STRUTTURA
(App. III, 11, p. 857). -
Ingegneria civile: Strutture in acciaio; Strutture antisismiche; Strutture prefabbricate; Tensostrutture; Strutture per edifici alti; Moderni orientamenti nei procedimenti di calcolo delle strutture. Matematica.
Strutture in acciaio.
Nel campo proprio delle s. in acciaio rientrano tutte le s. delle costruzioni per uso civile o industriale, realizzate mediante profilati di acciaio ottenuti per laminazione a caldo o formati a freddo mediante piegatura. Restano esclusi i componenti strutturali caratterizzati da una imbutitura di lamiere (per es., carrozzerie portanti di veicoli) così come tutti gli organi di macchina in movimento.
Le s. in acciaio si differenziano a seconda della destinazione delle costruzioni di cui costituiscono l'ossatura portante. Vi si possono comunque riconoscere alcune precise tipologie a seconda che le costruzioni siano adibite a uso civile (edifici mono- e multipiano), industriale (capannoni, magazzini) o siano destinate a sostenere impianti industriali (nastri per il trasporto dei materiali, caldaie, forni, ecc.) ovvero abbiano una ben precisa funzione (ponti, piloni per linee elettriche o funivie, sili e tramogge di stoccaggio). Un ulteriore campo d'applicazione, è costituito da tutte quelle attrezzature speciali destinate all'utilità dei cantieri di costruzione (tralicci di varo, impalcati, centine per sostenere getti in calcestruzzo, pontili e vie di scorrimento) che, per la loro provvisorietà nel tempo, ben si prestano all'uso dell'acciaio; esso infatti permette la rapidità del montaggio e il recupero del materiale.
Le s. in acciaio vengono realizzate mediante la lavorazione nelle carpenterie e l'assemblaggio di elementi prodotti a livello industriale nelle acciaierie, quali lamiere, profilati monodimensionali con sezioni di varia forma (putrelle a ???:, angolari a ??? lati uguali o diseguali, a ???N, tubi quadrati, rettangolari o rotondi), ovvero con profilati ottenuti per piegatura a freddo di lamiera (???, ???, ???). Ne discende che uno dei maggiori problemi, sia tecnologico sia progettuale, risulta la giunzione di tali elementi e la formazione dei nodi, cioè di quei punti della s. in cui convergono più elementi strutturali, variamente disposti nello spazio. Si possono distinguere due famiglie di giunzioni: saldate e bullonate. Le prime hanno il vantaggio di poter ripristinare, se necessario, la capacità resistente degli elementi da giuntare in quanto i pezzi possono essere collegati in modo continuo lungo tutto il perimetro di giunzione anche interessando l'intero spessore delle sezioni. Le seconde risultano necessariamente discontinue, indeboliscono i pezzi per la presenza dei fori e pertanto, salvo poche eccezioni, rendono la giunzione un punto debole della struttura. D'altra parte, per ottenere una saldatura efficiente, devono realizzarsi particolari condizioni, sia per riguardo all'ambiente atmosferico circostante durante le operazioni di saldatura (temperatura, umidità, ecc.), sia relativamente alla capacità del saldatore e alla possibilità di operare in posizioni comode e facilmente accessibili. Tali condizioni non sono invece richieste per le giunzioni bullonate e pertanto, per quanto possibile, va rispettato il criterio di evitare la saldatura per assemblare pezzi in cantiere durante il montaggio. La bullonatura inoltre è decisamente più economica perché è più rapida e non necessita di lunghe operazioni manuali: non di rado la s. in acciaio si presenta tutta ("sciolta e bullonata". La s. in acciaio può essere così vista come duale di quella in cemento armato: questa nasce monolitica e solo con artifici più o meno complessi si possono svincolare fra loro le membrature per ridurre i nodi a cerniere o a semplici appoggi, la prima nasce tutta svincolata e l'economia richiede per essa la massima semplificazione dei nodi, che risultano tanto più complessi quanto maggiore è il grado di vincolo che vi si pretende. Da tale considerazione discende che: a) la tipologia delle s. in acciaio tende spesso verso sistemi isostatici, cioè sistemi per cui il numero di gradi di vincolo fra le aste è il minimo necessario; b) che bisogna sempre assicurarsi della stabilità globale della costruzione in quanto lo schema strutturale tende ad avere un numero di vincoli inferiore a quello strettamente necessario per non tramutarsi in un cinematismo. La stabilità globale della costruzione va vista e controllata, sia nel piano che nello spazio, in tutte le fasi della costruzione. Può venire garantita nel modo piü semplice disponendo opportuni incastri o munendo le s. di membrature di controvento (verticali e orizzontali) in numero sufficiente (figg. 1 e 2). Si può anche ricorrere all'abbinamento di s. di controvento con s. incernierate o a telaio (figg. 3 e 4), particolarmente utilizzate nelle s. monopiano. Negli edifici multipiano invece gli elementi di controvento orizzontali possono essere sostituiti da un getto di calcestruzzo che viene a integrare l'orditura orizzontale metallica, mentre i controventi verticali sono talvolta costituiti dalle gabbie scale e ascensori in calcestruzzo.
Le s. in acciaio sono per lo più costituite dall'impiego o dalla combinazione di tre elementi strutturali fondamentali. a) S. reticolari, costituite da elementi per lo più tesi o compressi; sono leggere e di facile esecuzione, ma necessitano di una notevole altezza globale per rapporto alla loro lunghezza. b) Telai, spesso impiegati ove è necessario ridurre gl'ingombri strutturali e sono atti a resistere a carichi sia verticali sia orizzontali, ma comportano spesso notevoli complicazioni nei nodi. c) Elementi ad anima piena (travi e colonne), realizzati con profilati o composti con piatti di lamiera mutuamente saldati (generalmente la sezione è a ???, ???, ???): hanno giunzioni semplici, altezza limitata per rapporto alla loro lunghezza e una notevole efficienza statica, a prezzo di un maggior peso di materiale rispetto alle s. reticolari.
Ulteriori soluzioni possono ritrovarsi per impieghi particolari: così le s. miste in acciaio-calcestruzzo, molto impiegate negl'impalcati da ponte, sono ottenute solidarizzando travi metalliche a ??? con una soletta in cemento armato; la giunzione è solitamente fatta tramite opportuni connettori (pioli) elettrosaldati alla parte superiore della trave e inglobati nel getto di calcestruzzo. La fune in acciaio infine può essere utilizzata in combinazione con gli altri elementi sopra indicati per costruzioni di grande luce (ponti sospesi) così come per la realizzazione di tensostrutture utili e talvolta indispensaoili, per coprire grandi superfici.
Per accertare la sicurezza delle s. in acciaio bisogna condurre una serie di verifiche di cui le tipiche sono le seguenti. a) Verifiche nei riguardi della resistenza statica del materiale, atte a controllare che lo stato di sforzo indotto dai carichi risulti ammissibile dal tipo di materiale impiegato. b) Verifiche di resistenza a fatica, opportune quando si è in presenza di carichi che possono ingenerare un numero di cicli di sollecitazione superiori a 10.000 nella vita della costruzione (s. per gru, carriponte, ecc.). c) Verifiche di deformabilità necessarie per accertare che la costruzione nel suo complesso e i suoi elementi non abbiano degli spostamenti (freccie massime delle travi, inflessioni laterali di telai o di edifici) inaccettabili per la funzionalità e l'utilizzazione: sono altrettanto importanti e spesso più condizionanti delle a). d) Verifiche di stabilità dell'equilibrio della costruzione e dei suoi elementi, da condurre nello stesso spirito di cui in a) ma controllando che lo stato di sforzo risulti inferiore a quello critico delle membrature; l'equilibrio è sempre condizionante nel calcolo degli elementi compressi (colonne), spesso in quelli pressoinflessi (ritti di telaio). Va pure tenuto presente lo svergolamento flessotorsionale delle travi inflesse e il pericolo di instabilizzazione dei pannelli di lamiera compressi o soggetti ad azione tagliante che compongono le anime delle travi o delle colonne di grandi dimensioni.
I metodi utili al calcolo delle s. metalliche sono in genere raccolti in Istruzioni o Raccomandazioni, pubblicate nei vari paesi sotto l'egida di organismi nazionali o internazionali. In Italia, oltre ad essere regolamentate dalle norme tecniche contenute nel d. m. 16 giugno 1976, le s. in acciaio sono oggetto di numerose Istruzioni pubblicate dal CNR (Consiglio Nazionale delle Ricerche) in collaborazione con l'UNI (Unificazione Italiana). Al momento attuale esse sono le seguenti: CNR-UNI, 10011: Costruzioni in acciaio. Istruzioni per il calcolo, l'esecuzione e la manutenzione; CNR-UNI, 10016: Travi composte in acciaio-calcestruzzo; CNR-UNI, 10021: Strutture in acciaio per apparecchi di sollevamento; CNR-UNI, 1002: Istruzioni per l'impiego dei profilati a freddo.
Pubblicazioni specializzate sono reperibili presso le associazioni culturali che operano a livello nazionale nel settore: ACAI (Associazione Costruttori in Acciaio Italiani, Milano) e CISIA (Centro Italiano Sviluppo Impieghi Acciaio, Milano).
Strutture antisismiche.
La fig. 5 rappresenta la tipica registrazione di un accelerometro strong motion utilizzato per studiare il moto del terreno durante un sisma violento; è registrata in ordinate l'accelerazione, secondo due direzioni orizzontali e secondo la verticale.
A differenza dei sismografi, che consentono di registrare moti impercettibili all'uomo, tipicamente i riflessi di un sisma a migliaia di km di distanza dall'epicentro, l'accelerometro strong motion registra il moto del terreno all'epicentro, comunque intenso esso possa presentarsi. Per es., durante la scossa del 6 maggio 1976 in Friuli, è stata registrata un'accelerazione massima del terreno attorno a 0,3 g (g essendo 9,81m/sec2) in senso orizzontale accompagnata, come generalmente avviene durante una scossa violenta, da una componente verticale lievemente meno intensa. La durata della scossa distruttiva è stata attorno a 40 sec. Le frequenze tipiche di questi moti sono attorno a 2 ÷ 5 Hz. A terreni più consistenti competono generalmente frequenze più elevate, fino a 10 ÷ 15 Hz; a terreni più soffici frequenze più basse. Se invece di accelerazioni si registrassero spostamenti, si osserverebbero durante un sisma distruttivo dei massimi attorno al cm su terreni consistenti e fino a una decina di cm su terreni soffici.
Molte registrazioni di tal genere sono state ottenute negli ultimi decenni, e hanno consentito tra l'altro un accurato studio del comportamento dinamico che ne consegue per le s. civili, e la formulazione di una serie di regole per la loro progettazione. In particolare sono stati messi in luce tre categorie di comportamenti tipici, che possono essere riassunte pressappoco come segue.
1) Gli edifici molto rigidi subiscono la stessa accelerazione del terreno. È il caso di molti edifici ben costruiti in muratura, di s. prefabbricate a pannelli portanti in calcestruzzo armato, di s. limitate in altezza e "scatolate", cioè con muri in calcestruzzo armato sui quattro lati tipo bunker, di fondazioni di macchine, di dighe, e di altre costruzioni ancora, caratterizzate da s. massicce e da rapporti tra le dimensioni in pianta e le dimensioni in elevazione prossimi a uno.
2) Le s. snelle e deformabili subiscono accelerazioni inferiori alle accelerazioni del terreno. È il caso di ciminiere in calcestruzzo armato o in acciaio, di grattacieli, di ponti sospesi, di edifici industriali in acciaio, di serbatoi pensili per liquidi.
3) La maggior parte dei comuni edifici di abitazione o di uffici che non rientrano nelle due categorie precedenti subiscono accelerazioni maggiori delle accelerazioni del terreno: precisamente alla base un'accelerazione pari all'accelerazione del terreno, e in sommità un'accelerazione anche doppia o tripla dell'accelerazione del terreno: per es., durante il terremoto del Friuli del 1976, un'accelerazione alla base di 0,3 g e un'accelerazione in sommità che raggiunse 0,6 o 1 g. Consideriamo dunque quest'ultima categoria di edifici e rappresentiamo il cimento che subiscono le s. durante il terremoto mediante l'insieme di forze orizzontali d'inerzia massime che si verificano durante tutta la durata del sisma (fig. 6). Tenuto conto che il terremoto si manifesta con accelerazioni orizzontali e verticali contemporanee, osserviamo innanzitutto che le componenti verticali producono forze d'inerzia verticali, che si sommano o si sottraggono al peso proprio. Si sommano o si sottraggono cioè ad azioni che comunque vanno prese in considerazione, e per le quali appunto le s. sono già organizzate e rispetto alle quali hanno anche opportuni margini di sicurezza. Nei riguardi delle forze d'inerzia orizzontali, viceversa, gli edifici non hanno una sicurezza intrinseca, poiché in condizioni normali di esercizio generalmente non sono assoggettati ad azioni orizzontali. Le forze prodotte dal vento sono per queste categorie di edifici un ordine di grandezza inferiore alle azioni sismiche. Orbene, la progettazione di edifici in zone sismiche e le norme tecniche per l'edilizia in zone sismiche mirano appunto a definire le azioni orizzontali minime da mettere in conto per salvaguardare l'edificio durante un terremoto. Conviene però anzitutto anticipare che tali azioni sono sensibilmente inferiori a quelle che occorrerebbe mettere in conto perché l'edificio rimanga integro durante l'evento sismico più severo, atteso nella zona in esame. In generale di fronte a tale evento sono consentiti danneggiamenti più o meno estesi, stante il fatto che l'evento preso in esame ha una probabilità di verificarsi minima, durante la vita nominale dell'edificio, come verrà precisato nel prossimo paragrafo.
Spirito della normativa per le costruzioni in zona sismica. - In Italia dalle cronache del secolo scorso si rileva che sono state perdute circa 25.000 vite umane durante eventi sismici. Dall'inizio di questo secolo i dati ufficiali riportano invece circa 165.000 vittime di cui oltre 123.000 in occasione del sisma di Messina. Si può ritenere per certo che tutti questi eventi si riferiscano a crolli di edifici di tipo rurale, o in generale di edifici costruiti senza previsione alcuna per le sollecitazioni sismiche.
Negli Stati Uniti i dati più accreditati riportano 1200 morti per il secolo in corso, in terremoti localizzati esclusivamente lungo la costa pacifica del territorio, ove l'attività sismica è tra le più intense del globo. È interessante osservare in particolare i 20 terremoti più violenti negli ultimi 40 anni, perché hanno interessato costruzioni in prevalenza di tipo recente. Inoltre in più della metà di questi sismi sono state colpite località dove erano in vigore norme per costruzioni in zona sismica. In questi ultimi 20 sismi i morti sono stati 330. Di questi, 110 sono stati uccisi dal maremoto che ha seguito il sisma di Alasca del 1964, 40 nel crollo di un vecchio ospizio nel 1971, costruito prima dell'entrata in vigore delle norme sismiche, 28 a seguito di frane, 3 da attacco di cuore, 4 da caduta di oggetti. In conclusione, perdite di vite umane attribuibili a un'insufficiente progettazione si sono verificate solo in alcuni eventi sporadici. Peraltro, i danni economici totali in questi ultimi 20 terremoti maggiori ammontano a oltre 1500 milioni di dollari, dei quali però solo una parte si riferisce ai danni agli edifici civili. Il costo dei danni si riduce sensibilmente quando si considerino terremoti di minore intensità, pur tenendo conto del loro maggiore numero.
Entrando nel dettaglio, un dato può essere esemplificativo per le considerazioni che tra poco trarremo: durante il terremoto di Kern County (California) del 1952 è stato raffrontato il comportamento di una serie di scuole, edifici tutti abbastanza simili come concezione strutturale, dei quali un gruppo era stato progettato in accordo a norme sismiche e un altro gruppo, meno recente, non lo era affatto. Il raffronto è riportato nella tabella.
Tutti questi dati suggeriscono alcune considerazioni. Ci sono innanzi tutto elementi sufficienti per affermare che l'introduzione di norme tecniche per l'edilizia in zona sismica raggiunge il principale scopo che il legislatore si è prefisso: salvaguardare le vite umane. E ci sono per contro elementi per considerare con preoccupazione qualunque edificio in condizioni strutturali precarie soprattutto se in muratura. In Italia, in particolare, un terzo del territorio è sismico e buona parte del restante territorio risente, più o meno intensamente, delle scosse provenienti dalle zone sismicamente attive.
Una seconda considerazione riguarda l'ammontare del danno economico dei 20 terremoti che abbiamo menzionato come i più intensi negli SUA dal 1933 a oggi. Parte di questo danno si riferisce anche a edifici di recente costruzione e progettati correttamente secondo norme sismiche. E infatti gl'intenti della normativa per le zone sismiche sono di limitare i danni in occasione di sismi di debole intensità ma non di mantenere le s. indenni di fronte ai sismi più severi, come potrebbero mantenersi solo se venissero progettate per resistere a questi in campo elastico. Precisamente in campo elastico devono rimanere per terremoti di minore intensità quali quelli che ragionevolmente possono attendersi in media una volta nella vita nominale dell'edificio.
Un terzo obiettivo deve perseguire la progettazione per forze sismiche: ospedali, centrali elettriche, stazioni di polizia e di vigili del fuoco e altri edifici pubblici debbono poter assicurare la loro funzionalità di fronte a qualsiasi evento, per poter fungere da centri di soccorso, di organizzazione e di asilo anche dopo un disastro. D'altra parte le stazioni radio, i servizi telefonici e telegrafici, se venissero meno in occasione di un disastro, aggraverebbero enormemente il disagio e i danni alle popolazioni colpite. Lo stesso concetto vale per le vie di comunicazione, e quindi per i ponti, le ferrovie, le gallerie: nei territori italiani, per es., occorrerebbe dedicare particolare attenzione alla stabilità dei pendii in prossimità di vie di comunicazione e preoccuparsi che eventuali frane non isolino le zone colpite. Altri tipi di edifici debbono resistere senza danni, cioè in campo elastico, al più severo sisma attendibile: quelli che ospitano persone non in grado di mettersi in salvo in caso di pericolo, per es., asili, scuole elementari, ospizi e ancora gli ospedali. Nella stessa esigenza si trovano gli edifici industriali che alloggiano materiali pericolosi (centrali nucleari, raffinerie, industrie chimiche, ecc.).
In definitiva la progettazione sismica va sviluppandosi attualmente con diverse esigenze: per i comuni edifici di abitazione e industriali si richiede che la s. sia in grado di sopportare in regime elastico il terremoto la cui intensità corrisponde, per la zona in esame, a un periodo di ritorno pari alla vita nominale della s. stessa, cioè mediamente pari a 100 anni. Si richiede inoltre che la s. possegga sufficienti riserve di resistenza, oltre il limite elastico, per sopportare senza crolli, anche se con sensibili danneggiamenti, il terremoto più severo attendibile per la zona in esame. Per le vie di comunicazione e gli edifici speciali cui si è fatto riferimento in precedenza si richiede invece che siano in grado di resistere senza danni al più severo evento naturale che è dato attendersi nella zona in esame.
Si noti che per una costruzione regolare, che rispetti le simmetrie e la congruenza delle deformazioni e non sia molto sviluppata in altezza, l'extracosto per attrezzare la s. a resistere alle forze sismiche è di poche unità per cento: per un edificio di due o tre piani, al limite, l'extracosto può essere nullo se la costruzione è in calcestruzzo armato o in acciaio. Si consideri inoltre che per gli edifici speciali precedentemente menzionati il costo della s. è per lo più una piccola parte del costo totale dell'edificio con i suoi impianti; si comprende allora come possa risultare sensato per tali edifici rinunciare a un'ottimizzazione, oggi ancora incerta, del rapporto costi/benefici, quale vorrebbe in teoria un economista, e richiedere invece tutte le garanzie di fronte a eventi sismici.
In Italia la normativa vigente riconosce preliminarmente un elenco di comuni per i quali è obbligatoria l'osservanza delle prescrizioni per le costruzioni in zone sismiche. Le s. in tali comuni vanno progettate per resistere ad azioni orizzontali, che rappresentano le forze d'inerzia generate dal sisma. In proposito si noti che mentre le precedenti norme supponevano un comportamento rigido della s., cioè secondo il primo schema detto nelle premesse, le norme attuali mettono in conto la deformabilità della s. e quindi il suo comportamento dinamico. Le distribuzioni delle forze d'inerzia lungo l'altezza dell'edificio hanno l'aspetto illustrato in fig. 7 A e B rispettivamente nei due casi. Per quanto riguarda l'analisi dinamica della s., che interessa in modo particolare gli edifici a grande sviluppo verticale, si veda il paragrafo strutture per edifici alti, in questa stessa voce.
Bibl.: National academy of sciences, Earthquake engineering research, Washington 1969; Architectural institute of Japan, design essential in earthquake resistant buildings, Amsterdam e New York 1970; R. L. Wiegel, Earthquake engineering, Londra 1970; R. Baldacci, G. Ceradini, E. Giangreco, Dinamica e stabilità, Milano 1971; E. Rosenblueth, N. Newmark, Fundamentals of earthquake engineering, Londra 1971; International association for earthquake engineering, Earthquake resistant regulations: a world list 1973, Tokyo 1973; S. Okamoto, Introduction to earthquake engineering, ivi 1973; A. Catellani e altri, Calcolo di strutture in zona sismica, Milano 1975. Si veda inoltre: Abstract journal in Earthquake engineering, pubblicato annualmente da Earthquake engineering center, University of California, Richmond.
Strutture prefabbricate.
La prefabbricazione è un mezzo tecnico, capace di offrire soluzioni costruttive ottimali soprattutto quando l'opera o, in particolare, l'edificio da realizzare comporta elementi strutturali ripetibili, che possono essere prodotti in largo numero in stabilimento o a piè d'opera. Ma l'impiego della prefabbricazione può essere giustificato anche da altre situazioni come: ristrettezza del tempo a disposizione per la costruzione; particolari condizioni di situ o ambientali del cantiere.
Il ricorso alla prefabbricazione può ritenersi valido solo quando sia stato verificato che altri sistemi d'industrializzazione del cantiere non risultino economicamente più vantaggiosi. Un fattore primario, che può dare una forte spinta verso l'impiego di processi di prefabbricazione, è la sempre più limitata disponibilità di manodopera specializzata nell'edilizia, data la forte attrazione esercitata sui giovani da settori industriali, che prospettano un lavoro più continuativo e in condizioni meno disagiate.
I processi di prefabbricazione possono essere utili anche per ottenere una migliore qualità del prodotto: infatti la produzione in stabilimento è più facilmente controllabile, con il risultato di una maggiore precisione e un miglioramento di tutte le caratteristiche del prodotto, a cominciare dalla sua durata nel tempo.
La prefabbricazione può essere totale, cioè estesa a tutta la s. dell'edificio, così come accade spesso per gli edifici industriali o per gli edifici residenziali col sistema a pannelli portanti; ovvero può risultare limitata ad alcune parti della s., per le quali il processo risulti più conveniente.
Se solo la pannellatura esterna soddisfa a quelle condizioni di ripetitività che giustificano il ricorso a sistemi industrializzati, si è aì limiti della prefabbricazione strutturale, in quanto i pannelli possono risultare solo aggregati alla s. tradizionale, senza funzione portante.
La prefabbricazione può avvenire a piè d'opera, con limitata attrezzatura, o in stabilimento, con spinta meccanizzazione. Si ricorre al primo sistema nel caso di cantieri di piccole dimensioni o fuori dal raggio economico di azione dello stabilimento di prefabbricazione. Sono numerosi gli esempi d'impiego di questo sistema nei cantieri per l'edilizia scolastica. La prefabbricazione parziale a piè d'opera viene utilizzata spesso in molti cantieri edili limitatamente ad alcune parti della costruzione a elevata ripetitività, come elementi di solaio o di facciata, ecc.
Un largo impulso alla prefabbricazione è stato dato dall'introduzione delle tecniche di precompressione nelle s. in cemento armato. Precomprimendo l'elemento prefabbricato è possibile limitare il pericolo di fessurazione durante il trasporto e la posa in opera; si possono inoltre coprire, a parità di peso, luci maggiori, grazie alla più elevata sollecitazione ammissibile e al miglior sfruttamento del materiale.
Problemi progettuali. - Il calcolo delle s. prefabbricate non differisce sostanzialmente da quello delle s. tipologicamente simili gettate in situ. Naturalmente bisogna tener conto delle particolarità relative alle tecnologie adottate e precisamente (secondo il Comité eurointernational du béton):
il comportamento delle unioni, che possono introdurre nella s. gradi di libertà addizionali, completi o parziali;
le incertezze nel valore delle reazioni mutue dei vari elementi contrapposti e delle loro unioni;
il ritiro differenziale tra il calcestruzzo di età e/o di composizione differente;
eventualmente le deformazioni differenziali tra calcestruzzi di proprietà meccaniche differenti.
Nel calcolo si deve tener conto dell'incidenza, sulla resistenza dell'unione, di eventuali sforzi secondari, che possono coesistere con gli sforzi principali, e delle tolleranze di fabbricazione e di montaggio, se queste hanno un'influenza sensibile sul dimensionamento. Occorre che le azioni vengano definite con maggiore precisione in quanto negli elementi prefabbricati le resistenze sono meno variabili che nelle s. tradizionali, per cui si deve tener conto di tutte le cause di variabilità delle sollecitazioni, come le eccentricità connesse a errori di esecuzione, derivanti dalla fabbricazione o dal montaggio. È da tener presente anche che negli elementi prefabbricati la rottura può essere di tipo fragile e può avvenire sia negli elementi, sia nelle unioni o nell'insieme strutturale. Ai fini della sicurezza si deve avere la massima cura nella progettazione e nell'esecuzione delle unioni, elemento caratterizzante e spesso il più delicato delle s. prefabbricate.
Per quanto riguarda particolarmente le s. prefabbricate a pannelli portanti, oltre che le normali azioni dovute ai carichi fissi e accidentali e alle variazioni termoigrometriche, bisogna prevedere due eventi di particolare importanza: l'eventuale cedimento delle fondazioni e il pericolo di eventi accidentali, come esplosioni o urti, che possono danneggiare uno o più elementi portanti, con possibilità d'innesco del pericoloso fenomeno del collasso progressivo. Circa l'eventuale cedimento delle fondazioni è da tener presente che le s. a pannelli sono, per la loro natura, molto rigide e non hanno la possibilità di seguire cedimenti differenziali, anche non rilevanti, delle s. di fondazione. Per cui è necessario prevedere fondazioni di notevole rigidezza, in rapporto alla resistenza del terreno.
Per evitare il pericolo del collasso progressivo è necessario solidarizzare i vari elementi, senza basarsi sulla stabilizzazione fittizia derivante dal peso proprio degli elementi sovrapposti. È indispensabile quindi prevedere incatenamenti in acciaio che realizzino sia una cintura perimetrale, sia un collegamento tra le facciate opposte, interessando tutti i pannelli verticali.
Le norme italiane per limitare gli effetti di eventi accidentali, che possono determinare il collasso progressivo, prescrivono d'ipotizzare la rovina di uno e anche di due pannelli portanti di angolo, per cui bisogna prevedere un'armatura aggiuntiva verticale nei pannelli di parete, che intersechi gl'incatenamenti contenuti nei solai. Sarà inoltre necessario che i pannelli sovrastanti quelli supposti mancanti possano funzionare, col solaio sottostante, a mensola, anche se tali pannelli sono interessati da eventuali aperture.
Nel caso di s. prefabbricate in zone sismiche bisogna curare al massimo sia l'impostazione progettuale, che i particolari costruttivi e il montaggio degli elementi.
Contrariamente alle s. gettate in opera, caratterizzate da vincoli sovrabbondanti determinati dalla monoliticità del complesso strutturale, le s. prefabbricate in partenza non hanno connessione tra i vari elementi ed è il progettista che deve distribuire i vari collegamenti in funzione della continuità che vuole dare alla s. e quindi alle ipotesi di comportamento statico previsto per tutto il complesso. In ogni caso bisogna evitare elevate dissimetrie in pianta degli elementi resistenti (criterio valevole anche per s. non prefabbricate in zone sismiche). Nel caso di edifici prefabbricati a pannelli portanti di limitato numero di piani (6 ÷ 10) la s. può essere assimilata, agli effetti delle azioni orizzontali di origine sismica, a una mensola verticale vincolata elasticamente alla base, mensola di rigidezza molto elevata rispetto a quella del suolo, per cui la deformazione di gran lunga preponderante è quella dovuta alla traslazione e soprattutto alla deformazione della base, mentre la deformazione della s. risulta molto limitata. In genere quindi edifici prefabbricati a pannelli portanti di altezza limitata, che non presentino errori d'impostazione progettuale, ma in cui sia stata opportunamente studiata la distribuzione in pianta dei pannelli resistenti, hanno una riserva di resistenza tale da poter far fronte alle azioni sismiche.
Con l'aumentare dell'altezza, invece, le sezioni dei normali pannelli portanti non sono tali da resistere alle azioni sismiche in campo elastico, per cui è necessario prevedere, nella s. verticale, delle zone a duttilità elevata che possano funzionare da dissipatori di energia, per effetto delle loro deformazioni in campo anelastico. Non è però da ipotizzare che meccanismi di dissipazione possano essere i giunti orizzontali o verticali tra i pannelli, i quali devono invece assicurare un'elevata monoliticità agli elementi strutturali. Possono rispondere allo scopo i pannelli contenenti aperture per porte o finestre, che spesso presentano una regolarità di disposizione sulla verticale (fig. 8). Armando opportunamente le travi di collegamento dei pannelli in corrispondenza delle aperture (elementi sopra-vani), questi possono assorbire una forte quantità di energia, permettendo la concentrazione in essi di elevate deformazioni plastiche, che altrimenti sarebbero avvenute negli elementi portanti della s., con possibilità di collasso di essa. Un tipo di armatura già sperimentata per assicurare la duttilità di tali elementi è quello a croce di Sant'Andrea (fig. 9).
Tipologie per gli edifici industriali. - Negli edifici industriali la prefabbricazione interviene molto spesso in maniera totale, dai pilastri agli elementi di copertura; soltanto i plinti di fondazione vengono con più frequenza gettati in opera.
Il volume di edifici industriali realizzati in Italia ricorrendo a tecniche di prefabbricazione in calcestruzzo in questi ultimi decenni è imponente: è difficile che venga realizzato un edificio industriale di una certa entità con metodi tradizionali. Attualmente operano in Italia circa 500 stabilimenti per la produzione di elementi prefabbricati in calcestruzzo adatti alla realizzazione di edifici industriali. La produzione in genere è di tipo chiuso, nel senso che tutti gli elementi della s. dell'edificio vengono realizzati da una stessa ditta di prefabbricazione, che si occupa sia della produzione degli elementi che del montaggio, fino ad arrivare a metodi di vendita tipo "chiavi in mano", che assicurano al cliente un prodotto completo per tutta la parte che riguarda le opere civili.
Una prima classificazione degli edifici industriali deriva dalla conformazione della copertura: a doppia falda o piana, a shed o a profilo prismatico o curvilineo. La copertura a doppia falda è quella che viene impiegata più frequentemente in quanto più economica: il facile deflusso delle acque, determinato dalla minima pendenza della falda, permette una notevole economia nelle costose opere d'impermeabilizzazione. La copertura a shed (fig. 10) è stata molto usata nei primi stabilimenti industriali perché ben risolveva il problema dell'illuminazione naturale. Ma l'impiego di nuovi materiali traslucidi per l'illuminazione, il ricorso alla luce artificiale in alcuni tipi di fabbricati industriali, l'indubbio maggior costo dello shed, rispetto alla trave a doppia pendenza, hanno spostato sempre più le preferenze verso quest'ultimo tipo di struttura (fig. 11).
La copertura piana permette interessanti realizzazioni dal punto di vista estetico, elimina, rispetto alla copertura a doppia falda, spazi morti interni da riscaldare o condizionare, ma comporta, come abbiamo detto, costi d'impermeabilizzazione e pesi supplementari nella copertura non trascurabili. Negli edifici a copertura piana le travi principali possono avere forme diverse, dalla sezione a I, la più economica e quindi la più diffusa, alla sezione a omega, che consente un miglior appoggio della s. secondaria, dalla sezione a V alla sezione a cassone o alla sezione risultante dall'accoppiamento di due L. Solo raramente si ricorre a travi di tipo reticolare.
Nelle coperture a doppia pendenza domina incontrastata la trave a doppia falda precompressa a fili aderenti, che con il suo profilo a uniforme resistenza permette di ottenere il minimo peso a parità di portata. La doppia pendenza può essere realizzata anche con s. principali a telaio a tre cerniere o, più raramente, con travi reticolari con correnti superiori inclinati. Nel caso di travi a doppia falda a parete piena la luce economica massima è circa 30 m, aumentabile a 50 m con sezione a omega e realizzazione a due conci uniti in situ con precompressione (fig. 12).
Alla trave a doppia falda venivano accoppiate come elementi economici di copertura le lastre in amianto-cemento, ma ora si vanno sempre più affermando come s. secondaria il tipico elemento a doppio T con larghezza di 2,50 m, o i tegoli nervati variamente sagomati e con solette di limitato spessore.
Il doppio T è l'elemento più comunemente impiegato anche come s. secondaria delle coperture piane, ma qui si ha la tendenza a superare notevolmente i 10 ÷ 12 m della s. secondaria delle coperture a doppia pendenza, per arrivare fin verso i 25 m. Per grandi luci si adottano particolari tegoli di copertura ad andamento prismatico o curvilineo, come elementi a profilo parabolico, o tegoli a doppia curvatura (Siberkuhl), o tegoli a doppia pendenza con sezione a T, oppure ancora tegoli a sezione trasversale prismatica o a Y.
La chiusura perimetrale degli edifici industriali viene realizzata con pannelli di tamponamento di cui sul mercato esiste una gamma molto estesa; alcune ditte di prefabbricazione producono esclusivamente questo tipo di elementi. La soluzione di pannello a sviluppo orizzontale è esteticamente la meno accettabile, ma risulta economica per la possibilità che il pannello venga sostenuto direttamente dai pilastri dell'edificio, nei quali viene creata un'apposita guida. I pannelli verticali sono invece quelli che si prestano alle migliori soluzioni; essi sono gli elementi che spesso determinano l'aspetto estetico dell'edificio industriale. Questo pur essendo generalmente piuttosto lineare può acquistare, per effetto del disegno del pannello o del suo colore o della qualità della sua superficie a faccia a vista, un valore formale rilevante. La superficie interna del pannello è generalmente piana, quale risulta dal getto contro cassero; la superficie esterna è normalmente anch'essa piana ma può contenere nervature o particolari sfaccettature (figg. 13 e 14).
Esistono molte tecnologie di trattamento superficiale del pannello, che utilizzano speciali vernici per la colorazione o anche per la sola protezione nel tempo della superficie in calcestruzzo, il quale può essere bianco, o grigio, o colorato, spesso con inerti a vista.
Ai fini dell'isolamento termico il pannello viene generalmente realizzato con due strati in calcestruzzo e uno strato intermedio in polistirolo espanso; nel caso di pannelli monostrato spesso l'isolamento termico viene assicurato confezionando il calcestruzzo con inerti leggeri di argilla espansa.
Tipologie per gli edifici civili. - Nel campo degli edifici civili (residenziali, per uffici o per scopi sociali) le tipologie in atto sono tre: sistemi a telaio (a pilastri e travi), sistemi a pannelli portanti e sistemi tridimensionali.
Il sistema a telaio ha in Italia larga applicazione soprattutto per l'edilizia sociale, ma è ancora poco applicato nell'edilizia residenziale, mentre all'estero trova vasta applicazione oltre che nell'edilizia sociale anche in quella per uffici. La prefabbricazione a pilastri e travi per l'edilizia civile si è sviluppata insieme con quella per edifici industriali e quindi risale a vecchia data. Si tratta di scomporre in componenti prefabbricati i vari elementi dell'ossatura: il pilastro, le travi e i solai (fig. 15). Si ottiene un sistema che permette la massima flessibilità nell'utilizzazazione degli spazi interni, di grande utilità, per es., nell'edilizia scolastica e soprattutto nell'edilizia per uffici. Ma i sistemi a telaio, rispetto a quellì a pannelli portanti, hanno gli svantaggi di veder notevolmente aumentato il numero delle giunzioni e di non permettere la predisposizione in officina degl'impianti tecnici (illuminazione, riscaldamento, ecc.), con la necessità di numerosi lavori di finitura in cantiere. Per cui questi sistemi si prestano poco all'edilizia residenziale, soprattutto economica di grande serie, dove è necessario ridurre al massimo le operazioni in cantiere per ottenere una limitazione dei costi. I pilastri possono essere monopiano o pluripiano (fig. 16), le travi hanno sezione a sviluppo verticale od orizzontale (in spessore di solaio), i solai possono risultare dall'accostamento di elementi derivanti dalla produzione in serie o da piastre prefabbricate su misura.
In questa tipologia un sistema che merita di essere citato, anche perché è stato uno tra i primi sistemi organici di prefabbricazione per l'edilizia civile a essere introdotto in Italia, è lo Structurapid. In tale sistema non viene prefabbricato il pilastro ma la scocca esterna, da completare in opera con un getto di riempimento della sezione cava; anche le travi sono realizzate parzialmente, ma dalla parte prefabbricata sporge l'armatura della parte superiore, che sarà completata in opera col getto di completamento del solaio.
Il principio di limitare la prefabbricazione a elementi che fungono da casseforma per il getto di completamento è stato applicato anche nella realizzazione di grandi opere (per es., da P. L. Nervi nella realizzazione dei grossi pilastri esterni di un grattacielo australiano) e costituisce un esempio d'integrazione tra prefabbricazione e getto in opera, che in molti casi può portare a risultati più proficui che la prefabbricazione integrale. Infatti nella realizzazione della s. l'operazione che richiede il maggior impiego di manodopera è la realizzazione delle casseforme per il getto. Ridurre queste operazioni significa risparmiare notevolmente in termini di costi e di tempo e utilizzare al massimo la prerogativa del calcestruzzo di poter dar forma a qualsiasi sagoma, non solo in stabilimento ma anche in situ. Negli ultimi anni questo principio è stato applicato in un nuovo sistema di realizzazione dei solai (fig. 17): prefabbricazione a piè d'opera di una lastra a, di 4 ÷ 6 cm di spessore (pre-dalle), contenente un'armatura in rete elettrosaldata b, e i tralicci c, dalle nervature del solaio; posa in opera di questa cassaforma a perdere ed eventuale riempimento dei vani tra i tralicci con elementi d, di alleggerimento in polistirolo espanso o in fibra di legno stampata; posizionamento di eventuali canalizzazioni per impianto elettrico e di riscaldamento; in ultimo getto e, di completamento del solaio.
Un interessante esempio di prefabbricazione a piè d'opera è quello delle lift slabs. Le lastre di solaio vengono gettate tutte al piano terreno una sopra l'altra a cominciare da quella del primo piano. Quindi, posizionati i pilastri, le lastre vengono sollevate con martinetti idraulici fino alla posizione definitiva. Il sistema è stato molto applicato, soprattutto all'estero, per la costruzione di edifici per uffici (fig. 18).
Le chiusure esterne sono realizzate in genere con pannellature prefabbricate del tipo a sandwich (fig. 19); per le partizioni interne sono impiegate tecniche e materiali diversi.
Tenendo conto della flessibilità dei sistemi a telai al fine della creazione di ampi spazi interni liberi da pilastri e della facilità di trasporto di elementi di peso limitato, questi sistemi, utilizzati soprattutto per edifici industriali, sono destinati ad avere sempre più larga applicazione anche nell'edilizia civile. Infatti parte dei molti produttori di elementi per edifici industriali non troveranno difficoltà a convertire la loro produzione verso elementi per l'edilizia civile, sfruttando le molte analogie tra le due tipologie.
I sistemi a pannelli portanti utilizzano lastre in calcestruzzo, generalmente della dimensione di un vano, sia per i solai che per le pareti verticali portanti (fig. 20). Questi sistemi hanno diffusione in Italia soprattutto nel campo dell'edilizia residenziale economica. La derivazione è francese e danese; l'introduzione in Italia è avvenuta agl'inizi degli anni Sessanta per la realizzazione di un vasto programma di edilizia popolare nel Nord del paese. Per la prima volta un edificio civile viene prefabbricato tutto in stabilimento, in un'operazione di serie, con la celerità, la precisione e l'economicità di un prodotto industriale. Infatti i pannelli escono dallo stabilimento di produzione con incorporate quasi tutte le canalizzazioni per gl'impianti tecnici e completi anche delle opere di finitura. Questo comporta grossi investimenti per l'impianto dello stabilimento di produzione, investimenti che saranno coperti se l'impresa potrà contare su vasti e continuativi programmi di lavoro. Lo stabilimento di prefabbricazione può essere fisso, con raggi massimi di azione di circa 100 km, oppure mobile; in quest'ultimo caso, invece che i pannelli, vengono trasportati a piè d'opera le casseforme e le attrezzature di getto.
I sistemi a pannelli portanti possono essere accoppiati a sistemi a travi e pilastri, anche per lo stesso edificio, in modo da risolvere i più svariati problemi progettuali e aumentare sensibilmente la flessibilità del sistema.
Dal punto di vista economico i sistemi a pannelli portanti sono quelli che hanno avuto il maggiore successo per la risoluzione del problema della casa, non solo in Italia ma anche in molte altre nazioni europee, dalla Francia alla Danimarca e soprattutto all'URSS, dove questi sistemi sono stati impiegati per un'edilizia di massa.
In questi ultimi anni però nel campo dell'edilizia residenziale economica un sistema di spinta industrializzazione, che impiega speciali casseforme (per es. "a tunnel"), permette un ritmo veloce di getto in situ, con un limitato impiego di manodopera e ridotti costi di attrezzatura, con il risultato di avere un prodotto non molto dissimile da quello ottenibile con il sistema di prefabbricazione a pannelli portanti e piuttosto competitivo con esso. Per cui vi è una sostituzione tra sistemi ben diversi in linea di principio, ma che conducono a risultati sotto molti aspetti equivalenti.
Completano il quadro delle tipologie di prefabbricazione per l'edilizia civile i sistemi tridimensionali, cioè a cellule spaziali. Esempio di rilievo è l'Habitat 67, un vasto complesso realizzato su progetto Moshe Safdie, per l'Esposizione universale di Montreal, e costituito da cellule prefabbricate in cemento armato di dimensioni 12,50 × 5,70 × 5,20 m (fig. 21), che raggruppate in vari modi formano un insieme quanto mai originale, quasi una collina artificiale. La cellula può essere realizzata in stabilimento a monoblocco, con casseforma esterna e interna, oppure attraverso l'assemblaggio, sempre in stabilimento, di pannelli prefabbricati costituenti i vari elementi del manufatto. Spesso le cellule vengono poste in opera complete di ogni rifinitura e di tutti gl'impianti tecnici. Evidentemente vengono così notevolmente ridotte le operazioni da eseguire in cantiere, ma aumentano i problemi di trasporto e di sollevamento; un forte vincolo deriva dalla larghezza massima trasportabile in Italia con i trasporti ordinari: 2,50 m. Per semplificare questi problemi si cerca di limitare le dimensioni delle cellule, per es., dividendole in semicellule o quarti di cellule, da assemblare in cantiere, oppure evitando la cellula chiusa e ricorrendo a sistemi tridimensionali aperti. Esempi: il triedro, costituito da tre pannelli, disposti secondo i tre piani cartesiani, oppure l'"Elle", formato da due pannelli, uno verticale e uno orizzontale, incastrati a 90° tra di loro (fig. 22).
I sistemi tridimensionali aperti, oltre ai componenti principali, prevedono altri elementi, come piastre da inserire tra un elemento e l'altro, per accrescere le possibilità del sistema nella composizione in pianta, o come blocchi funzionali per le scale e gli ascensori, che costituiscono il punto di partenza per il montaggio. I giunti tra i vari elementi tridimensionali sono generalmente a secco, quindi senza necessità di alcun getto di sigillatura in cantiere; spesso i collegamenti tra gli elementi avvengono attraverso la saldatura di piastre metalliche annegate nella struttura.
La produzione e il montaggio degli elementi prefabbricati così si avvicinano sempre più alle operazioni caratteristiche dell'industria, dove il massimo del lavoro viene svolto in stabilimento, rimandando al cantiere solo semplici operazioni di sovrapposizione e di eventuale fissaggio degli elementi, senza operazioni di getto.
Le possibilità compositive offerte dai sistemi a elementi tridimensionali sono notevoli, per cui è prevedibile un promettente sviluppo di queste tecnologie in Italia, così come è avvenuto all'estero.
Bibl.: B. Lewicki, Bâtiments d'habitation préfabbriqués en elements de grandes dimensions, Parigi 1965; A. Faccio, Il giunto: tenuta all'aria e all'acqua, Milano 1968; A. Dal Lago, Pannelli di copertura prefabricati, ivi 1972; Associazione italiana prefabbricazione, La scuola che cambia, ivi 1972; J. Lugez, La préfabrication lourde en panneaux et le bâtiment d'habitation, Parigi 1973; G. Blachère, Technologies de la construction industrialisée, ivi 1975; Associazione italiana prefabbricazione, Tolleranze dimensionali in edilizia, Milano 1975; T. Paulay, A. Santhakumar, Ductile behaviour of coupled shear walls, in Journal of American society of civil engineers, struct. div., genn. 1976; F. Levi, R. Perazzone, Costruzioni prefabbricate e grandi pannelli o realizzate con altre tecniche industrializzate, in L'industria italiana del cemento, giugno 1977; A. Migliacci, Costruzioni prefabbricate con struttura ad ossatura, ibid., giugno 1977; A. Dal Lago, F. Cislaghi, La prefabbricazione per gli edifici industriali, ibid., giugno 1977; P. E. Pinto, Comportamento sismico delle costruzioni prefabbricate a grandi pannelli, ibid., giugno 1977; F. Di Varmo, Industrializzazione e prefabbricazione per l'edilizia residenziale in Italia: analisi dei procedimenti costruttivi impiegati e delle realizzazioni, ibid., sett. 1977; AITEC (Associazione Italiana Tecnico-Economica del Cemento), Industrializzazione dell'edilizia e prefabbricazione, Roma 1978; Comité euro-international du béton, Code-modèle CEB-FIP pour les structures en béton, Parigi 1978. Riviste: Betonwerk-Fertigteil-Technik, Wiesbaden; Cahiers du centre scientifique et technique du bâtiment, Parigi; La prefabbricazione, Milano; Modulo, ivi; Prefabbricazione edilizia in evoluzione, ivi.
Tensostrutture.
Sotto il nome di "tensostrutture" si raggruppano quei sistemi costruttivi che realizzano la copertura di grandi superfici con elementi strutturali essenzialmente tesi. Esse rientrano nell'ambito delle grandi coperture dove, all'esigenza di coprire spazi sempre maggiori, si fa fronte con l'impiego di elementi costruttivi sempre più leggeri. Questa tendenza ha portato a una riduzione via via più spinta dei cosiddetti "pesi morti", ossia il peso proprio della s. e del rivestimento, ciò che ha trovato specifica attuazione nelle tensostrutture proprio per le particolarità che le contraddistiguono rispetto alle altre tipologie strutturali. La spiegazione può essere in sintesi la seguente.
Il migliore sfruttamento della resistenza di un materiale strutturale si ottiene quando esso è sollecitato uniformemente, in assenza quindi di sollecitazioni flessionali; ciò corrisponde a un comportamento di tipo membranale, che si realizza, per es., nei gusci sottili, dove gli effetti flessionali possono considerarsi trascurabili grazie all'esiguità dello spessore rispetto alle dimensioni di pianta e prevale il regime estensionale. Tuttavia anche la sola presenza di sollecitazioni di compressione nel guscio sottile pone severe limitazioni a ulteriori riduzioni di spessore a causa del pericolo che insorgano insidiosi fenomeni d'instabilità dell'equilibrio, anche se un assottigliamento più spinto sarebbe consentito dalla resistenza specifica dei materiali. Ecco che questi limiti vengono sormontati dalla recente introduzione delle tensostrutture come elementi strutturali particolarmente adatti a coprire grandi luci, in quanto sfruttano i vantaggi del comportamento delle membrane semplicemente tese.
In pratica queste membrane furono subito ottenute con l'impiego di funi che si prestano a una svariata gamma di applicazioni di cui le più semplici ricordano le passerelle di liane e le più complicate arrivano a riproporre le tende dei nomadi (fig. 23). Questa è una chiara dimostrazione che spesso le più significative intuizioni strutturali risalgono al lontano passato, ma solo di recente lo sviluppo della tecnologia ne ha reso possibile la realizzazione. Di fronte a queste "riscoperte" c'è stato chi affermava che nella scienza e nella tecnica delle costruzioni non c'è nulla di nuovo se non quello che si è dimenticato.
Oggigiorno la fune come elemento portante si avvantaggia dell'impiego di fili di acciaio di elevatissima resistenza che possono raggiungere l'apprezzabile valore di 375 kg mm-2 a trazione.
L'impiego delle tensostrutture ha richiesto necessariamente la soluzione da un lato di problemi tecnologico-costruttivi, dall'altro di problemi legati all'interpretazione di un comportamento statico comunque nuovo e a volte complesso. È subito apparsa evidente l'impossibilità di prescindere dall'esame dello stato tensionale in stretta connessione con quello deformativo del sistema, il che ha comportato l'invalidità del principio di sovrapposizione degli effetti.
Un problema peculiare delle tensostrutture, la cui soluzione è richiesta perentoriamente al progettista, riguarda la necessità di assicurare alla tensostruttura una sufficiente stabilità nei riguardi dell'azione del vento. Come è facile intuire, quasta preoccupazione nasce dalla caratteristica fondamentale delle tensostrutture: la leggerezza. Si pensi che di norma il peso proprio, a m2, di tensostruttura è dello stesso ordine di grandezza delle spinte generate dalle depressioni sulle superfici non direttamente investite dal vento. Ciò rende temibile il sollevamento della superficie di copertura, che si comporta come una vera e propria vela e può divenire sede di pericolosi fenomeni di vibrazione, generando "battimenti" soprattutto nelle zone con minore curvatura. Questi inconvenienti sono particolarmente sensibili per quelle tensostrutture la cui superficie è sviluppabile su un piano e in tali casi non resta che un artificioso appesantimento della copertura anche se ciò snatura in parte la sostanza del sistema costruttivo. Soluzioni brillanti sono state invece trovate in schemi più elaborati che utilizzano due orditi di funi a curvatura contrapposta, uno con funzione portante e l'altro irrigidente e controventante, oppure consistono in reti a doppia curvatura opportunamente pretese, dove la pretensione conferisce alla copertura il vantaggio di ridurne la deformabilità e di migliorare l'adattamento del manto di chiusura.
Un altro problema, fra i più complessi, che il progettista di tensostrutture è chiamato a risolvere, è quello della trasmissione al terreno del tiro nelle funi. Ne derivano s. di bordo di notevole impegno statico, che, dovendo contrapporsi a elevate azioni di trazione, preferiscono di norma l'impiego di materiali pesanti, come il conglomerato cementizio armato.
Le applicazioni effettuate finora nel settore hanno dimostrato che le tensostrutture rappresentano un valido sistema costruttivo per risolvere brillantemente problemi di ampie coperture nell'ambito di capannoni industriali, aviorimesse, depositi, edifici sportivi, sale di riunione e per lo spettacolo. Le specifiche tipologie strutturali illustrate nel seguito ne mostreranno il graduale processo di evoluzione da schemi semplici a organismi via via più complessi.
Coperture rigide sospese. - Rappresentano il punto di passaggio fra le tipologie costruttive tradizionali e le tensostrutture propriamente dette. Si tratta di coperture, rigide e di elevato peso proprio, in cui l'appoggio è sostituito in tutto o in parte dal tiro di funi di acciaio disposte al di sopra della copertura stessa e vincolate a robusti piloni di ancoraggio. Tale copertura viene di norma realizzata o in conglomerato cementizio armato o con orditure di travi metalliche. Si riconoscono in esse schemi statici molto simili a quelli dei ponti sospesi e dei ponti strallati con analoghi problemi strutturali.
Le funi partono dalla sommità di robuste strutture di sostegno in acciaio o in cemento armato, che risultano prevalentemente sollecitate a compressione, e sono fissate a punti determinati dell'estradosso della copertura. Oltre alla funzione di sostegno, le funi possono anche svolgere la funzione di controventamento se disposte a ventaglio e opportunamente distanziate.
Questa tipologia si presta a realizzare strutture a sbalzo di forte aggetto con spessori d'impalcato relativamente modesti. Anche per questo viene scelta come particolarmente adatta a realizzare delle coperture per hangar. Fra le applicazioni di rilievo in questo settore si ricorda l'aviostazione della Pan American all'aeroporto internazionale di Idelwild a New York su pianta ellittica con sbalzi di 45 m di luce e copertura in lastre di calcestruzzo armato (fig. 24).
In Italia vanno menzionati due arditi esempi di coperture rigide sospese. Il primo è il padiglione della Cartiera Burgo a Mantova progettato da P. L. Nervi, che consiste in un grande impalcato piano, con dimensioni 249 × 30 m, sostenuto da quattro travi reticolari in acciaio rette, a loro volta, da quattro cavi di sospensione sagomati a schema di funicolare e facenti capo a due cavalletti di appoggio apportunamente inclinati per ridurre il più possibile le sollecitazioni flessionali. Il secondo consiste nelle due aviorimesse dell'Alitalia nell'aeroporto internazionale "Leonardo da Vinci" a Fiumicino, progettate da R. Morandi, che coprono ciascuna un'area di 200 × 60 m, senza pilastri intermedi; la struttura di copertura è realizzata mediante travi in cemento precompresso concave verso l'alto sostenute da stralli in cavi di acciaio disposti a ventaglio che, dopo aver sormontato la sommità dei piloni, riportano il carico dello sbalzo a s. di ancoraggio disposte nella parte posteriore dell'edificio.
Tensostrutture a funi semplici. - Le funi non rappresentano più il tramite fra la copertura e le s. di ancoraggio, come nella tipologia precedentemente esaminata, ma rientrano a far parte della copertura vera e propria. Una serie di funi affiancate a brevi intervalli e sospese alle s. perimetrali rappresenta il letto su cui viene adagiato il rivestimento di chiusura. Ciascuna fune assume spontaneamente la forma della funicolare dei carichi, che - com'è noto - rappresenta la configurazione di equilibrio che consente la massima capacità portante. Le tensostrutture a funi semplici basano le loro possibili soluzioni applicative su due schemi fondamentali:
la disposizione a schiera, in cui le funi affiancate e caricate uniformemente dal rivestimento generano una superficie cilindrica, che si presta particolarmente a coprire ambienti di pianta quadrata o rettangolare (fig. 25);
la disposizione radiale, che dà luogo a una superficie a forma di cupola capovolta prevalentemente adatta a coprire ambienti di forma circolare (fig. 26).
La disposizione radiale, rispetto a quella a schiera, presenta il vantaggio di consentire una soluzione più razionale per le s. di bordo cui compete l'assorbimento delle elevate componenti orizzontali del tiro delle funi. Con la disposizione radiale infatti l'anello di bordo, avendo una forma che può assimilarsi alla funicolare dei tiri, presenta il vantaggio di essere sollecitato prevalentemente a compressione e di trasmettere alle s. perimetrali (pilastri o pareti) solo azioni verticali per effetto dei carichi permanenti agenti sulla copertura, senza richiedere quindi opere di ammarro e contrasto terminali a terra. Nel caso più frequente di pianta circolare, oltre all'anello di bordo esterno soggetto a compressione, si dispone di norma un altro anello interno sollecitato a trazione.
Un recente esempio di tensostruttura a semplice ordito radiale di funi è rappresentato dalla copertura della grande sala del nuovo Madison square garden a New York. Si tratta di un gigantesco anfiteatro con diametro di 127 m, la cui copertura è sostenuta da 48 funi radiali del diametro di 95 mm, realizzate ciascuna con 271 fili di acciaio galvanizzato ad alta resistenza. Entrambi gli anelli, di compressione e di trazione, sono in acciaio; quest'ultimo è costituito da una piastra circolare nervata collegata a cerniera alle funi. Una caratteristica notevole dell'opera, che ne sottolinea l'originalità e l'arditezza e la rende unica nel suo genere, sta nel fatto che la tensostruttura vera e propria è sormontata da una s. metallica a due piani destinata a impianti tecnici.
Aspetti negativi delle tensostrutture a funi semplici sono connessi al problema della loro notevole deformabilità. Lo "zavorramento", cioè l'aumento artificioso del peso proprio della copertura, sembra il provvedimento inevitabile per eliminare il pericolo di sollevamento della copertura per effetto delle spinte ascensionali del vento. Anzi esperienze eseguite su modelli nel tunnel del vento hanno indicato nell'ordine di 80 ÷ 100 kg/m2 il peso permanente minimo per garantire contro questo inconveniente.
Un progresso rispetto al semplice zavorramento è rappresentato dalle tecniche della pretrazione che limitano la deformabilità delle funi con l'applicazione di un tiro addizionale a vuoto prima della messa in opera del rivestimento. Un ulteriore miglioramento può ottenersi dall'impiego combinato di zavorramento e pretrazione che consente di stabilizzare la forma della superficie di copertura almeno per effetto dei pesi permanenti. La completa stabilizzazione si ottiene annegando le funi in una soletta di calcestruzzo, il che conferisce alla s. l'aspetto di un vero e proprio guscio capovolto (gusci sospesi). La soletta, il cui spessore non può scendere al di sotto dei 6 cm per ragioni costruttive, realizza quel peso a m2 necessario a opporre una certa inerzia ai fenomeni di depressione, ma non serve solo a zavorrare in quanto rende la superficie del guscio rigido capace di sopportare tutte le azioni presenti in un regime estensionale, comprese quelle taglianti.
Sensibili vantaggi economici si hanno quando si adottano pannelli di copertura prefabbricati in calcestruzzo armato e si utilizzano come cassaforma per il getto in opera che sigilla i giunti e congloba le funi in una copertura monolitica.
Attraverso una particolare tecnica di precompressione della soletta si riduce considerevolmente il pericolo di fessurazione in fase di massimo sovraccarico, anche se ciò comporta un aggravio delle condizioni di lavoro delle strutture di bordo nella fase iniziale.
Fra le opere più significative coperte con gusci sospesi si ricordano lo stadio a Montevideo, il palazzo dei congressi a Berlino, il palazzo degli sport a Saint-Nazaire, l'arena a Oklahoma City (SUA).
Tensostrutture con travate piane di funi contrapposte. - La travata piana di funi a curvatura contrapposta fu proposta per la prima volta dallo svedese D. Jawerth come schema strutturale nella copertura dello stadio del ghiaccio a Stoccolma, e trova successivamente numerose e brillanti applicazioni per i notevoli vantaggi statici che presenta rispetto alla fune semplice. Essa è composta dalla fune portante originaria, concava verso l'alto, e da un'altra fune complanare a curvatura contrapposta, detta "fune di tensione", entrambe collegate mediante una tralicciatura di funi diagonali (fig. 27 a). La messa in tensione della fune inferiore ha una funzione d'irrigidimento del sistema, che può definirsi auto-irrigidito nel proprio piano: esso pertanto non necessita, al contrario delle funi semplici, né dell'adozione di rivestimenti pesanti con funzione di zavorra, né del getto di una soletta in cemento armato.
Da questo schema di partenza ne sono stati concepiti numerosi altri che sostanzialmente si differenziano per la diversa disposizione degli elementi portanti e di collegamento (fig. 27 b, c, d, e). Le travate piane di funi possono essere disposte a schiera e controventate da travi rigide o da altre travate di funi, in modo da generare superfici cilindriche (fig. 28).
Questa tipologia fu prevalentemente applicata dallo Jawerth che, oltre al già citato stadio del ghiaccio a Stoccolma (fig. 29), che copre una superficie di 10.000 m2 con 21 travate aventi luce di 83 m, realizzò l'aviorimessa di Mehrabad presso Teheran (fig. 30 a), la copertura di una fabbrica a Lesjörfs in Svezia (fig. 30 b), la copertura dell'Officina Offenburg (fig. 30 c) e del teatro di Otigheim (fig. 30 d), entrambe nella Rep. Fed. di Germania.
Le travate di funi a curvatura contrapposta possono altresì disporsi radialmente fra un anello di bordo compresso e uno centrale teso, analogamente alle funi semplici. Si origina la cosiddetta tensostruttura "a ruota di bicicletta" per il classico aspetto che la copertura viene ad assumere (fig. 31). Nella disposizione radiale gli sforzi di pretensione nelle funi si autoequilibrano e non vengono trasmessi in fondazione.
A questa tipologia appartiene la tensostruttura del Palasport a Genova, che copre la zona centrale di 68 m di diametro di una pianta circolare di 150 m di diametro.
Lo schema consiste nell'accoppiamento di due funi semplici a inclinazione opposta. Il bordo esterno compresso è costituito da un anello circolare in cemento armato poggiante sull'estremità di 48 mensoloni in cemento armato precompresso disposti radialmente; l'anello centrale ha forma di iperboloide rigato simile a un canestro. Quest'opera ricorda la copertura del padiglione degli SUA dell'Expo di Bruxelles (1958), con diametro di 92 m.
Reti di funi. - Un'evoluzione dello schema a travata piana è rappresentata dalle reti di funi, dove le funi portanti e di tensione non sono più disposte nello stesso piano verticale, ma in piani distinti intersecantisi di norma ad angolo retto. Una serie di funi ha concavità verso l'alto, l'altra verso il basso: ne nasce necessariamente una superficie a forma di sella (fig. 32). Le due serie di funi collaborano fra loro a irrigidire la superficie: le funi portanti sopportano i sovraccarichi agenti verso il basso, mentre le funi traenti assicurano la stabilità della s. nei riguardi delle depressioni dovute al vento. Il completo controventamento della copertura a rete di funi rende quindi superfluo ogni sistema di stabilizzazione.
Rispetto alle travate piane a curvatura contrapposta, di cui rappresentano un'estrapolazione nel campo tridimensionale, presentano il vantaggio di non richiedere tiranti di collegamento, in quanto le due serie di funi possono essere disposte a contatto diretto adagiandosi su un'unica superficie. Il volume d'ingombro della copertura è così ridotto al minimo, con grandi vantaggi anche di carattere estetico.
Uno dei primi esempi di copertura a rete di funi può considerarsi la Raleigh Arena terminata negli SUA nel 1954, che copre un'area di 90 × 90 m. La tensostruttura è costituita da due famiglie ortogonali di funi a curvatura contrapposta, ancorate a due archi parabolici intersecantisi fra loro e giacenti in due piani che formano un angolo ottuso. A questo esempio ne sono seguiti altri molto interessanti che, pur essendo tutti basati sull'applicazione delle reti di funi, differiscono fra loro per la diversa scelta delle s. di bordo; sono ancora archi nelle coperture dell'Auditorium dell'università di Bruxelles e dello stadio a Saint-Oven, diventano travi oblique in cemento armato precompresso nella copertura della Sala di Esposizione a Ludwigshafen, e si trasformano in trave anulare nella copertura della piscina a Neunkirchen.
L'introduzione di una nervatura centrale, parzialmente in equilibrio sotto le azioni orizzontali trasmesse dalle funi, produce il duplice effetto positivo di ridurre le sollecitazioni nelle s. di contorno e di migliorare la stabilità della tensostruttura nei riguardi dei carichi dissimmetrici. Questo schema è stato applicato per la prima volta nella copertura dello stadio di hockey della Yale University a New Haven (Conn., SUA) dove le due falde di superfici curve sono sostenute con simmetria da un arco parabolico di calcestruzzo di 73 m di luce che si prolunga a sbalzo dagli appoggi.
Analogo concetto ha ispirato K. Tange nella progettazione della copertura del Palazzetto dello sport e della Piscina Olimpica, realizzati a Tōkyō negli anni 1961-64 in occasione dei Giochi Olimpici 1964. Nella Piscina Olimpica l'arco intermedio è sostituito da due grossi cavi passanti sulla sommità di due grossi piloni distanti 126 m, oltre ai quali scendono ad ammarrarsi al suolo. La rete di funi è sospesa a questi cavi e ancorata a travi di bordo. Nel Palazzetto dello sport la rete di funi si distende a partire dalla sommità del pilone centrale fino all'anello di bordo, creando una forma particolarmente nuova e suggestiva.
Un esempio recente (1973) di tensostruttura a rete realizzata in Italia è fornito dalla copertura del Palasport a Milano. Il suo anello di bordo, costituito da un cassone metallico, ha un andamento corrispondente all'intersezione di un cilindro ad asse verticale con un paraboloide iperbolico coassiale a esso, e presenta un dislivello massimo fra il punto più alto e quello più basso di 14,54 m. Questo anello poggia su apposite mensole in acciaio incastrate a 38 cavalletti in cemento armato e aggettanti verso l'interno.
Tende. - Il rilancio di una forma di superficie, che ricorda la tenda del passato, nasce da una naturale evoluzione della rete di funi bidirezionale. Questo schema di partenza può complicarsi per due ordini di motivi: le funi possono non appartenere necessariamente a piani verticali; all'ordito ortogonale possono aggiungersi e/o sostituirsi ulteriori orditi che rendono la rete più rigida e a trame più fitte.
Dall'applicazione di questi concetti nascono superfici più complesse, aventi in ogni punto curvatura gaussiana negativa e costituite da un vero e proprio tessuto opportunamente sotteso fra appositi sostegni e funi di ormeggio.
La miriade di forme costruttive possibili per tensostrutture a tenda è stata mostrata da F. Otto che da anni si dedica allo studio di queste coperture. La trama nasce dall'intreccio di sottili fili di acciaio a elevata resistenza e come materiale di rivestimento s'impiegano fogli di alluminio, plastica o teli di fibre sintetiche.
Interessanti realizzazioni di coperture a tenda concepite da F. Otto vengono dalla Rep. Fed. di Germania che le applicò nella costruzione del suo padiglione all'Expo 67 di Montreal.
Una testimonianza recente e quanto mai significativa della molteplicità di forme ottenibili con strutture a tenda è data dal grandioso complesso di coperture a tende multiple realizzate per i Giochi Olimpici di Monaco del 1972.
Bibl.: F. Otto, Tensile structures, Cambridge, Mass., 1965; R. M. Davis, Space structures, Guildford (GB), 1967; Z. S. Makowski, Strutture spaziali in acciaio, Milano 1967; C. Roland, Frei Otto: structures, Londra 1970; P. Matildi, C. Foti, A. Sollazzo, Tensostrutture e sistemi reticolari spaziali, Milano 1971.
Strutture per edifici alti.
Molteplici ragioni possono essere all'origine della costruzione di un fabbricato di grande altezza: anzitutto lo scopo di utilizzare nel modo più produttivo la superficie coperta attraverso un miglior reddito dell'area edificabile, la ricerca di razionalizzare il funzionamento dei servizi pubblici, la convenienza di raggruppare gl'individui appartenenti a una certa comunità per migliorarne i rapporti di comunicazione e per sollevarli a quote dove il rumore delle strade e l'inquinamento atmosferico possano divenire tollerabili; non ultimo il desiderio di un'affermazione di prestigio, o di un effetto pubblicitario, che sono stati forse tra i vari motivi delle prime realizzazioni americane e certamente di qualche esempio europeo.
Sulla base di tali scelte intervengono allora in modo perentorio, nella progettazione di edifici alti, tutti i problemi più attuali e più difficili relativi all'ideazione, al calcolo, all'esecuzione e al montaggio delle s. stesse.
L'organismo strutturale di un edificio alto deve infatti far fronte ai problemi posti dall'altezza, ossia possedere un'adeguata stabilità elastica generale, reggere alle azioni del vento senza dar luogo a eccessive deformazioni, sopportare con danni localizzati eventuali azioni sismiche, il tutto senza richiedere, in termini economici, un prezzo troppo alto o addirittura inaccettabile. Le maggiori altezze comportano infatti oneri di costo rapidamente crescenti, imputabili alla necessità sia di assorbire le azioni gravitazionali sia soprattutto di fronteggiare convenientemente le azioni orizzontali da vento e da sisma.
In fig. 33, relativa a dati di edifici in acciaio realizzati negli SUA e qualitativamente valida per edifici alti in genere, è riportata a tratto continuo la curva che fornisce il quantitativo di acciaio, espresso in kg/m2 di solaio o in kg/m3 (vuoto per pieno), necessario a far fronte all'azione gravitazionale: il peso cresce con legge quasi lineare al crescere del numero dei piani (riportato in ascissa). Le curve tratteggiate si riferiscono invece al quantitativo totale di acciaio richiesto dalla circostanza di dover fronteggiare anche le azioni orizzontali, rispettivamente con s. di controventamento di tipo adeguato ovvero inadeguato. La differenza di ordinata tra una linea tratteggiata e quella all'origine del tratto continuo rappresenta dunque il "prezzo dell'altezza". Tale prezzo può essere allora suddiviso in un'aliquota connessa alle azioni verticali e in un'aliquota connessa alle azioni orizzontali. Sulla prima si ha poca "presa", nel senso che su essa le scelte progettuali possono incidere in modo esiguo; nel passare da un edificio di 10 piani a uno di 100 piani le colonne in fondazione devono necessariamente sopportare un carico dieci volte maggiore, né le scelte progettuali possono modificare globalmente tale situazione. Sulla seconda aliquota, invece, l'ipotesi progettuale può veramente molto: il prezzo da pagare può essere ragionevole per una tipologia strutturale adeguata all'altezza in gioco (ossia con controventamento di tipo adeguato), ovvero può risultare proibitivo per tipologie strutturali inadeguate.
Diagrammi del tipo di fig. 33 acquistano comunque significato soltanto quando sia stata assegnata una determinata pianta dell'edificio e, in particolare, della pianta stessa sia stata definita la profondità (dimensione minore). Infatti, per quanto abile sia il progettista strutturale e per quanto disponibile sia il progettista generale a ridurre al minimo le varie esigenze di ordine funzionale, la realizzazione di un edificio accettabilmente flessibile e convenientemente stabile richiede la scelta di un rapporto altezza/profondità di valore massimo non superiore a 7 ÷ 8. Il corpo di fabbrica statunitense è attualmente di circa 60 m, e con tali profondità si sono potute infatti raggiungere altezze di 442 m, corrispondenti a 110 piani.
All'aumentare dell'altezza si è allora necessariamente indotti ad abbandonare le soluzioni strutturali tradizionali, convenienti nei campi d'impiego corrente e comprendenti parti portanti e parti secondarie, per passare a soluzioni strutturali unitarie, riguardando così la s. come un'unica grande mensola che si spicca dalle fondazioni.
Con l'evolversi delle tipologie strutturali si modificano parallelamente le condizioni d'impiego dei materiali (calcestruzzo e acciaio), con la conseguenza che, al di là di certe altezze, la scelta dell'acciaio non presenta alternative.
Fino a 60 ÷ 70 piani c'è invece possibilità di orientarsi a soluzioni tutto calcestruzzo o tutto acciaio, ovvero a soluzioni miste, né risulta possibile definire preliminarmente criteri di scelta di sicura convenienza. In particolare, nel caso di soluzioni tutto calcestruzzo di notevole altezza, si ricorre talvolta all'adozione di piante dotate di grande rigidezza di forma (tav. 5).
Tipologie strutturali. - Le s. intelaiate a nodi rigidi e isolate, ossia senza controventamento, trovano limitato impiego nel campo degli edifici alti a causa dell'elevata deformabilità dello schema a telaio (fig. 34), che richiede dimensioni sempre più ingombranti e onerose. Inoltre, al di là di certe altezze, riesce praticamente impossibile contenere le inflessioni laterali entro limiti di accettabilità, rendendosi quindi necessario il ricorso a tipologie con ossature resistenti differenziate, ossia capaci di far fronte separatamente alle azioni verticali e orizzontali. In pratica, il limite di 15 e 20 piani è da considerarsi, rispettivamente per acciaio e calcestruzzo, il limite d'altezza economicamente invalicabile con l'adozione di schemi a telaio con nodi rigidi. Altezze sensibilmente maggiori possono essere raggiunte controventando il complesso di telai con mensole verticali (shear walls), idonee all'assorbimento delle azioni orizzontali con spostamenti di ampiezza ridotta. Nelle s. in cemento armato, tali mensole sono costituite da pareti di calcestruzzo che delimitano i vani scala o dei servizi, o che costituiscono muri divisori o di testata dell'edificio (fig. 35). Nel caso di ossature metalliche, tali mensole possono ancora essere individuate nelle pareti in calcestruzzo del nucleo servizi, ovvero realizzate con s. reticolari di controvento verticale (fig. 36).
In fig. 37 è riportata la rappresentazione schematica del comportamento e della reciproca interazione, in base alla deformazione, di una s. intelaiata (predominanza nella deformabilità tagliante) e di una s. a mensola pura (predominanza della deformazione flessionale) soggette a carichi orizzontali.
L'adozione di tali sistemi di controventamento consente il traguardo dei 40 piani in altezza, sia per s. in calcestruzzo sia per s. in acciaio. Queste ultime, in particolare, sono realizzate di regola con telai semirigidi o addirittura labili, preposti all'assorbimento dei soli carichi verticali e collegati, attraverso gl'impalcati orizzontali, alle mensole verticali di controventamento.
Un ulteriore guadagno in altezza (fino a un massimo di 60 ÷ 70 piani) può conseguirsi associando alle mensole verticali di controventamento robuste travi orizzontali di collegamento che impegnino, nella resistenza ai momenti flettenti dovuti alle azioni orizzontali, la rigidezza estensionale dei ritti esterni. L'introduzione di tale sistema, applicabile sia nel campo delle s. metalliche sia nel campo delle s. in calcestruzzo, comporta riduzioni cospicue delle frecce d'inflessione, il cui valore finale può ridursi a 3/4 di quello corrispondente alla mensola pura. L'aggiunta di analoghe travi orizzontali a metà altezza della s. può comportare ulteriori riduzioni, fino a un valore della freccia corrispondente a 11/16 del valore iniziale (fig. 38). I vantaggi conseguiti con l'adozione di tali schemi strutturali hanno il prezzo, s'intende, di aggiuntivi sforzi assiali nei ritti esterni. In altri casi, ossia in presenza di più mensole di controventamento presenti nello stesso piano, si sono attuati collegamenti orizzontali rigidi tra questi, ottenendosi dei veri e propri portali multipli con traversi e ritti di elevata rigidezza (fig. 39).
Tutte le tipologie strutturali fin qui presentate si muovono, com'è evidente, in un'ottica tradizionale, suddividendo il complesso strutturale in parti principali e parti secondarie, e differenziando le caratteristiche resistenti delle parti strutturali in relazione alle azioni esterne da assorbire. Con questi sistemi, siano essi in acciaio, in calcestruzzo, ovvero misti, è possibile raggiungere il tetto limite di 60 ÷ 70 piani, oltre il quale il "premio" da pagarsi in termini di costo diventa assolutamente proibitivo.
Maggiori altezze sono così conquistabili solo con la realizzazione di soluzioni integrali, ossia concependo tutte le s. dell'edificio quali parti di un'unica struttura. Questa concezione strutturale fu applicata negli SUA a metà degli anni Sessanta, con la realizzazione di "scheletri strutturali" costituiti dai pilastri di facciata disposti a interassi minimi (larghezza dei vani-finestra), ottenendosi così ossature a nodi rigidi a guisa d'involucro tubolare (framed tube) con comportamento globale molto vicino a quello di una mensola incastrata al suolo. Il primo esempio di realizzazione di un edificio alto con s. tubolare può farsi risalire al 1963, anno in cui fu realizzato a Chicago il Dewitt-Chestnut apartement building di 43 piani. Da allora il sistema di s. tubolare è stato adottato per la realizzazione di edifici sia in acciaio sia in cemento armato subendo modifiche e variazioni successive fino allo schema del tube in tube, ossia del doppio involucro tubolare, di cui il secondo è costituito da un'ossatura centrale, o di nucleo, a torre o diaframmata. Si sono così raggiunti traguardi in altezza di 120 piani, provvedendo a "bloccare" ulteriormente la s. tubolare con montanti d'angolo aggiuntivi e grandi aste diagonali, tali da realizzare un doppio involucro reticolare esterno (fig. 40). Le aste diagonali assicurano inoltre una ridistribuzione dei carichi gravitazionali fra gli elementi verticali, che possono pertanto realizzarsi a tutti i piani delle stesse dimensioni, e quindi con una redditizia produzione in serie. Si toccano così le massime altezze oggi consentite all'uomo dalle attuali tecnologie (450 m circa) con indiscusso predominio delle soluzioni "tutto acciaio". Il più alto edificio oggi nel mondo è la Sears Tower di Chicago, con 110 piani e 442 m di altezza, completata nel 1974. La sua s. è tipo framed tube, con perimetro resistente completato da cinture orizzontali di cerchiatura. Altro esempio, divenuto ormai classico, di grattacielo a struttura tubolare fortemente "bloccata" è il John Hancock center di Chicago (100 piani, 335 m di altezza), realizzato nel 1965.
In fig. 41 è infine riportata l'evoluzione dei sistemi strutturali dei fabbricati multipiani in funzione dell'altezza, quale utile sintesi di quanto esposto in precedenza.
Azioni orizzontali. - Si è descritto, in precedenza, l'evolversi delle soluzioni strutturali negli edifici alti in relazione all'assorbimento delle forze orizzontali, che costituiscono, sotto l'aspetto statico, sovraccarico tanto inutile quanto inevitabile. L'apprezzamento di queste forze, che hanno un'origine essenzialmente dinamica, e la valutazione della "risposta" che la costruzione presenta a esse, costituiscono rispettivamente il punto di partenza e di arrivo della fase di calcolo strutturale, per la necessaria definizione dello stato di sollecitazione della s. e del suo grado di sicurezza rispetto all'evento ordinario o eccezionale, quale può essere un vento normale o un sisma di fortissima intensità.
In via del tutto generale può affermarsi che per un migliore assorbimento delle azioni orizzontali è importante prevedere s. prive di rilevanti dissimmetrie in pianta (onde limitare l'entità dei momenti torcenti di piano) e con una regolare distribuzione delle masse in altezza (onde limitare l'effetto delle azioni sismiche, di regola crescenti dal basso verso l'alto). Come pure è fondamentale conferire all'organismo strutturale la capacità di dissipare forti quantità di energia in campo plastico, per assicurarsi la possibilità di superare senza crolli (anche se al prezzo di profonde plasticizzazioni locali) eventi sismici d'intensità eccezionale. Tale problema comporta anche la necessità di studi e indagini particolari sia sul comportamento dei cosiddetti elementi non strutturali (chiusure perimetrali, tompagnature, ecc.) capaci di dissipare forti quantità di energia, sia sulle caratteristiche e sul funzionamento dei collegamenti strutturali (nodi in acciaio o calcestruzzo), cui si richiede da una parte la capacità di rotazioni plastiche tali da assicurare la formazione dei previsti meccanismi di collasso, e dall'altra il possesso di requisiti di rigidezza sufficienti a scongiurare eventuali fenomeni d'instabilità locale.
A) Azioni sismiche. - Lo stato di sollecitazione che insorge in una s. quando alla sua fondazione sia impresso un moto vibratorio, è determinabile quando sia nota la "risposta" della s. stessa al movimento impressole, e cioè la legge con cui si pongono in vibrazione le varie masse relative agli elementi strutturali. Supposta nota la legge del moto alla base, la risposta è determinabile in modo relativamente semplice per i sistemi a comportamento elastico lineare costituiti da masse concentrate, siano essi a uno o a più gradi di libertà; risulta invece più difficile lo studio della vibrazione di una generica s. complessa, che generalmente presenta sia masse concentrate sia masse distribuite. Tale difficoltà è usualmente aggirata, nella pratica tecnica, considerando la s. come un insieme di masse concentrate vincolate fra loro da elementi di massa trascurabile, ovvero, meno frequentemente, riportando la s. reale a uno schema semplice a masse continue (fig. 42).
Con riferimento alle azioni sismiche, risulta in particolare di prevalente interesse l'analisi degli effetti dovuti alle componenti orizzontali del moto del terreno; in gran parte delle s. reali, infatti, sono proprio le forze d'inerzia agenti orizzontalmente a produrre le sollecitazioni più pericolose, in quanto diverse da quelle corrispondenti agli usuali carichi statici. L'analisi dinamica delle s. soggette a terremoti consisterà quindi nello studiare la "risposta" al moto orizzontale della base di fondazione, in termini di spostamenti orizzontali dei vari punti della costruzione. Supponendo allora di conoscere il "terremoto di progetto", definito dal diagramma delle accelerazioni assolute Ô del terreno nel tempo (fig. 5), è possibile pervenire, nel caso dell'oscillatore semplice di fig. 43, alla determinazione della massima accelerazione W??? + Ô, e quindi della massima forza d'inerzia F1 = M(W??? + Ô) da applicare alla s.; ovvero, ricordando che il moto del sistema, per un moto traslatorio S(t) della base, è governato dall'equazione:
conoscendo lo spostamento massimo W, si può determinare la massima forza elastica di richiamo FE = kW; k è la costante elastica del sistema e b è la costante dello smorzatore viscoso. I valori massimi di questi due tipi di forze risultano eguali tra loro, anche se prodotti in tempi diversi.
Risolvendo infatti, sulla base di un assegnato "terremoto di progetto", l'equazione del moto dell'oscillatore semplice per diversi valori del periodo proprio
del sistema non smorzato e del fattore di smorzamento
è possibile ottenere, per ciascuna coppia di valori (T, C), i massimi valori (W??? + Ô), W???, W, ossia gli "spettri di risposta del terremoto considerato in termini di accelerazioni assolute, di velocità e di spostamenti relativi del sistema (fig. 44).
Le normative dei vari paesi sono attualmente orientate a fornire al progettista uno "spettro di risposta di progetto" al quale riferirsi nel calcolo della s., anche se l'attendibilità della costruzione e dell'impiego di uno spettro di risposta dipendono da una parte dalle incertezze relative all'introduzione di un "terremoto di progetto", e dall'altra dalle incertezze relative alle caratteristiche della s. da studiare (valori di T e C).
Resta infine da sottolineare che l'impiego di uno "spettro di progetto" siffatto è legato alla schematizzazione della s. con un oscillatore semplice, oltre che all'ipotesi di un comportamento perfettamente elastico della stessa. La prima limitazione può essere rimossa riducendo la s. reale a un sistema discreto con masse concentrate in un numero finito N di punti, ossia a un sistema a N gradi di libertà. L'equilibrio dinamico di un sistema siffatto è rappresentato da un sistema di N equazioni differenziali rispetto al tempo, la cui soluzione fornisce N valori del periodo proprio Tn ed N forme della deformata, una per ciascun periodo di vibrazione (modi di vibrare) (fig. 45). Per ciascun modo di vibrare si può allora far riferimento allo spettro di progetto, leggendovi di volta in volta le grandezze che interessano (per es., le accelerazioni). Il valore effettivo di tali grandezze sarà poi ottenuto dalla "somma" dei contributi relativi a ciascun "modo", tenendo conto che lo spettro di progetto fornisce soltanto i valori massimi relativi a ciascuno di essi, e che questi non si verificano tutti contemporaneamente. Tale "somma" si esegue di solito a livelli di effetti (spostamenti, sollecitazioni, tensioni) ricorrendo alla espressione:
in cui ai è il generico effetto relativo al modo i-esimo.
Tale tipo di studio è possibile di regola solo in presenza di sistemi lineari conservativi, essendo basato sul principio della sovrapposizione degli effetti e su equazioni di equilibrio valide per un sistema elastico. La rimozione dell'ipotesi di comportamento elastico della s. riesce di non facile attuazione, anche se la necessità di uno studio delle s. in campo elasto-plastico è sottolineata da osservazioni sperimentali circa la capacità presentata da certe s. di resistere ad accelerazioni particolarmente violente grazie alla possibilità di dissipare energia per intervenute plasticizzazioni locali. Il metodo più idoneo da seguire risulta quello dello studio al passo, dividendo il tempo in intervalli discreti e considerando la s., in ogni intervallo, con caratteristiche di rigidezza definite dagli spostamenti ricavati nell'intervallo precedente. Le maggiori difficoltà risiedono generalmente proprio nella valutazione delle rigidezze e degli smorzamenti, mentre la ripetività del calcolo impone l'uso dell'elaboratore elettronico.
Nel campo della progettazione corrente degli edifici alti, le azioni sismiche sono assimilate a forze statiche equivalenti, distribuite in altezza in maniera da riprodurre con un certo grado di approssimazione la reale distribuzione delle azioni dinamiche. Poiché può dirsi che gli effetti principali sono determinati dal primo modo di vibrazione, in genere ci si accontenta di assumere una distribuzione che corrisponda qualitativamente all'effetto del primo modo, sempre che sia possibile prevedere la forma del modo stesso.
Per quanto riguarda l'intensità delle forze statiche equivalenti, essa viene determinata attraverso un coefficiente K sismico globale, che rappresenta il rapporto tra il taglio alla base della s. e il "peso" P della s. stessa. In tale coefficiente sono inglobati tutti quegli effetti da cui dipende sostanzialmente l'intensità delle azioni sismiche; secondo le norme italiane tali parametri risultano: l'intensità del terremoto di progetto, la natura del terreno di fondazione, il coefficiente di risposta della s., la tipologia strutturale. Ponendo allora: K = c ε R β, con c, ε, R e β coefficienti relativi ai parametri elencati, si ha che la forza sismica orizzontale totale risulta: F = KP, da distribuirsi ai vari livelli secondo un andamento affine a quello delle forze d'inerzia che si destano per effetto del primo modo (figg. 46 e 47).
È importante però osservare che non sempre è ammesso il ricorso a tale tipo di analisi statica per la valutazione delle azioni sismiche: le norme italiane impongono infatti il ricorso all'analisi dinamica in campo elastico lineare nel caso di s. con periodo superiore a 1,40 sec (ossia nel caso di s. a elevato numero di piani), richiedendo la ricerca almeno dei primi tre modi di vibrazione e dei relativi "fattori di partecipazione" (che esprimono la misura in cui ciascun modo di vibrazione contribuisce alla deformata del sistema), prescrivendo inoltre di utilizzare come spettro di risposta della s., in termini di accelerazione orizzontale, l'espressione a/g = c ε R β, con R dato dal diagramma di fig. 46.
Con riferimento a edifici a pianta regolare con modeste dissimmetrie, è possibile determinare il periodo proprio di vibrazione con formule approssimate, introdotte in diverse normative. Le norme italiane pongono, per es., T = 0,10 H/
con H altezza e B larghezza dell'edificio nella direzione dell'oscillazione, entrambe in metri.
B) Azioni del vento. - Le azioni esterne che il vento applica a una costruzione sono complèsse, non di rado imprevedibili e dipendenti da numerose circostanze. Difficilmente possono essere fatte previsioni generali e sicure, in quanto esse si presentano fortemente variabili sulle superfici investite, e sensibili a svariatissime circostanze. Negli usuali procedimenti di calcolo si assumono di norma pressioni statiche equivalenti, atte a riprodurre stati di tensione che, agli effetti della verifica della resistenza delle s., possano risultare all'incirca equivalenti a quelli effettivi prodotti dal vento. La normativa italiana prevede al riguardo che la pressione statica dipenda dalla pressione cinetica, variabile da zona a zona, dall'esposizione e forma dell'edificio, nonché dall'altezza riferita alle dimensioni in pianta.
In realtà l'azione del vento risulta dalla mescolanza di molte variabili e componenti, delle quali di solito una è dominante e possiede oscillazioni di lungo periodo, mentre le altre sono più rapidamente variabili; per cui gli effetti del vento possono essere trattati separando una parte statica da una dinamica. La prima deriva dalla componente di velocità (pressione cinetica) le cui variazioni seguono cicli di una certa durata (annuali, stagionali, diurni) e comunque con periodo superiore a qualche minuto. La seconda dipende invece dalle fluttuazioni ad alta frequenza della velocità intorno al valore medio.
Nel caso specifico degli edifici alti, la prima azione viene validamente fronteggiata dalla stessa inerzia delle masse in gioco, che consentono all'opera di adattarsi quasi come se si fosse in presenza di carichi statici. L'azione dinamica relativa alla componente turbolenta della velocità può invece essere studiata predisponendo degli spettri di risposta per il vento analoghi a quelli sismici, con l'osservazione che mentre l'eccitazione sismica è indipendente dalle caratteristiche dell'edificio, quella del vento ne dipende in funzione delle caratteristiche di forma e dimensionali.
Si sono in pratica costruiti dei diagrammi che descrivono il modo in cui l'intensità della turbolenza è distribuita dal campo delle frequenze. Come si vede dalla fig. 48, le armoniche di maggiore importanza sono comprese nell'intervallo 8 〈 T 〈 100 sec, mentre per frequenze elevate (T 〈 0,5 sec) la densità di potenza decresce rapidamente. Nella stessa figura è anche indicata la fascia di periodi propri degli edifici e le corrispondenti altezze, valutati con la relazione T = 0,025H, valida approssimativamente per edifici in cemento armato. L'effetto dinamico del vento, come si vede, può cominciare a porsi per edifici con periodo proprio T ≥ 0,8 sec, ossia per edifici con H ≥ 32 m. Inoltre lo studio della risposta delle s. all'azione del vento ha evidenziato l'esistenza di un fattore di amplificazione (i + G) che esprime il rapporto tra la risposta massima dinamica e quella statica, ovvero tra la pressione agente sull'edificio e quella "statica" o "media" fornita dalle norme e presa a base di un calcolo statico; tale fattore varia con l'altezza dell'edificio (fig. 49), con valori maggiori per fabbricati più bassi. Questo andamento si spiega con l'osservazione che, all'aumentare dell'altezza, l'aumento di superficie investita determina una diminuzione della pressione dinamica efficace.
Alla fig. 50 sono infine riportati, in funzione dell'altezza dell'edificio, gli spostamenti massimi, gli sforzi di taglio massimi, e i momenti ribaltanti massimi per effetto del sisma e del vento, nell'ipotesi sia di un comportamento "a flessione" sia di un comportamento "a taglio" del complesso strutturale. Come si nota, i problemi strutturali creati dal vento in edifici di grande altezza risultano di rilevanza confrontabile con quelli legati all'eccitazione sismica. Tali considerazioni hanno comportato di recente particolare attenzione, da parte dei progettisti, verso il problema delle frecce massime in sommità degli edifici, che molti regolamenti ancor oggi fissano in 1/500 dell'altezza totale della struttura. In realtà tale rapporto è tenuto di norma convenientemente più basso, anche per evitare disagi psicologici agli occupanti dei piani alti. Nella tab. 1 è riportato un elenco di edifici alti in calcestruzzo armato di recente costruzione, per i quali la freccia massima in sommità è stata calcolata con grande accuratezza, tenendo conto delle oscillazioni dovute alla turbolenza del vento e con impiego di metodi e programmi di calcolo molto sofisticati. Si noterà come per essi il rapporto freccia/altezza, pur variando in funzione del rapporto di snellezza e dello schema strutturale realizzato, è comunque notevolmente contenuto rispetto al rapporto convenzionale di 1/500, che nel caso di edifici di grande altezza è da ritenersi una limitazione di semplice valore storico.
Cenni sul calcolo degli elementi strutturali. - Tralasciando di far riferimento al calcolo della resistenza degli edifici alti alle azioni verticali, che non presenta difficoltà particolari e che già era stato affrontato e felicemente risolto, seppure con qualche approssimazione, circa un secolo fa dai primi pionieri delle costruzioni in altezza, si vuole qui brevemente accennare al calcolo delle resistenze degli edifici alti alle forze orizzontali, procedendo a una suddivisione strutturale, a questi fini, tra edifici costituiti da telai e mensole irrigidenti, variamente collegati, ed edifici alti con struttura a tubo.
Preliminarmente si osserva che l'applicazione di metodi approssimati e manuali per il calcolo delle sollecitazioni relative alle s. ha lasciato ormai il posto a metodi esatti e molto sofisticati, formalmente espressi con il compatto simbolismo del linguaggio matriciale e resi operanti col ricorso all'elaboratore elettronico. Altre considerazioni si rendono inoltre indispensabili circa le ipotesi comunemente assunte nell'ambito della progettazione strutturale di edifici alti, e cioè:
a) le solette di piano distribuiscono le azioni orizzontali agli elementi resistenti attraverso forze agenti nel loro stesso piano; le possibili conseguenti deformazioni non hanno influenza in tale distribuzione, e anzi vale generalmente l'ipotesi di solette infinitamente rigide nel proprio piano;
b) i collegamenti orizzontali di piano devono possedere anche un'opportuna rigidezza flessionale, ove questa sia richiesta dal particolare schema di calcolo prescelto;
c) gli effetti torsionali dei carichi sulla s. sono considerati agenti in presenza di schemi non simmetrici, ovvero se la resistenza della s. ai carichi orizzontali è affidata a elementi disposti in posizione baricentrica.
Agli effetti strutturali, lo studio di una qualsiasi combinazione,o insieme di telai, mensole ed elementi a tubo, può essere completamente condotto ove si disponga di programmi di calcolo per s. spaziali che prendono in conto, per ogni nodo della s., i sei gradi di libertà possibili nonché la contemporanea presenza, nell'organismo strutturale, di elementi strutturali continui (campi di lastre, piastre, mensole verticali a parete, ecc.). Benché programmi siffatti siano attualmente disponibili, tuttavia il ricorso a essi è il più delle volte evitato, per motivi inerenti sia alla gestione che al costo di tali programmi. Si ricorre allora, almeno nel caso di s. a telaio, a mensola o miste, a un'iniziale ripartizione dei carichi orizzontali tra i diversi elementi resistenti sulla base delle relative rigidezze flessionali e torsionali.
In qualche caso, ove per lo studio degli effetti sismici non sia consentito il ricorso alla determinazione di forze statiche equivalenti, è necessario procedere allo studio del comportamento dinamico dell'intero complesso strutturale (s. spaziali), ancora con ricorso all'analisi modale, e quindi alla determinazione delle azioni orizzontali da affidare alle varie membrature resistenti.
Facendo ora riferimento ai tipi base di elementi strutturali idonei ad assorbire forze laterali, se ne esamineranno alcuni tipi fondamentali, eventualmente abbinati tra loro: telai, mensole (shear-wall, mensole reticolari), s. a tubo.
La differenziazione tra i vari tipi si coglie visivamente dal loro modo di deformarsi sotto i carichi orizzontali: i telai hanno generalmente una deformata a taglio (shear mode); le mensole chiuse presentano invece una deformata tipo flessionale (bending mode); le s. a tubo si deformano prevalentemente nell'uno o nell'altro modo a seconda dei rapporti d'inerzia ritti-travi; combinazioni strutturali telaio-mensola si deformano con l'intervento di un contributo reciproco di sostentamento, con valore nullo alla quota di eguale spostamento orizzontale dei due schemi.
I metodi di calcolo attuali si sviluppano, come richiesto dalle norme dei vari paesi, in campo elastico lineare, prendendo in conto generalmente gli effetti P-Δ legati al carico e quelli dovuti a variazioni termiche o a processi reologici (fluage del calcestruzzo). Se Δ misura, a un certo livello di un telaio, lo spostamento laterale per effetto dei carichi, allora le colonne sono soggette a un momento eguale a P-Δ, con P pari al carico verticale totale agente al livello al quale è misurato Δ. L'effetto P-Δ può essere rilevante soprattutto in presenza di telai non controventati.
Strutture a telaio. Il calcolo di tali s. può essere condotto con metodi tradizionali (metodi di rilassamento, d'irrigidimento, iterativi) ovvero con il ricorso a programmi di calcolo, ormai largamente disponibili, che prendono in conto:
a) deformazioni assiali di ritti e travi; mentre le deformazioni delle travi sono spesso trascurabili, quelle dei ritti divengono generalmente importanti in telai con rapporti altezza/larghezza maggiori di 3,00 - 4,00, principalmente in presenza di travi con inerzie rilevanti rispetto ai ritti;
b) dimensioni non trascurabili di nodi tra le aste. Il riferimento a modelli di calcolo con nodi puntiformi determina errori nella valutazione di momenti e spostamenti, atteso che le luci effettive dei vari elementi strutturali sono minori di quelle di calcolo. Infatti così è possibile prevedere tratti rigidi all'innesto trave-ritto, ovvero considerare aumenti d'inerzia delle aste in corrispondenza dei nodi (circa 10 ÷ 20 volte i valori delle inerzie correnti);
c) cedimenti dei vincoli di fondazione ed effetti geometrici del secondo ordine (effetto P-Δ).
Al crescere dell'altezza la possibilità di fronteggiare forze orizzontali con il ricorso a s. intelaiate diventa sempre più subordinata all'accettazione di rilevanti dimensioni dei ritti e di rilevanti spostamenti. Intervengono allora fattori economici e funzionali che limitano il ricorso a s. intelaiate (in acciaio o calcestruzzo) per edifici con non più di 15 - 20 piani.
Pareti di controventamento. a) Mensole in calcestruzzo. Le mensole in calcestruzzo, intere o percorse da una o più file regolari di aperture, sono impiegate, a seconda dei casi, sia congiuntamente alle s. a telaio sia da sole in edifici a pareti portanti. Il loro calcolo si effettua, nel primo caso, per es. assimilando il comportamento della s. a telaio a quello di una mensola con deformabilità tagliante di gran lunga prevalente sulla deformabilità per flessione; il problema si riconduce allora al calcolo dell'interazione fra una mensola di assegnata rigidezza flessionale e una mensola fittizia di opportuna rigidezza tagliante. Nel secondo caso, ossia per mensole costituenti isolatamente la s. portante dell'edificio, il calcolo si effettua ripartendo i carichi proporzionalmente alle rigidezze, nell'ipotesi di solai indeformabili e di eccentricità nulla (o trascurabile) tra baricentro delle rigidezze e retta d'azione della risultante di piano. In presenza invece di momenti torcenti, occorre valutarne gli effetti sugli elementi strutturali nell'ipotesi di rotazione uniforme di ciascun impalcato (fig. 51). Nel caso di mensole percorse da una o più file di aperture (fig. 52), il cui comportamento è chiaramente compreso tra quello di un'unica mensola a sezione piena e l'altro di mensole collegate mediante aste di rigidezza flessionale trascurabile, il calcolo può essere condotto, ancora passando dal discreto al continuo, con l'ipotesi di una distribuzione uniforme di lamine tra le mensole affacciate e assumendo come incognita la caratteristica tagliante agente in esse. Talvolta lo studio è condotto invece secondo schemi di telaio equivalente, introducendo cioè opportunamente tratti rigidi di prefissata lunghezza e ricorrendo agli usuali metodi automatici di calcolo disponibili per i telai. b) Mensole reticolari. Nel caso di mensole reticolari, di frequente impiego negli edifici alti a s. portante in acciaio, lo studio è di regola condotto assimilando tali elementi strutturali a mensole con deformazione a taglio non trascurabile. Si tratta cioè di definire, per ciascuna mensola presente nell'organismo strutturale, una rigidezza flessionale e una rigidezza tagliante equivalenti a quella di una mensola piena fittizia, e di procedere quindi alla ripartizione dei carichi tra i vari controventamenti reticolari secondo quanto già visto per le mensole piene.
Strutture tubolari. Il comportamento di una s. a tubo risulta dalla combinazione di un comportamento a mensola (tipo shear-wall) con quello di un comportamento a telaio. Infatti il ribaltamento sotto forze orizzontali è impedito dalla rigidezza estensionale delle colonne mentre gli sforzi di taglio conseguenti ai carichi sono assorbiti flessionalmente dalle colonne e dalle travi costituenti la parte di s. parallela alla direzione della forza laterale.
Il calcolo rigoroso, in fase elastica, di una s. a tubo può condursi con impiego di programmi di calcolo per s. spaziali tipo stress, strudl, nastran e altri, osservando in tal caso che la fortissima iperstaticità strutturale comporta oneri gestionali e di tempo di rilevante incidenza. Calcoli approssimati sono solitamente condotti in fase di proporzionamento provvedendo alla determinazione degli sforzi assiali nelle colonne e degli sforzi di taglio massimi nei telai paralleli alla direzione del vento:
dove: M = momento ribaltante alla base del tubo; c = distanza di ciascuna colonna dall'asse neutro; Ac = area della singola colonna; Ie - momento d'inerzia totale del tubo;
dove: Q = momento statico delle sezioni delle colonne rispetto all'asse neutro; h = altezza d'interpiano; Ie = momento d'inerzia totale del tubo; VW = risultante delle forze esterne orizzontali.
Ovviamente tali valori sono notevolmente approssimati, come si può dedurre dall'esame della fig. 53, che riporta l'andamento degli sforzi nelle colonne nell'ipotesi di mensola pura e di comportamento strutturale effettivo.
Soluzioni più rigorose si conseguono talvolta estraendo dallo schema strutturale completo opportuni sottoschemi di calcolo (fig. 54) risolti con l'impiego di metodi tradizionali o automatici. Come pure, in qualche caso, è stato affrontato il calcolo delle s. a tubo facendo ricorso a una schematizzazione strutturale al continuo, considerando ciascun elemento superficiale come un campo di lastra opportunamente vincolato e caricato, e passando quindi al calcolo delle sollecitazioni interne con i tradizionali metodi della scienza delle costruzioni.
Bibl.: B. Lewicki, Bâtiments d'habitation préfabriqués en elements de grandes dimensions, Parigi 1965; B. S. Smith, Proceedings of a Symposium in university of Southampton on tall buildings, Oxford 1967; E. Giangreco, Orientamenti sulla progettazione di costruzioni in acciaio in zona sismica, Napoli 1969; id., Il grattacielo: sfida statica del presente, in Industria delle costruzioni, Roma 1970; ASCE (American Society of Civil Engineering), IABSE (International Association for Bridge and Structural Engineering), Proceedings of the international conference on planning and design of tall buildings, voll. I, II, III, Bethlehem, Pennsylvania, ag. 1972; IABSE, National conference on tall buildings, New Dehli (India), genn. 1973; P. E. Pinto, Effetti del sisma e del vento sugli edifici alti, Roma 1973; L. Finzi, Sulla progettazione strutturale di edifici alti in acciaio, in Costruzioni metalliche, n. 6, 1973; R. White, P. Gergely e R. Sexsmith, Structural engineering, New York 1974; A. Migliacci, Progetti di strutture, Milano 1974; E. Giangreco, Relazione generale sul tema edifici multipiano, Giornate italiane del C.T.A, in Costruzioni metalliche, marzo-apr. 1974; F. R. Khan, Tubular structures for tall buildings, in Handbook of concrete engineering, New York 1974; M. Fintel, Multistory structures, in Handbook of concrete engineering, ivi 1974; F.M. Mazzolani, Evoluzione degli schemi strutturali nel campo degli edifici a molti piani: grattacielo o macrostruttura?, in Ingegneri, Napoli, luglio-sett. 1974; d.m. 3 marzo 1975 Le nuove norme tecniche per le costruzioni in zone sismiche e le disposizioni concernenti la loro applicazione, in Gazzetta ufficiale 8 apr. 1975, n. 93; M. Fintel, Deflections of high-rise concrete buildings, in Aci journal, luglio 1975; CISM (International Centre for Mechanical Sciences), Ingegneria sismica (a cura di M. Mele), Udine 1977; P. Pozzati, Teoria e tecnica delle strutture, Torino 1977.
Moderni orientamenti nei procedimenti di calcolo delle strutture.
L'ipotesi della perfetta elasticità dei materiali con cui sono costruite le s. ha costituito la base per il loro calcolo e verifica per più di un secolo; al concetto di elasticità è legata infatti la legge di Hooke, che postula la proporzionalità tra sforzi e deformazioni, ritenuta valida per i normali valori delle tensioni interne a cui sono sottoposti in esercizio i materiali resistenti. Già da molti anni tuttavia numerosi studiosi dei problemi connessi al dimensionamento e alla verifica delle s. resistenti hanno intrapreso studi ed esperimenti sul comportamento dei vari materiali al di fuori del campo elastico; questa esigenza si è manifestata per vari motivi tra i quali importanti i seguenti:
a) l'uso sempre più esteso di materiali di scarsa omogeneità che non seguono la legge di Hooke neanche ai valori correnti d'esercizio delle tensioni interne, esempio tipico il cemento armato semplice e precompresso;
b) la possibilità che si verifichino deformazioni plastiche in alcuni punti particolari di s. complesse calcolate in campo elastico;
c) la ricerca dell'effettivo valore dei coefficienti di sicurezza sui quali si possa fare affidamento quando la s. si trova in determinate situazioni d'esercizio; tale ricerca è infatti legata alla conoscenza del modo secondo cui si comporta la s. in prossimità dello stato di rottura, comportamento che dipende da numerosi fattori oltreché naturalmente dal tipo di materiale di cui è costituita;
d) la possibilità che la s. debba considerarsi inaccettabile anche se si trova in sicurezza rispetto al collasso statico: si parla in questi casi di stati limiti d'esercizio, riservando invece la dizione stato limite ultimo per lo stato di collasso statico. Con quest'ultima locuzione s'intende la condizione di una s. che ha perso la sua capacità portante; sono considerati stati di collasso, per es.: la rottura di una o più sezioni, la trasformazione di una s. complessa iperstatica o isostatica in s. labile, la deformazione eccessiva di qualche sua parte, l'intervento di fenomeni d'instabilità dell'equilibrio o di fatica. Sono esempi di stati limiti d'esercizio: il raggiungimento di deformazioni della s. incompatibili con determinate altre funzioni attribuite alla s. stessa, la comparsa di fessurazioni eccessive (è il caso del cemento armato posto in ambiente aggressivo per le barre d'armatura), il verificarsi di vibrazioni inaccettabili.
Importante agli effetti del dimensionamento delle s. è la ricerca di cui al precedente punto b), perché nei materiali duttili sollecitati oltre i limiti elastici il collasso statico non è immediato ma avviene una plasticizzazione delle fibre alla quale consegue un'ulteriore resistenza di cui si può tener conto ai fini della sicurezza; per le s. iperstatiche si ottiene poi quasi sempre un altro vantaggio dovuto al fatto che la s. non entra in collasso, pur con l'aumentare delle forze esterne oltre il raggiungimento del limite elastico, se non dopo che si siano plasticizzate successivamente un numero di sezioni pari al grado di iperstaticità della s. stessa; tutto ciò sarà messo in evidenza in seguito con qualche esempio.
Riguardo alla possibilità di conoscere i valori di determinate grandezze che rappresentino sia le azioni che normalmente o eccezionalmente si esplicano sulle s., sia la resistenza che i materiali oppongono alle azioni stesse, ci si orienta ormai (almeno in sede europea) verso il procedimento "semiprobabilistico" che tiene conto della aleatorietà dei dati normalmente a disposizione del calcolatore (risultati di prove su campioni, assunzione di pesi specifici, azioni del vento, azioni sismiche, ecc., con valori medi spesso imposti dai re golame nti).
Procedimento semiprobabilistico. - Tale procedimento è basato sul confronto di due valori convenzionali di una variabile aleatoria x, quello caratteristico e quello di calcolo. Il valore caratteristico xk di una serie più o meno grande di valori, s'identifica col frattile (superiore o inferiore) di ordine K della variabile aleatoria x. Per frattile superiore di ordine K s'intende quel particolare valore della x la cui probabilità di essere superato è del K %, per frattile inferiore di ordine K il particolare valore della x la cui probabilità di non, essere superato è del K %. Il frattile può essere messo in evidenza con una rappresentazione cartesiana (fig. 55) riportando in ascisse i valori della variabile aleatoria e in ordinate la curva di frequenza f (x), detta anche di densità di probabilità (tale curva può essere agevolmente disegnata partendo da un istogramma di frequenze composto con una serie di prove o misurazioni); l'area compresa tra la curva e l'asse delle ascisse è uguale a uno; la probabilità K1 che un valore xk1 (frattile inferiore) della variabile non venga superato è data dall'area compresa tra la parte sinistra della curva, l'asse delle ascisse e la verticale per xk1, mentre la probabilità K2 che il valore xk2 della variabile venga superato (frattile superiore) è data dall'area compresa fra la parte destra della curva, l'asse delle ascisse e la verticale per xk2 (le aree sono in grigio in figura); analiticamente si può scrivere:
La curva di frequenza che può essere assunta come vicina a quella reale per i problemi che riguardano le s. è quella di Gauss (fig. 56) rappresentata analiticamente dalla:
dove:
è il valor medio della variabile aleatoria (che corrisponde all'ascissa del baricentro dell'area unitaria compresa tra la curva e l'asse delle ascisse) e
è lo scarto quadratico medio; l'integrale sotto radice corrisponde al momento d'inerzia della stessa area unitaria rispetto alla retta a tratto e punto in fig. 56 e δ è la distanza dei punti di flesso della f (x) dalla retta medesima.
Sostituendo la [2] nella [1] si ottengono per xk1 e xk2 i valori xk1 = xm − k1δ, xk2 = xm + k2δ, essendo k1 e k2 due coefficienti dipendenti dalle probabilità K1 e K2 adottate. Per un numero sufficientemente grande di valori dati alla variabile aleatoria, il valore del coefficiente k con probabilità K fissata al 5% è uguale a 1,64.
In pratica il valor medio [3] e lo scarto quadratico medio [4] sono dati, per un numero n di valori xi della variabile aleatoria, dalle seguenti relazioni:
Dai valori caratteristici si passa ai valori di calcolo dividendo o moltiplicando (a seconda che si tratti del frattile inferiore o superiore) per un coefficiente ≥ 1.
Per i calcoli relativi alle s. si prendono in considerazione i valori caratteristici della resistenza (rappresentata dal carico di rottura o di snervamento per gli acciai) e quelli dei carichi esterni applicati (supposti definiti da un solo parametro); nel primo caso si tratta ovviamente del frattile inferiore, nel secondo di quello superiore.
Flessione in campo plastico. - Se si sollecita una trave inflessa omogenea, composta di materiale duttile (per es., d'acciaio) in modo che la tensione massima nella sezione raggiunga il limite di snervamento σS, il diagramma delle σ nell'altezza della sezione si presenta come in figura 57A e il momento flettente è quello massimo sopportabile dalla trave in campo elastico:
Se si aumenta il momento flettente oltre questo limite, nella sezione intervengono dei fenomeni di scorrimento plastico: naturalmente cominciano a essere sede di tali scorrimenti dapprima le fibre ove la tensione è massima, successivamente poi, all'aumentare del momento flettente, la zona plasticizzata si propaga verso l'asse neutro fino a che la tensione arriva a σS anche nelle fibre che si trovano all'estremità opposta della sezione (fig. 57B). Aumentando ancora M la plasticizzazione si propaga verso l'asse neutro da entrambe le parti (fig. 57C); al limite, quando la sezione è tutta plasticizzata (fig. 57D), il momento flettente ha raggiunto il massimo valore sopportabile anche in campo plastico: oltre questo valore si avrebbe il collasso della trave; questo momento limite è detto momento plastico e si pone:
Z è detto modulo plastico, in analogia col modulo di resistenza W della [5]. Esso, per una sezione provvista di due assi di simmetria (uno, asse di sollecitazione; l'altro, asse neutro; fig. 58A), vale:
essendo Sx il momento statico di metà sezione rispetto all'asse neutro. Per una sezione provvista di un solo asse di simmetria coincidente col piano di sollecitazione, z vale invece (fig. 58B): Z = A/2 (y1 + y2) con A area della sezione e y1, y2 distanze dall'asse che divide la sezione stessa in due parti uguali (asse neutro plastico) dei baricentri delle due semisezioni.
Il rapporto tra il momento massimo in campo plastico Mp e quello in campo elastico Me è detto fattore diforma; dalle [5] e [6] si ha:
Esso dà una misura della maggior resistenza cui dà luogo la plasticizzazione della sezione in confronto della resistenza elastica; la denominazione di tale fattore è dovuta al fatto che esso dipende solo dalla forma della sezione: è maggiore per le sezioni più larghe in corrispondenza dell'asse neutro, infatti vale per la sezione circolare 1,7 e per quella rettangolare 1,5, mentre vale circa 1, 16 per i profilati normali a doppia T (1,14 per i profilati IPE) che hanno spessore sottile in corrispondenza dell'asse neutro.
La fig. 59A mostra il diagramma M, θ (momenti, curvature) per una sezione a doppia T: una prima parte, all'aumentare del momento e fino a che non si raggiunge la tensione σs ha andamento rettilineo; momenti e curvature sono proporzionali; segue un tratto curvilineo e poi la curva si avvicina asintoticamente alla retta M = cost. = Mp; in quest'ultimo tratto la curvatura aumenta sensibilmente anche con un lieve aumento del momento. Data la sua forma il diagramma può essere schematizzato come in fig. 59B con due tratti rettilinei OA e AB, il che significa ipotizzare per il materiale un comportamento elastico fino al raggiungimento del punto A oltre il quale avviene la plasticizzazione che fa aumentare indefinitivamente la curvatura a momento costante. Un tale comportamento, prossimo a quello che si verifica in realtà e provato sperimentalmente in numerose esperienze, giustifica il concetto di cerniera plastica introdotto per schematizzare l'andamento della resistenza delle s. in campo plastico. Tale concetto può essere spiegato nel modo seguente: in tuna s. sottoposta a carichi esterni concentrati o ripartiti il momento flettente è variabile e acquista il valore massimo in una o più sezioni determinate; orbene se s'immagina di far crescere i carichi esterni fino a che il momento raggiunga in quelle sezioni il valore del momento plastico, si verificano nelle sezioni stesse e nelle immediate vicinanze (in tutta la zona ove il momento supera il valore di quello limite elastico) rotazioni molto maggiori di quelle che avvengono nelle zone che si trovano ancora in campo elastico, la curvatura della s. acquista nelle zone plasticizzate anch'essa un valore molto maggiore che nelle altre zone; in definitiva la s. si comporta come se nel punto di momento massimo fosse presente una cerniera ad attrito capace di reagire con un momento costante uguale a Mp. Nella fig. 60 è illustrato tale comportamento per una trave semplicemente appoggiata agli estremi e sottoposta a un carico concentrato verticale in mezzeria: in tutta la zona larga Δl in corrispondenza della sezione di momento flettente massimo il materiale è plasticizzato e la curvatura dell'asse è molto accentuata, mentre nelle zone ancora in campo elastico (M 〈 Me) la curvatura è piccolissima (la trave è quasi rettilinea); dal diagramma dei momenti B si può trarre:
ossia, ricordando la [8],
quindi anche Δl dipende dalla forma della sezione (oltre che naturalmente dal tipo di sollecitazione esterna).
Molto importante è il caso delle s. iperstatiche: in esse infatti la plasticità del materiale dà luogo a una distribuzione delle sollecitazioni interne più favorevole alla resistenza rispetto a quella che si avrebbe col comportamento elastico puro. Secondo l'ipotesi elastica infatti per mettere fuori esercizio la s. è sufficiente che la tensione interna raggiunga il valore σs in un solo punto della s. medesima; con l'ipotesi elastoplastica, invece, nel punto ove σ raggiunge il valore σs il materiale si plasticizza e ivi si forma una cerniera plastica che reagisce col momento costante Mp; l'iperstaticità della s. diminuisce di un'unità (essendo Mp un valore noto, costante e indipendente dai vincoli); all'aumentare proporzionale di tutti i carichi esterni il momento raggiunge il valore Mp e ivi si arresta con formazione di cerniere plastiche successive nei punti ove il diagramma dei momenti ha dei massimi relativi. Se la s. è di grado n, essa diventa isostatica quando appare la n-esima cerniera plastica; la formazione della (n +1)-esima cerniera plastica darebbe luogo a una s. labile e quindi al suo collasso. Il valore del carico esterno che provoca questa situazione prende il nome di carico limite o di collasso; esso è maggiore di quello che si avrebbe in una s. calcolata in campo elastico sia per effetto della plasticizzazione del materiale (Mp > Me), sia per effetto della successiva formazione delle n cerniere plastiche. Fa eccezione il caso in cui i momenti massimi relativi nelle varie parti della s. iperstatica siano tutti uguali, in tal caso la formazione delle cerniere plastiche sarebbe contemporanea e il collasso elastoplastico avverrebbe per un valore dei carichi esterni superiore a quello del collasso elastico per il solo effetto di plasticizzazione, come avviene nelle s. isostatiche. Nei casi correnti della pratica è tuttavia difficile che si verifichi il caso dei momenti relativi tutti uguali - anche perché tale circostanza si verifica solo per una determinata posizione e un determinato valore dei carichi - cosicché il vantaggio della successiva formazione delle cerniere plastiche è in pratica reale e normalmente sensibile.
Il carico d'esercizio si ottiene da quello limite dividendolo per un opportuno coefficiente di sicurezza: tale coefficiente ha in questo caso un valore diverso da quello del coefficiente che compare nella teoria classica, essendo quest'ultimo stabilito indipendentemente dal modo di distribuzione dei momenti nella struttura.
Un esempio del vantaggio che si ottiene nel dimensionamento elastoplastico di una s. si ha nella trave incastrata agli estremi e caricata uniformemente (fig. 61A); il momento flettente in campo elastico è dato dal diagramma B, i due massimi uguali sono negativi agl'incastri e valgono Mi = − pl2/12, mentre il massimo positivo è al centro e vale Mmax = pl2/24; se si fa crescere il carico, i momenti aumentano proporzionalmente fino a che si raggiunge la massima tensione σs nella fibra più sollecitata delle sezioni d'incastro: il massimo carico pe compatibile con la fase elastica vale quindi (ricordando che è Mi = Me = σsW):
Se si aumenta ancora gradatamente il carico, le sezioni d'incastro cominciano a plasticizzarsi insieme e il momento resistente aumenta, per quanto detto precedentemente, fino al valore del momento plastico Mp = σsZ; da questo punto in poi il momento d'incastro rimane costante mentre si plasticizzano le altre sezioni fino a che anche in mezzeria il momento non raggiunge il valore di M: in questo istante si ha il collasso plastico e si può scrivere (fig. 62C): Mp = ppl2/8 − Mp, essendo pp il carico limite che provoca il collasso plastico. Dalla precedente risulta: pp = 16Mp/l2 = 16σsZ/l2.
Dal confronto con la [9] si ottiene: pp/pe = (4/3)Z/W ≈ 1,33f, e quindi si ha un aumento del carico limite rispetto al regime elastico del 33%, oltre al beneficio della plasticizzazione delle sezioni rappresentato dal fattore di forma f (quest'ultimo beneficio è l'unico che si ottiene nelle strutture isostatiche).
È da tener presente tuttavia che il vantaggio testé calcolato non è uguale per tutte le condizioni di carico e di vincolo delle s., anzi, come già detto, esso può addirittura annullarsi, come avviene, per es., quando tutti i massimi relativi sia positivi che negativi del diagramma del momento flettente sono uguali.
Diamo un altro esempio del comportamento elastoplastico di una semplice s. iperstatica formata (fig. 62) da un'asta orizzontale d'acciaio della lunghezza l incernierata in A a una rigida s. verticale e sostenuta in B da due tiranti CB e DB anch'essi d'acciaio e di eguale sezione, vincolati a cerniera agli estremi e inclinati uno di 20° e l'altro di 40° sull'orizzontale; il sistema è sottoposto a un carico verticale P applicato alla cerniera B.
Supponendo la sezione dell'asta molto più grande di quella dei tiranti, in modo da poter trascurare in prima approssimazione l'accorciamento di essa rispetto all'allungamento dei tiranti, la s. deformata è indicata in figura con linea punteggiata e gli allungamenti dei due tiranti valgono, in funzione dell'abbassamento δ del punto B:
Se riteniamo valida la legge di Hooke per i tiranti, chiamando X e Y le rispettive forze incognite che li sollecitano a trazione, l1 ed l2 le loro lunghezze, A l'area della sezione, E il modulo di Young, si ha:
dalla figura si rileva che l1 = l/cos 20° ed l2 = l/cos 40° e, tenendo conto delle [101 e delle [i il, si ha:
Scrivendo ora l'equazione d'equilibrio alla traslazione verticale in B si ha:
dalle [12] e [13] si ottiene:
Il carico che produrrebbe il collasso elastico della s. (si ricorda che si suppone rigida l'asta orizzontale) è quello Pe che farebbe raggiungere la sollecitazione critica σs nel tirante DB, ossia: Y = Aσs e quindi, ricordando la [14]: Pe ≈ 0,867Aσs. Se si fa crescere il carico oltre Pe s'inizia la plasticizzazione del tirante DB e la forza assiale a cui esso è sottoposto rimane uguale ad Aσs, mentre cresce la X nel tirante CB fino a che anch'essa diventa uguale ad Aσs; a questo punto il carico è il massimo ottenibile e si ricava sostituendo nella [13] a X e a Y il valore comune Aσs: Pp ≈ 0,342Aσs + 0,643Aσs = 0,985Aσs.
Il rapporto tra il carico di collasso plastico e quello di collasso elastico risulta quindi; Pp/Pe ≈ 0,985Aσs/0,867Aσs ≈ 1,14. Il beneficio dovuto alla plasticità è allora per questo tipo di s. di circa il 14%.
Torsione in campo plastico. - Analogamente a quanto si è visto per la flessione, è semplice la trattazione della torsione plastica per la sezione circolare piena o cava; maggiori difficoltà s'incontrano nella trattazione delle sezioni diverse dalla circolare, come d'altronde avviene anche in campo elastico. Nella fig. 63 è indicato in A il diagramma delle tensioni τ che s'instaurano in campo elastico in una sezione circolare soggetta a un momento torcente Mt: esse sono massime sul perimetro esterno e vanno linearmente decrescendo verso il centro ove sono nulle; il loro valore, in tm punto distante r dal centro, è τ = Mtr/Ip, essendo Ip il momento d'inerzia polare rispetto al centro della sezione.
Se si fa crescere il momento torcente, le tensioni aumentano proporzionalmente fino a che quelle massime sul perimetro non raggiungono il limite di snervamento τs; in questo istante il momento torcente è il massimo ammesso in campo elastico e vale: Mte = τsIp/R = tsπR3/2; a questo punto cominciano a intervenire gli scorrimenti plastici e, all'aumentare della sollecitazione esterna, questi scorrimenti si propagano verso l'interno della sezione, mentre la τmax si mantiene uguale a τs (fig. 63B); la plasticizzazione continua fino a che la τ raggiunge il valore τs al centro e in questo istante si ha il collasso (fig. 63C). Il valore di Mt che provoca il collasso è detto momento torcente plastico e s'indica con Mtp; esso vale: Mtp = τs(2πR3)/3 = τsSp, essendo Sp il momento statico polare della sezione.
Il rapporto tra il momendo torcente limite elastico e quello plastico vale: Mtp/Mte = 4/3.
Per le sezioni circolari cave questo rapporto diminuisce fino ad arrivare a 1 nel caso limite di una sezione cava di spessore infinitamente sottile.
Sollecitazione composta dif orza normale e flessione in campo plastico. - Il problema per questo tipo di sollecitazione è quello di determinare il valore del momento plastico Mpn, generalmente minore di quello Mp che si avrebbe per flessione pura nella stessa sezione. Se si ammette sempre valido il principio di conservazione delle sezioni piane e si è in presenza di un materiale duttile elastoplastico, la plasticizzazione nella sezione avviene come per la flessione pura (fig. 64), inizia dalla parte ove la σ è maggiore (fig. 64A, B), si propaga verso l'asse neutro, compare al lembo opposto (fig. 64C) e continua fino a che il diagramma delle σ è formato da un doppio rettangolo di altezze diverse (fig. 64D) corrispondente al limite ideale di plasticizzazione. In questo istante il momento plastico della sezione è Mpn, che, per la presenza della forza normale N, è minore di Mp. Ciò può essere messo in evidenza, per una sezione a doppia simmetria, scomponendo il diagramma delle σs in due parti come è stato fatto nella fig. 64E: una parte comprende la zona centrale che si estende per ampiezze uguali c da ambo i lati dell'asse di simmetria della sezione, in modo tale che la risultante delle σs che insistono su tale parte della sezione è la N, un'altra parte comprende le due zone esterne a quella centrale in modo tale che la risultante delle σs è la coppia di momento Mpn: evidentemente questo momento è minore di Mp perché manca il contributo delle σs che insistono sulla parte centrale. Sempre con riferimento al diagramma di fig. 64E, si ha poi:
(Ac è l'area della zona centrale di altezza 2c); da questa si può ricavare il valore di c. Sempre dalla fig. 64E si ha poi: Mpn = Mp, − (Ac/2)σsc; ricordando il valore di Mp dato dalle [6] e [7], si ha:
avendo indicato con d la distanza dall'asse di simmetria del baricentro di metà sezione di area totale A.
S'introduce poi, per analogia con quanto si fa per il momento flettente, la nozione di forza normale plastica Np, ossia la forza normale che provoca la plasticizzazione di tutta la sezione. Anche questa è naturalmente una grandezza limite e vale: Np = σsA; ricordando la [15] si ha:
dal confronto con la [16] risulta infine:
La [18] nel sistema di coordinate N/Np, Mpn/Mp, rappresenta una curva detta d'interazione dalla quale si possono ricavare i valori di Mpn in funzione di N.
Per una sezione rettangolare (di larghezza b e altezza h) si ha dalle [16] e [17]:
ossia:
la curva d'interazione è quindi in qtiesto caso la parabola a della fig. 65.
Per altre forme di sezione la curva d'interazione naturalmente è alquanto diversa; per es., essa per un profilato IPE del 100 è rappresentata dalla curva b della fig. 65.
La curva d'interazione rappresenta la frontiera del dominio di resistenza della sezione considerata per la sollecitazione di pressoflessione; infatti un punto, che si trovi compreso tra i due assi cartesiani e la curva stessa, ha come coordinate valori contemporanei di M e di N che provocano nella sezione sollecitazioni inferiori di quelle di collasso plastico, mentre le coordinate di un punto che si trova sulla curva rappresentano i valori di M e di N che provocano le sollecitazioni di collasso.
Sollecitazione composta di flessione e taglio in campo plastico. - La forza tagliante generalmente influisce poco sul valore del momento plastico in s. di comune impiego: essa è trascurabile per travi a sezione rettangolare e per travi con sezione a doppia T, almeno fino a che non si produca la plasticizzazione dell'intera anima, ciò che avviene quando:
avendo indicato con Tp la forza tagliante plastica, in analogia con la forza normale plastica introdotta nel paragrafo precedente, τs la tensione tangenziale di snervamento legata alla σs dalla τs = σs/√3, e Aa l'area della sezione dell'anima. Che la forza tagliante sia quasi tutta assorbita nell'anima e distribuita lungo la stessa con legge quasi uniforme è messo in evidenza dal diagramma delle τ nell'altezza della sezione, che, com'è noto, è quello della fig. 66A.
Se la forza di taglio supera il valore dato dalla [19], allora il momento plastico della trave dev'essere ridotto al valore Mpt sottraendo il contributo che non può più dare l'anima ora completamente plasticizzata per il taglio. Con riferimento alla fig. 66B (Aa area dell'anima) si ha:
d'altra parte il momento Mpt si può ottenere anche direttamente come momento delle forze che agiscono sulle ali, e precisamente (At area delle due ali): Mpt = (At/2) σs(h − t); dalle due precedenti si ricava Mp = (At/2) σs(h − t) + (Aa/4) σs (h − 2t), e quindi il rapporto tra il momento plastico ottenuto tenendo conto della plasticizzazione dell'anima operata dal taglio, e quello per flessione pura, è:
Per es., per un profilato IPE del 100 la riduzione del momento plastico, per effetto del taglio, qualora quest'ultimo fosse maggiore di Tp, sarebbe, applicando la [20], di circa il 20%.
Bibl.: A. Nadai, Theory of flow and fracture of solids, New York 1950; B. G. Neal, The plastic method of structural analysis, Londra 1956; A. Phillips, Introduction to plasticity, New York 1956; P. G. Hodge, Plastic analysis of structures, ivi 1959; W. Prager, Introduction to plasticity, ivi 1959; O. Belluzzi, Scienza delle costruzioni, XXX, Bologna 1960; V. Franciosi, Scienza delle costruzioni, IV, Napoli 1964; C. Massonet, M. Save, Calcolo a rottura delle strutture, Bologna 1967; A. Mendelson, Plasticity: theory and applications, New York 1968; R. Baldacci, G. Ceradini, E. Giangreco, Plasticità, Genova 1971; G. Augusti, Metodi probabilistici nell'ingegneria strutturale, in Bollettino degli ingegneri, 1976.
Matematica.
Il termine s. è oggi usato nel senso indicato in App. III, 11, p. 859, e non in quello della voce in App. II, 11, p. 923, nella quale ciò che veniva chiamato "struttura" è oggi generalmente detto "reticolo", e costituisce un tipo molto particolare di s. nel senso odierno.
Attualmente, si è soliti dividere le s. matematiche in tre classi: s. algebriche (cioè caratterizzate da operazioni), s. d'ordine (caratterizzate da relazioni d'ordine) e s. topologiche. Tale suddivisione non è però del tutto esauriente sia perché molte s. rientrano in più di una classe (si pensi, per es., ai gruppi ordinati, o ai gruppi topologici), sia perché possono presentarsi s. di tipo ancora differente. In particolare, le s. algebriche e quelle di ordine rientrano tra le cosiddette "s. relazionali" o Ω-strutture, di cui parleremo dopo aver presentato le Ω-algebre, cioè le s. algebriche.
Strutture algebriche. - Sia A un insieme non vuoto. Se n è un numero naturale > 0, si dice "operazione n-aria" definita in A una legge che associa a ogni n-pla ordinata (a1, ..., an) di elementi di A un elemento di A. Per es., l'operazione che associa a ogni coppia ordinata di numeri reali la loro somma è un'operazione 2-aria (o binaria); quella che associa a ogni numero reale il suo opposto è un'operazione1-aria. S'introduce anche il concetto di "operazione 0-aria": dare in A un'operazione 0-aria significa assegnare un particolare elemento di A.
Sia ora Ω un insieme di simboli chiamati operatori. A ogni elemento ω ∈ Ω sia associato un numero naturale a(ω) detto la "arità" di ω. A ogni ω ∈ Ω con a(ω) = n sia associata un'operazione n-aria di A. Diremo allora che A è una Ω-algebra.
Per es., un gruppo è una Ω-algebra G, ove Ω consta di 3 elementi cui sono rispettivamente associate un'operazione binaria μ (prodotto), un'operazione 0-aria (cioè l'elemento unità u di G) e un'operazione1-aria ϑ (che porta ogni elemento di G nel suo inverso), tali che: 1) se x, y, z ∈ G, è ((x, y)μ, z)μ = (x, (y, z)μ)μ (proprietà associativa); 2) se x ∈ G, è (x, u)μ = x, (u, x)μ = x; 3) se x ∈ G, è (x, (xϑ))μ = u, ((xϑ), x)μ = u. Altri esempi di Ω-algebre sono dati dagli anelli, dai moduli su un anello, ecc. Invece, per es., un campo non è una Ω-algebra, perché in esso l'operazione che associa a un elemento il suo inverso è definita non per tutti gli elementi ma solo per quelli ≠ 0.
Sia Ω un insieme di operatori, e siano A, B due Ω-algebre. Si dirà che B è una sottoalgebra di A se B ⊂ A e se, per ogni ω ∈ Ω, dette ωA e ωB le operazioni associate a ω in A e B, ωB risulti essere la restrizione a B di ΩA, cioè, nel caso a(ω) = n, si abbia, per x1, ..., xn ∈ B, (x1, ..., xn)ωA = (x1, ..., xn)ωB.
Date due Ω-algebre A e B, si dice omomorfismo di A in B un'applicazione f di A in B tale che, per ogni ω ∈ Ω con a(ω) = n, dette ωA, ωB le operazioni di A e rispettivamente di B associate a ω, si abbia, per x1, ..., xn elementi arbitrari di A, (x1f, x2f, ..., xnf)?ωB = ((x1, x2, ..., xn)ωA)f. Un omomorfismo di A in B, tale che la corrispondenza a esso inversa sia un omomorfismo di B in A, si dice un isomorfismo. Un omomorfismo suriettivo si dice epimorfismo. Altri concetti propri della teoria dei giuppi e degli anelli, come quelli di endomorfismo, automorfismo; prodotto diretto, ecc., si estendono alle Ω-algebre.
Il concetto di omomorfismo è strettamente connesso con quello di congruenza. Si dice congruenza in una Ω-algebra A una relazione di equivalenza R definita in A (cioè una relazione binaria, riflessiva, simmetrica e transitiva) tale che, per ogni ω ∈ Ω, detta n l'arità di ω, da xiR yi (i = 1, ..., n) segua [(x1, x2, ..., xn)ω]R [(y1, y2, ..., yn)ω]. Se G è un gruppo e N un suo sottogruppo normale, si può associare a N una congruenza R di G ponendo xRNy se e solo se xy-1 ∈ N; e ogni congruenza in G può costruirsi per questa via. In modo simile, in un anello, le congruenze si possono tutte costruire a partire dagli ideali.
Date due Ω-algebre A e B e un omomorfismo f di A in B, la relazione R in A tale che x R y se e solo se x f = y f, è una congruenza. Viceversa, se A è una Ω-algebra e R una congruenza definita in A, detto A/R l'insieme delle classi di equivalenza rispetto ad R, si può introdurre in A/R una struttura di Ω-algebra in modo che l'applicazione associante a ogni x ∈ A la classe di equivalenza ctii appartiene sia un epimorfismo di A su A/R. I teoremi sugli omomorfismi tra gruppi, come pure i teoremi di Schreier-Zassenhaus e Jordan-Hölder sui gruppi si possono estendere opportunamente alle Ω-algebre.
Strutture relazionali. - Le s. algebriche sono particolari s. relazionali. Se n è un numero naturale, si dirà "relazione n-aria", definita in un insieme M, un insieme di n-ple ordinate di elementi di M. Si noti che un'operazione n-aria si può considerare come una particolare relazione (n +1)-aria. Infatti una data operazione n-aria f definita in M è individuata quando, per ogni n-pla ordinata (a1, a2, ..., an) di elementi di M è dato l'elemento (a1, a2, ..., an) f; essa pertanto è individuata anche dalle (n + 1)-ple ordinate della forma
Ne segue che un'operazione n-aria può considerarsi anche come una particolare relazione (n + 1)-aria tale che, per ogni n-pla ordinata (a1, a2, ..., an) di elementi di M, c'è una e una sola (n + 1)-pla ordinata appartenente alla relazione i cui primi n elementi siano a1, a2, ..., an.
Sia ora Ω un insieme di simboli, chiamati predicati. A ogni ω ∈ Ω sia associato un numero naturale a(ω) detto la "arità" di ω. Si dice Ω-struttura un insieme M in cui sia data, per ogni numero naturale n e per ogni ω ∈ Ω di arità n, una relazione (n + 1)-aria.
Le Ω-algebre risultano essere particolari Ω-strutture. I campi, pur non essendo Ω-algebre, sono Ω-strutture. Gl'insiemi ordinati (cioè quelli detti in App. III, loc. cit., "parzialmente ordinati") sono anch'essi Ω-strutture. Si consideri infatti un insieme di predicati Ω costituito da un solo elemento ω di arità 1. Sia A un insieme in cui sia definita, in corrispondenza a ai, una relazione binaria riflessiva, antisimmetrica e transitiva aiA, cioè un insieme di coppie di elementi di A tali che: 1) per ogni a ∈ A sia (a, a) ∈ ωA; 2) se a, b ∈ A e (a, b) ∈ ωA e (b, a) ∈ ωA, segue a = b; 3) se a, b, c ∈ A e (a, b) ∈ ωA e (b, c) ∈ ωA, segue (a, c) ∈ ωA. Allora, se in A si pone a ≤ b quando e solo quando (a, b) ∈ ωA, A risulta essere un insieme ordinato. Viceversa ogni insieme ordinato può ottenersi per tale via. Sono Ω-strutture anche i gruppi ordinati, cioè gl'insiemi ordinati che risultino anche gruppi e in cui da a ≤ b segua ac ≤ bc, ca ≤ cb.
Sia Ω un insieme di predicati, e siano M, N due Ω-strutture. Siano rispettivamente, ωM e ΩN le relazioni in M e rispettivamente in N associate al predicato ω. Si dice che N è una "sottostruttura" di M se, per ogni numero naturale m e per ogni ω ∈ Ω di arità m, ωN è costituito da tutte e sole le (m + 1)-ple appartenenti a ωM i cui elementi siano tutti in N.
Date due Ω-strutture M, N, con Ω insieme di predicati assegnato, si dice omomorfismo di M in N un'applicazione ϕ di M in N tale che, per ogni ω ∈ Ω di arità m, e per ogni (m + 1)-pla ordinata (a1, a2, ..., am+1) ∈ ωM si abbia (a1ϕ, a2ϕ, ..., am+1ϕ) ∈ ωN. Un omomorfismo il cui inverso sia ancora un omomorfismo si chiama isomorfismo. Mentre per le Ω-algebre ogni omomorfismo che sia biiettivo è un isomorfismo, questo non sempre è vero per le Ω-strutture.
Si consideri, per es., l'insieme N* dei numeri 'naturali > 0. Sia Ω un insieme di predicati costituito da un solo predicato binario ω. Sia A la Ω-struttura i cui elementi sono quelli di N*, e tale che, per a1, a2 ∈ N*; si abbia (a1, a2) ∈ ωA se e solo se a1 è un divisore di a2. Sia invece B la Ω-struttura i cui elementi sono ancora quelli di N*, e tale che per a1, a2 ∈ N* si abbia (a1, a2) ∈ ωB se e solo se a1 ≤ a2. Sia ϕ l'applicazione di A in B tale che, per ogni a ∈ A, sia aϕ ∈ a. Poiché tutte le volte che a1 è un divisore di a2, segue a1 ≤ a2, si ha che da (a1, a2) ∈ ωA discende (a1ϕ, a2ϕ) ∈ ωB. Inoltre ϕ è ovviamente biiettivo. Ma non è un isomorfismo perché ϕ-1 non è un omomorfismo. Infatti, per es., 2 ≤ 3, onde (2,3) ∈ ωB, mentre (2ϕ-1, 3ϕ-1 = (2,3) ∉ ωA, poiché 2 non è un divisore di 3.
Strutture topologiche. - In App. III, loc. cit., è stata data una definizione di spazio topologico, basata sul concetto di aperto. Un'altra nota definizione, a essa equivalente, è quella basata sul concetto di chiusura di un sottoinsieme. In base a tale definizione, si dice spazio iopologico un insieme S tale che sia data una legge che associa a ogni sottoinsieme A ⊂ S un sottoinsieme Ā ⊂ S (detto chiusura di A) verificante le seguenti condizioni: 1) A ⊂ Ā; 2) Ā??? = Ā; 3) Ā ⋃ Ï =
Naturalmente, se si parte dalla prima definizione, il concetto di chiusura di un sottoinsieme viene definito sulla base di quello di aperto: precisamente, si definisce chiuso dello spazio topologico S qualunque complementare di un aperto di S, e chiusura di un sottoinsieme A ⊂ S l'intersezione di tuttì i chiusi contenenti A. Viceversa, se si parte dalla seconda definizione di spazio topologico, il concetto di aperto viene definito sulla base di quello di chiusura: precisamente si definisce chiuso di S qualunque sottoinsieme di S che coincida con la propria chiusura, e aperto di S qualunque complementare di un chiuso.
Se lo spazio topologico S è infinito, S non può considerarsi né una s. algebrica, né una s. relazionale. Infatti la legge che associa a ogni sottoinsieme A c S la sua chiusura non è una relazione di arità finita; la si può pensare come una "relazione di arità infinita". Tale legge può però essere pensata come un'operazione1-aria entro l'insieme ℘(S) dei sottoinsiemi di S.
Una s. più generale di quella di spazio topologico è quella di "insieme con operatore chiusura". Dato un insieme S, si dice operatore chiusura in S una legge che associa a ogni sottoinsieme A ⊂ S un sottoinsieme Ā ⊂ S tale che: a) A ⊂ Ā; b) Ā??? = Ā; c) A ⊂ B → Ā ⊂ Ï. Si vede facilmente che la legge che associa a ogni sottoinsieme di uno spazio topologico la sua chiusura è effettivamente un operatore chiusura, onde gli spazi topologici sono particolari insiemi con operatori chiusura. Ma esistono insiemi con operatore chiusura che non risultano spazi topologici.
Si consideri, per es., un gruppo G. Se A è un sottoinsieme di G, l'intersezione di tutti i sottogruppi di G contenenti A è un sottogruppo 〈A> di G, chiamato "sottogruppo generato da A". Si vede facilmente come la legge che associa a ogni sottoinsieme di G il sottogruppo da esso generato è un operatore chiusura. Tuttavia G in genere non risulta essere uno spazio topologico. Infatti se A e B sono sottogruppi di G, è A = 〈A>, B = 〈B>, mentre A ⋃ B non è, generalmente, un sottogruppo di G onde 〈A> ⋃ 〈B> = A ⋃ B ⊂ 〈A ⋃ B>, ma ≠ 〈A ⋃ B>.
Gli operatori chiusura hanno notevole importanza anche nella logica matematica. Infatti la legge che associa a ogni insieme H di proposizioni l'insieme di tutte le proposizioni logicamente deducibili da H è un operatore chiusura.
Bibl.: A. G. Kuros, Lezioni di algebra generale (in russo), Mosca 1960 (trad. ingl., New York 1963); P. M. Cohn, Universal algebra, New York 1965; G. Grätzer, Universal algebra, Princeton 1968.