Studio di Napoli
"In regnum nostrum desideramus multos prudentes et providos fieri per scientiarum haustum et seminarium doctrinarum" ('mediante l'attingimento dei saperi e il semenzaio delle dottrine'); si auspica, in particolare, che venga coltivato lo studio del diritto, che è un modo di servire Dio e di piacere al sovrano; i giovani che risponderanno all'appello avranno la possibilità di nobilitarsi attraverso lo studio, di sedere nei tribunali del Regno, di arricchirsi, di procurarsi amici e clienti. Così nella lettera circolare (non è un atto di fondazione) del luglio 1224, tramandataci dal cronista Riccardo di San Germano, Federico II illustra ai sudditi del Regno di Sicilia i propositi che lo hanno indotto a creare a Napoli una scuola di studi superiori ‒ uno Studium. Rispetto alla celebrazione, da parte di Federico I nella costituzione Habita (1155), di quanti si erano fatti esuli per "amore della scienza", e alla polemica contro le scientiae lucrativae (le discipline atte a far guadagnare), che costituiva uno dei motivi dominanti delle bolle pontificie di contenuto scolastico, abbiamo qui un rovesciamento della tradizione, che non potrebbe essere più radicale, operato con un piglio provocatorio. Per segnare la svolta, sarebbe infatti bastato l'accenno alla "nobiltà", che ormai si sarebbe potuta acquistare anche attraverso l'applicazione intellettuale, e agli sbocchi professionali che si aprivano davanti ai frequentatori del nuovo Studio. L'ulteriore prospettiva dei lucra e dell'amicitiarum favor et gratia, conseguibili per soprammercato dai medesimi, andava indubbiamente al di là del segno. Ma già nel documento di rifondazione del 1234 ("statutum ergo olim studium apud Neapolim [...] cordi nobis est in integrum riformare"), lo stesso ideale di studi non di-sinteressati verrà espresso da Federico II solo in forma molto più sfumata e indiretta, mettendo bene in chiaro che, comunque, lo studio del diritto non era ciò che propriamente si richiedeva a un ceto come quello dei milites, altrettanto, e ancora più, indispensabile alla vita dello stato, ma caratterizzato da una professionalità dai connotati del tutto diversi.
Nel 1220 (il 22 novembre, giorno della sua incoronazione imperiale), Federico II aveva inviato a dottori e scolari dello Studio di Bologna dieci leggi perché fossero inserite nel Corpus iuris e divenissero materia di insegnamento (v. Constitutio in basilica beati Petri). La procedura prevista per la 'pubblicazione' di queste leggi era più minuziosa di quella che era stata indicata a suo tempo per la Habita del Barbarossa, che non conteneva nessun accenno esplicito allo Studio di Bologna. Nel documento del 1224 Federico II non parla affatto del nuovo Studio napoletano come di un luogo deputato alla pubblicazione delle sue leggi. Almeno sotto questo riguardo, esso non fu, dunque, nemmeno inizialmente concepito come un contraltare di quello di Bologna. Il Liber Constitutionum del 1231 non divenne oggetto di insegnamento nelle Scuole, perché ‒ come corpo di leggi particolari, destinato al solo Regno di Sicilia ‒ non avrebbe mai potuto diventarlo, né a Napoli né altrove. Sta di fatto che dopo il 1220 Federico rinunciò a inviare per la pubblicazione a Bologna, o a Napoli (come pure dopo il 1224 sarebbe stato possibile), anche le costituzioni imperiali. Perché un imperatore si risolvesse ancora a ordinare l'inserzione di una nuova costituzione nel Corpusiuris si sarebbe dovuto attendere Enrico VII, nel 1312. Ma Enrico tornò alla formula generica della Habita, lasciando cadere pour cause il riferimento a Bologna. La pratica della 'pubblicazione' attraverso le Scuole divenne invece la regola per le collezioni di decretali pontificie, che si sarebbero succedute a getto continuo nel corso del sec. XIII. Quanto a Napoli, sembrerebbe che, se non altro al tempo di Giovanna I d'Angiò (1343-1382), lo ius regni fosse giunto a occupare un qualche posto nella vita dello Studio, dal momento che un capitolo di questa regina prescriveva agli "iudices et assessores" non solo di dedicarsi agli studi in genere almeno per cinque anni, ma anche di rivolgere una particolare attenzione alle "constitutiones regni et capitula", come se queste costituissero una sorta di programma aggiuntivo, in più dello ius commune, il cui studio era dato per scontato. A meno di non volere pensare che a tale richiesta di istruzione supplementare si potesse far fronte con un processo di autoformazione o mediante corsi di insegnamento impartiti in una sede diversa dallo Studio.
Nei documenti postfedericiani i toni più inediti del documento di fondazione ritornano, ma come stemperati. Dove Federico indicava concrete prospettive di sistemazione (soprattutto, "tribunalia parantur"), si trova ‒ per esempio, nel documento di Corrado IV, del 1254, per lo Studio (come si vedrà) salernitano ‒ una vaga promessa di promozione sociale. Norbert Kamp ha dimostrato che la fondazione dello Studio di Napoli aveva coronato una serie di riforme amministrative, compiute nel 1220-1221 dal sovrano svevo, che prevedevano l'utilizzazione di giurisperiti in posizioni di grande prestigio nei tribunali sia centrali che periferici del Regno di Sicilia. Si direbbe che, passato il primo momento, le allettanti prospettive di sistemazione aperte da quelle riforme si fossero andate esaurendo. Ma persisteva tuttora l'impostazione professionalizzante, vocational come direbbero gli inglesi, data da Federico alla sua fondazione universitaria napoletana, in netta antitesi con la tradizione: così Corrado IV poteva tranquillamente proclamare che gli scolari salernitani, da poveri che erano, sarebbero diventati tutti ricchi, contraddicendo alla lettera il Barbarossa che si era fatto carico degli studenti anche in nome della considerazione umanitaria secondo cui fattisi "da ricchi poveri, si esauriscono". Sottilizzando, si potrebbe replicare che l'impoverimento, l'esaurimento di questi studenti era solo provvisorio, limitato alla parentesi di disagio coincidente con il periodo di studi compiuti lontano da casa, superato il quale, anche per loro, appartenenti di norma alle classi privilegiate, sarebbe tornato il tempo delle vacche grasse. Ma sarebbe, appunto, un voler troppo sottilizzare contro l'evidenza dei due testi che parlano, ciascuno, in senso diverso, servendosi delle stesse parole. E, d'altra parte, ciò che ci si era proposti di fare a Napoli nel 1224 era stato proprio l'eliminazione della causa prima di quei transitori disagi: la lontananza dalla patria di origine.
Nel documento di fondazione si parla esclusivamente di studenti regnicoli e si insiste, perciò, di proposito sugli inconvenienti connessi con i lunghi viaggi, meglio: con le defatiganti peregrinazioni, compiute per ragioni di studio, e sui vantaggi derivanti, di converso, dal fatto di potere studiare sotto lo sguardo dei propri genitori. Ciò non toglie che l'esenzione dai pedaggi, già prevista dalla costituzione Habita, sia riconosciuta in genere agli studenti, "undecumque venerint", espressione che parrebbe includere anche eventuali studenti forestieri, nel senso di non regnicoli. Ma, quale che sia il peso da dare alla presenza di questa formula, che ha tutta l'aria di essere tralatizia, è la prospettiva stessa delle peregrinazioni compiute "causa studiorum", degli esili affrontati dagli studenti "amore scientie", centrale a suo tempo nella Habita, che viene qui completamente rovesciata, per lasciare il posto alla prospettiva offerta da Federico II di studi compiuti nel Regno.
Non tutti gli studenti regnicoli avrebbero però probabilmente condiviso il punto di vista dell'imperatore, in particolare quelli che avevano già cominciato i loro studi altrove. Convinto che la sua iniziativa avrebbe avuto successo solo se tutti, indiscriminatamente, gli studenti del Regno di Sicilia si fossero immatricolati a Napoli, Federico, abbandonato il registro delle blandizie, passa all'improvviso alla minaccia della maniera forte, da usarsi non solo contro gli studenti che avessero osato "legendi causa exire [...] extra regnum", e che sarebbero stati colpiti nelle persone e negli averi, ma anche ‒ e qui è il punto, per le ragioni che si vedranno, davvero sorprendente ‒ contro i genitori degli studenti, "qui de regno sunt extra regnum in scolis" e che non avessero fatto ritorno in patria prima del giorno di s. Michele (29 settembre) ‒ all'incirca la data in cui riprendevano i corsi a Bologna. Sorprendente perché ‒ forse, in questo caso, senza avervi nemmeno posto mente ‒ veniva in tal modo rinnegato lo spirito della Habita in uno dei passaggi, come suole dirsi, più qualificanti, quello che conteneva la norma che ingiungeva di non rivalersi sugli studenti forestieri dei debiti dei loro connazionali (come voleva la consuetudine della 'rappresaglia'). Tanto è vero che la costituzione stessa era stata inserita nel titolo Ne filiuspro patre del Codice giustinianeo. Ora, invece, Federico II chiamava i padri a rispondere per i figli.
Anche in materia di reclutamento degli studenti e di estensione del 'bacino d'utenza' dello Studio di Napoli, si nota fin dal 1226 una certa evoluzione rispetto all'impostazione iniziale, suggerita, per non dire imposta, dall'evolversi della situazione politica generale. Di fronte agli impedimenti frapposti dai bolognesi al rientro degli studenti regnicoli diretti a Napoli, nella lettera indirizzata nel secondo semestre di quell'anno a dottori e studenti dello Studio bolognese Federico ordinava a quanti fra i destinatari fossero sudditi, non solo del Regno di Sicilia, ma anche dell'Impero, di lasciare entro quattro mesi Bologna e di portarsi a Napoli, il cui Studio veniva così aperto ad accogliere una popolazione scolastica diversa, perché più estesa ed eterogenea di quella per cui due anni prima era stato istituito.
La parte polemica e comminativa del messaggio è incastonata fra un accenno iniziale e un altro accenno finale allo Studio da lui stesso istituito, "ad generale commodum omnium qui studere voluerint" (generale, 'universale', è per ora il 'profitto' che ne avrebbe tratto chi lo avesse frequentato, non ancora lo Studio di per sé), nella città di Napoli, "ubi et loci viget amenitas, rerum copia et doctorum societas honorata". Con la "loci amenitas", siamo nel più scontato luogo comune; con la "rerum copia" forse un po' meno; quanto, infine, alla "doctorum societas honorata", il sovrano giocava sull'equivoco: un manipolo di chiarissimi doveva evidentemente ricoprire le cattedre napoletane create due anni prima, ma non risulta altrimenti che essi formassero per il momento un collegio, una vera e propria societas. Invano i reggitori del comune bolognese avevano cercato di sabotare la sua iniziativa scolastica napoletana. Gli statuti con cui essi avevano inteso impedire l'esodo da Bologna dei maestri e degli scolari sudditi del Regno di Sicilia non erano che parole al vento ("illusiones"); comunque, d'ora in avanti restava stabilito ("sancimus") che nessun suddito dell'Impero o del Regno di Sicilia avrebbe più potuto recarsi a studiare o a insegnare a Bologna, pena la decadenza da una serie di diritti essenziali, come quelli di prendere parte ad atti pubblici e di fare testamento; in particolare, le sentenze dei giudici che avessero insistito nel rimanere a studiare a Bologna erano dichiarate nulle.
A proposito di quest'ultimo punto è da notare che il 'falso privilegio teodosiano', redatto in quegli anni a Bologna, prevedeva che i giudici, tutti i giudici, per essere tali, dovessero addottrinarsi per cinque anni nello Studio ‒ una clausola non tanto cervellotica, se è vero che una nuova rubrica degli statuti del comune di Treviso faceva obbligo, nel 1227, a chi avesse voluto accedere alle cariche pubbliche retribuite esistenti presso di esso di studiare per quattro anni "scientia legalis" in un'altra città, che in pratica si riduceva a essere Bologna, dato che è molto improbabile che la genericità del dettato della norma riflettesse già la nascita della Scuola padovana di diritto, avvenuta, per migrazione da Bologna, cinque anni prima e, tanto meno, la fondazione di tre anni precedente dello Studio napoletano.
Il 14 novembre 1239, sempre Federico (è uno dei documenti del suo registro di cancelleria, unico conservato prima di andare anch'esso distrutto nel 1943), in risposta alle richieste dei maestri e degli studenti dello Studio di Napoli che gli erano state trasmesse, mentre si trovava "in castris" nell'Italia settentrionale, dai loro inviati, il maestro "G. de Antiochia" e "T. de Cremona" (uno studente?), decide di promuovere il "debitum incrementum" dello Studio medesimo, che viene così aperto ad accogliere: primo, i regnicoli dei due Regni di Gerusalemme e di Sicilia; secondo, gli ultramontani; terzo, gli Italici, ma con le debite eccezioni (milanesi, bresciani, piacentini, alessandrini, bolognesi, faentini, ravennati e trevisani); da tale beneficio restavano comunque esclusi i sudditi del papa. In altre parole, lo Studio di Napoli, concepito originariamente per consentire agli studenti del Regno di Sicilia di compiere i loro studi "in conspectu parentum suorum", con la prospettiva di trovare poi una vantaggiosa collocazione nei pubblici uffici, sarebbe stato da allora in avanti ‒ nelle intenzioni, almeno, di Federico ‒ un centro 'internazionale' d'insegnamento superiore, come Bologna e Parigi, frequentato, dunque, da studenti disposti a lasciarsi dietro le spalle la casa dei genitori e a correre l'alea di un soggiorno di studio in terra straniera. Il riferimento agli ultramontani, che, a differenza dei regnicoli e degli Italici, formavano una categoria che la geografia politica non contribuiva in alcun modo a configurare, è l'indice più eloquente del mutamento intervenuto fra il 1224 e il 1239. Si aggiunga che la tripartizione qui prospettata è così poco occasionale che la si ritroverà tale e quale nel documento con cui, il 24 ottobre 1266, Carlo I d'Angiò 'riformerà' lo Studio di Napoli: i tre "assessores" del giustiziere degli scolari, allora istituito, dovevano infatti essere, rispettivamente, "uno ultramontano [...], quem scholares illarum partium elegerint, altero Italico, eligendo per scholares Italiae, et tertio regnicola, per scholares adhibendo regnicolas". A differenza di ciò che si riscontra qui, nel documento federiciano del 1239 i regnicoli erano però ancora al primo posto. Ma quello che conta non è l'ordine in cui i diversi gruppi 'nazionali' venivano enumerati, bensì il fatto stesso che altri gruppi, oltre ai regnicoli, vi fossero menzionati come potenziali, auspicabili utenti dello Studio napoletano. Anche il comune di Vercelli, nell'atto in cui (nel 1228) si adoperava per ottenere il trasferimento in quella città dell'intero Studio di Padova, se, da un lato, prendeva l'impegno di far diffondere "per civitates Italiae, et alibi" l'annuncio della nascita del nuovo Studio, nella speranza di attirarvi altri studenti forestieri oltre a quelli che si sperava sarebbero venuti da Padova, perché solo così sarebbe stato assicurato il successo dell'operazione, non mancava, dall'altro, di tutelare in modo particolare gli studenti locali (della città e del distretto), che venivano esentati dalla corresponsione di donativi ai "magistri vel domini", in quanto questi ricevevano un regolare salario a carico delle finanze comunali. Ciò che conta è che, a quindici anni dalla fondazione, lo Studio di Napoli perdesse il carattere di scuola riservata ai soli sudditi del Regno, che dapprincipio era sembrato dovesse assumere, e che rientrasse nella norma delle altre scuole d'insegnamento superiore del tempo, che, proprio in quanto tali, erano tutte largamente 'internazionalizzate'.
Nell'arenga del documento di fondazione e poi ancora di seguito nello stesso documento si fa particolare riferimento al solo studio del diritto e agli sbocchi professionali che esso apriva. Dei maestri chiamati dall'imperatore a insegnare nel nuovo Studio è citato, a mo' di esempio, il solo Roffredo da Benevento, "civilis scientie professor". Ma rimaneva inteso che ci sarebbero stati "doctores et magistri [...] in qualibet facultate", dal momento che l'imperatore aveva decretato "apud Neapolim [...] doceri artes et cuiuscumque profexionis vigere studia". Un impegno in tale senso sarà comunque ribadito, in termini fatti per non lasciare adito a dubbi, anche nel documento di rifondazione del 1234, indirizzato a tutti gli studenti residenti a Bologna. Del resto, è naturale che fosse così: quando uno Studio non nasceva spontaneamente, ma veniva creato dal nulla per l'interessamento di un'autorità costituita, fosse essa un sovrano (come nel caso di Napoli), o la Chiesa (come nel caso di Tolosa), o un comune cittadino (come nel caso di Vercelli), la regola era che il fondatore s'impegnasse a coprire l'intera area dello scibile del tempo. Si tratta poi di vedere se l'impegno venisse davvero mantenuto. Nello Studio di Napoli, per esempio, la teologia, ai tempi di Federico e ancora per lungo tempo dopo di lui, non fu certamente insegnata.
I professori li sceglieva, in linea di principio, Federico stesso, come appare chiaro dal documento del 1234. E, nello sceglierli, ammetteva apertamente di tenere conto, come nel caso già citato di Roffredo da Benevento, oltre che della competenza, della 'fedeltà' di cui il candidato aveva dato prova nei suoi riguardi. D'altra parte, sarebbe stato impossibile che la nomina non avvenisse dall'alto. Ancora una volta, la particolare natura degli Studi non nati spontaneamente, ma fondati in un momento dato per l'iniziativa di un potere costituito, si imponeva. Il sistema della 'cooptazione' presuppone infatti l'esistenza di un collegio di cooptanti, che a Napoli non c'era e non avrebbe potuto esserci. Anche i comuni dell'Italia settentrionale, quando volevano assicurarsi per un anno l'insegnamento di un luminare, si regolavano come Federico. Piuttosto, è da osservare che i professori del nuovo Studio di Napoli devono essere stati nei primi tempi poco numerosi (una circostanza non fatta certo per favorire il passaggio dalla designazione dall'alto alla cooptazione). Si calcola che siano stati cinque o sei nel primo periodo angioino e una decina dopo il 1300.
Ciononostante colpisce il tono della lettera con cui Federico, evidentemente intorno al 1228, annuncia ai vercellesi di avere accolto la loro richiesta di fare trasferire da Napoli a Vercelli un professore di diritto civile non meglio identificato, anch'egli un 'fedele' del sovrano, e non tanto perché non vi si faccia cenno alcuno a un gradimento espresso dall'interessato (che sarebbe pretendere troppo), quanto perché lo scrivente precisa che il professore in questione avrebbe dovuto attendere sì all'istruzione degli studenti di Vercelli, o comunque convenuti a Vercelli per motivi di studio, ma anche, e in primo luogo, curare sul posto gli interessi di Federico.
Nella curia di Foggia del febbraio 1252, al punto 17 e ultimo, Corrado IV deliberò "quod studium, quod regebatur apud Neapolim, regatur in Salerno": a essere autoritativamente cambiato di sede non era più un singolo professore, bensì l'intero Studio di Napoli. Significativamente però, in una lettera al maestro Pietro d'Isernia del 1255, lo stesso Corrado, dopo avere prospettato le ragioni che lo avevano indotto a operare tale trasferimento, e avere ordinato a Pietro di trasferirsi colà, sentiva il bisogno di indorargli la pillola notificandogli un contestuale, considerevole miglioramento del suo appannaggio, che veniva fissato nella misura di 12 once d'oro l'anno. Era un modo indiretto di riconoscere che l'ordine di trasferimento, come tale, non sarebbe stato sufficiente a farlo muovere?
Non sorprende, invece, il divieto fatto ai maestri dello Studio di Napoli di esercitare l'avvocatura, da cui Federico, nel 1241, esenta Matteo da Pisa, che da sette anni era stato professore di diritto civile. Anche gli statuti di Padova del 1261 contengono lo stesso divieto, limitatamente ‒ e s'intende il perché ‒ ai maestri salariati, ma già nel 1228 il comune di Vercelli aveva fatto inserire una clausola al riguardo nel contratto con gli universitari padovani.
Quando un 'indigeno', che aveva fatto i suoi studi a Napoli, si rivelava all'altezza di essere, a sua volta, chiamato a insegnare in quello Studio, non c'era che da rallegrarsene, costituendo tale fatto la migliore riprova del successo della fondazione del 1224: è quanto fa Federico II, che, il 14 novembre 1239, scrive a Bartolomeo Pignatelli, decretalista, per invitarlo a venire a insegnare a Napoli. Ma la lettera non precisa chi avesse presentato al sovrano il "laudabile testimonium", un parere circa la preparazione di Pignatelli, e in che forma tale decisiva testimonianza fosse stata resa. A un "coetus doctorum", esistente anche nello Studio di Napoli, e dotato di poteri precisi come un vero e proprio collegium, si riferisce Nicola da Rocca in una lettera al succitato maestro Pietro d'Isernia: ma non è detto che chi scriveva sapesse bene come stavano le cose (Nicola ha tutta l'aria di essere un provinciale) e non se le rappresentasse invece in base a un'esperienza acquisita altrove, anche se si professa ex alunno di Pietro e sembra, quindi, avere studiato a Napoli.
A Pietro d'Isernia e, mediante i suoi buoni uffici, al "coetus doctorum omnium", Nicola da Rocca chiedeva che, in deroga al principio del monopolio dell'insegnamento di cui godeva lo Studium generale di Napoli, venisse riconosciuta la legittimità dello Studium particulare per l'insegnamento della sola ars dictaminis, che egli aveva creato "in proprii natalis partibus" e che funzionava soltanto durante la stagione estiva, quando destinava a tale scopo i giorni di riposo che gli erano concessi dopo le diuturne fatiche invernali. Avvicinandosi il momento di riprendere le lezioni, Nicola da Rocca ‒ se non abbiamo inteso male ciò che voleva ‒ pretendeva dal collegio dei professori dello Studio di Napoli una specie di riconoscimento che gli valesse da sanatoria (remedium).
Che, almeno in teoria, un siffatto monopolio dell'insegnamento esistesse sul serio è fuori di dubbio. Là dove, nel documento di fondazione, Federico proibisce ai regnicoli di andare a studiare "extra regnum", sancisce anche il divieto per chiunque di andare a scuola, e di tenere scuola, "infra regnum", in una sede che non fosse Napoli. Tale divieto fu ancora ribadito nel 1254 quando lo Studio ‒ come si è visto ‒ fu trasferito a Salerno, ma attenuandolo nel senso di consentire il funzionamento di Studia particularia limitatamente all'insegnamento ai "novizi" dei "rudimenti della grammatica". Fare altrimenti sarebbe equivalso a sottrarre le "mammelle di una madre che allatta" a dei neonati famelici. In breve, il giustiziere di Terra di Lavoro, cui la lettera era diretta, veniva reso edotto del fatto che il divieto in questione concerneva solamente l'insegnamento superiore, da impartirsi a quanti, dopo una prima sgrossatura, erano ormai in condizione di ingerire i "cibi solidi del sapere". Per questi ultimi prima c'era Napoli, e nient'altro che Napoli (salvo che per la medicina), ora Salerno, e nient'altro che Salerno (senza più eccezioni di sorta).
Dal momento che un potere costituito entrava nell'ordine di idee di addossarsi la responsabilità e l'onere dell'istruzione, la pretesa al monopolio ne discendeva come una conseguenza necessaria. Non occorre perciò fare ricorso allo stereotipo della 'modernità' del Regno di Sicilia. Nel suo piccolo, anche il comune di Bassano pretendeva, fino dal 1259, che nessuno potesse fare scuola a Bassano all'infuori del maestro eletto dal podestà e dal consiglio.
Anche per gli studenti dello Studio di Napoli era previsto fin dall'inizio un foro privilegiato, limitatamente al civile. Da parte sua, la costituzione Habita aveva concesso a ogni studente convenuto in giudizio di optare, a sua scelta, per il vescovo del luogo o per il proprio maestro. In apparenza, lo studente napoletano aveva una chance in meno, in quanto non poteva rivolgersi al vescovo. In realtà, il riferimento al vescovo era pleonastico, poiché gli studenti che erano anche chierici potevano adire ugualmente il foro ecclesiastico. Semmai, la variante rispetto al dettato della Habita potrebbe essere interpretata nel senso che a Napoli si prevedeva una così forte maggioranza di studenti laici da lasciare addirittura cadere l'ipotesi di un ricorso al foro ecclesiastico. Piuttosto, è da notare che il privilegio di foro aveva un valore a Bologna, dove veniva accordato a studenti in prevalenza forestieri o stranieri, e un valore del tutto diverso a Napoli, dove, almeno al momento della fondazione, si auspicava una popolazione di studenti esclusivamente regnicoli, che in tal modo venivano sottratti al loro giudice naturale con una ben più grave violazione dei principi generali del diritto. Non a caso forse, a differenza di ciò che si riscontra nella Habita, il documento di fondazione dello Studio di Napoli precisa che la concessione era limitata al solo civile.
Il fatto che non fosse il vescovo, bensì il sovrano, a conferire la licentia docendi rappresenta una notevole deviazione dal modello affermatosi a Bologna nel 1219. Ma sul punto cruciale di uno Studio concepito come Studio senza 'università', cioè senza associazioni studentesche, proprio nel momento in cui le universitates stavano diventando a Bologna l'asse portante di quello Studio, lo stesso documento di fondazione federiciano apre una breccia che il tempo s'incaricherà di allargare, restando così indirettamente confermato che nemmeno all'inizio si riuscì a dare vita a un modello di Studio non universitario, in tutto e per tutto alternativo a quello che si era venuto formando a poco a poco a Bologna. Nella lettera circolare del 1224 Federico fissa in 2 once d'oro il prezzo massimo che potevano avere le abitazioni destinate a studenti, aggiungendo che, caso per caso, due cittadini e due studenti avrebbero dovuto precisare l'entità, entro quel limite, di ciascun canone di affitto. Se i due scolari in questione non venivano designati dall'alto (ma se si fosse inteso che dovesse essere così, non si sarebbe mancato di dirlo), per eleggerli occorreva infatti che gli studenti dello Studio si costituissero almeno una tantum in corpo elettorale. Il problema dell'equa taxatio degli alloggi occupati dagli studenti, che appariva dovunque spinoso, apriva praticamente la via, anche a Napoli, all'associazionismo studentesco.
Nel 1239, Federico II parla con fierezza dello Studio di Napoli come di una "manuum nostrarum structura memorabilis posteris". Ma, fra i posteri, non tutti i suoi discendenti diretti si sarebbero mostrati dello stesso avviso. Nel 1254, Corrado IV, mentre è in atto il trasferimento dello Studio a Salerno, dà mandato ai giustizieri del Regno di notificare a professori e studenti che continueranno a godere di tutte le immunità e libertà, "quibus olim, tempore divi Augusti, tam in Neapolitano quam in Salernitano Studio, uti [...] sunt soliti". È il solo accenno esplicito, in tutta la lettera, che è lunga e articolata, alla fondazione paterna, messa per di più sullo stesso piano della Scuola medica salernitana che era soltanto uno Studium particolare, benché fosse comunque l'unico consentito nel suo ramo (v. Medicina; Salerno). Corrado si richiama, vagamente, all'esempio dei suoi "progenitori" (al plurale), ai tempi dei quali i "diversarum scientiarum studia" erano così fiorenti nel Regno da attirare non solo i figli dei regnicoli ma anche dei forestieri ‒ una notazione, questa, che acquista valore in quanto finisce per apparire formulata in contrapposizione alla situazione dei tempi presenti, nei quali si persegue (ma, si direbbe, senza successo) l'obiettivo più limitato di offrire ai regnicoli "paratam in regno mensam", per evitare che vadano a procurarsi i frutti del sapere "per aliena [...] pomeria". Di modo che il già deliberato trasferimento a Salerno, "civitas ipsa antiqua mater et domus studii", viene a configurarsi come la realizzazione del proposito di "antiquorum gratam renovare temperiem", riallacciando i fili di una gloriosa tradizione, che ‒ come sembrerebbe doversi concludere procedendo a filo di logica ‒ si era interrotta solo in tempi recenti, in corrispondenza dell'iniziativa scolastica napoletana di Federico II. Ma, appunto, non è detto che, di fronte a testi sfuggenti come questo, la logica sia la migliore consigliera. In realtà, la polemica di Corrado non è rivolta contro lo Studio di Napoli, ma contro la città di Napoli, a lungo ostinatamente ribelle e di cui era riuscito a impadronirsi solo nell'ottobre del 1253. Era però inevitabile che la polemica comportasse anche, di riflesso, un affievolimento del ricordo della "memorabile costruzione delle mani di Federico II".
Del tutto diversa la situazione in cui Manfredi, nel 1258, decretò il ritorno dello Studium universale a Napoli, rinnovando l'interdizione per gli Studia particularia, ad eccezione di quello medico di Salerno, come era stato ai tempi di suo padre Federico II. La lettera con la quale Manfredi dà mandato ai giustizieri di notificare la sua decisione a tutti gli interessati è esemplata su quella scritta da Corrado in relazione al trasferimento dello Studio a Salerno, sì che le modifiche apportate al testo-base sono altrettante spie di un avvenuto mutamento di prospettiva. Dove Corrado parlava genericamente di "progenitori", Manfredi parla del "suo progenitore" (al singolare); dove Corrado allontanava in un passato imprecisato il momento in cui lo Studio era stato in condizione di soddisfare, a un tempo, le due diverse esigenze di sopperire alla domanda di istruzione dei regnicoli e di costituire un'attrattiva per gli stranieri, Manfredi ascrive a merito del padre di avere provveduto, con la sua iniziativa, a soddisfarle entrambe; dove Corrado si proponeva di "antiquorum gratam renovare temperiem", e disponeva perciò il trasferimento dello Studio a Salerno, "antiqua mater et domus studii", Manfredi si propone di "renovare" il "grato ricordo" dell'opera paterna, e dispone perciò il ripristino dello Studio a Napoli, dove Federico II l'aveva voluto.
Ma la "memorabile costruzione" di Federico passa ancora una volta in secondo piano nella lettera che Manfredi indirizza agli studenti per invitarli ad accorrere a frotte nel riaperto Studio napoletano. Il "divus augustus pater noster" vi è infatti menzionato solo come fonte dei privilegi e ordinamenti, redatti a favore di maestri e scolari, che il nuovo sovrano si impegna a conservare in vita (proprio come nella lettera di Corrado ai giustizieri per il trasferimento dello Studio a Salerno), ma non anche come l'iniziatore dello Studio, la cui origine è allontanata in un vago passato. Percorrendo un cammino inverso rispetto a quello degli Studi, che, nati "ex consuetudine longissima", miravano ad assicurarsi un privilegio imperiale o papale, lo Studio di Napoli ‒ restaurato, ad opera di Manfredi, dopo le traversie dei primi anni Cinquanta e in attesa di subire il contraccolpo del definitivo tramonto della potenza sveva in Italia ‒ cercava un'ulteriore, più sicura forma di legittimazione nel vanto di un passato immemoriale.
fonti e bibliografia
G.M. Monti, Per la storia dell'Università di Napoli. Ricerche e documenti vari, Città di Castello-Firenze-Genova-Napoli 1924.
F. Torraca, Le origini. L'età sveva, in Storia dell'Università di Napoli, Napoli 1924, pp. 3-16.
G. D'Amelio, Indagini sulla transazione nella dottrina intermedia, Milano 1972, pp. 149-164.
E. Kantorowicz, Federico II, imperatore, ivi 1976 (Berlin 1927), pp. 117-119.
N. Kamp, Die sizilischen Verwaltungsreformen Kaiser Friedrichs II. als Problem der Sozialgeschichte, "Quellen und Forschungen aus Italienischen Archiven und Bibliotheken", 15, 1977, pp. 128-131.
G. Arnaldi, Fondazione e rifondazione dello Studio di Napoli in età sveva, in Università e società nei secoli XII e XVI, Pistoia 1982, pp. 81-105, dal quale è stata tratta in parte la presente voce; La fondazione fridericiana dell'Università di Napoli, Napoli 1988, che comprende le ristampe dei contributi di Torraca (pp. 7-20) e di Arnaldi (pp. 21-48), nonché, alle pp. 49-69, un'Appendice documentaria, dove sono riproposti i documenti a noi pervenuti che riguardano l'Università in epoca sveva, tratta dal contributo di Monti.
L. Capo, Federico II e lo 'Studium' di Napoli, in Studi sul Medioevo per G. Arnaldi, Roma 2001, pp. 25-54.