Strategici, studi
Gli 'studi strategici' hanno per oggetto il pensiero strategico in senso lato, relativo alla minaccia, all'uso e al controllo della forza militare per conseguire obiettivi politici. Impiegano la forza gli Stati, che sono attori centrali delle relazioni internazionali, ma anche altri soggetti. Questi ultimi possono essere: infrastatuali, come i movimenti secessionisti rivoluzionari o etnonazionalisti; transnazionali, come le ideologie, le religioni, le civiltà o i gruppi etnici transnazionali; e sovranazionali, cioè le alleanze, tipo la NATO, e i sistemi di sicurezza regionali come l'Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (OSCE), oppure globali come le Nazioni Unite. Gli attori principali delle relazioni internazionali sono, come si è detto, gli Stati. Gli studi strategici hanno quindi un approccio soprattutto statocentrico.
Il pensiero strategico (v. Aron, 1969) abbraccia la teoria, che è generale, scientifica e descrittiva; la dottrina, che è specifica e normativa; gli studi storici relativi sia alla teoria che alla dottrina; e le metodologie, qualitative e quantitative, derivate dalle scienze sociali, specie dall'economia. La ricerca operativa, le teorie dei giochi e delle catastrofi, l'analisi dei sistemi e dell'impatto incrociato e i vari metodi d'elaborazione degli scenari e per la simulazione sono impiegati frequentemente nelle analisi strategiche dal secondo conflitto mondiale in poi.
L'ampiezza maggiore o minore del campo di interesse degli studi strategici dipende dal significato dato al termine strategia. Prima del XX secolo predominava una concezione ristretta della strategia. I relativi studi - a parte taluni di natura storica, politica, giuridica o teologica - erano effettuati prevalentemente dalle tecnostrutture militari o comunque da ex-militari che raccontavano le loro esperienze e che ricercavano in esse delle costanti, delle massime, dei principî e delle regole generali. Esse configuravano una specie di 'scienza della guerra', che nella prassi diveniva 'arte'. Tali studi si riferivano soprattutto al settore dell'impiego delle forze, alla loro condotta strategica nelle operazioni cioè nelle manovre, nelle battaglie e nei combattimenti, oppure ad aspetti particolari come alla 'geografia e architettura militari' (fortificazioni, vie di comunicazioni, ecc.), alla mobilitazione della nazione per la guerra (grande logistica) e ai rifornimenti (logistica operativa).
A tale concezione ristretta della strategia ne corrispondeva una prevalentemente militare della sicurezza e una separazione molto netta fra politica e strategia, fra 'ragion di Stato' e 'ragion militare'.Dopo il secondo conflitto mondiale, per effetto delle armi nucleari, della globalizzazione della politica, della comparsa delle guerre rivoluzionarie e dell'affermarsi delle strategie indirette, si è passati a una concezione estesa della strategia.
La sicurezza è divenuta un concetto molto più ampio di quello della difesa militare. È diventata multidimensionale, nel senso che coinvolge tutti i fattori di potenza dello Stato - militari, economici, ideologici, culturali, ecc. -, e multifunzionale, in quanto non riguarda solo l'impiego operativo delle forze e la loro preparazione, ma anche il loro impiego potenziale, la gestione delle crisi e la risoluzione dei conflitti. Comprende aspetti come il controllo, la limitazione e la riduzione degli armamenti. Allargandosi, il concetto di sicurezza si è politicizzato e ha assorbito gran parte dei temi che nel periodo precedente venivano considerati appartenenti all'ambito della politica. Per indicare tale trasformazione sono stati introdotti termini come "strategia globale" (v. Beaufre, 1963), "grande strategia" (v. Liddell Hart, 1954), o quello in uso negli Stati Uniti, "strategia di sicurezza nazionale".
La strategia viene gerarchizzata in vari livelli: globale; generale (militare, economica, ecc.); di teatro d'operazioni; operativa, denominata anche 'grande tattica'. La strategia di ciascun livello inferiore ha funzione strumentale rispetto a quella del livello superiore ed è legata con essa da un rapporto mezzofine. Mentre prima di questo secolo era estremamente difficile separare la strategia dalla tattica, ora è difficile separarla dalla politica, nel cui campo la strategia si è dilatata.
Tale concezione multistrato o a più livelli della strategia è di derivazione jominiana ed è più collegata ai soggetti strategici, che nelle organizzazioni militari sono appunto ordinati secondo una scala gerarchica, che all'oggetto della strategia, che invece è centrale nella concezione di Karl von Clausewitz. Il generale prussiano ha una concezione unitaria della strategia, che considera la dimensione finalistica sia della tattica che della politica (devo questa osservazione a Virgilio Ilari). La strategia è la disciplina che raccorda in un unico piano di guerra obiettivi militari (Ziel) e scopi politici (Zweck) e che può definire una 'teoria della vittoria', cioè come raggiungere con l'impiego della forza le finalità politiche che ci si propone.
Nel secondo dopoguerra, gli studi strategici devono la loro fortuna e il loro sviluppo proprio a tale processo di politicizzazione e di allargamento del concetto di strategia, e in particolare al fatto che le armi atomiche prima e i missili intercontinentali poi hanno determinato problemi di sicurezza del tutto nuovi rispetto al passato. La dissuasione realizzata con la minaccia di rappresaglie nucleari è stata centrale nel pensiero strategico per tutta la durata della guerra fredda (v. Freedman, 1989). Ora che la "storia è ricominciata", che l'impiego effettivo anziché potenziale della forza è ritornato centrale e che il mondo da bipolare si sta trasformando in pluricentrico, taluni ritengono che gli studi strategici abbiano iniziato una parabola discendente e che siano in fase di riassorbimento nelle tecnostrutture diplomatiche e militari (v. Ruhle, 1993). Data la diminuzione dei fondi di ricerca assegnati al settore da amministrazioni e fondazioni, gli studi strategici verranno effettuati, con maggiore frequenza del passato, nelle università, generalmente nell'ambito o in collegamento con gli insegnamenti di relazioni internazionali e di politica economica internazionale, anziché in istituti specializzati. Rischieranno così di veder compromessa la loro unitarietà, che li aveva configurati come campo disciplinare distinto, e di frammentarsi, divenendo semplici appendici delle varie discipline, in particolare delle relazioni internazionali. Tale processo è favorito dalle tecnostrutture militari, sempre gelose dell'esclusività del loro 'sapere tecnico', che nel frazionamento degli studi strategici nelle varie discipline accademiche, e quindi nella loro minore incisività propositiva e di consulenza in campo politico, vedono la scomparsa di una concorrenza naturalmente considerata ingombrante e fastidiosa.
La strategia comprende a ciascun livello varie componenti orizzontali: sociale e organica; culturale e psicologica; logistica, economica e industriale; tecnologica; geografica, e così via. Tali componenti sono strettamente interconnesse. Le loro interrelazioni hanno molta più importanza dell'impatto specifico di ciascuna di esse, per cui l'esame va condotto con una visione unitaria e olistica, che è appunto quella fornita dagli studi strategici.
Strategia e studi strategici non costituiscono né una scienza, né una disciplina accademicamente ben definibile. La strategia non esiste in natura ma solo in letteratura (v. Jean, 1997). È un attivatore e un catalizzatore di discipline diverse: dalla scienza della politica, alle relazioni internazionali, all'antropologia, alla psicologia, alla storia, alla geografia, alla metodologia delle scienze sociali, alla tecnologia, ecc.
Gli studi strategici sono appunto la 'letteratura' che qualifica e valuta come strategia il complesso delle attività svolte dal decisore politico-militare, estraendone i principî e dando un orientamento razionale all'azione. La specificità del loro campo disciplinare è data dallo scopo che perseguono, che è quello di rendere intelligibile l'azione passata e di orientare quella in corso.Gli studi strategici traggono la loro ispirazione, in ciascun momento storico, dai problemi concreti che devono affrontare e sono influenzati, in particolare, dall'evoluzione del sistema internazionale e da quello della tecnologia dei mezzi bellici. Fuori da tale quadro, gli studi strategici - in particolare l'analisi strategica, che costituisce una loro parte, si riferisce alla 'dottrina' e ne rappresenta il settore più innovativo e più specifico - sono privi di significato.
L'analista strategico, che fornisce pareri ai responsabili politici e militari e che partecipa almeno indirettamente al dibattito sulle scelte politico-strategiche, non può conservare 'le mani pulite'. Occorre abbandonare la finzione che in campo strategico esista la possibilità di pareri solamente tecnici e oggettivi. L'analista non può essere mai completamente neutrale, anche quando non si pone solo finalità propagandistiche o divulgative. Ciò non significa che gli studi strategici non debbano tendere alla maggiore scientificità possibile, seguire criteri oggettivi di verificabilità logica ed empirica ed essere indipendenti dalla decisione effettiva. Il loro concorso al processo decisionale consiste nello studiare le strutture dei problemi e i meccanismi che si attivano e nel rendere intelligibili e valutare eventi e processi storici, nonché le loro cause e conseguenze.
Sugli studi strategici influiscono fattori di politica interna, quali la struttura dei sistemi politici, la disponibilità a utilizzare la forza militare, la capacità di accettare perdite (legata anche alla situazione demografica di ciascuno Stato - v. Bouthoul, 1950), l'ideologia, le culture e i sistemi di valori.
Nessun soggetto politico fa la guerra per la guerra, ma per conseguire obiettivi politici, cioè per creare una situazione di pace che ritiene conveniente. Si fa ricorso alle armi quando si ritiene più opportuno impiegarle che astenersi dal farlo. Le armi non sono inutili se non vengono impiegate. La teoria della deterrenza e della compellenza (v. Schelling, 1966) si fonda proprio sul paradosso che l'efficacia e quindi l'utilità della forza è direttamente proporzionale alla potenzialità e inversamente proporzionale all'effettività del suo impiego. Comunque, anche in caso di uso effettivo della forza, la politica tende a dosarla, impiegandola nella sola misura indispensabile al raggiungimento degli obiettivi che si propone (v. Aron, 1969). Un uso eccessivo della violenza non è solo antieconomico, ma anche controproducente. Induce infatti l'avversario ad irrigidire la sua resistenza e suscita reazioni internazionali negative.
Un settore molto ampio degli studi strategici è volto all'esame delle modalità con cui mantenere sotto controllo politico la forza militare e con cui limitare i conflitti, evitando che essi seguano la loro naturale tendenza alla escalation agli estremi della violenza, fino all'annientamento del contendente più debole. Tali meccanismi derivano dalla spirale di azione-reazione, presente in tutte le situazioni conflittuali. Nelle ricerche relative al disarmo, al controllo degli armamenti, alla stabilità strategica e alla prevenzione dei conflitti, gli studi strategici considerano quindi le armi non solo un mezzo della politica, ma anche un problema in se stesse.
Già Aristotele affermava che lo scopo di qualsiasi guerra non è la vittoria militare, ma il raggiungimento di obiettivi politici, cioè la pace che segue lo scontro armato. Guerra e pace sono fenomeni strettamente connessi, al limite non distinguibili fra di loro. La 'zona grigia' fra la pace assoluta e la guerra totale si è notevolmente ampliata dopo la scomparsa dei meccanismi, delle regole e delle eleganti semplicità della guerra fredda.
Ciascun conflitto comprende sempre due aspetti: la prova di forza, che riguarda lo scontro reale o virtuale delle forze militari; e il confronto di volontà, che consiste nella decisione politica di un contendente di accettare o di rifiutare la soluzione che gli vuole imporre il suo avversario. Nel primo caso, il conflitto termina; nel secondo, prosegue finché uno degli avversari giudicherà che non gli conviene più combattere. Solo in casi eccezionali i conflitti hanno comportato la distruzione completa, cioè l'annientamento, del nemico. Di solito sono limitati, perché anche gli obiettivi politici che perseguono sono limitati. Ogni attacco è in questo quadro anche una minaccia e, al tempo stesso, un invito a trattare (v. Rusconi, 1984).
Dal dualismo 'prova di forza-confronto di volontà' deriva la distinzione, fondamentale per gli studi strategici, fra la strategia diretta, che provoca la decisione politica con la distruzione delle forze del nemico, e quella indiretta, che agisce senza intermediari e che determina la decisione politica senza dover conseguire preventivamente una vittoria militare. La strategia indiretta è tipica delle guerre di lunga durata - ad esempio di quelle di decolonizzazione o rivoluzionarie di questo secolo - teorizzate da Mao Zedong (v. Beaufre, 1963).
Con la diffusione di potenza e la 'deregolazione' del sistema internazionale, verificatesi dopo la fine della guerra fredda, gli studi strategici si interessano anche alla previsione, gestione e risoluzione dei conflitti e delle crisi, alle operazioni di mantenimento della pace e al controllo degli armamenti. Per questo motivo e anche per la scomparsa della contrapposizione ideologica fra mondo libero e comunismo, si è verificata una maggiore convergenza fra gli studi strategici e le indagini e gli approcci propri delle ricerche sulla pace e della risoluzione dei conflitti, fenomeno che era già avvertito nel passato (v. Boulding, 1969), nonostante le differenze delle visioni del mondo e dei paradigmi di riferimento di questi due ultimi rispetto agli studi strategici (v. Dunn, 1991). Tale allargamento del campo di interesse degli studi strategici, secondo taluni, comporta il rischio di valutare le intere relazioni internazionali sotto l'ottica unilaterale della sicurezza, se non quello di 'militarizzarne' lo studio. Secondo altri, invece, comporta il pericolo di togliere agli studi strategici la loro specificità e quindi la loro utilità pratica.
Oggi pertanto gli studi strategici possono essere descritti come un arcipelago di 'isole di teoria' e di modelli (v. Santoro, 1997), che si ispirano a campi disciplinari diversi, che studiano aspetti separati della materia e che riguardano l'impiego della forza - militare e di altro tipo - nelle relazioni internazionali, nella competizione (guerra) o nella cooperazione (sistemi di sicurezza collettiva, mantenimento della pace, ma anche guerra limitata) fra gli Stati e, subordinatamente, anche fra gli altri soggetti strategici: infrastatuali, transnazionali e sovranazionali.
Taluni studiosi (v. Nye e Lynn-Jones, 1988) preferiscono a quella di studi strategici la denominazione di 'studi di sicurezza internazionale', perché ritengono la prima troppo polarizzata sul campo militare. Il termine studi strategici si è però affermato e largamente diffuso e non si capiscono i vantaggi che si avrebbero nel modificarlo.
Altri studiosi (v. Boulding, 1969) pensano che non vi debba essere alcuna sostanziale differenza scientifica fra gli studi sulla guerra e quelli sulla pace, dati gli stretti legami fra i due fenomeni. Gli studi strategici dovrebbero perciò essere denominati 'studi sulla guerra e sulla pace'. Pur senza escludere la possibilità di un proficuo arricchimento reciproco, fra i due campi esistono però troppe differenze negli assunti di base per poterli assorbire in un'unica disciplina. In conclusione, il termine 'studi strategici' dovrebbe essere mantenuto.
La fluidità stessa della definizione di studi strategici fa sì che non sia meno incerta la delimitazione del loro campo di studio.Gli studi strategici confinano 'a valle' con gli studi militari, tattici e tecnici. Il confine non è molto netto. Non solo le armi nucleari, ma anche le nuove tecnologie convenzionali, proprie della 'guerra della terza ondata' o della nuova 'rivoluzione' negli affari militari (v. Pelanda, 1996), hanno determinato ampie sovrapposizioni fra quelli che tradizionalmente venivano considerati i confini fra la tattica (combattimento), la strategia operativa o grande tattica (impiego combinato delle manovre e dei combattimenti) e la strategia generale, cioè l'impiego delle battaglie per raggiungere gli scopi politici della guerra (Zweck) attraverso il raggiungimento di un obiettivo militare (Ziel) (v. Aron, 1976).
'A monte' gli studi strategici confinano con le relazioni internazionali, a cui largamente si sovrappongono, tanto da farli considerare da taluni studiosi una branca specializzata di queste ultime. Il concetto di sicurezza è infatti molto ampio e pervasivo in tutto il settore di studio delle relazioni internazionali, sia conflittuali che cooperative.Inoltre, gli studi strategici si sovrappongono parzialmente ad altre discipline, pur differenziandosi da esse per metodo di indagine, per finalità e per obiettivi specifici. Non si può quindi sostenere un rapporto di dipendenza o 'ancillarità' di tali discipline nei confronti degli studi strategici (v. Strassoldo, 1985).
Specificamente ci si riferisce alla: a) 'polemologia' - studio interdisciplinare del fenomeno guerra -, che è stata fortemente criticata, per così dire 'da sinistra' perché non condanna la guerra, e 'da destra' perché troppo dilettantistica e asettica; comunque la polemologia astrae dalla sociologia gli studi sui conflitti e, a differenza degli studi strategici e delle ricerche sulla pace, non è mai normativa, ma solo descrittiva; b) 'irenologia', riguardante la pace positiva, basata sulla bontà naturale e sulla cooperazione solidaristica, anziché sull'equilibrio delle forze o la superiorità delle potenze che vogliono mantenere lo status quo; è un termine che esprime un approccio filosofico-speculativo, o addirittura teologico, ai problemi della guerra e della pace; esso è utilizzato in Italia per sottolineare la preferibilità della pace rispetto alla guerra; c) 'conflittuologia', analisi sociologica analoga alla polemologia, si distingue da questa poiché, invece di essere solo descrittiva, utilizza modelli tratti soprattutto dalla psicologia e dalla sociologia dei piccoli gruppi; d) 'geopolitica' e 'geostrategia', che utilizzano gli assunti degli studi strategici, quali la visione statocentrica, il realismo politico, ecc. (v. Jean, 1997). Alla geopolitica tradizionale, le ricerche sulla pace contrappongono l''ecopolitica' o geopolitica della pace o geopolitica critica. Essa mira a ricostruire la società internazionale su nuove basi per eliminare i conflitti fondandosi evidentemente su una visione ottimistica della politica, della storia e dei destini dell'uomo, molto differente quindi da quella 'pessimistica' propria degli studi strategici.In sostanza, si tratta di campi parzialmente sovrapposti a quelli degli studi strategici, ma che si differenziano per approcci, metodi, finalità e presupposti di base. Le frontiere non sono tuttavia nette, ma indeterminate e porose, come è d'altronde inevitabile dato il contenuto interdisciplinare di tali studi.
Gli studi strategici si basano sugli assunti propri del realismo politico, partono cioè dalla constatazione che gli Stati impiegano la forza per perseguire i loro interessi, in congiunzione con gli altri strumenti di potenza e di sicurezza a loro disposizione (v. Garnett, 1987); prendono atto della divisione del mondo in Stati sovrani e indipendenti; e accettano la tesi della legittimità dell'impiego della forza e la realtà dell''anarchia internazionale', che obbliga gli Stati ad una politica di potenza, in un certo senso parallela a quella realizzata con il monopolio della forza e il dominio del diritto all'interno di ciascuno Stato. Gli studi strategici sono scettici circa gli schemi e i progetti grandiosi di riorganizzazione del sistema internazionale e della sua trasformazione da società in una vera e propria comunità, in grado di esprimere un governo mondiale capace di definire anche impositivamente interessi, beni pubblici internazionali e politiche per raggiungerli. Sono poco persuasi di qualsiasi teoria teleologica o di progresso lineare della storia, nonché dell'efficacia del diritto internazionale. Affermano l'impossibilità di eliminare le guerre, ma tendono a controllarle e limitarle e ad evitare i conflitti non necessari. Non negano la possibilità di cooperazione fra gli Stati, ma ne sottolineano i limiti, tenendo conto del fatto che la politica internazionale - e quindi anche i comportamenti cooperativi - è dominata dai concetti di interesse e di potere (v. Aron, 1969). Tendono insomma ad analizzare il mondo e le relazioni internazionali per quelli che sono e non per quel che si vorrebbe che fossero. Distinguono l'ordine dalla giustizia e sostengono che la forza in sé può realizzare un certo ordine, ma non la giustizia, anche se, senza un certo ordine, non è possibile nessuna giustizia e, viceversa, senza una certa giustizia non può esservi neppure un ordine stabile (v. Gray, 1982).
Per questi motivi - soprattutto nel periodo bipolare in cui sulle critiche agli studi strategici influivano anche preconcetti ideologici, e il fatto che gli esperti strategici venivano considerati strumentali alla propaganda del sistema di sicurezza atlantico - gli studi strategici sono stati accusati di militarismo, di amoralità, di pessimismo e di razionalismo.
Gli assunti di base degli studi strategici non sono invece né bellicisti né militaristi. Al contrario, gli esperti di studi strategici condividono nella loro quasi totalità l'opinione dei pacifisti, e cioè che la pace sia desiderabile, ma sostengono anche che essa debba essere difesa dal rischio di conflitto, e che non sia un valore assoluto, ma relativo, legato alla desiderabilità dello status quo. Quest'ultimo, beninteso, va difeso quando corrisponde ai propri interessi e valori e modificato quando ciò non accade e quando è possibile mutarlo a costi e rischi accettabili.
Alla critica di neutralismo morale, gli esperti di studi strategici replicano affermando che lo studio dei fenomeni conflittuali non significa che si voglia la guerra, così come nessuno ritiene che un oncologo sia a favore del cancro perché lo studia.
Anzi, rispetto al pacifismo, gli studi strategici affermano la loro superiorità morale, fondata sul senso del reale e delle responsabilità, non sulle semplici intenzioni e sui buoni sentimenti, che spesso non sono altro che fughe dalla realtà. Sin dall'inizio della storia umana, ogni discorso sulla guerra è sempre stato accompagnato da un discorso contro la guerra. Ma la guerra esiste e non può essere eliminata con lamenti o invettive, né esorcizzata ignorando la realtà. La forza può essere invece controllata e limitata e i conflitti prevenuti o fatti cessare, oppure ancora evitati quando è possibile farlo.
L'idealismo ottimista scalda i cuori e può far sentire migliori i suoi fautori, ma storicamente è stato all'origine dei più grossi disastri, massacri e distruzioni. Non sono le armi ma gli uomini che provocano e combattono le guerre. La corsa al riarmo può essere stabilizzante e il disarmo invece può produrre conseguenze destabilizzanti. La pace viene mantenuta, in assenza della possibilità concreta che tutti siano egualmente soddisfatti dello status quo internazionale, allorquando gli Stati favorevoli al mantenimento di quest'ultimo sono più forti di quelli che vorrebbero modificarlo. Le valutazioni sulla legittimità del ricorso alla forza sono sempre mutevoli. Basti pensare al 'miracolo ornitologico' avvenuto nei dibattiti sull'intervento della NATO nel conflitto bosniaco nell'estate 1995, allorquando i 'falchi' sembravano essersi trasformati in 'colombe' e queste ultime in 'falchi'.
Fra le accuse mosse agli esperti di studi strategici vi è poi quella di razionalismo, proprio perché partono dal presupposto che politici e militari siano capaci di comportarsi in modo sempre razionale e di mantenere la guerra sotto controllo. Tale accusa, che contrasta singolarmente con quella di pessimismo a cui si è accennato, in realtà è in parte giustificata. Uno degli assunti delle analisi strategiche è quello della razionalità dei soggetti strategici. Esso può indurre al riduzionismo, all'eccessiva semplificazione dei termini, all'impoverimento della complessità, a dare troppa importanza ai fattori materiali e quantitativi rispetto a quelli, spesso ancora più rilevanti, di natura qualitativa, politica, psicologica, morale, ecc.
In effetti, nell'ambito dell'analisi strategica la razionalità si riferisce soprattutto ai mezzi, anziché ai fini. In ogni conflitto e in ogni decisione politico-strategica intervengono fattori razionali, arazionali e irrazionali. La realtà non può essere ridotta ai primi. Già Aristotele sosteneva che ogni azione umana è caratterizzata dall'interazione di un logos, un ethos e un pathos. Pertanto, quando si critica il razionalismo degli studi strategici ci si riferisce soprattutto agli scenari, di per sé fantapolitici e fantastrategici, utilizzati nell'elaborazione della strategia nucleare (v. Kahn, 1965) e popolarizzati dalla figura del 'dottor Stranamore'. Le dottrine della dissuasione nucleare si basano infatti sull'assunto della razionalità dell'avversario, che non rischierebbe per un obiettivo limitato la distruzione nucleare, e in un certo senso, paradossalmente, sull'assunto della propria irrazionalità: si farebbe ricorso alle armi nucleari anche con la certezza di essere poi distrutti dalla rappresaglia nemica.
Un'altra critica rivolta agli studi strategici è quella di 'etnocentrismo'. Nelle analisi strategiche molto frequentemente si attribuiscono all'avversario criteri di razionalità identici ai nostri. Ma essi possono differire anche profondamente, in quanto derivano dalle sue specificità culturali. Tale divario fra le culture strategiche assume rilevanza particolare nel caso delle guerre a bassa intensità (tipo Algeria o Vietnam) oppure negli interventi nei conflitti interni, in cui i fattori geografici, storici, etnoantropologici e culturali in senso lato hanno un'importanza certo maggiore rispetto ai fattori materiali, logistici e tecnologici. I primi, infatti, determinano non solo le politiche e le strategie da seguire, ma anche gli obiettivi militari da raggiungere per conseguire gli obiettivi politici desiderati e la capacità di assorbire le perdite. Caratteristica al riguardo è stata la distorsione della dottrina francese sulla guerra controrivoluzionaria, elaborata nel corso del conflitto in Algeria. I 'colonnelli' francesi pensavano di combattere Marx e Lenin, che avevano indicato i motivi delle rivolte anticoloniali, o Mao Zedong, che aveva fornito loro strategie e tecniche, mentre il loro vero avversario era Mazzini, cioè il sentimento di nazionalità e la nuova autocoscienza dei popoli (v. Howard, 1969).
Il corso impresso agli studi strategici dalla fine della guerra fredda rende in gran parte superate le critiche di razionalismo, apoliticità, astoricità ed etnocentrismo, che potevano essere in parte giustificate nel confronto bipolare. Beninteso, proprio per la loro natura, i risultati degli studi strategici appartengono al campo dell'indimostrabile. Ad esempio, l'assunto che siano state le armi nucleari ad evitare che la guerra fredda si trasformasse in calda è verosimile, ma non può essere dimostrato, così come, peraltro, non può essere dimostrato neppure il contrario. I modelli e gli scenari utilizzati hanno un valore euristico, non un valore normativo e tanto meno algoritmico.
Gli studi strategici si sono sviluppati soprattutto negli Stati Uniti e nel secondo dopoguerra, anche come reazione all'idealismo, che aveva dominato, almeno formalmente, la politica estera americana negli anni venti e trenta. Il loro sorgere è stato stimolato da diversi fattori: a) l'avvento delle armi nucleari e dei missili intercontinentali, che hanno posto alla sicurezza dei problemi del tutto nuovi, non trattabili con gli approcci e le metodologie propri delle burocrazie diplomatiche e militari. Ciò ha indotto a costituire istituti specializzati nell'analisi strategica, fra i quali il più conosciuto è la californiana RAND Corporation; b) la maggiore apertura all'apporto di esperti esterni delle tecnostrutture burocratiche americane - militari e diplomatiche - rispetto a quelle europee e i generosi finanziamenti delle fondazioni statunitensi. Rapporti con le tecnostrutture e dipendenza finanziaria dalle fondazioni hanno orientato gli studi strategici all'analisi di problemi concreti e contingenti, più che all'elaborazione accademica di teorie generali e sistemiche, coinvolgendoli strettamente con la politica; c) le strutture del mondo bipolare e, in particolare, l'azione di propaganda e di disinformazione effettuata dall'Unione Sovietica, che ha utilizzato ampiamente anche i 'movimenti per la pace'. Tale situazione è stata alla base della costituzione dei due massimi centri internazionali di studio del settore: l'Istituto Internazionale per gli Studi Strategici di Londra (IISS) e l'Istituto Internazionale di Stoccolma di Ricerche sulla Pace (SIPRI); d) la necessità, avvertita in tutte le democrazie, di realizzare un sufficiente consenso sulle politiche di sicurezza e militari. Tale necessità ha stimolato un intenso dibattito pubblico, promuovendo analisi esterne fatte sia nelle università, ma anche e soprattutto in centri specializzati esterni, in parte perché questi ultimi sono più influenzabili per il tramite dei meccanismi di attribuzione delle ricerche e dei finanziamenti.
Gli studi strategici emergono come disciplina a sé stante solo dopo la seconda guerra mondiale.
È certamente sempre esistita in ogni luogo un'ampia letteratura militare e sulla guerra (v. Chaliand, 1990). Basti ricordare il cinese Sun Tzu, Tucidide, Vegezio, Ibn Taimiyyah, padre del moderno fondamentalismo islamico, il tunisino Ibn Khaldūn, Machiavelli, tanto per citare qualche nome, per giungere nel secolo XIX, dopo le guerre rivoluzionarie e napoleoniche, a Clausewitz, a Jomini e a Engels. Tra gli studiosi di strategia navale, vanno ricordati Mahan, Corbett e Castex, che la collocano nella più ampia strategia globale marittima o 'geopolitica del seapower', in cui la componente navale interagisce, per garantire sicurezza e prosperità, con quelle economica e finanziaria. Tra gli studiosi del 'potere aereo', i più noti sono Douhet, Mitchell, Trenchard e de Seversky. Le loro dottrine sul bombardamento strategico non erano solo finalizzate a superare lo stallo delle operazioni terrestri, causato nella prima guerra mondiale dalla superiorità della difesa sull'attacco, ma anche ad affermare l'autonomia dell'arma aerea dalle forze terrestri e navali. Come superare la staticità del fronte verificatasi nel 1914-1918 e ridare efficacia alla guerra di movimento fu il problema affrontato anche dai fautori della meccanizzazione (Fuller, de Gaulle, Guderian) e dai sostenitori della superiorità dell'approccio indiretto proprio della strategia marittima britannica, rispetto all'approccio diretto delle scuole continentaliste di derivazione clausewitziana (Liddell Hart). La scuola strategica sovietica sviluppò da parte sua un particolare pensiero strategico derivato dai dogmi del marxismo-leninismo. La teoria della guerra veniva subordinata ad una particolare forma di sociologia e non solo gli obiettivi strategici, ma anche la strategia e la tattica da adottare per conseguirli venivano fatti dipendere strettamente dalla politica dello Stato. A fianco della teoria della guerra tradizionale, venne sviluppata soprattutto da Trockij quella della rivoluzione mondiale permanente, abbandonata poi, dopo l'esautorazione di Trockij, per le più urgenti esigenze della difesa dello Stato sovietico.
Nella prima guerra mondiale incominciarono ad essere applicate in campo strategico metodologie analitiche quantitative (equazioni di Lanchester e di Osipov). Nel primo dopoguerra vennero studiati analiticamente fenomeni come la corsa agli armamenti (Richardson) e il problema della gestione e risoluzione dei conflitti (Wright).
Un'utilizzazione massiccia delle più svariate conoscenze disciplinari e di esperti civili avvenne nel corso della seconda guerra mondiale, soprattutto nei paesi anglosassoni. Particolarmente sviluppati furono gli studi di ricerca operativa e di analisi dei sistemi (v. Blackett, 1962), soprattutto nei settori aereo e navale, in cui il predominio della dimensione tecnologica consentiva una più agevole modellizzazione dei problemi a supporto delle decisioni da adottare (ad esempio, strategie e tattiche per la lotta antisommergibili in Atlantico). Meno sviluppate furono le ricerche generali, volte ad una migliore comprensione del fenomeno guerra e delle sue cause e quindi allo studio della possibilità di prevenirlo, controllarlo o evitarlo.
Nel secondo dopoguerra gli studi strategici si sviluppano secondo linee tendenziali diverse, che marcano altrettanti periodi di pensiero e ricerca. Schematicamente se ne possono individuare quattro: il periodo dell''innocenza nucleare'; l''età d'oro' degli studi strategici; l'epoca della 'riflessione critica' e quella del 'ritorno della storia'. Quest'ultimo, iniziato con la fine del confronto bipolare, cerca di dare risposta alle incertezze dell'attuale fase di transizione e trasformazione degli assetti politico-strategici mondiali, caratterizzata dalla coesistenza delle opposte tendenze della globalizzazione e interdipendenza da un lato, e della frammentazione, diffusione di potenza e proliferazione dall'altro.
Il periodo dell''innocenza nucleare' era dominato dalla persuasione che la pace potesse essere preservata dalla semplice minaccia di rappresaglia e che le armi nucleari rendessero impossibili i conflitti. In tale periodo si prese atto delle straordinarie trasformazioni che le armi nucleari avevano portato non solo alla guerra, ma anche alla sua utilizzabilità da parte della politica e allo stesso sistema delle relazioni internazionali. Dominava allora l'idea che fosse sufficiente una rappresaglia massiccia, che giustificava la smobilitazione rapida dell'enorme apparato bellico degli Stati Uniti. Il periodo dell''innocenza nucleare' terminò sostanzialmente con la guerra di Corea, la quale dimostrò che le minacce nucleari non potevano scongiurare tutti i conflitti e che gli Stati Uniti, per la prima volta nella loro storia, erano obbligati a rinunciare ad una vittoria completa, pur avendo la capacità tecnica di conseguirla. Formalmente tale fase degli studi strategici si prolungò fino alla fine degli anni cinquanta, quando il contenimento della potenza continentale sovietica fu realizzato con la strategia della rappresaglia nucleare massiccia. In realtà, più che una convincente dottrina strategica, essa fu un espediente, adottato per motivi politici ed economici, e forse solo una 'strategia dichiaratoria' e non una strategia che si pensasse di poter attuare realmente.
In questo periodo, soprattutto negli Stati Uniti, furono approfonditi i significati della rivoluzione nucleare in campo sia politico che strategico; furono altresì elaborati i concetti fondamentali della dissuasione nucleare: primo e secondo colpo; attacchi antiforze e antirisorse; teoria della 'scalata'; risposta graduata; ruolo delle armi nucleari tattiche o di teatro e così via. I principali studiosi furono Brodie, Nitze, Kahn, Blackett, Aron, Slessor, Liddell Hart, e, alla fine degli anni cinquanta, Wohlstetter, Kissinger, Taylor e Howard.
Un altro paese in cui gli studi strategici ebbero notevole originalità fu la Francia, dove si svilupparono in due direzioni. La prima fu quella della guerra controrivoluzionaria, studiata sulla base delle esperienze dei conflitti di Indocina e d'Algeria (Bonnet, Lacheroy, Trinquier, ecc.). La seconda riguardò la dissuasione nucleare, e fu volta a studiare l'utilizzazione dell'arma nucleare per conferire alla Francia una certa libertà d'azione rispetto al predominio politico-strategico americano in Europa. In tale contesto venne elaborata la dottrina della dissuasione minima, o 'dal debole al forte', e fu affermato il potere livellatore dell'atomo (Gallois, Poirier, Beaufre).
Il periodo dell''innocenza nucleare' terminò alla fine degli anni cinquanta, allorquando non si poté più negare l'evidenza della vulnerabilità del territorio americano ad una rappresaglia nucleare sovietica. La sicurezza dell'Occidente basata sulla risposta massiccia divenne poco credibile, autodissuasiva e politicamente inaccettabile poiché troppo rigida e senza alternative. Si passò così all''età dell'oro' dell'analista strategico e furono fatti studi approfonditi su come moltiplicare le opzioni di risposta in caso di aggressione sovietica. Furono poste le basi concettuali della dottrina della risposta flessibile ed approfondite, in particolare, le tematiche della guerra nucleare limitata. Come notava Raymond Aron "per salvare la pace generale si cercava di salvare la possibilità di guerra 'ai livelli inferiori', dato che un'eccessiva stabilità ai livelli superiori aveva comportato l'impossibilità di dissuadere aggressioni limitate" (v. Aron, 1969). Il trionfo dell'analista strategico fu rappresentato dalla crisi di Cuba del 1962 e dall'avvento al Pentagono, come segretario della Difesa, di Robert Mc Namara, con uno stuolo di analisti di sistemi e del rapporto costo/efficacia, che tentarono di razionalizzare secondo criteri economici la dottrina strategica e la pianificazione delle forze statunitensi (v. Hitch e Mc Kean, 1960). In particolare, furono elaborati concetti come quelli di 'dissuasione reciproca assicurata' (MAD, Mutual Assured Dissuasion), di invulnerabilità del deterrente nucleare e di stabilità della dissuasione, che aprirono la via ai successivi negoziati sul controllo degli armamenti.
L'applicazione in Vietnam dei concetti e delle metodologie elaborati per la strategia nucleare, in particolare quello dell'impiego graduale della forza, ebbe risultati disastrosi, permettendo alle tecnostrutture diplomatiche e militari di reagire, ridimensionando l'influenza dell'analista strategico sulle decisioni politico-strategiche reali e rivalutando il 'buon senso comune militare'. Iniziò allora il periodo della 'riflessione critica', che vide la riduzione dell'importanza dei grandi centri specializzati, in particolare della RAND, e la ripresa degli studi strategici nelle università americane, specie dopo la creazione ad Harvard della rivista "International security", finanziata dalla Ford Foundation. I problemi di sicurezza furono studiati in termini più generali e globali, collegandoli e facendoli convergere maggiormente con la storia, con lo studio delle relazioni internazionali e con la scienza della politica. Fu un periodo in cui si rivalutarono le forze convenzionali e furono elaborati concetti come quelli di opzioni nucleari limitate, di countervailing strategy, di escalation orizzontale o geografica, realizzata con la strategia marittima e con le strategie competitive. Si giunse così, all'inizio degli anni ottanta, all'Iniziativa di Difesa Strategica (SDI) della prima amministrazione Reagan, elaborata anche per superare lo stallo in cui erano venuti a trovarsi i negoziati sul controllo degli armamenti.
Con la fine della guerra fredda e il collasso del Patto di Varsavia prima e dell'Unione Sovietica immediatamente dopo, si è aperta una nuova fase degli studi strategici: quella del 'ritorno della storia'. I problemi che le ricerche devono affrontare sono infatti del tutto diversi da quelli sul tappeto nel corso del confronto bipolare. Le armi nucleari e la strategia di dissuasione non occupano più un posto centrale. La stabilità assume contenuti e significati del tutto diversi. Devono essere riformulati sia gli interessi e gli obiettivi nazionali di sicurezza che le relative strategie.
Qualche cenno merita lo sviluppo degli studi strategici al di fuori degli Stati Uniti. In particolare in Germania fu elaborato il concetto di difese alternative (Ahfeld, von Löser), in modo da diminuire il rischio di una guerra nucleare, la quale, anche se limitata, avrebbe distrutto il territorio e la popolazione tedesca. Le difese alternative erano fondate sul principio di sostenere le difese convenzionali avanzate della NATO sul confine intertedesco con un sistema di difesa territoriale in profondità. Nel corso dei negoziati sul controllo degli armamenti convenzionali in Europa, furono sviluppati i concetti di sufficienza difensiva, di difesa difensiva o non offensiva o non provocatoria e furono approfondite le tematiche delle misure di sicurezza e di fiducia. Particolarmente vivaci furono, nella seconda metà degli anni settanta e nella prima degli anni ottanta, i dibattiti sulle bombe neutroniche, sugli euromissili e sull'iniziativa di difesa strategica, che mobilitarono non solo gli esperti strategici ma anche i movimenti pacifisti di tutta Europa.
Il dibattito sui problemi strategici e militari in Italia fu particolarmente vivo nel corso del Risorgimento e fu volto ad individuare le modalità politico-strategiche con cui attuare il processo di unificazione italiana. Due furono le posizioni contrapposte: quella dei sostenitori della 'guerra di popolo' del movimento democratico-mazziniano - a sua volta suddivisi fra i fautori della 'guerra per bande' (Bianco di Saint-Jorioz e Ferrari) e quelli della guerra tradizionale di massa (Pisacane, De Cristoforis, Budini) - e la posizione dei sostenitori della 'guerra regia' dell'Armata Sarda. Successivamente il contributo italiano fu modesto (v. Ilari, 1984 e 1995; v. Ilari e Rossi, 1982). L'unico studioso italiano molto conosciuto all'estero è Giulio Douhet, teorico del 'dominio dell'aria' e del bombardamento strategico.
La cultura strategica italiana ha sofferto sempre della relativa separatezza del mondo militare da quello accademico, dovuta anche alla chiusura e alla gelosia delle tecnostrutture, alla loro tendenza a monopolizzare il sapere strategico e al loro timore di confrontarsi con concorrenti esterni. Naturalmente ne hanno sofferto anche la cultura militare e la qualità del dibattito strategico interno alle Forze Armate. Tale situazione non fu superata neppure dalla redazione di una monumentale Enciclopedia militare (1929-1935). Gli studi strategici in Italia hanno sofferto anche della separazione degli ambienti accademici e del sapere universitario dalla realtà e dai problemi concreti che si devono affrontare. Ne è derivata un'insoddisfacente interazione delle ricerche teoriche e generali con quelle operative, ispirate da esigenze contingenti, di carattere 'mirato' oppure finalizzate a semplici scopi divulgativi.
Qualche fermento si verificò immediatamente dopo la fine dei due conflitti mondiali e, nel primo dopoguerra, anche nel campo del pensiero strategico marittimo, facilitato in quest'ultimo caso dall'esistenza presso talune università di insegnamenti di storia e politica navale. Fra gli anni cinquanta e gli anni ottanta il dibattito strategico fu bloccato anche dalla profonda divisione ideologica esistente nel paese e dalle aprioristiche posizioni a favore o contro l'Alleanza atlantica. Anche gli studi di storia militare decaddero.
Solo all'inizio degli anni ottanta la mutata situazione politica consentì di attivare in talune università insegnamenti relativi alla sicurezza nazionale e internazionale, a settori specifici riguardanti le Forze Armate (sociologia militare, diritto umanitario, storia militare, storia delle istituzioni militari). In qualche università furono istituite cattedre di studi strategici, più o meno coordinate con quelle di relazioni internazionali.
Gli istituti di studi internazionali (l'Istituto Affari Internazionali di Roma, l'Istituto Studi di Politica Internazionale di Milano, e altri ancora) si interessano più o meno saltuariamente ai problemi della sicurezza e, eccetto per quanto riguarda il bacino del Mediterraneo (Aliboni, Luciani e Cremasco), hanno prodotto ricerche generalmente poco originali. Anche in taluni centri universitari (LUISS "Guido Carli", ad esempio) le elaborazioni sull'argomento sono molto limitate. Nel 1987 è stato costituito un Centro Militare di Studi Strategici presso il Centro Alti Studi Difesa di Roma, che utilizza studiosi ed istituti esterni per ricerche di interesse del Ministero.
L'unico tentativo organico di stimolare lo sviluppo degli studi strategici e di sicurezza in Italia è stato compiuto fra il 1980 e il 1984 dal Centro Manlio Brosio di Torino, che ha effettuato convegni di buon livello scientifico e che ha pubblicato le riviste "Politica militare" e poi "Strategia globale".
L'improvvisa fine della guerra fredda e il collasso dell'Unione Sovietica hanno, come si è detto, posto gli studi strategici di fronte ad una situazione del tutto nuova. Sono infatti scomparsi taluni riferimenti precedenti (bipolarismo, contenimento, dissuasione nucleare). Inoltre, gli studi strategici devono tener conto di vari fattori, e cioè: della coesistenza di fenomeni di globalizzazione e di frammentazione; dell'esplosione della conflittualità interna agli Stati anziché interstatuale; del mutamento di natura delle alleanze; della nuova rivoluzione tecnologica, dovuta allo sviluppo delle tecnologie dell'informazione; della crescente riluttanza dell'Occidente a impiegare la forza militare; infine, della diminuita capacità degli Stati di mobilitare risorse per la difesa di interessi importanti ma non vitali.
I problemi di fondo che devono affrontare gli studi strategici in quanto disciplina autonoma sono i seguenti: a) la verifica della validità del tradizionale paradigma realista delle relazioni internazionali; b) la nuova delimitazione del campo di interesse degli studi strategici; c) i rapporti con discipline affini sulla pace e la guerra (in particolare, con le ricerche sulla pace).Per quanto riguarda il primo punto, si è accentuata la tendenza (v. Williams, 1993) in molti studiosi di studi strategici, a differenziarsi rispetto al paradigma realista tradizionale delle relazioni internazionali (Carr, Morgenthau, Aron), per assumere taluni assunti propri dell'approccio neorealista o realista sistemico-strutturale (Waltz, Gilpin). La questione rimane aperta. Non sembra possa essere superata con la separazione - proposta da taluni studiosi - degli studi strategici dagli studi di sicurezza internazionale (v. Segal, 1989), cioè limitando i primi ai soli aspetti conflittuali e prevedendo per essi i paradigmi realisti tradizionali, e attribuendo ai secondi un significato esteso agli aspetti anche cooperativi della sicurezza internazionale e basandoli su paradigmi neorealisti.
Per quanto riguarda il secondo punto - relativo all'ampiezza del campo di interesse degli studi strategici - il dibattito è molto vivace (v. Walt, 1991; v. Kolodziej, 1992). Taluni vorrebbero limitare tale campo per evitare il pericolo che le relazioni internazionali vengano tendenzialmente considerate in termini solo conflittuali. Altri insistono sul fatto che ha sempre meno significato considerare l'oggetto degli studi strategici - cioè la minaccia, l'uso e il controllo della forza - al di fuori del suo contesto politico, economico, culturale, ecc. Questa seconda tesi appare più fondata, dato che la strategia di sicurezza è sempre meno 'ragion militare' e sempre più 'ragion di Stato' e che la strategia globale è sempre meno distinguibile dalla politica. Una parzializzazione degli studi strategici impedirebbe di considerare le interconnessioni fra i vari fattori che influiscono sulla sicurezza internazionale e interna.
Per quanto riguarda il terzo punto - quello dei rapporti con discipline analoghe - si assiste ad una accelerazione della convergenza verificatasi già durante la guerra fredda, almeno per quanto riguarda il controllo degli armamenti, fra studi strategici e altri campi disciplinari che affrontano, pur da ottiche e con metodologie diverse, i problemi della guerra, della pace e della forza militare; in particolare ci si riferisce alle ricerche sulla pace. Tale convergenza è ad esempio dimostrata dalla complementarità degli studi dell'IISS e del SIPRI. Rimane beninteso una differenza nell'impostazione di fondo e nei paradigmi di riferimento - realista o neorealista per gli studi strategici e idealista per le ricerche sulla pace e discipline affini. Detto con una battuta, per gli studi strategici ci si ripara dalla pioggia aprendo l'ombrello; per le ricerche sulla pace ci si ripara facendo cessare la pioggia. Le due discipline non potranno convergere più di tanto, anche se la fine del bipolarismo ha molto attenuato l'asprezza della loro contrapposizione ideologica.
In prospettiva gli studi strategici non possono non essere influenzati dai mutamenti geopolitici, geostrategici e tecnologici che si sono verificati. In particolare: a) gli studi strategici dovranno estendere la loro attenzione dai conflitti tra gli Stati o fra alleanze omogenee, ai conflitti interni agli Stati e agli interventi di coalizioni contingenti. Una particolare attenzione dovrà essere dedicata ai conflitti etnici e identitari, e agli interventi internazionali per risolverli, nonché alle determinanti interne delle politiche di sicurezza e difesa (v. Murray e altri, 1994). Pertanto, l'approccio etnocentrico dovrà essere abbandonato in favore di un approccio multiculturale, in termini sia di contenuti che di metodo di ricerca ed analisi; b) si accentuerà l'interesse per i problemi della sicurezza e dei conflitti regionali rispetto a quelli globali. Non potranno tuttavia prescindere da un approccio globale gli studi relativi: alla proliferazione delle armi di distruzione di massa; alle correlazioni del potere militare con altre forme di coercizione, come quelle economiche (sanzioni, embarghi, ecc.); ai fattori transnazionali che eccedono la semplice dimensione nazionale, come il terrorismo internazionale (v. Chipman, 1992); c) un settore che attirerà particolare attenzione è quello dei ruoli delle armi nucleari, non solo dissuasivi ma finalizzati a mantenere un regime generale di cooperazione, capace di influire sui meccanismi conflittuali del 'dilemma della sicurezza', permettendo la riduzione delle forze convenzionali; d) il problema della dissuasione convenzionale e dei rapporti razionali fra dissuadenti e dissuasi sarà destinato ad assumere notevole interesse, non solo per l'azione di controproliferazione ma anche per la stabilità regionale (v. Nye e Lynn-Jones, 1988); e) i concetti di sufficienza, di stabilità e di equilibrio delle forze, su cui era stato fondato il controllo degli armamenti nel mondo bipolare, non sono più validi e dovranno pertanto essere adattati alla nuova situazione; f) maggiore interesse dovrà essere rivolto alle capacità operative e di combattimento reali, trasformate dalla cosiddetta rivoluzione negli affari militari che si sta profilando. Quest'ultima potrà modificare profondamente modalità e possibilità di utilizzazione della forza militare da parte della politica. Senza un'adeguata valutazione di tali ricadute politiche, ne potrebbe derivare una perdita di contatto con la realtà e una riduzione degli studiosi strategici a semplici 'architetti' di fantasiose costruzioni di sicurezza regionale o globale (v. Ruhle, 1993); g) un settore destinato ad acquisire una centralità senza precedenti è quello della comunicazione e dell'informazione pubblica, dato il crescente impatto dei media nelle crisi e nei conflitti (videopolitica; CNN-Wars). Non è un settore nuovo. Esso però vede aumentata la propria importanza a causa delle nuove tecnologie dei media. Particolare interesse sembra rivestire la definizione delle strategie di gestione delle emergenze comunicative, da trattarsi con metodologie non derivate dalla teoria dei giochi, ma da quella delle catastrofi (che tiene conto della discontinuità dei fenomeni) e da quella del 'dramma', che consente la considerazione dei fattori irrazionali e di quelli arazionali; h) un altro settore degli studi strategici che esce profondamente modificato dalla fine della guerra fredda è quello della pianificazione delle forze, che non può più essere 'trainata dalla minaccia', ma che va affrontata con una pluralità di approcci (ad esempio, 'dall'alto', cioè in rapporto agli interessi e alle missioni di sicurezza; oppure 'dal basso', cioè in rapporto alle capacità operative o alle risorse esistenti. In tale settore verranno sempre largamente utilizzate le tecniche degli scenari e le simulazioni).
In sostanza, la fine della guerra fredda e la ripresa della storia implicano necessariamente un'aumentata importanza negli studi strategici delle discipline e scienze 'morbide', rispetto a quelle 'dure' o tecnologiche, che dominavano i modelli utilizzati per lo studio della dissuasione nucleare. Da sottolineare infine è l'esigenza, peraltro già esistente nel periodo precedente (v. Kissinger, 1957), che l'analisi strategica non perda contatto con la politica e con i problemi concreti. In caso contrario le armi, anziché un mezzo per risolvere problemi, si trasformeranno esse stesse in problemi. (V. anche Armamenti; Geopolitica; Guerra; Relazioni internazionali).
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