Abstract
Con il presente lavoro si analizza la struttura della sentenza penale così come delineata dall’art. 546 c.p.p. Si tratta di un tema reso attuale dalla l. 23.6.2017, n. 103, meglio conosciuta come riforma Orlando, che proprio di recente ha apportato modifiche alla lettera e) della norma in esame in punto di motivazione. Il tema è molto ampio e, pertanto, è d’obbligo precisare che l’analisi verterà quasi esclusivamente sui requisiti contenuti nell’art. 546 c.p.p..
I tratti distintivi della sentenza, soprattutto dopo la l. n. 103/2017 (cd. riforma Orlando), sono dettagliatamente indicati nel co. 1 dell’art. 546 c.p.p. e consistono: a) nell’intestazione «in nome del popolo italiano» e nell’indicazione dell’autorità che l’ha pronunciata; b) nelle generalità dell’imputato o nelle altre indicazioni personali che valgono a identificarlo, nonché nelle generalità delle altre parti private; c) nell’imputazione; d) nell’indicazione delle conclusioni delle parti; e) nella concisa esposizione dei motivi di fatto e di diritto su cui la decisione è fondata, con l’indicazione delle prove poste a base della decisione stessa e l’enunciazione delle ragioni per le quali il giudice ritiene non attendibili le prove contrarie (lettera di recente modificata dalla riforma Orlando); f) nel dispositivo con l’indicazione degli articoli di legge applicati; g) nella data e nella sottoscrizione del giudice.
L’intestazione «in nome del popolo italiano» e l’indicazione dell’autorità giudicante – con riferimento all’ufficio ed al nome del giudice che ha deliberato la pronuncia – costituiscono la parte introduttiva della sentenza. Ciò nonostante, in caso di omessa indicazione, nell’intestazione dei provvedimenti, ivi compresa la sentenza, dei nomi dei componenti del collegio giudicante, non si realizza alcuna forma di nullità, non rientrando tale incombente tra quelli previsti dalla legge a pena di nullità (Cass. pen., 2.7.2009, n. 34808, in CED rv. n. 244572). Da un raffronto con il vecchio codice, si può notare come sia rimasto immutato il dettato relativo agli «estremi della causa» di cui alle lettere a) e b); l’unica differenza che si può ravvisare risiede nel fatto che adesso i dati diversi dalle generalità, utili per l’identificazione dell’imputato, sono indicati come requisito alternativo (non più aggiuntivo quindi), mentre per le parti private – ora non più indicate mediante elencazione analitica bensì cumulativamente – sono invece sempre necessarie e sufficienti le generalità.
Proseguendo secondo l’ordine della norma, nella lettera c) è posto il riferimento alla imputazione, che trova esplicitato il suo significato attraverso il rinvio implicito agli artt. 417, co. 1, lett. b), e 429, co. 1, lett. c), c.p.p. ove è precisato che essa consiste nella enunciazione del fatto, delle circostanze aggravanti e di quelle che possono comportare l’applicazione di misure di sicurezza con l’indicazione dei relativi articoli di legge. Sul punto, la giurisprudenza ha in più occasioni peraltro precisato che la mancata o incompleta indicazione in sentenza – nel caso di specie di appello – del capo di imputazione non ne determina la nullità, in quanto l’enunciazione dei fatti e delle circostanze ascritti all’imputato può essere desunta dal contenuto complessivo della decisione (Cass. pen., 17.12.2008, n. 1137, in CED rv. n. 242548). Nella medesima prospettiva, la mancata annotazione formale nella sentenza di secondo grado del capo di imputazione non costituisce causa di nullità della sentenza, stante la tassatività della previsione di cui all’art. 546, co. 3, c.p.p. (Cass. pen., 5.11.2008, n. 4098, in CED rv. n. 242828).
Ciò che si pone come novità rispetto al codice previgente è l’obbligo, previsto dalla lettera d), a carico del giudice di indicare le conclusioni delle parti. Siamo di fronte ad una previsione collegata a quella della lettera e) della medesima norma, che approfondisce ulteriormente l’esigenza di analiticità nella determinazione dei contenuti della decisione. A conferma di quanto affermato, basti notare come entrambe le disposizioni siano espressione del maggior rilievo assegnato, nell’ambito di un processo di parti, al contraddittorio e al diritto alla prova e, di conseguenza, al maggior risalto dell’attività dell’accusa e della difesa. A ben vedere, la necessità di mettere per iscritto le conclusioni assolve anche alla funzione di esaltare la necessità della congruenza della decisione rispetto alle richieste delle parti. Anche l’omessa indicazione delle conclusioni delle parti non dà luogo, secondo la giurisprudenza di legittimità, ad alcuna forma di nullità, non essendo specificato nella norma in quali parti della sentenza debbano essere esposte le suddette conclusioni e non essendo la violazione della disposizione normativa in questione ricollegata ad alcuna forma di invalidità processuale (Cass. pen., 5.11.2003, n. 48525, in CED rv. n. 228544).
Ciò posto, l’asse attorno al quale ruota la struttura della sentenza è costituita dall’obbligo di motivazione prevista dalla lettera e).
La sua formulazione approfondisce peraltro ulteriormente, rispetto al passato, l’esigenza di analiticità della determinazione dei contenuti della motivazione e, pur riproponendo la necessità di una «concisa esposizione dei motivi di fatto e di diritto» posti a base della decisione, rimarca in modo esplicito e del tutto nuovo la diretta correlazione tra prova e giudizio, mediante la previsione dell’obbligo di corredare la decisione con «l’indicazione delle prove poste a base della decisione stessa», di guisa che solo su queste prove – e sempre che siano state legalmente acquisite – possa formarsi il libero convincimento del giudice. Si pone così in risalto l’opzione per la concezione dialettica della prova incentrata sul contraddittorio, quale metodo di ricostruzione del fatto e ne valorizza la funzione di garanzia sul piano dell’effettività, tramite l’esplicita tutela del diritto alla controprova, assicurata dalla prescrizione che la sentenza contenga «l’enunciazione delle ragioni per le quali il giudice ritiene non attendibili le prove contrarie» (Gaito, A., Il ricorso per cassazione, in AA.VV., Procedura penale, Torino, 2010, 784). Si tratta del cd. carattere dialogico della motivazione, il quale non solo richiede al giudice di giustificare le proprie scelte in ordine alle prove che stanno alla base del suo convincimento ma anche di dar conto dell’eventuale esistenza di prove che con tale convincimento contrastano e delle ragioni per cui egli le ha ritenute non convincenti.
Sempre in un’ottica di raffronto con il codice previgente, giova rilevare che l’attuale sistema configura un modello normativo di decisione, incentrato sul dovere di motivare, che ha una immediata incidenza nella ricostruzione della motivazione, ed in particolare, sulla sua macrostruttura e sulla struttura interna. Quest’ultima risulta sensibilmente modificata in virtù della positivizzazione degli argomenti storico-ideologici e sistematici utilizzati in passato per individuarne i requisiti fondamentali, posto che il giudice è oggi tenuto ad esplicitare le proposizioni probatorie correlate all’assunzione del mezzo di prova ed a rendere espliciti i canoni di argomentazione utilizzati, tra cui le massime di esperienza. Più precisamente, in perfetta armonia con quanto stabilito dagli artt. 192 e 546, lett. e), c.p.p., il giudice deve dar conto sia dei risultati acquisiti che dei criteri adottati. I primi non si riferiscono ad un quid esistente sul piano materiale bensì ad una operazione mentale applicata agli elementi di prova precedentemente raccolti. Di conseguenza, non esistono dati di fatto accettabili di per sé ovvero prove il cui valore sia determinato a priori ma è, in ogni caso, necessaria quell’attività raziocinante del giudice che serve ad accertare l’attendibilità della dichiarazione e la credibilità della fonte. I secondi, ovverosia i criteri adottati, consistono nella esposizione delle massime di esperienza e delle leggi scientifiche utilizzate nella valutazione degli elementi di prova, considerati singolarmente e nel loro complesso, e cioè in rapporto tra loro. Al riguardo, giova precisare che il ragionamento del giudice non avrà il carattere dell’inconfutabilità logica ma quello, meno cogente, dell’accettabilità razionale.
Alla lettera f) è fatto obbligo di indicare il dispositivo che deve ovviamente coincidere con quello letto in udienza e deve contenere l’indicazione degli articoli di legge violati. Il dispositivo non è altro che la parte della sentenza concernente la statuizione del giudice in ordine ai capi e ai punti della res iudicanda. Ciò posto, la sentenza che manchi del dispositivo per omessa statuizione decisoria nei confronti dell’imputato è inesistente, ed il vizio, rilevabile d’ufficio ed insuscettibile di essere sanato dal giudicato, oltre a poter essere rilevato dalle parti anche con i mezzi di impugnazione ordinaria, può essere emendato dallo stesso giudice con l’emissione di un nuovo decreto di citazione e la celebrazione di un nuovo processo (Cass. pen., 15.6.2011, n. 29427, in CED rv. n. 251027). Non integra la nullità di cui all’art. 546 c.p.p. l’omessa trascrizione nell’originale della sentenza, del dispositivo letto in pubblica udienza, trattandosi di una mera assenza grafica sanabile con la procedura di correzione degli errori materiali di cui all’art. 130 c.p.p. In caso di incompatibilità tra dispositivo e motivazione, la giurisprudenza ritiene prevalente quanto stabilito nel dispositivo, essendo il primo atto attraverso il quale le parti vengono a conoscenza del decisum. Sul punto, è stato inoltre evidenziato che mentre il dispositivo è l’atto con cui si estrinseca la volontà della legge nel caso concreto, la motivazione ha esclusivamente una funzione strumentale (Cass. pen., 20.5.2008, n. 25530, in CED rv. n. 240649).
In perfetta sintonia con quanto stabilito dall’art. 474, n. 7 del vecchio codice, l’ultimo requisito dell’art. 546 c.p.p., racchiuso nella lettera g), prevede che la sentenza debba contenere la data e la sottoscrizione del giudice. Nell’attuale codice però non è più richiesta la sottoscrizione del cancelliere. Se per morte o altro impedimento il presidente non può sottoscrivere, alla sottoscrizione provvede, previa menzione dell’impedimento, il componente più anziano del collegio; se non può sottoscrivere l’estensore, alla sottoscrizione, previa menzione dell’impedimento, provvede il solo presidente.
Nell’ambito dei fondamentali principi enunciati all’interno dell’art. 111 della Costituzione, al sesto comma si colloca quello di ‘motivare i provvedimenti giurisdizionali’. Si tratta di un principio cardine del nostro sistema processuale che impone la regola in forza della quale ogni provvedimento del giudice deve essere supportato da un doveroso apparato argomentativo, ovverosia da una estrinsecazione degli argomenti sottesi alla decisione. È, più semplicemente, richiesta al giudice una adeguata esposizione delle ragioni del suo convincimento.
A prescindere da quale sia la definizione più efficace, ciò che si percepisce è che mentre la Carta costituzionale sembra esprimere essenzialmente un significato di motivazione come principio ideologico, le norme del codice di rito appaiono funzionali allo svolgimento tecnico del processo, che vede nella ‘motivazione della decisione’ la conditio sine qua non per l’impugnazione, il controllo e la cognizione in seconda istanza.
Tuttavia, da una complessiva ed attenta lettura delle norme della Costituzione è possibile cogliere anche la funzione ‘endoprocessuale’ della motivazione, essendo sempre richiesto un controllo sull’esattezza e sulla legittimità delle decisioni del giudice sia all’interno che all’esterno del processo. In via primaria, l’obbligo di motivazione svolge una funzione interna al processo, poiché l’esternazione e la formalizzazione dei motivi posti dal giudice a base di una decisione consente alle parti processuali in sede di gravame, ed al giudice dell’impugnazione, il controllo ed il sindacato sulla correttezza della decisione assunta dal giudice a quo. In via secondaria, poiché l’obbligo di motivazione è generalizzato a tutti i provvedimenti degli organi giurisdizionali, compresi quelli non suscettibili di ulteriore impugnazione o inoppugnabili, esso non si esaurisce nella funzione endoprocessuale, mirando ad assicurare l’uniforme applicazione ed interpretazione della legge e l’assenza di arbitri e soprusi nel rispetto dei diritti fondamentali dei cittadini.
In chiave sistemica, non può poi non evidenziarsi come la necessità di motivare la decisione sia fortemente sentita in quei paesi proiettati verso una idea di processo penale inteso come strumento che assecondi l’aspirazione della comunità nella quale è destinato ad operare, che lo considera e lo vuole come strumento di garanzia (Massa, M., Motivazione della sentenza (dir. proc. pen.), in Enc. giur. Treccani, Roma, 1990). Al contrario, rinunciando alla motivazione si finisce inevitabilmente per rinunciare al controllo sui possibili abusi di potere del giudice, posto che a quest’ultimo verrebbe lasciato il potere di assolvere e condannare l’imputato senza fornire alcuna spiegazione delle ragioni che lo hanno indotto verso quella decisione.
In questa prospettiva, nel nostro sistema processuale l’obbligo di motivazione è percepito come un indiscusso principio di civiltà giuridica e si pone come un vero e proprio corollario di una giurisdizione che si concreta nell’applicazione della legge ad opera di un soggetto che versa, anzi che deve necessariamente versare, in una posizione di indipendenza, terzietà ed imparzialità e che, proprio a cagione di tali notazioni deve ancor di più evidenziare le ragioni delle proprie decisioni (In tal senso, Dell’Anno, P., Vizio di motivazione e controllo della cassazione penale, Padova, 2015). Così inteso, l’obbligo di motivazione costituisce un corollario del fatto che la giurisdizione consiste nella applicazione della legge (art. 101, co. 2, Cost.) e, più precisamente, nell’applicazione della legge ad opera di organi dello Stato che agiscono in posizione di imparzialità ed indipendenza e nel contraddittorio delle parti del giudizio loro demandato (art. 111, co.2, Cost.).
Se ciò è vero «la decisione che esprime il contenuto del giudicato deve essere necessariamente fondata su un ragionamento pratico, la cui formulazione non può avvenire unicamente nel sottosuolo emozionale della volontà soggettiva, ma deve formarsi anche a mezzo del confronto con altre opinioni, e deve essere in grado – una volta elaborata – di rispondere a critiche, obiezioni, repliche, deve cioè essere in grado di giustificare il suo contenuto rispetto al modello di razionalità accettato nell’ambiente sociale in cui la decisione è destinata a trovare esecuzione» (Così Santoriello, C., Motivazione (controlli), in Dig. pen., 2008, 595 ss.).
Infine, è proprio attraverso la motivazione che si rende possibile l’impugnazione, e soprattutto l’attuazione di altro imprescindibile principio costituzionale, quello contenuto nel co. 7 dell’art. 111, che assicura ai protagonisti del processo la possibilità di sottoporre tutte le sentenze e i provvedimenti in materia di libertà personale ad un sindacato di legittimità affidato alla Suprema Corte di cassazione.
In controtendenza con le scelte operate dal codice Rocco, il nuovo codice ha optato, da un lato, per una concezione dialettica o argomentativa della verità, ricercata quest’ultima nel processo e nel pieno rispetto dei principi che regolano la ricerca e la formazione della prova e, dall’altro, per una serie di prescrizioni in punto di motivazione che rendano conto in modo adeguato e dettagliato della decisione finale del giudice.
La sentenza costituisce del resto il prodotto finale di un dibattimento ricco di garanzie, quali il contraddittorio (nella duplice concezione oggettiva e soggettiva), l’immediatezza che presuppone un contatto diretto ed immediato tra giudice e fonti di prova, la terzietà e l’imparzialità del giudice; quest’ultimo non deve essere influenzato dai risultati delle acquisizioni probatorie operate nelle fasi precedenti né dalle eventuali iniziative officiose. Un giudice arbitro della contesa e non protagonista della vicenda probatoria come avveniva sotto la vigenza del codice Rocco.
In quest’ottica, il legislatore ha confermato il disconoscimento delle prove legali in favore di un ‘metodo legale di prova’, consistente in una successione logicamente ordinata di operazioni mentali. L’obbligo di motivare i provvedimenti giurisdizionali, infatti, costituisce l’unico vero limite al principio del libero convincimento. Dove c'è obbligo di motivazione c’è obbligo di metodo: v’è una struttura legale di motivazione (art. 192, co. 1, c.p.p.) che riflette un modello legale di metodo di prova.
Al giudice è quindi imposto di motivare razionalmente e adeguatamente i provvedimenti giurisdizionali, di rendere cioè evidenza della razionalità dell’itinerario mentale che ha portato alla decisione emessa. La conseguenza che ne scaturisce è che non vi è spazio per il verdetto immotivato né per il riconoscimento senza limiti del principio del libero arbitrario, soggettivo e insindacabile convincimento. In altre parole, «la motivazione diventa la linea di confine del libero convincimento e dovrebbe impedire al giudice di fuggire dalla propria razionalità» (Garofoli, V., Diritto processuale penale, II ed., Milano, 2012, 47 ss.).
Il principio del libero convincimento trova affermazione nel primo comma dell’art. 192 c.p.p. in forza del quale «il giudice valuta la prova dando conto nella motivazione dei risultati acquisiti e dei criteri adottati”. È importante indicare in sentenza i criteri adottati ed i risultati acquisiti, in quanto così facendo è possibile garantire la pubblicità del ragionamento del giudice e la controllabilità della coerenza argomentativa e della congruità sostanziale, ovverosia la sua ragionevolezza.
L’art. 192 c.p.p. però non si limita a fissare gli snodi principali del congegno decisorio rimesso al giudice, ma traccia al suo interno l’iter delle acquisizioni probatorie che possono essere ritualmente poste a fondamento della decisione. La valutazione probatoria non è solo considerata nel suo aspetto ‘statico’ di un giudizio guidato ma piuttosto nella sua vocazione ‘dinamica’ di un percorso che il giudice deve compiere per pervenire, nel giusto processo, ad una giusta decisione. Non può considerarsi soddisfatto questo ‘onere di motivazione’ se il giudice si limita ad una mera considerazione del valore autonomo dei singoli elementi di prova senza pervenire a quella valutazione unitaria che è principio cardine del processo penale, perché sintesi di tutti i canoni dettati dalla norma stessa; in questa prospettiva, il giudice deve prendere in considerazione ogni singolo fatto ed il loro insieme, non in modo parcellizzato ed avulso dal generale contesto probatorio, verificando se essi, ricostruiti in sé e posti vicendevolmente in rapporto, possano essere ordinati in una ricostruzione logica, armonica e consonante che permetta di attingere la verità processuale (Cass. pen., 12.7.2005, n. 39866).
Inoltre, un obbligo di argomentare in maniera razionale postula il confronto tra le opposte ragioni e, quindi, tra prove contrastanti da cui si svolgono le ragioni stesse. In sintonia con quanto stabilito dalla lettera e) dell’art. 546 c.p.p., a fronte di due tesi contrapposte su una determinata questione, al giudice è richiesto non solo la dimostrazione della fondatezza della tesi accettata ma anche la confutazione della tesi opposta. L’argomentazione costituisce garanzia imprescindibile per un processo giusto; parità delle armi non significa solo equa distribuzione dei poteri tra le parti ma presuppone anche l’uguaglianza delle medesime nella prospettazione delle rispettive tesi (accusatoria e difensiva), nel trattamento delle prove a carico e di quelle a discarico nella formazione del convincimento del giudice. L’obbligo di motivare mette il giudice nella condizione di dover rendere ragione della razionalità dell’itinerario mentale percorso per giungere alla decisione e pone le premesse per il controllo affidato al giudice del grado successivo.
Il giudice non è peraltro tenuto ad argomentare su tutti gli elementi presentati dalle parti o comunque su tutti gli elementi che transitano nel processo, essendone pacificamente esclusi quelli neutri sul piano probatorio e quelli irrilevanti. La giurisprudenza ha chiarito che non occorre che il giudice di merito dia conto, nella motivazione, della valutazione di ogni disposizione assunta e di ogni prova, come di altre possibili ricostruzioni dei fatti che possano condurre a eventuali soluzioni diverse da quella adottata, egualmente fornite di coerenza logica, ma è indispensabile che egli indichi le fonti di prova di cui ha tenuto conto ai fini del suo convincimento, e quindi della decisione, ricostruendo il fatto in modo plausibile con ragionamento logico e argomentato (Cass. pen., 24.10.1997, n. 11984, Todini, in CED rv. n. 209490). La prescrizione di un dovere di motivare pone in risalto l’opzione per la concezione dialettica della prova incentrata sul contraddittorio, quale metodo di ricostruzione del fatto e ne valorizza la funzione di garanzia sul piano dell’effettività, tramite la esplicita tutela del diritto alla controprova, assicurata dalla prescrizione che la sentenza contenga «l’enunciazione delle ragioni per le quali il giudice ritiene non attendibili le prove contrarie». La dialettica dei risultati di prova costituisce, infatti, requisito indispensabile della motivazione. I partecipanti devono avere la possibilità di argomentare l’uno contro l’altro e il giudice è vincolato in modo particolarmente intenso alle ragioni a favore e contro una decisione articolate dalle parti. In tal modo, si realizza un corretto rapporto tra contraddittorio, giudizio e sua giustificazione in sede di redazione dei motivi della decisione, che risulta rispettoso non solo delle finalità ontologiche dei diversi momenti del processo, ma anche, in definitiva, della terzietà del giudice e del dominio delle parti su tutte le attività probatorie, comprese quelle sollecitate dallo stesso organo giurisdizionale. Inoltre, il rinvio ai ‘risultati acquisiti’, quale oggetto della valutazione probatoria e della conseguente motivazione, relega a una condizione di mero corollario un ulteriore canone del giudizio, e precisamente, quello secondo cui il giudice non può utilizzare ai fini della deliberazione prove diverse da quelle legittimamente acquisite nel dibattimento ex art. 526 c.p.p.
In definitiva, come acutamente evidenziato in dottrina, è «nella motivazione il vero fattore discriminante del nostro ordinamento rispetto a quelli di common law, nella necessità di pronunciare una decisione motivata a fronte del verdetto (immotivato) tipico di quegli ordinamenti. Ed è in quell’obbligo di indicare i criteri adottati, che significa non soltanto dar conto delle regole logiche, delle leggi scientifiche e delle massime d’esperienza adoperate ma anche far emergere, implicitamente, le regole probatorie e di giudizio di cui ci si è serviti, che si gioca a tutto tondo l’attività interpretativa del giudice, e la correlata possibilità di operare un controllo sulla stessa nei gradi successivi del giudizio» (Lorusso, S., Interpretazione, legalità processuale e convincimento del giudice, in www.penalecontemporaneo.it, 10.6.2015).
Per come in precedenza accennato, proprio di recente, la riforma Orlando è intervenuta sulla struttura della sentenza, arricchendo di contenuti la lettera e) dell’art. 546 c.p.p. Tale ultima disposizione già prevedeva che il giudice, oltre alla concisa esposizione dei motivi di fatto e di diritto su cui la decisione è fondata, dovesse, da un lato, indicare i risultati acquisiti e i criteri utilizzati per la valutazione della prova e, dall’altro, enunciare le ragioni poste a fondamento del giudizio di inattendibilità delle prove contrarie. Ora, per effetto delle modifiche apportate, l’enunciazione delle ragioni della decisione deve riguardare specificamente: a) l’accertamento dei fatti e delle circostanze che si riferiscono all’imputazione e alla loro qualificazione giuridica; b) la punibilità, la determinazione della pena, secondo le modalità stabilite dal capoverso dell’art. 533, e la misura di sicurezza; c) la responsabilità civile derivante dal reato; d) l’accertamento dei fatti dai quali dipende l’applicazione di norme processuali. Il legislatore ha cioè trasfuso nella struttura della sentenza il contenuto previsto dall’art. 187 c.p.p. in tema di oggetto di prova.
L’intervento normativo è di particolare incisività, essendo finalizzato a rendere puntuale l’indicazione di numerosi elementi che solitamente già compendiano, benché non espressamente richiesti dalla legge, le complessive risultanze esposte nella motivazione della sentenza, ma che da oggi costituiscono un requisito della sentenza. Esaustiva può essere anche la motivazione contenente una succinta esposizione dei fatti e di diritto, indipendentemente dal numero di pagine e dalla lunghezza delle prospettazioni, in quanto la motivazione della sentenza costituisce l’esplicitazione del percorso logico seguito dal giudice. Rilevano, invece, il contenuto, la chiarezza, la validità argomentativa delle proposizioni, derivanti dalla logicità delle connessioni e delle interferenze valutative, gli elementi essenziali della motivazione, la quale a sua volta costituisce la garanzia costituzionalmente prevista a tutela del cittadino per limitare il potere giudiziario al solo esercizio della discrezionalità attribuitagli nei limiti di un procedimento legale.
Più precisamente, la novella ha inteso fornire un modello standard di motivazione al quale il giudice si deve attenere e l’apparato argomentativo, oltre a documentare lo sviluppo logico posto a fondamento della decisione, deve fornire una risposta alle deduzioni prospettate dalle parti nel corso del giudizio. Ciò significa che la decisione non può solo limitarsi alla esposizione delle ragioni a sostegno della soluzione adottata ma deve fornire spiegazione, attraverso lo sviluppo dialogico e discorsivo del ragionamento, delle ragioni per le quali le tesi alternative sostenute ex adverso non possano essere condivise. Se il processo deve ruotare attorno al principio del contraddittorio tra le parti, allora tale principio non può non investire anche la ‘motivazione’, soprattutto considerando che attraverso la motivazione il giudice deve dar conto del contributo dialettico di ciascuna parte sui temi in ordine ai quali cade l’obbligo di motivazione. Inoltre, è il caso di ricordare che il processo è fondato anche sul principio della parità delle armi, il quale non presuppone solo equa distribuzione dei poteri tra le parti ma anche uguaglianza delle medesime nella prospettazione delle rispettive tesi (accusatoria e difensiva), nel trattamento delle prove a carico e di quelle a discarico nella formazione del convincimento del giudice.
Nelle intenzioni del legislatore vi è anche l’obiettivo di rendere più chiara e schematica la struttura della motivazione, fornendo all’organo giudicante, monocratico o collegiale che sia, una più dettagliata indicazione degli argomenti da esaminare e sviluppare nella parte motiva della sentenza. Assunto questo che trova riscontro negli stessi obiettivi prefissati dall’originario d.d.l. della riforma, finalizzati a costruire «un modello legale di motivazione in fatto» capace di esplicitare il «ragionamento probatorio» del giudice e di «costituire l’effettivo paradigma devolutivo sul quale commisurare la facoltà di impugnazione delle parti e i poteri di cognizione del giudice dell’impugnazione, con specifico riferimento alle parti della decisione alle quali si riferisce l’impugnazione nonché alle prove di cui si deduce l’omessa assunzione ovvero l’omessa o erronea valutazione». In questa prospettiva, la riforma presuppone l’utilizzo di un linguaggio sobrio ed essenziale, tale da evitare inutili esibizioni argomentative e dimostrative, agevolando al contempo l’eventuale controllo del decisum in sede di gravame. Non solo bisognerà dar conto degli esiti dell’istruttoria dibattimentale ma occorrerà anche fornire i parametri, quali ad esempio le massime di esperienza, utilizzati nella successiva fase di valutazione delle prove.
Ciò posto, alla recente riforma va riconosciuto il merito di aver rafforzato un duplice controllo: in primis, quello compiuto dall’opinione pubblica sull’attività giurisdizionale ed, in secondo luogo, quello affidato al giudice dell’impugnazione in ordine alla completezza, logicità e coerenza della motivazione e del rispetto dei parametri di legge inerenti l’attività deliberativa del giudice.
La natura delle modifiche apportate alla struttura della motivazione induce a pensare che al giudice sia oggi richiesto di far rivivere in sentenza tutto ciò che è avvenuto nel processo ed, elevando lo standard motivazionale imposto al giudice, la sensazione che ne scaturisce è che con la motivazione si debba complessivamente e in maniera più incisiva rispetto al passato, dar conto della regolarità del processo.
Ma vi è di più. Strettamente collegata alla modifica della lettera e) dell’art. 546 c.p.p. è l’interpolazione operata, sempre dalla legge n. 103/2017, all’art. 581 c.p.p. che nella sua nuova formulazione prevede l’enunciazione specifica nell’atto di impugnazione non più solo delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto che sorreggono ogni richiesta, ma anche dei «capi o i punti della decisione ai quali si riferisce» l’atto (lett. a), «delle prove delle quali si deduce l’inesistenza, l’omessa assunzione o l’omessa o erronea valutazione» (lett. b) e «delle richieste, anche istruttorie» (lett. c).
Da una primissima e soprattutto sintetica disamina del nuovo testo dell’art. 581 c.p.p. è dato rilevare che: 1) è stata introdotta superfluamente una sanzione di inammissibilità già prevista dall’art. 591 c.p.p.; 2) è stato precisato che l’enunciazione del contenuto dell’impugnazione deve essere ‘specifica’; 3) è stato aggiunto l’obbligo di indicare le «prove delle quali si deduce l’inesistenza, l’omessa assunzione o l’omessa e l’erronea valutazione»; 4) è stato precisato che l’enunciazione delle richieste si estende anche a quelle ‘istruttorie’.
Sul piano operativo, tali modifiche si pongono in sintonia con il recentissimo indirizzo giurisprudenziale delle Sezioni Unite, ove è stabilito che «l’appello al pari del ricorso per cassazione è inammissibile per difetto di specificità dei motivi quando non risultino esplicitamente enunciati e argomentati i rilievi critici rispetto alle ragioni di fatto e di diritto poste a fondamento della sentenza impugnata» (Cass. pen., 27.10.2006, n. 8825).
Per valutare concretamente la riuscita o meno dell’intervento riformatore occorrerà attendere le pronunce della giurisprudenza sulle molteplici questioni che si profileranno. Tuttavia, una cosa è certa: con la modifica dell’art. 546 c.p.p. si è venuto a delineare un modello legale della motivazione in fatto della decisione, mentre, con la interpolazione dell’art. 581 c.p.p., si è raggiunto l’obiettivo di rafforzare l’onere della parte di enunciare specificamente i motivi dell’impugnazione, così da assicurare meglio la razionalizzazione e la semplificazione della procedura impugnatoria.
Fonti normative
Art. 111, co. 6 e 7 Cost.; artt. 125, 192, 546, 581, c.p.p.; l. 23.6.2017, n. 103.
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