STUDIO
Musica. - Questa voce corrisponde non già a una forma (quale, p. es., la Sonata e il Rondò, ecc.) ma a un genere: il didattico. Vi potrebbe così trovar luogo qualsiasi pagina musicale la cui esecuzione (o la cui imitazione) proponga all'esercizio del discente un problema tipico di tecnica: tipico, in quanto la sicurezza raggiunta nel risolverlo faciliti allo studioso la comprensione e la soluzione di frequenti problemi analoghi insorgenti nella pratica artistica. Di qui la caratteristica riduzione delle varie figure assumibili dal problema al denominatore comune. Cosicché lo Studio verrà a presentare una o più formule; più spesso una sola, subito evidente o anche interna (entro complessi disegni), per meglio assuefare il discente. E questo carattere (svolgimento su formula unica) s'è potuto anzi additare da molti come costante e distintivo dello Studio, mentre in realtà si siano dati numerosi esempî di Studî a più formule (e costante esso sia, se mai, più specialmente nel sottogenere "Esercizio") e, viceversa, numerosi esempî di composizioni non didattiche a formula unica; basti citare, tra questi, i varî "Moti perpetui" e alcuni tempi, specie finali, di Sonate e di Concerti dal Beethoven al Paganini, dallo Chopin al Ravel e via dicendo.
L'accezione odierna del termine Studio è però più ristretta di quella che ora s'è mostrata pur legittima: anzitutto non s'intitola Studio la pagina in cui s'esponga un problema d'ordine componistico (modelli di variazione, di parafrasi, di trascrizione, ecc.), ma soltanto quella appartenente alla didattica dell'esecuzione; inoltre è assai raro questo titolo nella didattica dell'esecuzione vocale, ove è sostituito da altri: Solfeggio, p. es., Vocalizzo, ecc. E anche nell'ambito della strumentale esso si applica più specialmente a quel che si potrebbe dire un sottogenere: cioè, più che alla pagina di ragione esclusivamente didattica, esaurita nella meccanica ripetizione o ripresentazione della formula (e qui vige il nome di Esercizio) - più precisamente alla pagina di ragione estetica, in cui la formula è assunta come "partito" che al compositore suggerisce esplicazioni rapidamente attingenti all'architettura, cioè alla sintesi lirica. Lo Studio vi assume così una forma musicale ben disegnata, ora di canzone, ora di Sonata, ora di variazione e così via. Entro questi limiti si pone oggi lo Studio, usando praticamente questo nome anche per quelle pagine che - pur presentando i caratteri ora illustrati - non lo adottino esplicitamente come titolo sul frontespizio. Il che può accadere, p. es., trattandosi di opere anteriori al 1800 o dei primi lustri del secolo XIX: gli Studî contenuti nel Gradus ad Parnassum di M. Clementi (ediz. principe, 1819) sono ancora intitolati Esercizî, mentre i loro valori estetici emergono fino a consentire sottotitoli come, p. es., Scena patetica. Quelli di Paganini, Rode (per violino), di Boëly (pianoforte) e altri s'intitolano Capricci; quantunque la loro data sia già inoltrata. L'uso costante del nome Studio (e dell'altro: Esercizio), come anche la stretta delimitazione del relativo concetto sono dunque assai recenti. Il che nei secoli che videro le prime emersioni ed il primo rigoglio della musica strumentale può anche trovare ragione nell'analoga ambiguità, o almeno larghezza d'intendimenti, che si nota nella stessa figura delle pagine date per didattiche durante quel periodo che dal Rinascimento va al tardo barocco.
Dal Fundamentum organisandi di K. Paumann, dato fuori nel 1452 e largamente imitato nei lavori di A. Schlick, H. Buchner, J. Kotter, L. Kleber, N. Ammerbach, dei due Schmid, J. Klemme, ecc., alla Melothesia di C. M. Locke (i637) e alla Violin Division di J. Playford (1685); dalla Declaracio de instrumentos musicales di J. Bermudo (1555), seguita dai lavori di L. Venegas, T. de Sancta Maria, F. Correa de Arauxo, al Transilvano di G. Diruta (1593-1609), la didattica sembra di solito rivolta a valori più specialmente componistici, quantunque vi si tratti anche di quelli pertinenti all'esecuzione. Nel libro del Paumann si dànno anzitutto regole di notazione, forse opportune in tempi ove la notazione, specie per le musiche strumentali, non aveva ancora raggiunto una sistemazione unica e stabile. Poi ci si intrattiene su stilemi contrappuntistici e formule di cadenza. In ultimo si offrono saggi di trascrizioni, parafrasi, elaborazioni, ecc., che in fondo presuppongono un esecutore già abbastanza inoltrato nella tecnica. In sostanza, lo scopo principale era quello di preparare l'esecutore non tanto alla padronanza dello strumento quanto alle varie esigenze del servizio d'organista in cappella, compreso il preludiare, il sostenere la polifonia vocale, accompagnare i diversi riti col solo organo, ecc. Presso a poco così si comportano i successori del Paumann. Più interessanti, per la didattica strumentale, i libri di G. Diruta e di F. Correade Arauxo, dei quali il primo offre una serie di Toccate dedicate ognuna ai varî punti capitali della tecnica, cui il discente può applicare le istruzioni preliminari e, tra queste, alcune concernenti proprio la diteggiatura, mentre il secondo, Facultad organica (1626), mantiene abbastanza fedelmente l'assunto dichiarato nel frontespizio (Libro de Tientos y discursos de musica practica y theorica de organo, con el qual, y con moderado estudio y perseverancia, qualquier mediano tañedor puede salir aventajado en ella...); tra l'altro, i Tientos vengono disposti in ordine di crescente difficoltà, né mancano esempî di diteggiatura. Qualche elemento analogo si può additare anche nella Melothesia del Locke ("... or certain general rules for playing upon a continued Bass vith a choice collection of Lessons for the Harpsichord or organ of all sorts) e nei Livres d'orgue di N. Lebègue (1676) e di G. Jullien (1690), i quali ultimi trattano ambedue con preferenza i problemi della registrazione, senza però trascurare l'addestramento all'uso della tastiera duplice. Ma, tutto compreso, dall'uno all'altro di questi lavori si passa senza poter restringere il loro ordine didattico nei limiti della tecnica d'esecuzione o anche in quelli dell'interpretazione propriamente detta.
In sostanza, nessuno di questi trattatisti, neppure lo stesso Correa de Arauxo, si rivolgeva allo scolaro, al puer; ma i loro volumi offrono allo strumentista, mediocre o no ma già praticante, sopra tutto una integrazione e, magari senza averne il chiaro intendimento, un'intesa dottrinale tra cappella e cappella, che presto assurgerà a intesa tra scuola e scuola, tra nazione e nazione. Il che già nel maturo Seicento era nelle necessità storiche più urgenti, quando la musica strumentale, già in decisa emersione ad arte autonoma e aulica, rapidamente moltiplicava in ogni luogo le sue fioriture. Ma proprio per tale rapido e grande rigoglio internazionale le esigenze della didattica s'avviano, nel Settecento a mutamento; molte delle abituali scompaiono o si evolvono notevolmente: scompaiono le diversità di notazione, obliandosi le decrepite intavolature; la trascrizione passa - da fondamentale - a marginale genere componistico; nuove esigenze invece compaiono, né tutte di scarso momento. La scrittura dei violinisti italiani si differenzia da quella dei francesi e dei tedeschi; la cembalistica, svincolata dall'organo, cerca e inventa suoi modi di realizzazione: prima, del contrappunto, poi, del dialogo, del cantante, ecc. Durante simile evoluzione, i valori componistici si svincolano dalle pratiche improvvisatorie in cui si confondevano spesso con quelli dell'esecuzione, e all'esecutore pongono liberamente nuovi problemi, talvolta ardui, di meccanismo e d'interpretazione.
A questi dapprima si provvede di solito affrontandoli direttamente, e cioè saltando dall'esercizio puramente meccanico all'opera d'arte. Il che spiega la singolare inversione di concetti, per la quale l'opera d'arte stessa è spesso considerata come opera didattica: D. Scarlatti, p. es., intitola Essercizî per gravicembalo (sic) una raccolta delle sue mirabili Sonate, e J. S. Bach riunisce sotto il titolo di Klavierübung quattro raccolte di composizioni libere tra le quali il Concerto nello stile italiano e le Goldberg-Variationen. Opere, queste dello Scarlatti e del Bach, la cui assimilazione è certo d'importanza somma per lo strumentista, ma che presuppongono una tecnica già evoluta e sicura. Non vi si trova, infatti, quella meditata esposizione di dati problemi ridotti al tipo, al comune denominatore, che abbiamo visto nelle opere moderne di didattica strumentale.
Se tale era ancora la pratica più diffusa, qualche eccezione cominciava a prodursi. Indichiamo tra queste le varie pagine, minori per mole ma spesso mirabili per valori estetici, destinate dallo stesso J. S. Bach all'istruzione strumentale dei suoi alunni e dei suoi stessi figliuoli: Invenzioni, Preludî, Fughette, Minuetti, Canoni, ecc., cui si possono aggiungere più ampie pagine d'interesse specialmente stilistico come i Preludî e Fughe del Clavicembalo ben temperato e altre ancora. Nelle prime possiamo ravvisare veri e proprî Studî nel senso moderno del termine: la formula strumentale suġgerisce una forma esteticamente valida. Nelle seconde possiamo vedere opere utili all'educazione del gusto e del senso formale: Studî, si direbbe oggi, d'interpretazione, il cui valore di didattica strumentale sta nell'adeguare l'esecuzione al risalto della polifonia. Ed è ovvio che non a tali Studî si deve chiedere uno spinto carattere formulistico: la scuola dell'eguaglianza di tocco, dell'indipendenza delle dita, dello staccato e del legato, del colorito semplice e del duplice (cioè della giustapposizione di registri e tastiere nell'organo e nel clavicembalo, oggi sostituite con le risorse dell'esecuzione), tutte queste e altre scuole trovano qui non tanto il loro metodo quanto il loro chiarimento, la loro "ragione" finale. Né sarebbe, d'altra parte, concepibile la riduzione a formula tipica del continuo e sempre nuovo problema strumentale che è la scrittura delle grandi polifonie bachiane. Meno assurda, se mai, l'ipotesi d'una possibile riduzione (esemplificazione, meglio potrebbe dirsi) a problemi cardinali di fronte alla pur ricchissima e varia scrittura di D. Scarlatti e dei clavicembalisti allo Scarlatti vicini. E infatti presso F. Durante, appartenente alla stessa corrente, troviamo talvolta elementi a ciò utili, come possiamo vedere in una pagina chiamata precisamente Studio, che propone successivamente varie difficoltà tipiche della tastiera scarlattiana: rapidità, assoluta eguaglianza e indipendenza delle dita, improvvisi mutamenti di digitazione (di "posizione" direbbe un violinista), incroci di mano e via dicendo. Come si vede, questo Studio (che inoltre è, se non il primo, certo tra i primi a recare il titolo) non ha una formula unica, ma anzi moltissime. La forma generale è quella dell'ouverture (v.) francese o "lullista" (cosa strana presso un allievo di A. Scarlatti): adagio-allegro fugato (l'assenza del 2° Adagio è frequente presso lo stesso G. B. Lulli e frequentissima presso i settecenteschi) e già l'adozione di tale forma può testimoniare dell'impegno artistico assunto dall'autore nonostante il titolo di studio; impegno pienamente assolto in questa bella composizione. Nei riguardi del contenuto strumentale interessano specialmente i punti seguenti: chiarezza e incisività di fraseggio, oltre che rapidità, per rendere efficacemente il carattere maestoso dell'introduzione:
perfetta eguaglianza di risorse tra le due mani, messa a dura prova presso la sinistra:
Decisione e rapidità nel trillo e nel passaggio dall'uno all'altro in catena:
Incrocio di mani, prolungato:
alternato:
alternato e a salto d'intervalli grandissimi:
Pratiche, queste, che nelle composizioni di D. Scarlatti si presentano anche più ardue per la maggiore ricchezza di movimenti e di nervature della corrente musicale che tutta insieme le vien creando, mutevoli, passeggere, sottilmente differenziate come cangianti riflessi del suo intimo timbro.
Alla tastiera di D. Scarlatti penseranno del resto molti altri, e tra questi il fondatore della scuola pianistica propriamente detta: Muzio Clementi, che nello stile di Scarlatti compone alcune Sonate e delle esigenze da esso emerse tien conto, mirabilmente transvalutandole in senso pianistico, in più pagine del suo Gradus ad Parnassum (completato dal 1815 al 1826). I 100 Exercices dans le style sevère et dans le style elégant raccolti ordinatamente in questa opera possono assai meglio esser detti Studî, nella rigorosa accezione moderna: opere d'arte svolgentisi da un motivo (e attraverso il ripresentarsi di esso) che è la figura musicale d'una formula tecnica. Scale e arpeggi semplici o per terze, per seste, ecc., indipendenza delle dita, fioriture, fraseggio, legato e staccato, coloriti semplici o giustapposti, rilievo del cantabile o della polifonia, ecc., tutta insomma la scuola del pianoforte è in azione dall'uno all'altro di quei pezzi, opportunamente disposti sì da giustificare il titolo allegorico. Si vedano a tal proposito i passi d'una Suite compresa nel Gradus:
Come presso il Clementi, così anche presso i suoi alunni e seguaci, tra i quali J. B. Cramer, lo studio pianistico s'inquadra perfettamente nel concetto dianzi riferito. E il Cramer è il primo, anzi, a intitolare senz'altro Studî i suoi pezzi didattici, per indole e per valore degni quasi tutti dell'attributo di opera d'arte.
Anche presso il Cramer troviamo l'uso di forme differenti (Canzone ternaria per lo più, ma anche in più strofe, o con riprese tali da mutarne comunque lo schema) e l'uso, nel seno dello stesso Studio, di differenti formule. Certo la maggior parte di essi è a formula unica, (specialmente quelli dedicati all'educazione della mano), ma assai importanti sono anche gli altri (di solito dedicati all'interpretazione). Tra i primi si veda, per es., lo studio in mi minore:
cui sono necessarie la perfetta eguaglianza tra le due mani e l'indipendenza tra le dita della stessa mano, allo scopo di consentire il risalto dei due piani costitutivi: il melodico (nelle minime delle dita esterne, che vanno tenute, senza però un vero marcato) e l'armonico (nelle terzine delle interne, da legarsi con dolcezza ed eventualmente con sommessi coloriti: pp 〈 p > pp). Interessante per le medesime esigenze e per quella del fraseggio in regime di rigorosa eguaglianza di figurazionì è l'ampio studio:
Tra i secondi si veda, p. es., lo studio in re maggiore:
Questa pagina, la cui nobile sostenutezza melodica (costruita ad Aria: A-B-A′ con coda) può far pensare oltre che al Clementi, anche al Gluck o allo Spontini, è didatticamente importante, come nota H. v. Bülow, per due ragioni: "1° per il movimento dei gruppi di terzine nella mano sinistra; 2° per l'interpretazione melodica (mano destra) ..... Sarà prudente di esercitare la sinistra.... [affinché]... il ritmo a terzine dell'accompagnamento non abbia a impedire la corretta esecuzione ritmica delle figure binarie della destra". Come si vede, in questo tipo di Studî l'allievo del Clementi offre quella "attrattiva della fantasia" che R. Schumann - lamentandone l'"assoluta mancanza" negli studî pur "magistralmente costruiti" di J. N. Hummel - ritiene necessaria per "stimolare la gioventù in modo che la bellezza dell'opera le faccia dimenticare le difficoltà di cui si deve rendere padrona". E analoga "attrattiva" si ricerca nelle pagine didattiche dagli studî del Cramer, dai Capricci e dalle Variazioni di bravura di N. Paganini ai diversi lavori dei romantici: F. Mendelssohn-Bartholdy (non molti ma assai musicali), lo stesso Schumann, di cui si veda l'impegno artistico oltre che strumentale nelle op. 54 e 56 (Studien [e Skizzen] für den Pedal-Flügel [pianoforte con pedali a organo]), per continuare con S. Thalberg (contenuto strumentale: cantabile ed arpeggio frazionati tra le due mani), A. Henselt (polifonia mediante il legato; armonia largamente distesa sulla tastiera), F. F. Chopin (cantabile, fioritura, tocco, ecc.), F. Liszt (cantabile, polifonia, ecc., in regime ora di ampliamento verticale [più denso di movimenti interni che non fosse presso S. Thalberg] ora di transvalutazione in senso orchestrale) e altri fra i pianisti; mentre non pochi violinisti perseguirono analoghe mete: tra gli altri, Ch. de Bériot, H. Wieniawskij, L. Spohr, F. David, ecc., imitati da didatti di strumenti diversi: specie da quelli di strumenti generalmente o occasionalmente solisti: violoncello, arpa, i varî legni, il corno.
Espressione massima dello Studio d'arte, così come lo intesero questi maestri e come ancora oggi l'intendiamo, si può utilmente cercare nelle op. 10 e 25 dello Chopin. Frequenti sono quivi gli schemi tripartiti (a Canzone) che, più o meno liberamente trattati, si trovano nella maggior parte della musica chopiniana. La formula strumentale (arpeggi, plaqués, scale semplici e doppie, diatoniche e cromatiche, registrazioni ad 8ª, poliritmie tra l'uno e l'altro piano della composizione, ecc.) vi è spesso unica, senza alcun nocumento o deviazione nel corso della fantasia musicale. Denso di valori didattici, lo Studio chopiniano è opera d'arte tale da porsi sullo stesso livello estetico, se non al disopra, dei più celebri Notturni e Preludî. A formula unica sono, p. es., il i° dell'op. 25, di cui R. Schumann poté esaltare il misterioso, pudico lirismo; il 9°, nel cui ricamo sonoro a note doppie si svolge, per la stessa mano destra - una frase di commossa meditazione:
e altri molti. Quel che possa poi dare, negli Studî chopiniani, la pluralità di formule (e, veramente, di "formula" qui si parla per estensione del concetto, come per le analoghe pagine bachiane) risulta dall'op. 25, n. 7, che per la scrittura può essere vista come un drammatico duetto accompagnato, il cui intimo travaglio rende ragione estetica di qualunque elemento tecnico, perfino dei vertiginosi passaggi della sinistra:
A tale sintesi di valori lirici e tecnici Chopin era giunto del resto fino dall'op. 10: dai 12 Studî, cioè, composti tra il 19° e il 23° anno della sua vita. A proposito della melodia del 3°, egli stesso diceva non averne mai scritto una più bella; il 12°, diventato celeberrimo sotto il titolo (non dato dall'autore) "La révolution", fu composto sotto l'impressione della caduta di Varsavia in mano dei Russi.
L'insegnamento pianistico contenuto in queste raccolte chopiniane è subito assimilato e potenziato dai maestri vicini e dai successivi: F. Liszt spinge così lo Studio verso finalità strumentali prima d'allora nemmeno concepite, come si nota, p. es., nelle Études d'exécution transcendante e nelle Études de concert, dove al travaglio o all'intima meditazione di Chopin sottentra, nei valori estetici, un dionisiaco slancio, sempre più inebriato del suo stesso tripudio di suoni. Così che pagine dense di problemi tecnici mirabilmente impostati e risolti (poliritmia, passi d'ottave a 2, cantabili e arpeggi a 2 [spezzati], intrecci polifonici, cadenze brillanti, giuochi di tocco a tendenze orchestrali e via dicendo) possono, in grazia della loro architettura generale e della raffinatezza dei movimenti interni, creare un'impressione estetica assai viva. Dallo Studio anche qui è nata l'opera d'arte, cui lo stesso Liszt può attribuire significati ideali in titoli come Paysage, Harmonies du soir, Mazeppa, Feux follets, ecc.
Nel quadro qui delimitato trovano posto legittimo gli Studî di quasi tutti i buoni maestri, pianisti, violinisti o altro, del secondo Ottocento, da S. Heller (di tendenze ancora primo-romantiche: Chopin-Schumann) a J. Raff e A. Rubinstein (seconda scuola romantica, influenzata da tendenze orchestrali), J. Joachim, e del tempo presente G. Sgambati, G. Martucci (strumentalità Liszt-Brahms), C. Tausig, ecc. E anche negli Studî di C. Debussy la singolarissima personalità del maestro impressionista trova una chiara esposizione delle sue proprie esigenze strumentali, spesso valendosi del procedimento a formula unica. Procedimento che del resto ravvicina agli Studî anche pagine non didattiche, p. es., le Tierces alternées dei Préludes. Meno frequente tende a farsi, oggi, la produzione di grandi Studî da concerto, quali a profusione si ebbero durante l'ottocentesco regno del "virtuoso compositore" da N. Paganini e da S. Thalberg a F. Liszt, ad A. Rubinstein, a J. Joachim. In fondo, i problemi strumentali posti dalla musica odierna sono ancora in gran parte simili a quelli già largamente esposti dagli ottocenteschi. I veramente nuovi (Debussy) hanno avuto, come dianzi si accennava, la loro propria trattazione in raccolte bene concepite e ordinate. Agli altri egregiamente possono avviare le esperienze di un Liszt (utile per M. Balakirev, J. Albéniz, E. Grieg, fino a I. Stravinskij, A. Casella, ecc.) o della tradizione schumanniana con interferenze della debussysta (A. Schönberg); esperienze del resto aggiornate e integrate, piuttosto che da pagine d'impegno estetico, da opportuni Esercizî d'indole meramente meccanica. L'esibizione del virtuosismo, cui lo Studio da concerto s'addiceva, non è oggi così ricercata come nel sec. XIX, e di solito i programmi dei virtuosi preferiscono Sonate, Concerti, Preludî e fughe, Notturni, ecc., dei grandi maestri, tra gli Studî non conservando se non quelli di Paganini, di Chopin, di Schumann, di Liszt e, assai più raramente, di Debussy. A riprova di questo mutamento di indirizzo può essere citato il risolversi della mirabile tecnica di F. Busoni non tanto in nuovi Studî quanto in una moderna interpretazione strumentale della grande polifonia bachiana.