni si sono evoluti fianco a fianco con quelli meccanici. Il progressivo perfezionamento di questi ultimi, però, il loro poter funzionare indipendentemente dalle condizioni naturali, il loro divenire parte dell’arredo quotidiano personale e urbano fecero sì che, nella realtà, essi si sostituissero progressivamente ai primi, i quali continuarono a essere prodotti come semplici oggetti da arredo e da collezione.
Non meno importante della misura del tempo è quella dello spazio, la definizione di confini e di territori, il disegno di carte e mappe, la rilevazione dei corsi dei fiumi, la determinazione delle distanze tra luoghi e la precisazione della loro configurazione. Anche in questo caso, non mancano i testi dedicati agli strumenti matematici, destinati a compiere rilievi topografici o progettati per usi prevalentemente militari. Si tratta di testi che si ricollegano alla riflessione matematica sviluppata in quegli anni dagli scienziati di tutta l’Europa. Accanto a queste opere, estesa è la presenza di strumenti che misurano distanze, che rilevano altezze e proporzioni, che definiscono inclinazioni e portate: quadranti e teodoliti, compassi di ogni genere, di precisione e di divisione, da calibro e distanziometri, e poi ancora bussole, podometri e astrolabi, radii latini e grafometri, archipenzoli, mire, compendi, strumenti tutti per ‘misurare con la vista’, dai molteplici disegni, di dimensioni diverse e costruiti nei più vari materiali.
Né sono da trascurare gli strumenti medici e chirurgici, dei quali erano forniti ospedali e luoghi di cura e di assistenza: prodotti da armaioli e coltellinai, sono oggi quasi del tutto scomparsi perché dismessi quando apparivano superati dai tempi, mentre sopravvivono quelli abbelliti e impreziositi dagli orafi per essere ammirati nelle raccolte principesche.
Nel 1561, il duca di Firenze Cosimo de’ Medici, futuro granduca di Toscana con il nome di Cosimo I, promosse il censimento delle attività produttive della città di Firenze: ne risultarono ben 2182, distribuite nei quattro quartieri cittadini. Anche se nel censimento non sono indicate botteghe specificamente dedicate alla realizzazione di strumenti scientifici, risulta dai documenti che ogni artigiano era in grado di produrre strumenti di misura o di collaborare alla loro realizzazione. Le botteghe lavorano in proprio e anche per la corte: si moltiplicano le ordinazioni volte a ricevere nuovi oggetti e a rimaneggiarne altri, a ricevere materiali e mano d’opera qualificata.
Le botteghe granducali di Palazzo Pitti, così come quelle della Galleria degli Uffizi, di Palazzo Vecchio e così via, sono ‘dirette’ da ‘maestri’ chiamati a realizzare prodotti particolarmente rari e pregiati. Ma è l’intera ‘città delle botteghe’ che partecipa a queste lavorazioni. Per es., alcuni oggetti tipicamente tedeschi sono opera di artefici tedeschi che risiedono stabilmente presso la corte medicea e ne sono stipendiati, ma che si servono di artigiani fiorentini per ottenere i materiali necessari e per far eseguire le decorazioni, le raffinate incisioni e le eleganti custodie che conterranno gli strumenti.
Si conoscono anche i nomi di alcuni artigiani: Lorenzo, «oriolaio»; Giovanni Maria Brunetti, che fa compassi o «seste»; Lorenzo di Domenico, «torniaio», Piero Casini, fabbro; e così via. Il loro lavoro circola e viene usato non solo da clienti ‘locali’, ma anche da artisti italiani e stranieri. Anche alcuni monaci prestano la loro opera, come don Epifanio, monaco vallombrosano, che incide alcune casse di orologi per Cristoforo Crofler, orologiaio tedesco al servizio della corte medicea, per il quale lavora anche l’archibusaio Lodovico di Carlo che fabbrica uno «stromento da charchare molle per orioli».
In questi intensi anni del Cinquecento, un grande astronomo, Egnazio Danti (1536-1586), primo cosmografo nominato dal granduca Cosimo, diresse la costruzione degli strumenti astronomici sulla facciata della chiesa di Santa Maria Novella e scrisse numerose opere sulla fabbrica e sull’uso dell’astrolabio. A Danti sono ricondotti alcuni straordinari strumenti, come un grande «astrolabio su tavolino da gioco», usato per calcoli astronomici da vari scienziati (tra i quali anche Galileo Galilei), strumenti matematici come il cosiddetto Quadrante del primo mobile, giochi ottici realizzati nel 1593 dal pittore di corte Ludovico Buti (1560 ca.-dopo il 1611), numerose carte che decorano gli armadi dell’omonima sala in Palazzo Vecchio e l’immenso globo terrestre attualmente collocato nella stessa sala. Caduto in disgrazia presso il successivo granduca, Francesco I, Danti lasciò Firenze: si recò dapprima a Bologna, dove realizzò la meridiana nella basilica di San Petronio, poi a Roma, chiamatovi da papa Gregorio XIII, dove disegnò le carte della Galleria vaticana.
Tra Cosimo I e Francesco I si colloca l’ingegnere e topografo Antonio Lupicini (1530 ca.-1598 ca.) che, valendosi della collaborazione di artisti e artigiani, costruì le quattro Teoriche dei pianeti, sfere armillari terminate nel 1574 e collocate sui plutei della Geografia della Biblioteca Laurenziana. Autore anche di opere dedicate agli strumenti matematici e topografici, destinò al granduca i congegni da lui ideati e costruiti, «ferramenti e altri strumenti segreti da fortificatione», accompagnati dai disegni che ne mostravano l’uso e dai testi che li descrivevano. Per Cosimo I aveva lavorato anche l’architetto militare urbinate Baldassarre Lanci (1510-1571), autore di strumenti scientifici di rara bellezza, arricchiti da incisioni raffinate, veri e propri oggetti da collezione, come il celebre distanziometro, o una bussola topografica di grande complessità ed eleganza.
Accanto alle botteghe stabili, esistevano botteghe che potremmo definire temporanee, come quella organizzata a Palazzo Pitti per la realizzazione della grande sfera armillare, modello dell’universo secondo la concezione aristotelico-tolemaica, commissionata dal granduca Ferdinando I al suo ‘maestro di sfera’ Antonio Santucci (fine del 16° sec.-1613 ca.). Per cinque anni, tra il 1588 e il 1593, questa bottega richiamò numerose maestranze cittadine, che contribuirono alla riuscita dell’impresa. Per la ‘macchina universale del mondo’, alta più di 3 metri, tutta di legno, si prodigarono intagliatori e doratori, pittori e fabbri, meccanici e stagnai. Conclusa quest’opera, Santucci fu incaricato di restaurare e «ammodernare» il globo terrestre di Danti, rovinato dall’uso e non più aggiornato rispetto alle sempre nuove scoperte realizzate con i viaggi di esplorazione.
A Firenze, rimase attiva fino al primo quarto del Seicento la ben nota bottega creata da Lorenzo Della Volpaia (1446-1512), matematico e capostipite di una famiglia tanto operosa quanto ricca di inventiva; fu celebre tra artisti e letterati e venne ricordato, tra gli altri, da Leonardo da Vinci e da Benvenuto Cellini. A lui si deve la realizzazione di un autentico monumento della tecnica, l’Orologio dei pianeti, voluto da Lorenzo de’ Medici, che rimase per due secoli in Palazzo Vecchio, ma fu totalmente smantellato nella prima metà del Seicento.
L’attività di Lorenzo Della Volpaia fu continuata dai figli e dai nipoti, che la diversificarono e aggiornarono nel corso degli anni, pur vivendo alcuni lontano da Firenze: Benvenuto (1486-1532), che fu anche topografo e cartografo, e nel 1530, dopo la caduta di Firenze nelle mani dell’imperatore Carlo V, si stabilì a Roma, dove il papa Clemente VII lo nominò soprintendente al Belvedere, ospitò a lungo Michelangelo Buonarroti, suo amico da tempo, e realizzò strumenti di vario genere, lasciando, alla sua morte, un prezioso quadernetto di appunti; Eufrosino (1494/1500-seconda metà del 16° sec.) ideò strumenti di grande precisione, visse tra Venezia e Roma e poi passò in Francia, dove morì; Camillo (1484-1560) fu soprattutto orologiaio, e divenne celebre per l’accuratezza dei suoi prodotti, richiesti anche dai granduchi per la collezione medicea che in quegli anni andava crescendo; Girolamo (1530 ca.-1614), figlio di Camillo, restaurò il vecchio orologio del nonno, fu matematico, disegnatore e artefice di strumenti innovativi, diffusi ben oltre i confini di Firenze, e fu anche l’ultimo a esercitare l’attività di famiglia. Morì senza lasciare eredi, e la bottega dei Della Volpaia chiuse definitivamente.
Se Firenze è un caso esemplare, determinato dalla presenza della casata medicea, dal suo potere e dalla ricchezza dei suoi membri, altre città si segnalano in Italia per l’attiva produzione di strumenti scientifici.
A Urbino, città ricca e potente, frequentata da scienziati come Federico Commandino (1509-1575) e Guidobaldo Dal Monte (1545-1607), da architetti come Muzio Oddi (1569-1639), lui stesso artefice, e da ingegneri, era attiva, dalla prima metà del Cinquecento, l’Officina degli strumenti scientifici. Questa, celebre soprattutto per la produzione di orologi, è legata al nome di Simone Barocci (1525-1608) e all’attività della sua famiglia, alcuni dei cui membri furono artefici e, in pieno Cinquecento, costruirono anche strumenti di alta precisione e raffinatezza. L’Officina continuò a esistere per oltre due secoli, e nel Settecento divenne Accademia degli strumenti.
Mirandola, potente ducato, è un altro centro significativo per la produzione di strumenti scientifici. Nel Seicento vi furono attivi sia una famiglia di meccanici, i Costa, che hanno lasciato notevoli testimonianze della loro bottega (certamente ancora esistente nel 18° sec.), sia Giovanni Maccari, che lavorò per vari committenti in Italia.
Anche Roma nel Cinquecento ebbe i suoi artefici, come il raffinato francese Jean Giamin (attivo intorno alla metà del secolo) e l’elegante Carlo Plato (attivo nella seconda metà del secolo), dei quali ancora oggi non si hanno notizie precise, ma i cui nomi sono impressi su strumenti conservati in musei e in collezioni private, o come il tedesco Adam Heroldt (1580 ca.-1650 ca.), abile costruttore presso il Collegio romano.
Nell’area bergamasca emerge il nome di Falco (o Falcono o Falconi; attivo nella prima metà del Cinquecento), del quale sono sopravvissuti pochi strumenti di grande bellezza.
Senza contare, come abbiamo già detto, i tanti che non firmarono né segnarono in alcun modo le loro produzioni, ma le cui opere rimangono ancora a testimonianza di un’estesa pratica del costruire.
La capacità produttiva e l’abilità professionale dei vari artigiani permettevano un’ampia circolazione dei loro prodotti: si ricercavano e si procuravano strumenti e dispositivi realizzati in varie parti d’Italia e se ne commercializzavano i prodotti per ogni dove, sia in Italia sia, seppure in misura più ridotta, all’estero.
La definizione di meccanico che Galilei diede di se stesso aiuta a comprendere il ruolo delle tecniche in un secolo di grandi trasformazioni. A causa della nascita in Italia di strumenti fondamentali (come il cannocchiale, il microscopio, il barometro e il termometro), anche la ricerca che si sviluppò altrove prese come punto di partenza esemplari prodotti in ambito italiano.
Il cannocchiale, com’è stato più volte scritto, è certamente il più spettacolare contributo del mondo artigianale a quello scientifico: esso, infatti, ‘estese’ la capacità della vista, ampliò i confini dell’universo, moltiplicò i corpi celesti e permise rilevazioni precise. Gli strumenti di misura ne trassero una forte e ineludibile spinta alla trasformazione. Molti dispositivi legati alla misurazione a occhio nudo scomparvero, restando semplici oggetti da collezione, altri si adattarono al nuovo congegno con l’applicazione di lenti, di piccoli telescopi e di microscopi. Galilei fece del cannocchiale uno strumento che aprì la strada a ricerche e scoperte di portata fino allora inimmaginabile.
L’occhiale e l’occhialino galileiani sono un esempio straordinario del diffuso bisogno di nuovi strumenti che rendessero possibile una nuova immagine dell’Universo. La trasformazione del cannocchiale in un rivoluzionario strumento di investigazione e di scoperta astronomica contribuì a far apparire non più attendibile la tradizionale rappresentazione del cielo e dei corpi celesti. Il ‘mondo chiuso’ si aprì e l’uomo cessò di esserne al centro: come aveva avvertito Giordano Bruno, l’infinitamente grande rendeva l’uomo infinitamente piccolo.
Agli inizi del Seicento l’astronomia è una scienza che si serve ancora di complicati meccanismi per calcolare la posizione delle stelle e stendere mappe celesti. Ma le apparizioni di comete, la scoperta di nuove stelle, la teoria copernicana e le misurazioni di Tycho Brahe (1546-1601) contribuirono a rivoluzionare la scienza astronomica. Il dispositivo per vedere oggetti lontani come fossero vicini, per il quale l’occhialaio olandese Hans Lipperhey di Middelburg aveva chiesto un brevetto nel 1608, circolò subito, e Galilei, a Padova, lo ricostruì servendosi di normali lenti da occhiali. Nel 1609 osservò Giove e ne scoprì i satelliti e nel 1610 pubblicò a Venezia il Sidereus nuncius, dedicando la scoperta ai Medici. Il suo ritorno a Firenze e le successive ricerche fecero sì che lo strumento divenisse un formidabile dispositivo di osservazione e di scoperta, il che segnò l’inizio della fortuna degli strumenti ottici.
Normali oggetti d’uso divennero così protagonisti di celebri raccolte, a partire dagli apparecchi galileiani, strumenti di ricerca o risultato di ricerche, che entrarono a far parte della preziosa collezione medicea.
Non resta traccia, almeno fino a oggi, dell’occhialino galileiano. Inviato in dono al principe Federico Cesi, riceverà dai Lincei il nome di microscopio, assegnatogli dal tedesco Johannes Faber nel 1625. Oggetto anch’esso di dibattito continuo tra gli scienziati, perfezionato tecnicamente, lo strumento diventò protagonista assoluto del rinnovamento delle ricerche medico-biologiche, dell’anatomia e, in generale, dello studio del mondo vivente, animale e vegetale.
Per lo sviluppo della strumentaria furono importanti anche le accademie, numerose in Italia, tra le quali vanno ricordate almeno quella romana dei Lincei e quella fiorentina del Cimento.
La prima, fondata nel 1603 dal citato Cesi, allora giovanissimo, visse tra varie difficoltà fino alla morte di questi (1630) e fu poi travolta dalla condanna di Galilei, membro dell’Accademia (1633).
La seconda, sorta nel 1657 sotto la protezione del principe Leopoldo de’ Medici e del granduca Ferdinando II, era una diretta espressione dell’atteggiamento sperimentalista che, dopo Galilei, fioriva presso la corte medicea. Sulla scia del motto «provando e riprovando», in essa furono realizzate numerose esperienze sugli «agghiacciamenti», sul calore e sugli effetti della pressione, e vennero anche effettuate osservazioni astronomiche e meteorologiche nonché indagini naturalistiche.
L’attività dell’Accademia del Cimento cessò nel 1667, e molte delle esperienze compiute furono pubblicate in quello stesso anno nei Saggi di naturali esperienze di Lorenzo Magalotti (1637-1712), segretario dell’Accademia. Per compiere tali esperienze, furono realizzati strumenti originali, molti in vetro, opera dei soffiatori (i gonfia), e completati dagli scacciadiavoli, che sigillavano tubi e cannelli alla fiamma, secondo le indicazioni di scienziati associati all’Accademia come Magalotti, Giovanni Alfonso Borelli, Francesco Redi, Vincenzo Viviani (1622-1703).
Era stata appunto la continua espansione della lavorazione dei vetri per l’ottica, assai richiesti, a permettere a Firenze lo sviluppo di botteghe e la formazione di mano d’opera specializzata; anche la fornace granducale per la fabbricazione di cristalli, o fornace ‘da bicchieri’, partecipò a questa produzione. Costruita nel Giardino di Boboli nel 1617 e diretta sin dal 1620 dal vetraio Niccolò Landi, la fornace produceva infatti anche ‘cristallo e cristallino’, due qualità di vetro chiaro e fine, entrambe adattissime per lenti. Contemporaneamente, sempre a Firenze, anche Ippolito Francini, detto Il Tordo, dirigeva una delle botteghe granducali che fabbricavano lenti, le quali, grazie al successo del cannocchiale, erano entrate definitivamente nel novero degli strumenti scientifici.
Dalla fornace di Boboli uscirono gli straordinari e nuovissimi vetri usati nelle esperienze dell’Accademia del Cimento, dettagliatamente descritti nel manoscritto galileiano Fabrica et uso degli strumenti di vetro inventati dal serenissimo Gran Duca Ferdinando II per esaminar l’arie, l’acque e i vini e per altre curiosità (Firenze, Biblioteca nazionale, disegni di macchine, ff. 227r-229v).
Tra questi, gli igrometri, per «conoscere le differenze dell’umido nell’aria», e gli idrostammi o areometri, destinati a misurare le diverse densità di fluidi (come le curiose «palle d’oncia», piccole sfere «serrate con collo corto entrovi migliarole di piombo», che «servono per esaminare le gravità in specie di differenti acque»). I termometri occupano un posto di rilievo e sono numerosi e diversi: i cinquantigradi «servono comunemente per conoscere le mutazioni del caldo e freddo dell’aria in qualunque tempo sia nelle stanze come fuori»; i sessantigradi sono impiegati per compiere esperienze di incubazione artificiale e per controllare la cottura delle uova.
Spettacolari i termometri ad alto fusto, con base costituita da un bulbo ramificato o da un semplice disco, oppure quelli a spirale, in cui «il prolisso collo si pieghi in facili e spesse rivolte e di soave salita». Le graduazioni erano segnate con bottoncini di smalto nero per ogni grado, bianco per ogni dieci, azzurro per ogni cento. All’interno, gli strumenti contenevano alcol («acqua arzente»), preferito all’acqua perché più «geloso», cioè più preciso nel cogliere le variazioni di temperatura.
I termometri «infingardi», cioè lenti a funzionare, erano costituiti da fialette singole, o da «grappoli» di più provette ognuna contenente una o più sfere di vetro colorato, o erano a «botte», o a «botticina» a forma di rana, con le zampe terminanti ad anello per legarvi nastri con cui assicurare lo strumento al polso o al braccio del paziente e misurare le variazioni della temperatura. Questo gruppo di termometri si basa sulla proprietà dell’alcol di variare il volume con la variazione di temperatura: essendo le palline di densità diversa, esse si muovono anche in tempi diversi.
L’Accademia dipendeva totalmente dai voleri del granduca: quando la corte si spostava, gli scienziati interrompevano le loro ricerche o si spostavano con essa: per es., nel gennaio del 1658, l’Accademia seguì la corte a Livorno, dove furono effettuate alcune prove con piccole caraffe ripiene di vari liquidi diversamente salati per verificarne i diversi «agghiacciamenti».
È opportuno ricordare che a Firenze era già nato il nuovo straordinario barometro, derivato dall’esperienza torricelliana del 1644 grazie alla quale era stata verificata sperimentalmente e non filosoficamente l’esistenza del vuoto ed erano stati messi in evidenza gli effetti della pressione.
Barometro e termometro ‘mostrano’ gli effetti di alcuni fenomeni e rispondono ad alcune domande. Così come accade per cannocchiale e microscopio, anch’essi strumenti nuovi, essi rivelano spesso qualcosa che non conosciamo in precedenza: è l’esperimento compiuto con lo strumento che permette di ‘scoprire’, di vedere, e lo strumento sempre più diventa un tramite tra l’uomo e l’universo infinito e infinitamente sconosciuto. Ogni fenomeno mostra una natura nuova, sempre diversa, ancora tutta da scoprire.
Gli scienziati si dedicarono anche a sperimentazioni sullo «occhiale», che, nel corso del tardo Seicento, diventò sempre più lungo, nella speranza che la maggiore lunghezza permettesse l’indagine nello spazio sempre più distante. Si giunse a costruire l’arcicanna e il telescopio aereo, immensi apparecchi resi inutili dal cannocchiale a riflessione newtoniano, dotato di uno specchio inserito nel tubo.
Lo stesso specchio, applicato al microscopio e opportunamente posizionato, permise la moltiplicazione e l’ingrandimento dell’immagine proiettata sulle pareti: da qui derivano le lanterne magiche, che creavano spettacoli affascinanti, presentavano paesaggi colorati e davano l’illusione della tridimensionalità; esse, tra l’altro, sono all’origine del cinema.
Siamo ancora nel mondo della meraviglia: gli strumenti che servono per compiere esperienze o che sono il frutto di ricerche, sono anche ‘spettacolari’, divertono e stupiscono. È qui, nella ‘tecnica curiosa’, la quale riprende antiche proposte e le esalta con una ricchezza di meccanismi e di effetti, che sta il passaggio dal Rinascimento e dal Seicento al Settecento. Ne costituisce un esempio particolarmente significativo il gesuita tedesco Athanasius Kircher (1602-1680), creatore nel 1651 del Museo del Collegio romano (poi Museo kircheriano), con le sue originali cistae mathematicae, insieme depositi di memoria e strumenti in grado di organizzare le conoscenze.
Il sapere ormai non è più patrimonio di principi e regnanti o di nobili e signori, ma si estende a un pubblico vasto e curioso che frequenta università e assiste a dimostrazioni e conferenze divulgative. In Francia e altrove, le lezioni vengono anche pubblicate in testi ricchi di incisioni che illustrano gli strumenti, spiegano le esperienze, ne chiariscono il significato scientifico e hanno enorme diffusione: tradotti in varie lingue, essi continuarono a essere esempio per la fabbricazione di apparecchiature destinate alla divulgazione della fisica e alla didattica delle scienze. I nomi che risaltano sono soprattutto quelli dell’olandese Willem Jacob ’s Gravesande (1688-1742) e del francese Jean-Antoine Nollet (1700-1770), che riscossero larga popolarità anche in Italia, dove si avviò una produzione di strumenti modellati sulle illustrazioni presenti nei volumi dei due autori.
Un esempio è Padova, dove Giovanni Poleni (1683/ 1685-1761), docente di astronomia e poi di matematica e di «filosofia sperimentale», nel 1739 riuscì a dotare l’università di un laboratorio di fisica sperimentale, il primo in Italia e il secondo in Europa dopo quello di Leida:
in contatto con moltissimi scienziati, tra cui gli stessi Nollet e Pieter van Musschenbroek […] basandosi sui loro trattati, così come su quelli di Desaguliers e di ’s Gravesande, e ottenendo cospicui finanziamenti dalla Repubblica di Venezia, Poleni creò uno dei primi gabinetti universitari di fisica sperimentale in Italia, il cosiddetto ‘Teatro di Filosofia Sperimentale’, che venne inaugurato nel 1740 (S. Talas, La fisica nel Settecento: nuove lezioni, spettacolo, meraviglia, «Il nuovo saggiatore», 2011, 5-6, p. 44).
Le macchine raccolte da Poleni sono quelle illustrate nei testi dei due autori succitati; molte furono costruite direttamente a Padova, altre acquistate all’estero. Alla morte di Poleni, la raccolta di strumenti, che egli aveva continuato sino alla fine ad accrescere, ne comprendeva circa 400, tanto da far ritenere la scuola di fisica patavina alla pari delle maggiori europee proprio grazie alle macchine in essa presenti. L’influenza di Poleni si estese poi ben oltre i confini di Padova: per es., il Gabinetto di fisica dell’Università di Coimbra in Portogallo è esemplato proprio sul modello padovano e sul ‘Teatro’ creato da Poleni.
A Bologna era nato l’Istituto delle scienze (1711), ideato dallo scienziato e militare Luigi Ferdinando Marsili (1658-1730) come luogo deputato alla raccolta del sapere scientifico; fu la prima istituzione pubblica dedicata alla ricerca e alla formazione scientifica secondo i criteri metodologici dell’osservazione diretta e dell’esperimento. Sistemato in Palazzo Poggi, dotato di laboratori e officine, fu arricchito anche dalla torre dell’osservatorio (1726), completa di strumenti di grande precisione, sia inglesi e francesi sia costruiti a Roma dalla famiglia di artigiani allora capeggiata da Domenico Lusverg (1699-1744). Sostenuto e incoraggiato anche da papa Benedetto XIV, bolognese di origine, mecenate e cultore delle scienze e delle arti, il gabinetto fisico bolognese fu tra i protagonisti della scienza sperimentale settecentesca. Bologna, d’altronde, era da tempo sede di collezioni scientifiche straordinarie, come quelle di Ulisse Aldrovandi e di Ferdinando Cospi (1606-1686). Con la meridiana della basilica di San Petronio si controllavano le variazioni del moto solare.
A Firenze, intorno agli anni Cinquanta il trapanese Leonardo Ximenes (1716-1786) fondò l’Osservatorio che porta il suo nome e lo dotò di una strumentaria preziosa e moderna, nonché di una ricca biblioteca che crebbe negli anni con i successivi direttori. Sempre a Firenze fu istituita l’Accademia dei Georgofili e si rinnovò la medicina all’Arcispedale di Santa Maria Nuova con l’istituzione della cattedra di ostetricia (1756), a ricoprire la quale fu nominato il celebre Giuseppe Vespa (1727-1804).
Gli strumenti e i modelli didattici occupano un ruolo di primo piano all’interno di queste istituzioni: microscopi da osservazione per usi medici e naturalistici, macchine per rendere più fruttuosa e agevole la lavorazione dei campi, strumenti di osservazione astronomica e di registrazione meteorologica costituirono un insieme che ancora oggi rappresenta un patrimonio ricchissimo. Esso testimonia l’interesse per le scienze e l’attività di ricerca che le istituzioni e in esse i loro protagonisti portavano avanti.
Anche la fisica sperimentale assunse in questi anni particolare rilievo: Carlo Alfonso Guadagni (1722-1801), docente all’Università di Pisa, costruì numerose macchine di fisica, da lui dettagliatamente descritte, con le quali compì regolari esperienze. A lui George Clavering, conte di Cowper (1738-1789), che a Firenze viveva, affidò la cura del suo celebre Gabinetto scientifico, comprendente circa 400 strumenti e libri, che oggi costituisce uno dei più importanti nuclei del Museo di fisica dell’Università di Bologna.
Ma è a Pietro Leopoldo di Lorena, granduca di Toscana dal 1765 al 1790, che si deve la creazione a Firenze dell’Imperiale e reale museo di fisica e storia naturale, che tanta parte ebbe nella didattica e nella divulgazione delle scienze fisiche in Toscana, nonché nella creazione di rapporti con l’Europa e con le diverse produzioni di strumenti di eccellenza che andavano attuandosi oltralpe.
Nel 1766 il granduca chiamò lo scienziato roveretano Felice Fontana a occuparsi della creazione e organizzazione della nuova istituzione, e gli affidò in consegna gli strumenti scientifici medicei. L’attenzione di Fontana fu però rivolta non soltanto alla sistemazione dei reperti storici, ma anche e soprattutto all’acquisizione di macchine nuove, moderne, che avrebbero arricchito significativamente il gabinetto fisico granducale e ne avrebbero fatto un’istituzione competitiva con quelle già esistenti in Europa.
Per realizzare questo ambizioso progetto, Fontana organizzò all’interno del museo officine e laboratori in grado di produrre autonomamente apparecchi altamente perfezionati, di eseguire lavori di grande precisione e originalità, di riparare e ammodernare dispositivi laddove se ne fosse verificata la necessità, e infine di ‘copiare’ strumenti di precisione prodotti all’estero, usati come modelli per produzioni locali. Contemporaneamente, proprio per ottenere, come egli stesso scrisse, «qualcuno di questi strumenti ma della più grande perfezione acciocché serva di modello ad altri si vorranno in seguito fabbricare in Firenze» (cit. in Contardi 2002, p. 122), chiese l’autorizzazione a compiere un viaggio in Europa, accompagnato dal vicedirettore del museo, Giovanni Fabbroni.
Il 1775 è l’anno dell’apertura ufficiale del museo, che ospitava, oltre gli strumenti, collezioni naturalistiche e modelli anatomici in cera, tutti materiali destinati a una costante crescita. Nelle officine lavoravano abili artigiani, meccanici, fabbri, stipettai, tutti soggetti alla supervisione diretta dello stesso Fontana. Si ricordino almeno i due meccanici Ignazio Gori (m. nel 1806) e suo figlio Felice (m. nel 1846), ai quali poi si aggiungerà il figlio di quest’ultimo, Galgano (1803-1868), e poi Gaspero Mazzeranghi e l’abilissimo Francesco Spighi (entrambi attivi nella seconda metà del Settecento), nonché, in ambiti diversi dalla fisica, i ceroplasti e i diversi preparatori. I meravigliosi effetti ottenuti con le apparecchiature di elettrostatica riscuotevano particolare successo: novità ricercata sia dai salotti alla moda sia dalle accademie, queste macchine potevano assumere disegni, dimensioni e configurazioni assai varie, ed erano grandi o piccole, a strofinio o a induzione.
Un’impresa cui Fontana dedicò molte energie fu la creazione, nei primi anni Ottanta, dell’osservatorio, della ‘specola’, che avrebbe degnamente completato il museo. Il granduca lo volle dotato di strumenti di pregio (acquistati soprattutto all’estero) ma annesso all’edificio, in posizione quindi non favorevole alle osservazioni. Fontana si impegnò, inoltre, anche nell’ideazione di apparecchiature destinate a saggiare la bontà dell’aria: con la pubblicazione nel 1775 dell’opuscolo Descrizione e usi di alcuni stromenti per misurare la salubrità dell’aria si può datare la nascita di «un capitolo di fondamentale importanza dell’indagine chimica: l’eudiometria» (F. Abbri, Science de l’air. Studi su Felice Fontana, 1991, p. 13). Nello stesso anno, anche il milanese Marsilio Landriani (1751-1815) aveva pubblicato Ricerche fisiche intorno alla salubrità dell’aria, che si accompagna all’opuscolo precedente e ne condivide il momento di ricerca scientifica, e aveva ideato un tipo particolare di strumento chiamato eudiometro.
A Napoli, gli strumenti scientifici, introdotti dai Borbone come parte delle loro collezioni, furono via via arricchiti da macchine e apparecchiature fisiche che divennero materiale del Gabinetto fisico creato da Gioacchino Murat dopo il 1808, quando egli divenne re di Napoli: una raccolta che mostra quanto fosse rilevante l’interesse per la strumentaria didattica, e oggi confluita nel Museo di fisica dell’Università di Napoli Federico II.
Al 1771 risale il Gabinetto di fisica dell’Università di Pavia, presto dotato di ampi spazi, di torre dell’osservatorio e di strumenti, destinati dal docente di fisica sperimentale, Alessandro Volta, sia alla ricerca sia a esperienze pubbliche di grande successo.
Anche Roma ha una storia illustre: dalla pratica della fisica nell’Accademia dei Lincei, nel Seicento, alle macchine di fisica riservate all’insegnamento universitario, riordinato da papa Benedetto XIV che, in pieno Settecento, istituì il Teatro fisico della Sapienza, stabilì compensi per un macchinista addetto alla cura delle macchine e fece organizzare dimostrazioni pubbliche con gli stessi apparati di fisica. Per il gabinetto fisico lavorarono in epoche diverse anche abili meccanici e artefici, i citati Lusverg, autori di straordinari strumenti astronomici e matematici.
Neppure le Isole sono estranee a questo interesse per la strumentaria e la diffusione delle scienze: in Sicilia, a Palermo, viene fondata nel 1790 la Specola, con strumenti pregevoli tra i quali il celebre Cerchio di Ramsden, usato dall’astronomo Giuseppe Piazzi (1746-1826) per scoprire il primo asteroide nel 1801; in Sardegna, nella secentesca università di Cagliari, l’insegnamento della fisica prese avvio nel 1764, grazie a padre Giovanni Antonio Cossu dei Servi di Maria, e agli strumenti e macchine ricevuti da Torino.
L’elenco potrebbe ancora continuare, ma quello che qui interessa è rilevare che la strumentaria destinata alla didattica e alla pratica sperimentale trova più o meno in tutta Italia diffusione e sedi appropriate nelle diverse istituzioni scolastiche. Gli strumenti migliori vengono dalla Germania, dalla Francia e dalla Gran Bretagna, o sono realizzati in Italia da abili artefici che a volte ‘copiano’ originali prodotti oltralpe.
In questa diffusione della strumentaria non manca l’aspetto ludico e di intrattenimento. Veri e propri spettacoli teatrali, salotti scientifici e serate ‘elettriche’ segnano il successo delle nuovissime macchine pneumatiche, delle spettacolari macchine elettrostatiche, dei giochi d’acqua. Il fiorentino Gabinetto di fisica di lord Cowper è non solo un luogo di attrazione scientifica, ma anche un punto di ritrovo per i viaggiatori stranieri, attratti dalle curiosità e dalle meraviglie della scienza, in particolare quelle dell’elettricità.
All’estero queste forme spettacolari della scienza erano assai diffuse. Le macchine elettriche trovavano spettatori entusiasti in ogni classe sociale e facevano sperare in applicazioni impensate in campo medico: gli impulsi elettrici potevano curare, riattivare arti immobilizzati e migliorare la vita di persone paralizzate. Anche in Italia si applicò l’impulso elettrico alla cura sin da metà Settecento e le terapie elettriche furono praticate, a Bologna soprattutto, ma anche altrove, con esiti alterni. Contemporaneamente, gli spettacoli, i ‘teatri’ scientifici, la physique amusante anche in Italia si moltiplicarono: appassionati di elettricità costruivano in casa macchine elettriche e allestivano laboratori domestici nei quali realizzavano esperimenti di successo. Numerose erano le donne attratte dall’elettricità e dai suoi prodigi; da Nord a Sud, nei salotti e nelle accademie, le signore si affollavano per farsi ‘elettrizzare’ e per poter seguire i fenomeni rivelati dalle nuovissime macchine.
Gli strumenti cinquecenteschi hanno lasciato memoria di sé soprattutto nelle collezioni, cioè in quegli insiemi musealizzati in gran parte sin dalle origini, nelle quali poveri strumenti, abbelliti e impreziositi da incisioni e materiali pregevoli, sono diventati oggetti da vedere e quindi preservati dalla distruzione riservata ad attrezzi superati dai tempi. Con l’avvento dei nuovi strumenti secenteschi, in particolare del telescopio, ma anche del microscopio, del barometro, del termometro e della macchina calcolatrice, gli strumenti effettivamente usati rimangono testimonianze pregevoli di innovazione e capacità costruttiva e vengono conservati per la loro novità e non per la loro bellezza. Il cannocchiale, che estende il senso della vista, costringe lo scienziato a fare i conti con la tecnica e a portare all’interno della disciplina quel mondo del fare che prima non sembrava appartenergli. Non a caso Galilei, come detto, si farà chiamare meccanico oltre che matematico.
Nasce da qui il passaggio al momento successivo, alla produzione ‘in serie’ di macchine che servono a dimostrare ciò che prima viene solo ipotizzato, a macchine che mostrano l’effettiva dinamica dei fenomeni naturali. Il Settecento svilupperà, soprattutto all’estero, quello che in Italia era stato abbozzato: grandi artefici francesi, inglesi e tedeschi produrranno lenti sempre più perfette, macchine sempre più efficaci e testi di grande impatto divulgativo e didattico.
Una ricca produzione iconografica, a sostegno delle esperienze da compiere e delle macchine da costruire e usare, correderà l’ambiente tecnico scientifico settecentesco, radicato in accademie e istituzioni, in salotti e comunità locali, dipendente da influenze straniere giunte al seguito di governanti e potenti. Sono ormai vicini i tempi della rivoluzione industriale, della produzione legata non più agli artefici e alle loro botteghe, ma a solide ditte in rapporto con le richieste del mercato internazionale.
L’industria di precisione italiana non poteva nel Settecento, e non lo potrà nell’Ottocento, competere con quella straniera: si accentuerà così l’acquisto di strumenti al posto della loro produzione. Non verrà meno però l’attenzione alla divulgazione scientifica, come testimoniato dalla perdurante ricchezza delle raccolte italiane di strumenti scientifici.
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