mercato, struttura del
Rappresentazione del grado di rivalità delle aziende tramite la valutazione della loro numerosità, della loro posizione relativa (livello e distribuzione delle quote di m.), dell’elevatezza delle barriere all’ingresso, della maggiore o minore standardizzazione dei beni prodotti e del loro grado di sostituibilità, del livello di informazione che ogni impresa ha rispetto alle strategie delle concorrenti, della variabilità della domanda e così via.
La teoria economica ha individuato, nel tempo, diverse forme di struttura del m., dalla concorrenza al monopolio, dando loro un nome specifico in considerazione delle caratteristiche particolari di ciascuna: la concorrenza perfetta (➔ p), contraddistinta da numerosi produttori e altrettanti acquirenti, nessuno in grado individualmente di influenzare gli equilibri di m.; la concorrenza monopolistica (➔), con molti produttori di beni differenziati; l’oligopolio (➔), con produzioni omogenee (poche imprese produttrici di un bene omogeneo), oppure con prodotti differenziati (poche imprese produttrici di un bene differenziato); il monopolio (➔), con un unico produttore; il monopsonio (➔), con un unico acquirente.
La valutazione della struttura del m., accompagnata da una descrizione dei comportamenti delle imprese (ruolo dei prezzi, importanza dell’innovazione, diffusione delle strategie di diversificazione ecc.), è stata a lungo utilizzata per definire i risultati conseguiti dalle aziende in termini di risorse utilizzate, profittabilità, dimensione e così via. Tuttavia, il paradigma analitico, struttura-condotta-performance, sviluppato nel corso degli anni 1960 dagli economisti della Università di Harvard, è stato messo in discussione, nel decennio successivo, sulla base di approfondimenti teorici e di numerosi studi empirici. Dal punto di vista teorico, è emerso che la struttura del m. non è un indicatore preciso dei vincoli concorrenziali cui sono soggette le imprese e che, in assenza di investimenti dedicati e di costi irreversibili (➔ sunk cost), persino un monopolio può essere disciplinato dalla concorrenza di un potenziale entrante (teoria dei mercati contendibili; ➔ contendibilità). Inoltre, soprattutto in contesti oligopolistici, dove i risultati conseguiti dipendono strettamente dal grado di interdipendenza delle varie realtà aziendali, l’apparato analitico necessario per comprendere la complessità delle interazioni delle imprese è ben più complesso di quello inizialmente ipotizzato. Nello stesso tempo, studi empirici delle diverse industrie, resi possibili dalla diffusa disponibilità delle nuove tecnologie elettroniche, dallo sviluppo dell’econometria e dalla disponibilità di dati disaggregati, pongono in evidenza l’importanza delle caratteristiche qualitative per la spiegazione dei risultati ottenuti dalle imprese, mentre indicatori quantitativi, quali le quote di mercato o la misura del grado di concentrazione del mercato, non sono affatto risolutivi. Come conseguenza di ciò, la teoria dell’organizzazione industriale (➔) non ha più perseguito l’obiettivo di individuare una teoria generale, ma si è sviluppata con i nuovi strumenti della teoria microeconomica, con quelli della concorrenza imperfetta (➔), e con la teoria dei giochi (➔ giochi, teoria dei), elaborando una pluralità di modelli da scegliere caso per caso.
Fin dai lavori di J.A. Schumpeter (➔) negli anni 1940, era emersa la questione di quale fosse la forma di m. che maggiormente promuovesse l’innovazione. Schumpeter sosteneva infatti che, indipendentemente dalle dimensioni dell’impresa che inizialmente introduceva l’innovazione, l’obiettivo a cui essa tendeva era la possibilità di diventare un monopolista, l’unico produttore in grado di fornire ai consumatori un certo bene. Di conseguenza, la politica pubblica doveva guardare con favore ai monopolisti o, più in generale, alle imprese dotate di un significativo potere di mercato, perché altrimenti, se fosse stata posta in essere una politica antimonopolistica eccessivamente repressiva, si sarebbe rischiato di bloccare molte iniziative imprenditoriali di successo, con grave danno per la crescita e per il benessere dei consumatori.
Già dal primo decennio degli anni 2000 è emerso un quadro più articolato, dove le innovazioni più radicali, spesso basate sull’intuito e la capacità di visione, traggono origine dalle piccole e medie imprese e talvolta persino da imprenditori singoli, mentre le innovazioni incrementali, che richiedono significativi investimenti in ricerca, vengono soprattutto effettuate dalle realtà più grandi. Tutte le aziende cioè partecipano al processo innovativo e, in questa prospettiva, non ci sono forme di mercato atte a favorirlo o a contrastarlo.