Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Secondo una corrente di storiografia largamente condivisa, che trova il suo capostipite in Lewis Mumford, la storia tecnologica dell’umanità può essere ripartita in tre grandi fasi. La prima, che data dalle origini stesse della nostra specie e forse addirittura le precede, è imperniata sull’utensile, ovvero lo strumento semplice, reperito nell’ambiente o fabbricato; la seconda, che si afferma pienamente nella rivoluzione industriale anche se conta su importanti precedenti fin dal mondo classico (e dall’impero cinese), si costituisce intorno all’uso di macchine; la più recente, che conta anch’essa importanti precedenti in età relativamente antiche, è comunque quella che caratterizza il nostro tempo, e si fonda su grandi sistemi tecnici interconnessi e fondati su centri intelligenti di comando: dalla ferrovia fino alle reti telematiche. Al di là delle possibili critiche alle singole interpretazioni storiche, la tripartizione appare fondata e utile a una periodizzazione generale delle tecnologie, a condizione di chiarire con precisione che cosa si intenda con le espressioni strumento, macchina, grande sistema tecnico.
Utensile/strumento e l’evoluzione dell’uomo: le nuove teorie novecentesche
Nel valutare se un insediamento fosse abitato da umani, da ominidi, o da altre specie di primati, e nel datarlo, i paleontologi fanno riferimento prima di tutto alla presenza di utensili (o di altri oggetti che dimostrano comunque l’uso di strumenti), e li classificano poi sulla base dell’origine di tali utensili (se reperiti nell’ambiente, fabbricati manualmente, fabbricati per mezzo di altri strumenti) e del materiale con cui sono realizzati. In effetti, la convinzione che il lavoro per mezzo di strumenti sia stato un aspetto essenziale dell’“ominizzazione” dei primati è un assunto che risale alla fondazione stessa di una teoria evoluzionistica sulle origini della specie umana.
Negli ultimi decenni, diversi apporti teorici ed euristici hanno permesso di precisare e sfumare questa convinzione. Da un lato, è ormai certo che alcuni primati, in particolare gli scimpanzè, fanno uso sistematico di alcuni oggetti (sempre reperiti nell’ambiente) per raggiungere scopi alimentari o di autodifesa e che esiste quindi una logica strumentale anche nel comportamento di specie non umane. Dall’altro lato, però, è emersa la centralità degli utensili non solo nella vita pratica ma anche e soprattutto nella vita sociale della nostra specie. Caratteristico dei gruppi sociali umani è non solo l’uso di strumenti ma anche la loro conservazione, e soprattutto la loro trasmissione da una generazione all’altra.
Secondo alcune suggestive tesi, fin dalle origini dell’umanità lo sviluppo del logos, cioè del linguaggio e della ragione astratta, si è intrecciato con quello delle competenze pratiche e di una “ragione strumentale”. Un fondatore della scienza cognitiva come Lev S. Vygotskij, la considera elemento cruciale della formazione stessa della coscienza, e nella quale moderni cognitivisti come Daniel Dennett riconoscono in essa una componente della struttura pensante umana di pari rilevanza rispetto a quella che riguarda i rapporti tra il sé e le altre persone. Per André Leroi-Gourhan l’uso e poi la fabbricazione di strumenti è letteralmente l’altra faccia dell’evoluzione delle capacità di fonazione; mentre alcune recenti teorie semiotiche leggono nella nominazione di strumenti oltre e più che nella nominazione di persone il punto di partenza del linguaggio articolato.
Certo è che tutte le civiltà umane sono accompagnate e caratterizzate dall’uso strumenti, intesi non solo come oggetti, ma anche come depositi materiali di sapere, e che la storia delle diverse civiltà è leggibile – secondo un’intuizione che fu già di Marx – come una successione di tecniche, ciascuna delle quali è insieme conseguenza e causa di cambiamenti sociali.
Va detto peraltro che, nell’epoca dominata dagli utensili – durata svariate decine di millenni e segnata solo a partire da pochi millenni avanti Cristo dal primo timido apparire di sistemi tecnici e di macchine – l’evoluzione della tecnologia ha conosciuto ritmi notevolmente più lenti rispetto a quelli propri delle fasi successive. È l’epoca alla quale si applica la definizione dell’etnologo francese Marcel Mauss secondo cui la tecnica è “un gruppo di movimenti e di azioni generalmente a carattere manuale, tradizionali, e organizzati, finalizzati a uno scopo unitario”.
Dall’utensile alla macchina
Manualità e tradizione, ovvero saperi tramandati, sono caratteristiche proprie delle tecnologie basate sull’utensile.Non solo nelle società generalmente studiate dagli etnologi, che molti definiscono appunto come società tradizionali, ma anche nello stesso mondo occidentale fino al Settecento, i saperi pratici più articolati, dal saper fare degli artigiani alle regole della cucina, sono stati tipicamente tramandati. Questi saperi sono stati oggetto cioè di un processo di trasmissione solo in parte verbalizzato: in parte comunicati attraverso il fare e vedere; in parte incarnati nella materialità stessa degli strumenti, parte essenziale del patrimonio tramandato in tutte le culture tanto quanto i sistemi simbolici. Lo strumento trasmesso all’interno della famiglia (come ricordano molti testamenti fino all’età contemporanea) o della comunità artigiana portava con sé la sedimentazione di pratiche che si erano sviluppate per generazioni e generazioni, e insieme condizionava le pratiche delle generazioni future.
Nelle città europee di ancien régime , i sistemi di trasmissione ritenuti, al tempo, più socialmente rilevanti, erano tipicamente l’oggetto di regole di tipo rituale, quelle proprie delle gilde: giuramenti e iniziazioni, pene rigidamente applicate a chi tradisse il segreto. E gli oggetti che di quella tradizione erano il deposito fisico, gli strumenti, erano essi stessi oggetto di pratiche simboliche e rituali: dal divieto assoluto di toccarli nelle prime fasi dell’apprendistato, al momento solenne della consegna. L’espropriazione di fatto delle corporazioni, che la rivoluzione industriale portò con sé, comportò una banalizzazione, simbolica e di fatto, degli utensili. L’avvento della macchina è stato il principale motore di questo processo.
Per capirlo è bene prima di tutto comprendere le differenze tra la macchina e l’utensile. Le macchine sono strumenti sì, ma di un diverso grado di complessità rispetto agli utensili ordinari che, azionati dalle mani e guidati attraverso le mani dalla mente e dalle competenze umane, hanno accompagnato tutta la storia del genere umano. Le macchine si basano in genere sull’interagire e sulla cooperazione di diversi utensili più semplici, sono quindi sistemi integrati di utensili; sono alimentate da fonti energetiche almeno in parte diverse dalla mano dell’uomo; e sono sempre in qualche misura programmate, cioè dotate di meccanismi, per quanto semplici, di autoregolazione. È stata, non a caso, la cibernetica di Norbert Wiener ad attirare l’attenzione su questo ultimo aspetto, sull’intelligenza incarnata e depositata nel meccanismo che in qualche misura trasforma in movimento obbligato le movenze svolte in precedenza dalle mani, e in parte anche le competenze stesse alla base di quelle movenze. Non a caso, perché da questa scoperta i cibernetici sono partiti per pensare un tipo ulteriore di macchina, guidata non da un programma fisicamente incarnato nel meccanismo ma da programmi variabili: l’elaboratore elettronico.
Sta di fatto che le macchine si presentano fin dal loro apparire come strumenti in qualche misura autonomizzati dall’azione del singolo. La parola automatismo segnala appunto questa autonomia, e ricorda il trauma forse ancora non riassorbito che ne ha accompagnato l’affermarsi: lo sconvolgimento prodotto dall’apparire di oggetti creati dall’uomo ma che appaiono capaci di muoversi senza il suo intervento, quasi animati da una volontà propria.
La macchina: dallo spettacolo alla produzione
È bene ricordare, d’altra parte, che quello che si è appena chiamato l’“avvento della macchina” è stato preceduto da una fase più che millenaria in cui oggetti di questo tipo sono stati inventati, sperimentati, usati senza modificare in modo risolutivo l’assetto complessivo delle tecnologie. Fin dall’antichità classica si possono segnalare numerosi esempi di macchine singole all’interno di sistemi produttivi comunque dominati dalla presenza di strumenti più semplici. Per tutta l’età moderna poi, artisti e filosofi si sono cimentati nel compito di descrivere gli apparecchi già esistenti (il mulino, le macchine militari, le apparecchiature usate nelle miniere che attrassero l’attenzione di Georgius Agricola) e anche in quello di progettare macchine che ancora non c’erano. Contemporaneamente, artigiani autodidatti si dedicavano a perfezionare le proprie pratiche, a creare tecniche più sofisticate, a trasformare strumenti semplici in macchine complesse.
Con l’opera di Jacques Besson, il Theatrum instrumentorum et machinarum (1578), nasce anzi un vero e proprio genere editoriale: quello appunto del teatro di macchine. Il termine evidenzia sia la grande importanza attribuita all’illustrazione, che era generalmente un’accurata rappresentazione prospettica, di fronte alla quale il lettore si trovava come a teatro, sia il fatto che si trattava di una lettura di svago, piacevole soprattutto per la novità e la varietà.
È grazie al macchinario, cioè all’utilizzo di veri e propri sistemi di macchine coordinate e interdipendenti, che l’industria è riuscita a organizzare il lavoro di più persone insieme, affermandosi come il più potente dispositivo finora inventato per gestire e modificare la divisione sociale del lavoro; è grazie alla macchina, e al progresso tecnico che ha accompagnato l’intera età meccanica che nel corso di due secoli e la produttività del lavoro ha potuto continuare quasi ininterrottamente a crescere.
In primo luogo, la macchina si propone come portatrice di una propria specifica razionalità fondata sull’evidenza stessa, anche quantitativa, dei risultati. Questa razionalità è venuta progressivamente a identificarsi con l’espressione per eccellenza della razionalità nell’Occidente moderno, quella tecnico-scientifica.
In secondo luogo, lo sviluppo della macchina si presenta fin dall’origine, a ragione alle caratteristiche stesse che distinguono la macchina dagli strumenti più semplici, come automatico, guidato cioè da una forza propria. In terzo luogo, la macchina si presenta come strumento essenziale e insieme come sintesi simbolica del potere dell’industria. All’interno stesso dei luoghi di lavoro la macchina appare disciplinatrice delle attività dei singoli, e anche strumento di progressiva soppressione dei tradizionali saperi artigiani, non dimenticati ma in qualche modo assorbiti e trascesi nei programmi stessi che guidano i meccanismi. Nell’immaginario dell’Ottocento e del primo Novecento questo potere di disciplinamento ha assunto le vesti del dio mostruoso e indifferente, e alimentato la fantasticheria distopica del film Metropolis di Fritz Lang. Il marxismo del resto separava la società in classi, distinte dalla proprietà o meno delle macchine.
Parallelamente però, soprattutto a partire dagli ultimi decenni dell’Ottocento, la macchina ha cominciato a uscire dai luoghi di lavoro, divenendo ben presto accessibile ai ceti medi e poi allo stesso proletariato non più come mezzo di produzione ma come strumento di riproduzione nella vita domestica e come strumento di svago. A precipitare questo evento, durato oltre un secolo, è stato lo sviluppo dei grandi sistemi tecnici, a cominciare dall’elettrificazione, che hanno trasformato singole macchine semplici in terminali di una rete complessa.
Dalla macchina al grande sistema tecnico
Uno degli effetti più profondi della seconda rivoluzione industriale della seconda metà dell’Ottocento è stato in effetti quello di connettere la vita degli abitanti delle città prima, delle intere società occidentali poi, con sistemi socio-tecnici, almeno in qualche misura irreversibili nelle loro strutture di fondo, capaci di condizionare con le proprie oggettive regole di compatibilità i comportamenti di milioni di persone e al tempo stesso di allargare enormemente gli spazi di scelta individuale. Alcuni sistemi esistono in verità da tempi decisamente antichi. È il caso delle reti stradali e soprattutto degli acquedotti, elemento essenziale dello sviluppo urbano fin dal neolitico. Solo con lo sviluppo tecnico-scientifico, però, sono nati sistemi in grado non solo di organizzare un territorio ma anche di coordinare centinaia di macchine presenti e attive su quel territorio: le locomotive, i vagoni, le comunicazioni telegrafiche, nella rete ferroviaria; i milioni di apparecchi “connessi” nella rete elettrica o nella rete telefonica.
La macchina entra così a far parte fino in fondo del sistema delle merci. Come l’introduzione della macchina, aveva banalizzato l’utensile, svuotando di ogni specificità e privilegio i saperi tecnici dell’epoca artigianale, così l’introduzione dei macrosistemi ha banalizzato la macchina. Accanto alle macchine per produrre, sono nate le macchine da consumare, sia pure in un consumo per definizione durevole.
Questo processo ha portato fra l’altro a una straordinaria moltiplicazione delle macchine, dalle automobili, il cui numero negli USA supera la metà di quello totale degli abitanti, al profluvio degli elettrodomestici che oggi sono elemento essenziale dell’abitazione quanto i mobili e le stesse pareti. Secondo il sociologo Bruno Latour, le macchine costituiscono oggi una “massa” altrettanto rilevante per la vita sociale quanto le masse umane, e la società moderna è comprensibile solo come un insieme di esseri umani e macchine, tutti portatori di proprie regole di comportamento.
I macrosistemi tecnici, in particolare le reti elettriche (ma anche quelle di telecomunicazione), lungi dall’essere semplici tecnologie fra le altre, vanno visti come tecnologie per così dire di cornice, che inquadrano e guidano l’intero agire pratico delle società moderne.